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Autore: The nyx    24/10/2011    2 recensioni
Ad un certo punto un lampo mi abbaglia la vista, come se fossi al cospetto di una qualche divinità, se non proprio Dio. Un secondo lampo illumina i nuvoloni scuri, rendendoli più visibili e più concepibili della loro immensa grandezza.
Prevedo un brutto temporale.
Genere: Thriller, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Duncan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Passi. Passi. Tic, toc, tic. Sembrano tacchi. Ma non tacchi da donna. Tacchi.. si, quelli delle scarpe nere, in pelle, da vero uomo. Mi volto di scatto. Sento freddo, molto freddo. Non c’è nessuno. Guardo a destra, poi a sinistra. Di nuovo tic, toc, tic.. tac. Tac? Mi giro su me stesso. Questo strano rumore mi ha fatto drizzare i capelli. Alzo la testa e fisso il cielo. È una notte senza stelle e il cielo è carico di nuvoloni neri. Mi stringo più forte nel mio cappotto, aspettando che succeda qualcosa. Niente. Do un’altra occhiata agli alberi attorno a me. Sono cosi sinistri, penso rabbrividendo. L’atmosfera è sinistra, tutto è sinistro. Sembra di essere sul set di un film horror.

Sposto ripetutamente il peso a destra e sinistra. Sono nervoso, molto nervoso. Controllo l’ora. È tardi, davvero molto tardi. Se gli altri sapessero che sono qui.. no, non devono venirlo a sapere. Proprio no.

Mi siedo su un ramo di un vecchio pino caduto. Congiungo le mani a mo’ di preghiera, con l’intenzione di scaldarle. Le strofino una contro l’altra una, due, dieci volte di fila. Ma cosa sto facendo?

Sono nel bosco. Nel bosco dell’isola. Di notte. Sono seduto su un ramo mangiucchiato dai tarli a sfregarmi le mani. Da solo. Ancora per poco, spero.

Sposto il mio sguardo sul pesante orologio che porto al polso destro. Quanto ci mette ad arrivare? Sto crepando dal freddo e dalla paura. Paura, paura, paura. Questa parola echeggia nella mia testa come un vecchio disco rotto. Sciolgo le mani dal loro fragile abbraccio e me le ficco nelle tasche dei jeans. Oh, adesso va meglio. Muovo le dita intorpidite dal gelo e stringo i pugni. Digrigno i denti. Chiudo forte le palpebre. Una folata di vento ghiacciato mi ha investito, spiazzandomi completamente. Abbasso la testa nel tentativo di ripararla. I capelli mi svolazzano da tutte le parti, ma non ci faccio tanto caso. Mi infilo il cappuccio e finisco li.

Aspetto che il vento si plachi. Attendo uno, due, tre minuti. Altri due. Poi tutto torna normale, dalle chiome degli alberi alla polvere del sentiero.

Un flebile fruscio mi giunge alle orecchie. Le foglie sono immobili. I ciuffi d’erba anche. Mi giro verso sinistra. Scorgo qualcosa muoversi dietro al rovo di rose. Strizzo gli occhi per mettere meglio a fuoco, con scarsi risultati. L’oscurità domina sulla luce, si potrebbe tagliare col coltello, tanto è densa. È.. presente. Reale. La sento, la sento sulla pelle nuda del mio viso.

Tic, toc, tic, toc.

Ancora quei passi. Sono certo che sono passi. Passi, passi, passi. Ticchettii che mi struggono. Ho paura. Sono terrorizzato.

Non ce la faccio più ad aspettare. Mi alzo e in quel momento il legno cede. Piccoli insetti scuri si muovono veloci tra le schegge, scontrandosi tra loro. Provo disgusto e contraggo il volto, facendo delle smorfie. Sferro un potente calcio al pezzo di legno, che compie un volo di qualche decina di metri. Sono forte, molto forte. Adesso potrei spaccare la faccia a chiunque. Chiunque.

D’improvviso tutta questa mia sicurezza svanisce, come se non l’avessi mai avuta. In fondo è durata qualche secondo, il tempo di prendere a pedate un ceppo d’albero marcio.

Comincio a camminare verso il campo. Sono deluso. Le ho dato appuntamento e non è venuta. Neanche mi ha avvertito. Bestemmio sottovoce per qualche manciata di secondi. Poi mi calmo. Non serve a niente arrabbiarsi, ormai è andata com’è andata. Che vada al diavolo nel modo che più gli piace.

Mi passo una mano sulla fronte. Sono tutto sudato, eppure non fa caldo, anzi.

Butto indietro la testa e mi ritrovo di nuovo con gli occhi rivolti al cielo.

Lo fisso per un po’ di tempo, non saprei dire quanto.

Le nuvole sono davvero nere e pesanti. Se me ne cadesse una in testa, credo che morirei sotto il suo peso.

Ad un certo punto un lampo mi abbaglia la vista, come se fossi al cospetto di una qualche divinità, se non proprio Dio. Un secondo lampo illumina i nuvoloni scuri, rendendoli più visibili e più concepibili della loro immensa grandezza.

Prevedo un brutto temporale.

--

Con passo svelto cammino verso la spiaggia. Gocce di pioggia hanno inumidito le mie vesti e soprattutto il mio animo. Ogni tanto un tuono mi ricorda di aumentare la velocità, e io eseguo. Alla fine, mi metto a correre, gridando al vento, che intanto si è alzato forte e sibilante. Corro sulla sabbia bagnata affondando ogni volta che avanzo d’un passo. Non mi scompongo, anche se legnetti e detriti portati dal mare raschiano la pianta dei miei piedi. Nel silenzio della notte sento solamente il fischio del vento, lungo e penetrante. Inciampo su una piccola pietra e rotolo sulla sabbia, che mi si appiccica al corpo. Le grandi lacrime del cielo mi bagnano tutto, e scrollano via i granelli giallognoli che adornano i miei abiti. Mi massaggio la nuca e riprendo il cammino, avanzando più piano. La pioggia si fa più fitta, e comincio a vederci poco. Molto poco.

Mi paro gli occhi con ambedue le mani e calcio via alcuni sassi. Pochi minuti dopo arrivo al campo, buio e deserto. Le luci degli chalet sono spente, suppongo che i miei compagni stiano dormendo.

Mi fermo davanti alla porta del nostro dormitorio e do qualche manata ai vestiti, nel tentativo di renderli quantomeno presentabili. Anche se non serve a molto, dato che me li dovrò togliere.

Mi sfilo le scarpe e i calzini e li lascio fuori lo chalet. Un lampo mi illumina il viso, che vedo riflesso attraverso il vetro della finestra. Mi tappo la bocca soffocando un urlo che sarebbe stato fortissimo. Sgrano gli occhi e guardo terrorizzato il riflesso di me stesso, oscurato dalla mia ombra. Apro cautamente la porta e varco la soglia, il più silenziosamente possibile. Evito di accendere la luce, per paura di svegliare gli altri campeggiatori. Mi dirigo verso il mio letto, che è l’ultimo a destra. A metà strada inciampo di nuovo, cadendo di schiena sul pavimento. Per fortuna, riesco ad agguantarmi con la sinistra ad un’asse del letto vicino. Con fatica mi rialzo, e poso il mio sguardo sul letto. Ci passo una mano sopra.

Vuoto.

Il letto è vuoto.

Il panico prende il sopravvento. Corro verso l’interruttore e lo schiaccio brutalmente. Una timida luce illumina la stanza per qualche secondo, poi la lampadina si fulmina.

Ma quei secondi sono stati cruciali.

I letti sono vuoti. Deserti. I miei compagni non ci sono. Spariti, volatilizzati.

Velocemente, mi rimetto le scarpe zuppe ed esco, ritrovandomi nel bel mezzo di una tempesta. Scatto verso l’altro chalet, tremando e battendo i denti come un ossesso. Apro la porta con una spallata e accendo la luce, che stavolta regge.

Speravo di trovare i letti sfatti, i vestiti sparsi e le scarpe sotto i letti.

Invece no.

I letti sono in ordine e il dormitorio è completamente privo di vita. Resto immobile, con lo sguardo fisso sulla parete.

Nessuno. Non c’è nessuno.

Esco senza prendermi la briga di chiudere la porta. Trascino il mio peso sino al molo, e li mi accascio per terra, sfinito e preoccupato. Se è uno scherzo, è di pessimo gusto. Resto steso sulla schiena per un paio di minuti, mentre la pioggia mi tamburella tutto il corpo. Decido di rialzarmi, e il mio sguardo si posa sul mare agitato. Immobile, senza muovere un muscolo, fisso quest’infinita distesa d’acqua che si alza, si infrange contro gli scogli e rinasce gloriosa, per poi chiudere in un freddo abbraccio tutto ciò che intralcia la sua strada. Sono incantato. Non ho mai visto un mare cosi, è meraviglioso.

Tic, toc, tic.

Ancora quei passi.

Di colpo torno nella realtà. Questo ticchettio è agghiacciante, ho paura.

Mi volto verso la probabile direzione dalla quale provengono i rumori, ma non vedo niente. Controllo un paio di volte a destra e a sinistra, niente.

Può darsi che siano gli ingranaggi del mio cervello che si arrugginiscono. Forse.

Scarto quest’ipotesi assurda e mi metto a pensare. Dove saranno mai i miei compagni? Questa è un’isola, non possono essere lontani.

Occhieggio di sbieco le onde, sperando che loro mi possano dare un indizio. Naturalmente, tacciono.

Decido di rischiare il tutto per tutto. Li andrò a cercare nel bosco, saranno tutti li ad aspettarmi per farmi BUH! Al momento giusto. Finiremo per farci quattro risate, sicuro.

Faccio per voltarmi, ma qualcosa mi blocca la vita.

Un braccio. Un braccio umano.

Una mano ruvida e callosa mi tappa la bocca, impedendomi di urlare. Un’altra, possente e con dita robuste, mi cinge i polsi, legandomeli.

Sento che una terza mano armeggia con la mia felpa. Con forza, tira su la manica, strappandomela, come si farebbe con un pezzo di carta. Mi stringe violentemente, mi resterà il segno rosso, penso.

Allenta la presa. Ristringe.

Sento un lieve bruciore poco più giù della spalla, come se mi avessero dato un pizzicotto utilizzando le unghie. Sopportabile.

Il bruciore dura pochi secondi, per fortuna. Dopo di che vengo spinto tra le onde del mare, perdendo i sensi.

--

Apro gli occhi. Mi guardo attorno, spaesato. Mi trovo in una stanza rettangolare, stretta e lunga. Somiglia molto ad un corridoio, se devo dir la verità. Le pareti sono bianche,vuote, lisce. Mi stropiccio gli occhi con fare assonnato. Noto che sono sdraiato su una specie di letto, un divanetto per l’esattezza. Tipo quelli che si trovano nella sala d’aspetto di un medico.

Mi tiro su aiutandomi con le mani, e mi siedo. Il braccio sinistro mi fa male, ma non è un vero e proprio dolore.. un fastidio, piuttosto. Un fastidio molto fastidioso, aggiungo mentalmente.

Non riesco a capire dove sono, e questo mi fa salire un groppo alla gola. I miei vestiti sono ancora bagnati, e sento molto freddo. Me li stringo addosso quanto più mi è possibile, non ottenendo grandi risultati. Batto sonoramente i denti e scuoto i piedi tentando di scaldarli. Non ho più le scarpe.

Attendo che arrivi qualcuno. Questo posto è strano, è.. tenebroso. C’è qualcosa nell’aria, qualcosa che non mi piace, non mi fa sentire a mio agio.

Tic, toc, tic.. tac.

Panico. Di nuovo i ticchettii. Questa volta accompagnati dalla nota stridula, il “tac”.

Questo è un incubo. Incubo. Mi schiaffeggio la faccia due, tre volte, sperando di svegliarmi di soprassalto, contento di aver vissuto solamente un brutto sogno. Ma ogni volta che la mia mano colpisce il mio freddo e pallido viso, mi convinco che è tutto vero. Reale. Sono veramente seduto su un divanetto in pelle bianca, in una stanza dalle pareti candide e lucenti. Sono realmente bagnato e senza scarpe.

E con un probabile raffreddore che farebbe diventar ricco qualsiasi farmacista, penso nervosamente, tentando di sollevarmi il morale.

Sento un rumore. Bam, bam, bam. Scarponi.. passi. Passi.

Un uomo alto ed incappucciato mi si pone davanti. Io alzo lo sguardo, voglio vederlo negli occhi. Il cappuccio è calato sino al naso, pazienza. Indossa una mantella stile saio, però nera. Lo copre tutto salvo i piedi, che tiene in due pesanti scarponi di cuoio. Mi tende una mano. Titubante, allungo la destra e gliela stringo. La sua presa è decisa e senza esitazione mi alza in piedi. Vuole sapere il mio nome.

“Duncan”, rispondo con voce roca. Il freddo e l’acqua hanno congelato le mie corde vocali, e faccio fatica a scandire bene le parole. Non chiede altro e mi fa segno di seguirlo. Ci incamminiamo per il corridoio, che scopro svolta a sinistra. Noto che sono appesi alcuni quadri, tutti raffiguranti spiriti maligni e demoni.

Sudo freddo e distolgo lo sguardo, fissando il pavimento color cenere.

Arriviamo in una camera circolare, senza finestre e molto ampia. Le pareti sono blu scuro, ma dipinti spettrali coprono il colore. Al centro c’è una tavola tondeggiante fatta di legno. Attorno, una decina di persone completamente vestite di nero, e tutte col capo coperto da un pesante cappuccio. Il misterioso individuo che mi ha condotto fin qui mi indica una sedia vuota, e io mi siedo. Sono molto nervoso e non ho idea di che cosa succederà poi. Fisso la tavola e attendo, paziente.

Un uomo dalla lunga barba scura si alza e incrocia le braccia al petto. Per un momento sembra guardarmi, ma forse mi sbaglio. Cerco di individuare i suoi occhi coperti, non ci riesco. Sembra quasi.. che non vogliano essere visti. Scoperti.

Resto seduto. Gli uomini attorno a me si alzano e a loro volta incrociano le braccia al petto. I due che si trovano alla mia destra e alla mia sinistra mi poggiano una mano su entrambe le spalle. Fanno pressione, e se volessi alzarmi, credo che non ci riuscirei. Decido di non ribellarmi, anche se non ne avrei la forza. Cominciano a parlottare tra di loro, non riesco a capire bene. Sembra una lingua diversa dalla mia, penso tra me e me. Aspetto che finiscano la loro conversazione, molto tranquilla. Nessuno alza il tono della voce, eppure sono dieci, fra tutti.

Il tipo con la barba scura mi indica, puntandomi contro l’indice. Io faccio per alzarmi, ma le due mani che ho sulle spalle me lo impediscono. Cosi resto seduto, fissando una ad una quelle strane persone.

Posto che siano persone vere.

Hanno tutti smesso di parlare e non si muove nessuno. Lo stesso tizio di prima fa cenno ai due uomini di lasciarmi le spalle, e loro eseguono.

“Vieni.”

Una voce dai toni bassi mi giunge alle orecchie. Mi è.. familiare. Come può essere?

Capisco che proviene dal tipo con la barba. Senza ribattere lo seguo, tenendomi a debita distanza da lui.

Arriviamo in una stanza enorme. Sembra un laboratorio, date le provette e alcuni intrugli di strani colori.

Tic, toc, tic.

Accidenti. Accidenti. Accidenti.

Mi sento male. Davvero. Questo ticchettio non riesco più a sopportarlo. Non più.

Mi giro verso l’uscita, ma la porta da cui siamo entrati è sparita. Questo mi spiazza e resto a bocca aperta, con le braccia ciondoloni. Il tizio incappucciato si volta verso di me. Suppongo mi guardi, ma non potrei dirlo con certezza. Ad un certo punto, si tira giù la cerniera della mantella nera. E, cosa che mi lascia senza parole,

come se stessi parlando che deficiente

si sfila il cappuccio, mostrando le sue vere fattezze.

A quel punto svengo per la secondo volta.

--

Socchiudo gli occhi. Vedo uno Chef molto sfocato che mi sventola un panno sulla faccia, per farmi aria. Mi aiuta a rialzarmi, ma mi oppongo. Ho bisogno di restare sdraiato per qualche minuto, per favore. Mi fa male la testa, devo averla sbattuta sul pavimento. Metto meglio a fuoco. Ho uno Chef davanti a me? O sono io a veder male?

La testa mi gira, la stanza gira. Richiudo gli occhi e resto fermo per un paio di minuti, che sembrano un’eternità. Sto per addormentarmi, quando una mano dalla stretta decisa mi scuote violentemente, agguantandomi per un braccio. Mi tiro a sedere come se mi avessero buttato addosso un secchio pieno di cubetti di ghiaccio. Respiro affannosamente, tenendomi le dita sul petto. L’uomo che prima ho scambiato per il cuoco dell’isola è davanti a me. Una barba finta color nero risalta rispetto alle mattonelle beige del laboratorio.

Mi accorgo con orrore che è Chef. Ma non lo Chef che conosco io, bensì uno Chef.. disumano.

Al posto degli occhi ha due lucette rosse simili alle sirene delle auto poliziesche, però formato ridotto.

E ticchettano. Tac, tac, tac.

Sono loro che producono il ticchettio o Gesù come ho potuto pensare che fossero passi o Gesù Gesù mio aiutami tu

Fisso le lucette rosse. Tac. Tac. Tac. Senza esitazioni e senza pensarci, chiedo il perché del rumore che fanno.

“Vedi” –mi risponde- “questi non sono occhi, come avrai potuto notare. Sono dei dispositivi capaci di scovare il punto esatto in cui si trova la persona che si vuole cercare. E non sbagliano mai. Avvertono con il tac, e se ti fa piacere saperlo, è una cosa molto irritante.”

Cercavano me cribbio ma perché perché perché? PERCHÉ?

“Perché?” chiedo sforzandomi di usare un tono calmo e pacato.

Non risponde subito. Sta armeggiando con una siringa più grossa del normale, contenente un disgustoso liquido rosso, molto denso. Sembra sangue, e sposto il mio sguardo, avvertendo conati di vomito.

Si ricorda di me. A dir la verità, mi sento rincuorato. Insomma, mi trovo davanti ad uno che somiglia a Chef. Ma non è lui. Questa cosa, seppur terrificante, mi fa sentire.. meglio.

“Perché servi per un esperimento. Sei l’ultimo rimasto.. come ti chiami?”

Ripeto il mio nome, con un filo di voce. Duncan, l’esperimento. Faccio fatica a concepire questo pensiero. Da quando sono diventato una cavia da laboratorio?

“Da adesso”, risponde, come se mi avesse letto nel pensiero. Mi convinco che è cosi, e, non so come, riesco a smettere di pensare. Puff.

Mi dice di seguirlo. Ancora. Basta, sono stanco. Lasciami andare, ti prego.

Questa volta non mi risponde. Mi conduce davanti a grandi capsule di vetro. Più che capsule, direi campane.

Rischio per la terza volta di perdere i sensi. Deglutisco, e rimango cosciente. Spero.

Le ventitré campane trasparenti contengono i ventuno campeggiatori del reality a cui sto partecipando.

A cui stavo partecipando Dio mio

E sono.. addormentati. Credo. Fisso i loro volti, le loro espressioni. Sono come.. come..

Due, il presentatore e il cuoco. Quello vero.

Quindi, quello che mi sta tenendo per un braccio è un clone. Un clone. Clone.

Come tutti gli altri. Quelli della tavola. Tutti cloni.

Una groppo alla gola mi impedisce di respirare. E finalmente capisco, capisco tutto.

Un ago mi punge il collo. Sento qualcosa colare nelle mie vene, qualcosa di freddo. Ma cosa?

Il liquido denso quello rosso quello che ti faceva cosi ribrezzo attento Duncan attento

Noto un’altra campana, vuota. Un foglio bianco su cui è maldestramente segnata una D nera è l’ultima cosa che vedo prima di cadere in un sonno profondo, sospirando mentre mi accascio tra le braccia del robot.

Un sospiro dolce, come la morte.

 

  
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