Fictional Dream © 2011 (21 maggio 2011)
I Tokio Hotel (Bill e Tom Kaulitz, Georg Moritz Hagen Listing
e Gustav Klaus Wolfgang Schäfer), sono uno dei più famosi gruppi di musica rock-pop tedesca.
Bushido, Kay-one, Chakuza, i membri dell’ersguterjunge sono egualmente personalità di spicco della scena hip-hop/rap tedesca.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto e all’intrattenimento di altri fan: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
A raccontarmi questa storia fu mia madre, un luglio gonfio di
pioggia e d’umidità come Berlino sola sa regalare. Avevo appena completato il
nono grado ed ero già nel pieno di quella tumultuosa ribellione adolescenziale
che mi avrebbe accompagnato per almeno un decennio.
A quattordici anni, lo spettro del padre è un’ombra
invincibile. Il mio, poi, tanto ingombrante da schiacciare.
Aveva il nome di un guerriero solitario e sorrisi feroci.
Aveva la condiscendenza del dittatore e lo schiaffo facile.
Lo chiamavano Bushido. Per mia madre, però, era un fiore.
Quando nacqui, il duemila aveva appena svoltato il decennio.
Avevo due anni, quando la promessa fine del mondo venne e
passò, senza lasciare strascichi.
Ne avevo cinque, quando incontrai mia madre e decisi che
sarebbe stata mia.
C’è la convinzione diffusa che sia un utero a premettere un
possessivo; che siano i tuoi genitori a decidere per te – dal nome che porterai
al lavoro che ti abbrutirà. Nel mio caso, invece, ‘mio’ fu un contratto.
Forse una generosa concessione.
Divenni Arafat Ferchichi da un giorno all’altro, con lo
stupore e la soddisfazione che ti dà sfilarti di dosso una brutta pelle usurata.
Il certificato d’adozione m’indica come Mathias, venuto al
mondo da qualche parte in Sudan nel duemiladieci, cresciuto tra deserto e
polvere e sangue e solitudine.
Di quella miseria non ricordo niente: la mia vita comincia
dalla sciarpa di seta con cui una donna bellissima mi netta il moccio incrostato
tra naso e labbra.
Quando nonna Luise mi raccontò della Madonna – era stata
cattolica, lei, e del cattolicesimo conservava quella sua devozione tutta
speciale per la Vergine – decisi su due piedi ch’ero Gesù Cristo: anch’io non
ero nato come tutti gli altri bambini. Mia madre – lo sapevo. Lo intuivo – era
speciale.
Il buonsenso comune vorrebbe che i figli adottati siano pieni
di paure e di complessi, di ombre e di risentimento; forse è vero per qualcuno,
ma non per me: io ero orgoglioso dei miei genitori.
C’erano figli che al mondo erano capitati per sbaglio, cagati
da una copula non protetta, da una voglia imprevista, come cani, e c’erano
quelli così voluti che, un bel giorno, la donna più bella del mondo ti portava
via da tutto – dal deserto, dalla polvere, dal grembiule grigio dell’orfano
africano.
Divenni Arafat Ferchichi, un fiero cittadino tedesco, che il
duemilasedici non era neppure a metà. Non avevo mai visto la neve, non capivo
cosa significasse l’espressione ‘freddo’ e non parlavo la lingua che, di
lì a poco, avrei scelto per raccontarmi.
Mia madre mi accoglieva tra le sue braccia, lasciava che le
succhiassi la pelle morbida e profumata della spalla, e cantava solo per me.
Ho imparato il tedesco partendo dalle note, ne ho respirata
la tenerezza e la poesia, finché non mi si è sedimentato dentro, come una
malattia. Come un’istruzione genetica.
Chi non sa – ma c’è davvero qualcuno che ancora lo ignora? –
che sono stato adottato, arriva a dire che somiglio a mio padre; che ho i suoi
occhi, la sua bocca, il suo sguardo cupo e penetrante.
Ne ridiamo, mia madre e io, con la tenerezza della nostalgia.
Mio padre è mancato poco prima che superassi l’esame di Stato
e diventassi Probe-Richter.
“Un peccato,” osservò mio zio Sercan, “Anis aveva un gran
senso dell’umorismo.”
Per uno ch’era finito in tribunale una quantità di volte, un
figlio giudice era un contrappasso ridicolo.
Quando entrai nella vita di una coppia da riviste patinate,
scandali facili e paparazzi, tuttavia, mio padre era ormai un cittadino modello:
l’età – aveva quasi quarant’anni – e una donna incredibile avevano dato radici a
uno spirito randagio e ribelle, incostante, più che guerriero. Il rapper
violento e sboccato delle grandi adunate aveva lasciato spazio a un produttore
dal fiuto infallibile e dalla fama solida almeno quanto il conto in banca.
Era ricco sfondato, Anis Ferchichi, ma non si era lasciato
corrompere dai soldi con la facilità che perde i poveri baciati dalla fortuna:
era intelligente e oculato come una formica; i suoi lussi da cicala, una
graziosa concessione a un’opinione pubblica affamata di scandali e mondanità.
Mia madre – Betti Kuhmann – aveva undici anni meno di lui, ed
era considerata l’erede di Heidi Klum. Aveva la bellezza irreale di una fata,
Betti, e l’imponenza di una valchiria; le foto di quegli anni, almeno,
ritraggono una scultura di carne di quasi due metri, dal piccolo seno appuntito
e dalle gambe infinite.
Per le cronache ufficiali, il loro è stato un colpo di
fulmine.
Per la storia che nessuno avrà mai – se non io, che del loro
amore sono custode e suggello – una guerra.
Per averlo, mia madre ha perso tutto: dall’identità
all’affetto di una vita; dal nome, alla metà di un cuore che la storia ha
spezzato mille volte.
Non ho mai avuto modo di parlare con mio zio Tom.
Quando mio padre è morto, stroncato da una malattia crudele e
brevissima che ha accettato con lo stoicismo del guerriero, ho sperato che il
telefono squillasse e portasse a mia madre almeno la consolazione di quella
voce.
Non è mai venuta.
“È giusto così,” ha detto lei. “Ci sono lutti che non
finiscono sotto terra e fanno molto più male.”
C’è sempre stato in mia madre qualcosa di granitico e
spietato; ghiaccio bollente, è il termine abusato con cui s’indicano
quelle come lei, fatte per maledirti e per perderti.
Un guerriero, diceva invece mio padre, che di balle ne
aveva raccontate troppe dal palco per avere ancora voglia di regalarne a suo
figlio.
Di un guerriero, nei fatti, mia madre portava il nome – il
suo primo nome.
Fino all’inverno del duemilaundici, Betti Kuhmann si chiamava
Bill Kaulitz.
A volte mi chiedo se la maternità non sia anche una
maledizione che si trasmette attraverso il sangue, l’aria che respiri, le storie
che racconti: senz’altro giocare con i nomi è un talento di famiglia, come
averne più d’uno, quasi sia possibile riscrivere ogni volta la storia a partire
da quello che sei.
Mio padre si chiamava Anis e Sonny e Bushido.
Mia madre era Bill e poi Betti Bettina Hamama Habibati.
Io sono nato Mathias e poi l’uomo più potente di Berlino mi
ha prestato il suo nome.
Non è vero che una rosa a cambiarle nome sempre rosa resta,
perché i nomi sono molto più di una semplice etichetta: sono la copertina del
libro della vita.
I nomi si annusano, si sfogliano, s’inventano. I nomi si
perdono e si guadagnano.
I nomi si rinnegano.
Mia madre scelse di raccontarmi la verità, quando fu la
verità a bussare alla mia porta – lo fece senza chiedermi il permesso, com’è
sempre la vita quando spara il colpo.
Avevo quattordici anni, l’ho detto, e avevo appena litigato
con mio padre.
Ero un figlio unico amatissimo e molto viziato. Ero arrivato
che Bushido non era più un ragazzo affamato di tutto, ma un uomo consapevole e
appagato. Era paziente, sì, eppure rigido.
C’era molto della cultura del suo sangue nella severità con
cui mi stava dietro, quando gli pareva che mordessi troppo il freno o che
sputassi sul rispetto.
Mia madre, con un’intelligenza politica fuori dal comune,
mediava tra noi finché ogni conflitto non si ricomponeva. Morivamo per lei, ecco
la verità: due patetici pavoni e una regina dagli occhi d’oro.
Quella volta, però, Anis non volle sentire scuse, né moine,
né lagne: era la prima cotta della mia vita e dovevo trovare il modo di farmela
passare, perché con quella ragazza non sarei mai uscito.
Quella ragazza era Savannah Paige Kaulitz, la primogenita
di mio zio Tom – la mia prima cugina, sebbene solo per la legge tedesca.
Non lo sapevo, ovviamente, come non lo sapeva lei. Se non
avessimo cominciato a flirtare, inconsapevoli della storia che ci respirava
accanto, saremmo rimasti rette parallele come rette parallele erano ormai i
gemelli Kaulitz.
Savannah era la figlia che Chantelle Paige aveva avuto da una
relazione lampo. Mio zio l’aveva adottata dopo il matrimonio, dandole il proprio
nome, come l’avrebbe dato ad altri due bambini, questi sì Kaulitz fino al
midollo – la femmina, Bella, somigliava da morire a mia madre: non credo che ci
sia il bisogno di spiegare il perché.
Aveva tredici anni, Savannah, e frequentava il mio stesso,
prestigioso Gymnasium.
Piaceva a tutti, bionda e appariscente com’era, ma tra i
tanti aveva scelto me.
Perché?
Istinto? Destino?
Dire che sì, c’eravamo fiutati addosso una linea di sangue –
una predestinazione – sarebbe poetico, ma in questo somiglio molto a mio padre,
al suo disperato realismo: accadde tutto per caso. Fu un caso se i gemelli
Kaulitz scelsero la stessa scuola per i loro figli, e fu un caso se i loro figli
tentarono di stabilire un contatto, e fu un caso, dunque, se la traccia
dimenticata di una storia penosa tornò a galla.
Esistono segreti che il cuore scrive con l’inchiostro
simpatico; se ne stanno là, acquattati nel bianco, finché la vita non illumina
la fiamma che li rende leggibili.
La nostra verità fu un incendio.
Mio padre aveva cominciato a interessarsi della mia
educazione che avevo dieci, undici anni – sino ad allora, in quanto ‘bambino’,
ero affare di mia madre e di mia nonna.
L’ho detto: era un rivoluzionario molto tradizionalista,
Bushido. La matta di casa, a suo dire, era mia madre. Era Betti la
contestatrice, il guerriero. Betti, quella che faceva girare il mondo al
contrario.
Da piccolo pensavo che quelle fossero le parole dell’amore;
il segno della catena che li teneva avvinti, passando per il cuore. Poi ho
scoperto ch’erano fatti, non chiacchiere.
Quando mio padre cominciò a portarmi con sé nei suoi viaggi
di lavoro, a chiedermi di accompagnarlo in moschea per la preghiera del venerdì,
capii ch’ero diventato grande: ero diventato un uomo. Ero roba sua.
Mi piacevano, quei pomeriggi a due: la pelle morbida dei
sedili della Mercedes, l’odore d’intimità e di spezie di Kreuzberg, la coca-cola
gelata che bevevo accanto a uomini dalla fama brutale e dagli occhi tristi.
Mi parlava della sua Berlino: di quando c’era il Muro, la
miseria, la paura; di quando la sua vita era una strada senza uscita e le
principesse ti usavano per gettarti via con ignobile facilità.
Affondavo nei suoi ricordi e cercavo mia madre, ma Betti era
un’ombra sfuggente.
Ora so che Betti non esisteva: gli occhi che avevano rubato
la pace al guerriero appartenevano a un ragazzo senza scrupoli.
Quando mio padre si ribellò al mio sacrosanto diritto di
crescere, mi sentii tradito. Mi sentii ferito molto più di quel che potevo
immaginare che sarebbe capitato comunque – non c’è bisogno di uno psicologo per
immaginare che crescere non è facile, e che l’ombra del padre non la combatti di
sicuro con un paio di occhiali da sole.
Volevo uscire con Savannah e Bushido mi chiudeva in casa:
gliene dissi di tutti i colori, rimediai un meritato schiaffone e mi chiusi nel
silenzio oltraggiato delle vittime.
Dal cielo cadeva una pioggia fitta e lugubre, di quelle che
spesso flagellano la Germania anche d’estate. La guardavo grondare dalla
finestra della mia camera, meditando una di quelle sconclusionate vendette con
cui si trastullano gli adolescenti.
Dal piano inferiore, attutite, giungevano le voci dei miei
genitori.
Litigavano di rado, Anis e Betti, ed era quasi sempre mio
padre a capitolare.
C’era un’alchimia, tra loro, che non riuscivo a decifrare:
non chiamava in conto i ruoli – Anis era Vati e Betti Mutti, non
avevo il minimo dubbio in proposito – quanto l’intensità con cui li vivevano.
Mia madre era troppo bella e troppo caustica per essere una
donna, disse una volta Joseph Schwarz, ch’era il mio migliore amico di allora,
nonché il figlio dell’avvocato di mio padre. Lo presi come un complimento
indiretto: era mia madre; era il mio orgoglio. Invece poteva anche darsi che un
occhio esterno avesse colto meglio una complessa realtà; forse l’artificiosità
del suo essere la donna più bella del mondo, lei che donna non era.
Anis uscì sbattendo la porta, come faceva quando Betti
sfibrava il nervo e lo sfiancava.
Mia madre mi concesse un’ora per dimostrarle che non ero un
cacasotto; poi realizzò ch’ero tutto mio padre, e mi venne a cercare.
Se oggi, a cinquantacinque anni, Betti è ancora considerata
una signora dal fascino irresistibile e dalla bellezza rara, all’epoca –
vent’anni fa, ormai – era abbagliante.
Si dice che tutti i figli maschi abbiano un debole per chi li
ha messi al mondo, ma nel mio caso… Be’, mi sentivo scusato con qualche ragione
in più.
Da quando ero entrato nella sua vita, mia madre, che non era
mai stata molto mondana, si chiuse in un piccolo mondo antico, fatto di gesti
lenti, di penombra e di noi.
Sfilava ancora, qualche volta – e io guardavo ammirato le sue
mille metamorfosi seduto accanto a mio padre, sotto una passerella che divorava
con lunghe falcate da dominatrice – ma preferiva occuparsi di me.
A quei tempi mi sembrava naturale, buono e giusto. Oggi penso
a quale terribile dolore deve avere covato in sé, per scegliere di espiarlo in
solitudine.
Non aveva amiche, né confidenti.
Le madri dei miei compagni di scuola la temevano – così
giovane, così bella, così strana.
I padri le lanciavano occhiate cui rispondeva con un
disprezzo fiammeggiante.
Mio padre è stato il suo primo e unico uomo. È stato l’unica
ragione per cui ha smesso di essere un ragazzo.
Bussò alla porta della mia camera, senza paura.
Non potevo scoraggiarla con il mio mutismo: lo sapevo io e lo
sapeva lei.
“Ari? Guardami, per favore.”
Mio padre sapeva come darti ordini, ma mia madre sapeva come
farli eseguire. Più che imperativa, era implacabile.
Bofonchiai qualcosa in merito alla mia privacy, poi mi volsi.
Betti non mi sorrise, come faceva quando voleva consolarmi o
incoraggiarmi, ma mi porse una fotografia.
C’erano due ragazzi che le somigliavano in modo sospetto.
“Questo è Tom Kaulitz,” disse senza calore, indicandomi un
quindicenne ch’era ora il padre di Savannah. “Questo, invece, è Bill Kaulitz.
Sono io.”
Nei libri e nei film, di solito, a una rivelazione come
questa dovrebbe seguire un disastro epocale – lo schianto di un tuono, un albero
che prende fuoco, un terremoto.
I libri e i film, però, masticano retorica, non emozioni:
nella vita di tutti i giorni, l’inatteso è a volte chi hai abbracciato sino a un
pugno d’istanti prima.
In quel caso, il viso di pietra di mia madre.
Aprii la bocca, ma non ne uscì niente. Un rantolo sarebbe
bastato a comunicare il mio stupore, la mia incredulità e forse persino il
sacrosanto schifo di una scelta subita, ricevuta a tradimento come un calcio
sulle palle – io, che ancora le avevo.
“Savannah è figlia di tuo zio. Tom Kaulitz è mio fratello.”
In quel momento ho pensato che mi avrebbe fatto comodo essere
una donna – chissà? Magari era un vizio di famiglia – almeno avrei risolto
l’impasse con uno svenimento.
Non sapevo cosa dire. Forse ero abbastanza intelligente da
capire che da dire non c’era niente. Proprio niente.
Betti trasse un profondo sospiro, poi si sedette in un angolo
del letto. “Preferisci che me ne vada?”
Sì, l’avrei voluto.
C’erano nuove che solo la solitudine poteva permetterti di
digerire, ammesso che fosse possibile. Al contempo pensavo a lei e pensavo a me.
Pensavo al fatto ch’era scesa dal Paradiso e aveva scelto
proprio Mathias, figlio di un olocausto dimenticato, occhi cisposi e naso
incrostato di muco.
Mi aveva regalato un futuro, senza chiedersi chi fossi, a chi
appartenesse il mio odore di miseria e di guerra.
Non aveva avuto paura del mio passato.
Non avrei dovuto neppure io.
Cos’era, in fondo? Un mucchio d’impronte che il tempo, prima
o poi, avrebbe cancellato.
“No. Voglio capirci qualcosa.”
La mia voce era incerta, ma la guardai bene in viso.
Spiavo una vecchia foto e la cercavo nel volto di Betti. Mia
madre si allontanò dallo zigomo una lunga ciocca mielosa. Adoravo i suoi
capelli: mi facevano pensare a una distesa di grano maturo. Bill, invece, era
nero come un corvo.
“Anis ha paura che possa farti del male.”
“Savannah? Il maschio sono io!” replicai senza il minimo
filtro – senza pensare, soprattutto, che ostentare una simile rivendicazione
davanti a qualcuno che aveva appena confessato di aver mutato sesso, se non
crudele, suonava almeno di pessimo gusto.
“No. Tom,” riprese Betti, “ma io non credo. Mio fratello non
è quel genere di persona. Nessuno potrebbe spingerlo a tanto... Se non la
sottoscritta.”
Ora che ci penso, mia madre ha sempre parlato di sé al
femminile. Era una grande donna e sapeva pensare da donna. A Bill, invece, si
riferiva spesso in terza persona, quasi fosse un vecchio copione o un abito
abbandonato come una crisalide esausta – eppure era ancora in lei. Non aveva mai
smesso di esistere.
Come mi disse solo dopo la morte di mio padre, era anche di
quel ragazzo che Anis era innamorato. Non di Betti.
“Siamo gemelli, lo sai?”
Scossi il capo. Ero precipitato nella sua vita che l’eco di
un antico scandalo si era spenta. Non ero un ragazzino curioso, perché alle mie
spalle lasciavo macerie. Con l’istinto intelligente dei bambini, mi fidavo dei
miei occhi e delle mie emozioni. Avevo un padre e una madre che si amavano
moltissimo: mi bastava.
“Siamo nati il primo settembre del millenovecentoottantanove.
Fu un anno importante, quello, ma l’ho capito molto dopo.”
La voce di mia madre era piena di colori che non avevo mai
immaginato. Li avevo sfiorati solo da piccolo, credo, quando mi addormentavo tra
le sue braccia mentre mi cantava In die Nacht.
Pensavo che quella fosse la nostra canzone: avrei
scoperto a breve ch’era solo il riverbero malinconico di un’assenza.
“Pensavamo che saremmo rimasti insieme per tutta la vita.
Quando avevamo la tua età, ci scambiammo un giuramento solenne e ridicolo.”
“Quale?”
“Che nessuna donna ci avrebbe mai diviso.”
“E poi?”
Mia madre abbassò il viso. “E poi è arrivato tuo padre.”
Era arrivato un uomo.
“Non avevamo neppure sedici anni, quando il successo ci
esplose tra le mani. Fu come se tutti i nostri sogni si fossero avverati. Tutti
insieme.”
Socchiusi le palpebre, attento. Del padre di Savannah sapevo
ch’era stato un chitarrista famoso, poi un produttore dell’Universal; che si era
trasferito in America e che lì aveva vissuto per anni, prima di tornare in
Germania. Forse l’avevo intravisto un paio di volte, all’uscita del Gymnasium.
Realizzavo solo ora che aveva lo stesso profilo di mia madre.
“Fu per questo che Anis si accorse di me.”
“In che senso?”
Mia madre sorrise – e c’era una vena mesta in quella smorfia.
“Che un ragazzino dall’aspetto effeminato era un dono del cielo per il miglior
rapper tedesco.”
Aprii la bocca, poi decisi di tacere. “Se t’imbarazza,
credimi: hai la mia solidarietà. Imbarazzava da morire anche me scoprire che
l’idolo di mio fratello era interessato alla mia verginità.”
“Cioè...”
“Tom era pazzo di Bushido. Aveva tentato persino di
trascinarmi a qualche suo concerto. Io, invece, non volevo saperne.”
“Allora com’è successo che...”
“Che ci siamo innamorati?”
Arrossii. Betti tese il braccio e mi pizzicò la guancia. “Non
lo so. La verità è che non so proprio com’è che t’innamori.”
Eppure la sua voce era miele: accarezzava quelle parole con
incredibile dolcezza.
“Ero sui vent’anni, più o meno. È stato allora che ho capito
di essere omosessuale.”
Deglutii.
“Cominciai a fare la corte a tuo padre. In un modo non molto
discreto, aggiungo.”
Mi guardava, Betti: era terrorizzata dal mio giudizio, ma mi
offriva il suo cuore. Ancora una volta dovevo convenire che sì, non era come gli
altri. Il suo coraggio, almeno, restava il dono di pochi.
“E lui?”
“Non voleva saperne di me. È piuttosto facile intuirne le
ragioni, no?”
Scossi il capo. Avevo quattordici anni e una fantasia troppo
limitata per quella pazza meravigliosa di Betti.
“Era un rapper. Era un maschio alpha. Non poteva permettersi
una deviazione pericolosa. Uno come me, insomma.”
Sembrava serena, mia madre, nel raccontare quegli anni. Ora
so ch’era stata disperata allora. Il dolore l’aveva come asciugata – l’aveva
sgretolata, anzi, tirando fuori il diamante.
“È stato per questo che...”
Mia madre scosse il capo.
I suoi occhi cercavano il soffitto, quasi potessero leggervi
l’impronta di una storia antica, terribile e scorretta come solo certi amori
sanno essere.
“Anche Anis mi amava, a modo suo. Per qualche mese, siamo
stati comunque felici. Poi mio fratello l’ha scoperto.”
Trattenni il fiato.
Mia madre aveva smesso di guardarmi.
“Tom avrebbe potuto perdonarmi tutto, ma non quello. Non
proprio quell’amore.”
“E perché? Uno, in fondo, può farsi piacere chi vuole, no?”
Betti sorrise. “Non se appartieni già a un altro. Io ce
l’avevo già un uomo. Era lui.”
Strizzai più volte le palpebre. Non sapevo che significato
dare a quelle parole. Non sapevo se preoccuparmi per la china che stava
prendendo la conversazione, per la tranquillità con cui mia madre mi erudiva,
ovvero per il fatto che cominciavo a capire mio padre.
A quattordici anni non è piacevole convenire che sì, quello
stronzo del tuo vecchio ha ragione: la verità non è affare da bambini.
“Eravamo in America per un tour. Sperava che mi dimenticassi
di Anis, ma sapeva che lo chiamavo tutte le notti. Alla fine la situazione è
esplosa.”
Ho aperto la bocca. La conclusione me l’ha richiusa prima che
osassi un fiato.
“Ho tentato di uccidermi. Non avevo via di scampo, mi dicevo.
Ero un amante, non un compagno. Avevo disgustato mio fratello e nessuno mi
avrebbe mai offerto un amore che valesse il suo. Neppure Bushido. Per lui ero un
peso e un segreto vergognoso.”
Mia madre s’interruppe. La sua voce era ferma, ma si asciugò
furtiva il bordo della palpebra.
“Bill ha aperto la finestra della sua bella suite, ha
respirato la notte e poi si è buttato di sotto.”
Aveva usato la terza persona per prendere le distanze da quel
gesto, ma anche perché le mancava il coraggio di misurarsi con la sofferenza di
quei giorni. Una sofferenza tanto forte da raderla al suolo.
“Ovviamente, non sono morta.”
Le sfuggì una risata colma di sarcasmo. Terribile.
“Ci sono andata vicino. Molto. Per Tom era tutta colpa di tuo
padre. Ai suoi occhi, Bill era la vittima innocente di un corruttore.”
“Ed era vero?”
Betti scosse il capo con decisione. “No. Fu allora che
realizzai con chiarezza che se c’era qualcosa di malato in me, quello non era il
mio rapporto con Anis, ma con mio fratello. Eravamo la stessa cosa, noi due? No.
Ero ridicolo io, a tempestarlo d’insulti se faceva l’amore con una groupie. Era
ridicolo lui, se decideva per me quali fossero le mie inclinazioni sessuali.”
“Perciò...”
“Non sono diventato una donna perché m’interessasse indossare
un bel vestito, Ari.”
La bocca di mia madre sorrideva. I suoi occhi erano pieni di
lacrime.
“Dovevo trovare il modo per liberarci entrambi da quel
cordone ombelicale che ci stava strangolando.”
Allungai le dita e le asciugai la guancia.
Betti mi accarezzò il dorso della mano, premendolo forte
contro il viso. “Approfittai della situazione, recitando una parte. Scorretta e
vigliacca quanto vuoi, Ari... Ma la vita non è mai pulita.”
Bill fece qualcosa che solo un pazzo avrebbe fatto – o un
ragazzo al limite. Allo psichiatra che lo prese in cura raccontò una storia ben
diversa da quella che avrebbe regalato a me – a suo figlio. Disse di un corpo
che non era il suo, del dolore senza rimedio che gli procurava cercare nello
specchio qualcuno che non c’era. Disse che non voleva essere un uomo, quando
tutto quello che desiderava, piuttosto, era essere libero e amato.
Ottenne un referto favorevole al riallineamento genitale.
Ottenne un nuovo nome.
Tom lo maledisse.
A mio padre, Bill non raccontò niente.
“Ero certo che non mi avrebbe più voluta. Quello che potevo
dargli, in fondo, l’aveva già ottenuto da mille donne vere.”
C’era una quantità di dolore inumano in quelle parole.
C’era l’eco di una sofferenza che mia madre non aveva ancora
metabolizzato del tutto.
“I Tokio Hotel si erano sciolti. All’Universal fece comodo
far credere ch’ero morto. Mio fratello... Be’, si allineò a questa versione. Io
rimasi in America. Il coraggio di tornare a casa non ce l’avevo. Pensandoci
bene, non avevo neppure più una casa.”
Deglutii a fatica. Me lo sentivo dentro, quel male. Lo
respiravo e quasi non credevo che si potesse sopravvivere a tanto.
“E... Come hai fatto?”
Mia madre rise. “Come ho fatto a non ammazzarmi sul serio?
Sì... Me lo chiedo, ogni tanto.”
Era imbattibile anche sul fronte dell’umorismo nero, Betti.
Non aveva pietà per nessuno, tanto meno per se stessa.
“Mi ha aiutato un amico. Una persona davvero speciale, Ari.”
Sgranai gli occhi. “Un amico?”
“Ne ho qualcuno anch’io, cosa credi? Sono più educati di
quelli di tuo padre, più carini e più profumati.”
Sollevai ironico un sopracciglio.
“Adam.”
Adam Lambert, in effetti, era l’unico uomo che potesse
frequentare casa nostra senza che mio padre s’incazzasse. Conoscendo il mio
vecchio – e conoscendo Adam – credevo che dipendesse dalle sue inclinazioni
sessuali.
Lambert era frocio e mia madre era l’equivalente femminile di
una Ferrari Testarossa. Che pericoli c’erano?
Invece Adam aveva amato Bill di un amore disperato e sincero
quanto può esserlo una passione unilaterale. Non aveva speranze, ma non avrebbe
mai accettato di saperlo infelice.
Quello, mai.
E a mia madre, Adam fece un bel discorso: una lezione tanto
memorabile che a vent’anni di distanza ne ricordava persino le pause retoriche.
“Mettiti in testa una cosa: per quanto stupido sia quello che
hai fatto, per quanto terribile sia quello che ti sei fatto, non hai sbagliato,
Bill. Non hai sbagliato, perché non è mai sbagliato recitare per essere felici,
cambiare per sopravvivere. È la legge di Darwin.”
Di Adam Lambert sapevo ch’era un tenore eccezionale, ch’era
una star del musical, che a Berlino era quasi venuta giù la Porta, tanto avevano
applaudito il suo ultimo spettacolo, che mia madre lo adorava e che mio padre lo
rispettava: ora sapevo il perché.
“Se ti arrendi a metà della metamorfosi sei fottuto, perché
ora che hai cambiato pelle, ti resta solo da allungare il braccio per
raccogliere quello che vuoi.”
Ma cosa voleva, Bill?
Amore. Solo quello.
“La sua vita era una zingarata, un carnevale pagano in cui
tutto era possibile. Era bravo a raccogliere pazzi per strada, Adam. Forse è per
questo che ha raccolto anche me.”
Negli occhi di mia madre c’era ora una scintilla viva, piena
di tenerezza e di affetto.
“Rimasi con la sua famiglia per quasi due anni. M’insegnarono
a essere una signorina perbene.”
Sorrisi. Sorrise anche Betti.
“A quel punto presi il primo volo per Berlino.”
“E...”
“E chiesi a tuo padre di sposarmi.”
Non so perché, ma non mi riesce difficile immaginare questo
terribile ragazzo/ragazza che si presenta alla porta del primo amore, la
tempesta di colpi e poi gli sbatte sul muso una bellezza epica.
Non fatico neppure a credere che mio padre l’abbia
riconosciuto subito, quel suo zahir dagli occhi d’oro, e perdonato.
“Abbiamo parlato per tutta la notte. Ho parlato, per la
verità. Gli ho raccontato ogni cosa, anche i dettagli che avrebbe preferito non
sapere. Mi sono addormentata tra le sue braccia. Quando ho aperto gli occhi, era
ancora là. Non mi aveva lasciata con un pugno di lenzuola spiegazzate e
cinquanta euro per il taxi. Ho capito ch’era il suo sì per la vita.”
Quanto seguiva era una storia che conoscevo: il successo di
mia madre come modella, la vacanza in Kenya, l’orfanotrofio scoperto per caso,
un bambino pieno di pidocchi, con gli occhi cisposi e le croste al naso. Un
piccolo sgorbio nero, cui regalare un futuro e una storia d’amore e d’ombra.
Più amore che ombra, però. Più coraggio che lacrime.
“Tuo padre non voleva che conoscessi la verità, perché la
verità non è buona come la raccontano tutti. La verità è spesso sporca dei
nostri peccati peggiori. È nera e...”
“Sono nero anch’io,” le dissi. “È nero anche papà. Dov’è il
problema?”
Mia madre liberò una risatina nervosa, poi cominciò a
piangere come una bambina – come un bambino solo e ferito e devastato da una
mutilazione che passava dai genitali per arrivargli al cuore.
“Tu e Tom... Vi siete più parlati?”
Mia madre scosse il capo. “Ci vediamo, ogni tanto. Da
lontano. Basta questo.”
“Ma... Perché? È passato tanto tempo.”
“Certe cicatrici non sbiadiscono, Ari. È solo un cordolo che
s’ispessisce. Va bene così.”
“Però... Con Savannah...”
Betti sorrise. “Sii cavaliere e comportati bene.”
Non disse altro, ma nei suoi occhi intravidi il resto.
Il dolore non è contagioso. Non il dolore. Non l’amore.
Quando ottenni il tanto sospirato permesso, però, fu la
figlia di Chantelle a dirmi che no, Tom non le permetteva di uscire – non con
me, almeno.
Non le chiesi il perché: lo inghiottii con l’amaro di quella
storia terribile.
Tornarono negli Stati Uniti alla fine dell’estate: Tom,
Chantelle, Savannah e i suoi fratellini-Kaulitz-autentici.
Mia madre mi accompagnò a salutare quel minuscolo pezzetto di
cuore che valicava l’oceano; discreta, rimase all’ombra di una magnolia, mentre
attraversavo la strada.
Tom sollevò lo sguardo, ma non fu me che vide: i suoi occhi,
guidati da un istinto uterino, cercavano alle mie spalle la donna più bella del
mondo.
Mia madre.
Fu come se il tempo si fosse fermato in un gioco di occhiate
recriminazioni accuse mute; poi riprese.
Savannah mi baciò la guancia e promise che mi avrebbe
scritto.
Non l’ha mai fatto.
Io, del resto, a quella promessa non avevo creduto per
principio.
Mentre tornavamo a casa, mano nella mano, Betti e io
giocavamo a calpestarci l’ombra.
Quel fantasma nero, inquietante, che nasceva da noi nel sole
di mezzogiorno, era una bella metafora del passato che c’eravamo scambiati:
potevamo odiarlo, tentare di distruggerlo, schiacciarlo con la violenza del
risentimento, ma restava là, perché ci apparteneva – perché ci raccontava.
Era dietro, però: davanti ai nostri passi, il cielo era
azzurro e mio padre sorrideva. In attesa.
Sorrideva anche mia madre, che aveva risalito come un salmone
il fiume della felicità e alla sua foce aveva fatto il nido.
Sorridevo io, perché forse la verità era nera, ma, come cantava Betti, è nel
buio che la vita gioca a sorprenderti: e tu devi lasciarla fare.