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Autore: yami no tenshi    28/10/2011    4 recensioni
Eccola. La vedi con la coda dell’occhio. Ti giri ed è perfetta.
Lentamente ti avvicini. I capelli non sono esattamente del colore giusto, cioccolato al latte invece che cioccolato fondente. Le posi una mano sulla spalla e lei si volta. Anche gli occhi non sono esattamente quelli, azzurri invece che color acquamarina.
Ma non importa.
“Posso invitarla a bere qualcosa?”
No, non ha nessuna importanza.

Storia partecipante al "The Darkside contest" di .:Illunis:.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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- Nick dell’autore:  yami (sul forum) e yami no tenshi (su efp)
- lettera scelta:  C
- Titolo della storia:  Memorie di un’anima sola
- Lunghezza:  6 pagine TNR 12
- Genere: Romantico, Drammatico
- Note:  Allora questa è una storia malata. Profondamente. Il protagonista di questa storia è malato, folle.

Detto questo non è comunque un granché. Avrei potuto fare di meglio. Dovrei probabilmente rileggerla ancora un po’ di volte per aggiustarla, ma non ci riesco. Già farlo uno sola volta è stato difficile.
Spero solo che ci sia qualcosa da salvare.
Per quanto riguarda la citazione c’è il rischio che solo io riesca a vedere il collegamento con la storia.^^’
Buona lettura^^
- Avvertimenti:  One-Shot, Angst

 
 
 
 
In ciascuno di noi vi è un istinto di male.
Anzi, il bene e il male vivono accumunati e indistinti nello spirito nostro.
 
 
 
La guardi volteggiare in mezzo alla sala. È il giorno del suo compleanno. Sai con quanto impegno si sia applicata perché questa serata fosse perfetta. Lo sai perché eri sempre al suo fianco. E perché di lei sai tutto. Hai passato quasi un anno a scoprire ogni dettaglio della sua vita, fino ad arrivare ad amarla.
E adesso mentre la saluti da lontano in uno dei più bei giorni della sua vita, ti sembra di sentire sulle labbra il sapore del veleno che le sta entrando in circolo. Hai calcolato le dosi alla perfezione e sai esattamente quanto tempo impiegherà ad ucciderla. Hai progettato tutto in modo da far coincidere la sua morte con il momento di massima gioia per lei. E ora aspetti.
Sarà doloroso vederla morire. Una fitta al petto, una sofferenza profonda. Non vedi l’ora che arrivi il momento. Senti l’aspettativa crescere. Vuoi sentirti vivo.
Come quella prima volta, molti anni fa.
 
 
Avevo quindici anni. Sentii mio padre rientrare ubriaco un’altra volta, come accadeva ormai da dieci anni, da quando la mamma era morta.
 
Fu ritrovata riversa nella vasca da bagno, i polsi tagliati, e liquidata velocemente come uno dei tanti casi di suicidio. Noi non c’abbiamo mai creduto. Quando la psicologa infantile mi diceva che non dovevo farmene una colpa, che nessuno di noi doveva farsene una colpa, non l’ascoltavo. Ero certo che non si fosse tolta la vita.
Mio padre era certo che fosse stata uccisa. Non riuscì mai ad accettare che nessuno venisse punito per la sua morte, per aver distrutto le nostre vite.
Iniziò ad andare nei bar, in cerca di alcol e risse. Ma non è mai stato un uomo particolarmente imponente e si ritrovava sempre a subire. Finché provare dolore non fu più sufficiente, beveva e tornava a casa con il bisogno di sfogarsi su di me. Lo imploravo di smetterla. Non mi ascoltava. Ma almeno riuscivo a tenerlo lontano da lei, dalla mia sorellina. Eléna.
Lei non ricordava niente di ciò che era successo, non capiva. Quando la mamma era morta aveva solo un anno. Troppo piccola. E non sapeva cosa succedeva tutte le notti. Non sapeva del coltello, lo stesso coltello ritrovato accanto al corpo della mamma, lo stesso che aveva inciso i suoi polsi, la sua pelle, e che adesso incideva la mia.
Lei adorava nostro padre. Perché di giorno, quando fingeva che andasse tutto bene la portava alle giostre, a mangiare gelato e a giocare al parco. Non capiva perché io avessi sempre quella faccia scura, perché non sopportassi la sua vicinanza. Credeva che fossi geloso perché lei era la sua principessa e a me andava bene così. Volevo che non sapesse, che non capisse. La mia infanzia era ormai cenere, ma la sua no.
 
Quella notte però successe qualcosa di diverso. Andò nella sua stanza. La sentii chiedere cosa stesse succedendo con la sua voce ancora infantile, la sentii urlare quando vide il luccichio della lama nella stanza oscura.
Non potevo permettere che facesse del male anche lei, che anche lei fosse costretta a pagare per la colpa di qualcun altro. Mi alzai da letto e corsi in corridoio. La trovai che correva anche lei, verso di me. Mi si buttò addosso, urlandomi di aiutarla, urlandomi che papà era impazzito. Aveva un taglio sulla fronte, quella maledetta lama aveva già iniziato a ferire anche lei, come aveva ferito ogni abitante di quella dannata casa. Le dissi di restare lì, di aspettare, che avrei risolto tutto.
Potevo sopportare il dolore, il coltello che scavava la pelle, la carne, ma non che facesse male a lei. Come lei adorava il padre, io adoravo lei. La mia piccola luce.
Fu senza pensare che corsi fino alla sua cameretta. Lui era ancora lì, in ginocchio, a guardare come ipnotizzato in sangue che colava. Si volse nella mia direzione quando mi sentì entrare. Mi guardava ma non mi vedeva, continuava a ripetere il suo nome, il nome della mamma, come un mantra.
Avrebbe dovuto farmi pena. Nonostante tutto quello che mi aveva fatto, era comunque mio padre, un uomo distrutto dal dolore, un uomo che aveva sofferto. Ma non era così. Non ci riuscivo, per quanto mi sforzarsi. Non sentivo niente.
Ma in fondo erano anni che non sentivo più niente, se non l’amore per Eléna.
Aveva fatto cadere la lama. Stava piangendo. Improvvisamente, senza sapere come, mi ritrovai a incombere sulla sua figura rattrappita, il coltello ora stretto nella miamano.
Lo sentii affondare nella carne. Carne che per una volta non era la mia. E lo capii, per un attimo capii quell’uomo, che un tempo era stato mio padre. Guardai i suoi occhi sbarrati, vidi la vita che scivolava via, lentamente, insieme al sangue, e mi sentii vivo, per la prima volta dopo anni.
Poi vidi il sangue. E mi sentii male.
Da quando avevo visto mia madre immersa in una vasca di sangue, non riuscivo quasi più a sopportarne la vista. A meno che non fosse il mio.
Lasciai cadere la lama e mi girai verso la porta. Dovevo uscire di lì, prima di svenire. E togliermi di dosso quel liquido vermiglio che mi imbrattava i capelli, i vestiti. Vidi lei, sulla porta che mi guardava, vidi lo sguardo accusatorio nei suoi occhi, e la odiai per questo. Come si permetteva di giudicarmi? Dopo tutto quello che avevo fatto per lei.
Dopo che per lei ero diventato un assassino, realizzai in quel momento. Avevo ucciso un uomo. Mi ero macchiato di una colpa imperdonabile. E mi era piaciuto, mi aveva fatto sentire bene.
In cosa mi aveva trasformato l’uomo che giaceva a terra, nella moquette intrisa di sangue?
 
 
Immerso nei ricordi non ti sei reso conto che quel ballo è quasi giunto alla sua conclusione, che è il tuo momento di entrare in scena. Ti avvicini. L’ultima danza, quella della morte, sarebbe stato tua.
“Posso avere l’onore di questo ballo?”
Radiosa ti concede la mano, l’adrenalina in circolo le impedisce di sentire il veleno fare il suo effetto. Ballate il tempo di una canzone che pare eterna, prima che lei ti scivoli tra le braccia, prima di afferrarla e guardarla negli occhi mentre di spengono.
È terribile e bellissimo allo stesso tempo, come ogni volta.
 
 
Quando la polizia arrivò alla casa, chiamata da un vicino spaventato per le urla di mia sorella, né io né lei avevamo ancora pronunciato una sola parola. Lei appariva shockata da quello che era accaduto, e certo non potevo darle torto per questo.
Io invece stavo ancora assaporando la sensazione appena provata, e cercando una buona scusa per giustificare l’accaduto.
 
 
Una folla vi circonda, tutti preoccupati per la salute della tua principessa. Senti le grida, chi chiama un guaritore, chi semplicemente è preda del panico.
Ma tu non ti muovi, come ipnotizzato. Com’è bella, anche nella morte. Soprattutto nella morte. Ma nessuno si stupisce, nessuno può immaginare i tuoi pensieri, il baratro che senti nel petto, la profonda sofferenza ti causa un’insana euforia. Dal mondo perverso dove sei scivolato, percepisci una mano che si posa sulla tua spalla.
Il guaritore è arrivato, ma ormai è troppo tardi. È ovvio che è troppo tardi. Non respira, non c’è battito: è morta. La mano compassionevole che  dovrebbe darti conforto ti genera solo fastidio. Come si può rovinare con la pietà un momento tanto perfetto?
Ma continui a fingere. Reciti la tua parte fino in fondo. Anche se sai che non troveranno niente contro di te.
Il tuo piano è perfetto. Come tutti quelli che l’hanno preceduto.
 
 
Nessuno però osò mai accusarmi di quello che era accaduto. Nessuno voleva credere che fosse quella la realtà. Che fossi stato io ad ucciderlo. E mia sorella non parlò, non disse niente. Trovarono presto qualcun altro da arrestare.
Ma il sangue che mi era scivolato lungo le braccia aveva rotto un argine. Avevo odiato quell’uomo, ma capivo che questo non mi scusava. Che quella notte mi ero macchiato di un’azione dalla quale era impossibile tornare indietro.
I sensi di colpa arrivarono con il tempo. Sempre più spesso in sogno mi appariva il volto di mia madre a chiedermi cosa avessi fatto. Ed era completamente inutile ripeterle che non avevo scelta, che l’avevo fatto per salvare il mio angelo. Nei suoi occhi c’era un’accusa che mai c’era stata quando era in vita.
Mia madre non avrebbe mai avuto quello sguardo. Lei non mi avrebbe mai accusato di niente.
Ma quella non era lei. Quello ero io. La mia mente continuava a torturarmi con il ricordo. Continuava perché mi era piaciuto. Il potere di togliere una vita mi aveva entusiasmato. Ma sapevo che era sbagliato.
E così mia madre tornava ogni notte, su quel cavallo alato, bianco dalle ali piumate tanto splendenti da far male alla vista e io promettevo ogni notte a me stesso di reprimere gli istinti che sentivo, che avrei fatto in modo che lei fosse fiera di me.
 
E ci riuscii. Per cinque anni fui un ragazzo bello, perfetto, impeccabile. Avevo voti alti, lavoravo, ero sempre gentile con chiunque. Gli impulsi di morte non mi avevano affatto abbandonato e per quanto mi fossi sforzato di ignorarli erano sempre lì a tormentarmi. Solo, alla fine, avevo quasi imparato a conviverci. Avevamo stipulato una sorta di tregua. Mi lasciavano vivere la mia vita, in cambio di qualche piccola… soddisfazione. Questo, almeno, era ciò di cui ero convinto.
Ma di me tutti vedevano solo il giovane responsabile dal passato tragico che si prendeva cura della sorellina.
Tutti, tranne lei.
Lei sola aveva visto il ghigno che mi aveva deformato i lineamenti. La gioia selvaggia che mi aveva animato. E non aveva potuto dimenticarla. Adesso aveva paura di me. Non mi guardava quasi mai negli occhi, ma le poche volta che capitava erano diffidenti e disgustati. Non mi chiese mai spiegazioni, così come io non ne chiesi mai a lei.
Non fece mai parola. Almeno fino a quel giorno.
 
Da quando il sangue aveva, per la seconda volta, macchiato le nostre vite, Eléna era cambiata. Si era chiusa in se stessa e col passare degli anni tanto quanto io mi sforzavo di essere perfetto, lei cercava di non esserlo.
Frequentava compagnie decisamente discutibili, partecipava a risse, spariva per giorni senza avvertire, compieva atti di vandalismo. Più di una volta dovetti andare a riprenderla alla stazione di polizia con gli agenti che appresa la nostra situazione la guardavano compassionevoli, facendola infuriare.
I miei rimproveri non portavano risultati. Si divertiva a vedermi in ansia e a tenermi fuori dalla sua vita.
 
Eppure quella sera mi chiamò.
Il suo ultimo ragazzo, il classico tipo che un genitore non vorrebbe mai vedere varcare la soglia di casa mano nella mano con la figlia e di almeno sei anni più grande di lei, era diventato violento.
Mi aveva telefonata dal bagno di casa di lui, in lacrime. Tempo mezz’ora ed ero da lei.
Il pugno con il quale lo stesi mi distrusse la mano, ma furono le parole che mio angelo pronunciò quando le gridai di fare in fretta a distruggermi l’anima.
“Perché non lo uccidi? Come hai fatto con papà? Perché non poni fine alla sua vita nello stesso modo in cui hai posto fine alla mia?”
Mi immobilizzai, per pochi secondi che però sembrarono ore. Poi mi accorsi che il ragazzo steso non lo sarebbe rimasto ancora per molto. Afferrai il polso di mia sorella e la trascinai fuori con i vestiti a brandelli e il mascara colato lungo le guance.
 
Ricominciai a sognare. Il cavallo bianco che non avevo visto per tanti anni mi apparve diverso. Scheletrico. Stava morendo. Le sue ali avevano perso le piume, avevano perso lo splendore. E mia madre mi guardava rassegnata.
Avevo fallito. La mia perfetta maschera, i compromessi con la mia parte oscura non mi avevano salvato dal baratro. Al contrario mi ci avevano spinto, non avevano fatto altro che uccidermi dentro.
Una nuova figura si aggiunse ai miei incubi. Vidi un cavallo nero, senza ali, condotto da Eléna. Udii dalla sua bocca parole di sfida. Di rimprovero. Perché avevo represso i miei desideri, che senso aveva vivere nella menzogna?
 
 
Cammini per strada. Una strada diversa da quelle percorse nell’ultimo anno.
Nuova città, nuova vita, nuova identità. Sei pronto a iniziare una volta ancora il tuo gioco. Ciò che ti serve è solo un’altra vittima. Un’altra ragazza da far innamorare e poi addormentare per sempre. Un’altra ragazza da amare a tua volta.
Ti guardi intorno distrattamente. Speri che qualcuna colpisca la tua attenzione. Speri che qualcuna somigli a lei. Al tuo angelo.
 
 
Furono mesi di profonda confusione mentale e spirituale. Non me ne ero mai accorto, ma la battaglia tra ragione e impulso era continuata dentro di me e mi aveva corroso.
Non mi ero davvero reso conto che fosse l’oscurità la favorita per la vittoria.
A lungo la notte mi rigiravo nel letto. C’erano sempre i due cavalli e le due donne della mia vita. Quello bianco ogni giorno più vicino alla tomba, mentre quello nero acquistava vigore. Finché  spuntarono delle sottili ali membranose sulla sua schiena.
In quei mesi accarezzai più volte l’idea del suicidio, ma non era quella la soluzione, lo sentivo.
In quei mesi maturai la mia decisione. Quella che sarebbe stata la mia salvezza.
 
Per quindici anni mi ero sacrificato per mia sorella eppure non ero riuscito a proteggerla. Ero solo stato capace di rovinarle la vita. Il mio tentativo di salvarla, l’aveva solo fatta soffrire.
Non voleva più che soffrisse, ma la vita era quello: dolore. Un’unica possibilità di delineava nitida nella mia mente.
 
Fin da piccola lei aveva sempre amato i fiori, aveva sempre amato annusarli, e questa era la sola cosa di lei a non essere cambiata. Il mazzo che le comprai era enorme. La sua espressione quando lo vide fu meravigliosa. Lo stupore e la gioia per quel dono inaspettato si rincorrevano nei suoi occhi per una volta privi del solito disgusto di fronte a me.
Non sentii rimorso all’udire il suo flebile grazie, né quando li avvicinò al viso per annusarli. Né quando immaginai il veleno iniziare ad entrare in circolo, né quando leggera come un petalo si accasciò al suolo. Solo gioia per averle finalmente donato la salvezza e questa volta sul serio. E piacere per il potere che mi ero sentito scorrere in corpo.
Quella fu l’ultima volta in cui sognai i due cavalli. Quello bianco quasi morente e quello nero dalle al piumate di oscura luminosità.
Da quel giorno in poi non avrei più posto limiti alla mia fantasia. E avrei fatto del bene.
 
 
 
Eccola. La vedi con la coda dell’occhio. Ti giri ed è perfetta.
Lentamente ti avvicini. I capelli non sono esattamente del colore giusto, cioccolato al latte invece che cioccolato fondente. Le posi una mano sulla spalla e lei si volta. Anche gli occhi non sono esattamente quelli, azzurri invece che color acquamarina.
Ma non importa.
“Posso invitarla a bere qualcosa?”
No, non ha nessuna importanza.




Inutili note dell'autrice:
Questa storia risale ad un po' di tempo fa. Non l'ho postata prima perché è iscritta ad un contest.
Solo che la giudicia sembra sparita e non si fa sentire da quasi un mese. Quindi ho deciso di pubblicarla, prima che diventi troppo vecchia e io ne abbia più il coraggio.
Il contest consisteva nel far scontrare e poi incontrare le due anime, quella buone e quella cattiva, di qualcuno.
So che, o almeno da quello che mi ricordo della storia credo di poter dire che, sembra che a vincere sia l'anima cattiva.
E magari è anche vero.
Però in difesa del mio protagonista devo dire che, come praticamente tutti i miei personaggi, non ha un'idea di moralità.
è un personaggio amorale.
Lo diventa almeno. Il suo mondo non si divide più in giusto e sbagliato.
Lui è felice. Lo scontro dentro di lui è cessato. Il dover continuare ad uccidere non lo turba.
è terribile, lo so. Ma lui è voluto venir fuori così.
Spero non sia troppo tremenda.
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