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Autore: JCrue    03/11/2011    1 recensioni
-Mamma, stai urlando?!- se lo fai io non ti sento. Se lo fai io non ti vedo. Non mi hai disegnato ne occhi ne orecchie, mi hai voluta così. Torturata, diversa, volevi che non apprendessi nulla sul mondo? Ci sei riuscita. Non accadrà.-
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Mama Schreist Du?
L’acqua scorreva a spruzzo sulla mia pelle, la potevo solo toccare era così umida, sapeva di umido. Sembrava quasi di essere in una palude. Assurdo, chi mai farebbe la doccia in una palude? Non ci sono mai stata ne ci starò mai credo. Non mi hanno insegnato nulla, nessuno ha voluto o nessuno ne è stato in grado. Questo non lo so. Io non so nemmeno cosa significhi sapere. Del mondo so solo di che materiale è fatto e che odore ha. Non posso sentire, non posso vedere. Sento che gli occhi bruciano, ho le palpebre aperte ma tutto è come una distesa nera. Come avere sempre gli occhi chiusi, come dormire.  Annusai ancora l’aria umida, sento che il vapore scaldava la mia pelle, l’acqua continuava a scendere spruzzando qua e là. Forse mi stavano chiamando? Non lo sapevo. È da un po’ che ero lì, forse dovevo uscire. Aprii delicatamente la porta della cabina doccia e tastai il legno freddo della porta fino a toccare qualcosa di decisamente più soffice che ricordava un accappatoio. Lo presi portandomelo al naso. Profumava di lavanda. Era un profumo fitto e deciso che mi penetrava le narici fino a vibrare nelle orecchie. Me lo misi addosso uscendo definitivamente dalla doccia. Sfregai un po’ sulla mia pelle, sentivo essa bruciare a contatto con il tessuto, una piacevole sensazione di prurito immediatamente soddisfatto pervase il mio corpo. Mi tamponai i capelli deducendo che fossero ancora bagnati, forse erano lunghi o forse no? Sentivo sempre qualcosa che mi pungeva le spalle, sicuramente dovevano essere dei bellissimi riccioli perché non erano semplici al tatto, facevano tanti ghirigori stranissimi ma proprio belli, sai? Mi rivesto con calma, toccando leggera tutti i vestiti onde evitare di sbagliare ad indossarli, non potrei mai, le persone mi guarderebbero male, anche se io non potrei accorgermene, nemmeno se mi insultassero o se semplicemente ridessero. Non posso vederli, non posso sentirli. Qualcosa scendeva dalla mia guancia, era calda, proveniva dal mio occhio quale dei due? Non lo so, non lo posso sapere, ci misi un dito ma mi feci male. Forse avevo premuto troppo? Era una lacrima, la portai con il dito alle labbra. Il sale della lacrima frizzò sulla mia pelle screpolata. Com’era saporita. Come il mio stesso dolore. Non so niente del mondo e mai lo saprò, non ho idea di come siano fatte le persone e mai lo saprò, posso urlare o sussurrare senza accorgermene, chissà che suono ha la mia voce. Gli uomini sono tutti dei disegni, la persona che li ha disegnati gli ha fatto un naso, due occhi, una bocca e poi gli ha disegnato la voce e l’udito. Ma la persona che ha disegnato me non aveva più voglia di finire il suo lavoro, così mi ha disegnato la voce, ma non l’udito e gli occhi. È stata la mia mamma a non volere disegnare queste cose, forse ha pensato che fosse meglio così. Ma lei non sa che significa urlare e non percepire il suono della propria voce, chiedersi se si sta urlando o semplicemente sussurrando, lei non sa che significa avere una maschera nera sugli occhi fissa. Ho provato molte volte a strapparmela via anche con un coltello, ma sentivo dolore e poi usciva una strana sostanza che odorava di ferro, aveva uno strano sapore, come se mangiassi delle viti, le stacchi dai tavoli e le mangi. Chissà magari sono pure buone. Perché lei non doveva pagare? Dovevo punirla di non avermi disegnata per bene. Chissà se ora godeva che lei al posto mio vedeva e sentiva e io no. Camminavo tremando, ero coperta solo dall’intimo, accostata alla parete, era fredda e i grumi di cemento mi graffiavano le braccia e le spalle, il corridoio era piuttosto lungo. Quando non sentii più il muro di fianco a me capii che ero arrivata nella stanza grande e non avevo più appoggi se non lo spigoloso tavolino di cristallo e nient’altro. Così mi misi a gattonare. I palmi delle mie mani poggiavano sul pavimento freddo, sentivo l’odore della polvere salirmi al naso fastidiosamente. Gattonai strusciando anche i ginocchi che a metà percorso cocciarono contro qualcosa. Percorsi con le dita l’ostacolo e trattandosi di un candelabro decisi di spostarlo. Accarezzai con la punta delle dita la candela che vi era poggiata, era accesa, lo percepivo dal calore che emanava, la cera sciolta aveva un buon profumo. Chissà perché gli uomini le accendevano. Forse facevano luce. Se facevano luce allora potevo fare luce anche sui miei occhi e avrei finalmente potuto vedere. Presi la candela a due mani e annusandone ancora la cera me la portai vicina agli occhi. Il calore stuzzicava la mia pelle era un po’ fastidioso in effetti, però mi piaceva, la avvicinai ancora di più fin quando non sentii un acuto bruciore. Stavo accendendo i miei occhi? Perché faceva male? Spinsi di più la candela sulla mia pelle ma la situazione peggiorò. Questa volta fece davvero male tanto che buttai via la candela lontano. Sentii le corde vocali stridere e vibrare nella mia gola. Avevo urlato ma come sempre non avevo udito la mia voce, forse era uscita, forse no, magari non sapevo nemmeno parlare o emettere suoni, non potevo saperlo. Sentivo ancora quell’acqua scendere dai miei occhi, provai a toglierla con le dita ma sentii un fitto e acuto dolore sopra le palpebre. Urlai ancora. Sbattei le mani a terra convulsamente, faceva tanto male. Una mano si posò sulla mia testa e violentemente mi trascinò in piedi per un braccio. Lei era lì. Mi trascinò in cucina e percepivo che era agitata dai movimenti veloci che compiva. Magari stava anche imprecando dell’ennesimo problema che le stavo dando. Poco dopo sentii qualcosa di gelido posarsi delicatamente sulle mie palpebre. Fu davvero un sollievo, sentivo la pelle rilassarsi sotto quel contatto. Trascorse poco tempo e non percepii più nessun calore umano, lei si era spostata probabilmente, poi una mano mi colpì su un braccio, sentivo la pelle bruciare forte. Mi aveva colpita di nuovo. Che avevo fatto di male? Stavo solo provando ad accendere la luce nei miei occhi, forse lei non capiva che non vedere è come una tortura. Forse non ci arrivava, ecco perché mi aveva disegnata senza occhi. Ero fuori di me dalla rabbia. Tutto questo dolore era solo causa sua. Sentivo ancora quel liquido scorrermi dagli occhi, bruciava forte, il sale sul sangue che colava dalle mie ferite. Buttai a terra lo straccio gelido che avevo sulle palpebre. A tentoni aggrappata ai fornelli mi avvicinai ad un ceppo in legno. Percepivo l’odore del faggio inebriarmi la mente. Ricordava spazi ampi immersi nella natura. Chissà com’erano gli alberi di faggio fuori da quella prigione. Non li avrei mai visti, avevo provato ad illuminarmi gli occhi ma nemmeno questo tentativo aveva funzionato. Ed era tutta colpa sua. Feci scorrere le dita sul legno del ceppo fino a trovare qualcosa di duro e abbastanza sottile. Era infilato in una fessura del ceppo, capii subito cos’era. Era un coltello. Lei era seduta forse. Magari stava leggendo o cucendo qualcosa, era distante, non percepivo nessun movimento accanto a me. Mossi un passo in avanti afferrando silenziosamente il coltello dal ceppo. Le accarezzai la schiena per capire in che posizione fosse seduta. Con una mano passai avanti fino a sfiorare il bordo del tavolo. La mia mano vagò ancora un po’ finchè non sentii del tessuto morbido sotto le mie dita. Stava cucendo, credo. Non lo potevo sapere. Portai l’altro braccio vicino al mio busto. Il coltello non pesava molto. Accarezzai la lama con le dita, e poi l’annusai. Sapeva di metallo ed ero sicura che tagliasse bene. Era colpa sua, mi aveva disegnata male, voleva rendermi diversa, voleva torturarmi. Passai il coltello all’altezza delle mie gambe credo. Poi a tentoni cercai la sua schiena con la mano. Non fu difficile ero abbastanza vicina.  Capii di aver fatto centro quando sentii il coltello diventare più duro. Allora spinsi con tutta la forza che avevo in corpo. Percepivo l’arma entrare in una parete molle e rimanere incastrato al suo interno. Mi avvicinai ancora alla sua schiena. Aveva abbassato il capo, ora pendeva verso il tavolo, i capelli scompigliati ricadevano scomposti e umidi sulle spalle. Umidi. Di cosa erano umidi? Posai la mano intorno alla schiena. Trovai il punto esatto dove il coltello era entrato, era tutto così umido. Ecco cos’era. Sangue. Che impregnava la lana spessa del suo golf. Sentivo ancora lo spessore del tessuto, i pelucchi della lana umidi. Più in basso tanto più liquido, lo presi e lo annusai, sì era sangue, sapeva di ferro. Era denso si divideva da un dito all’altro formando dei filamenti. Sospirai. Poi rimasi ferma per pochi istanti. Non percepivo nessun movimento.
-Mamma, stai urlando?!-
-Mamma, stai urlando?!- se lo fai io non ti sento. Se lo fai io non ti vedo. Non mi hai disegnato ne occhi ne orecchie, mi hai voluta così. Torturata, diversa, volevi che non apprendessi nulla sul mondo? Ci sei riuscita. Non accadrà.
-Mamma, stai urlando?!- toccai il mio viso con le dita umide, scesi dagli occhi che ancora bruciavano fino alle labbra, erano secche, tagliate, curvate all’insù. Sentivo la saliva agli angoli della bocca, sentivo persino l’interno guancia. Sorridevo. Quello potevo farlo. Quello sì. Forse l’unica cosa? Si può sorridere anche senza occhi,senza udito e senza voce.
-Mamma, stai ancora urlando?!-
 
  
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