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Autore: miseichan    05/11/2011    4 recensioni
“Brindiamo”
“A cosa?”
“Brindiamo alla nostra prossima dipartita”
Genere: Comico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Brindiamo

 

“Brindiamo”

“A cosa?”

“Brindiamo alla nostra prossima dipartita

 

Ascolta i cani che abbaiano al rumore della chiave
Come un inno chiamato Fede e Miseria

 

Il campanello.

Davide non sentiva quasi mai quel suono: impiegò diversi minuti per capire che sì, era davvero il suo campanello e che, purtroppo, avrebbe dovuto alzarsi per andare ad aprire.

Aprire a chi, poi? Chi diavolo bussava alla porta di qualcuno alle - controllò l’ora, seccato – undici e mezza di notte? Quella notte. Non una qualsiasi. Quella.

Davide sospirò, rigirandosi fra le mani la tazza di caffè ormai vuota. Si alzò senza fretta dalla sedia, distogliendo di mala voglia lo sguardo dallo schermo luminoso. Dannato campanello.

A piedi scalzi camminò fino alla porta: il suono non aveva mai smesso, imperterrito, come se il notturno disturbatore non avesse mai staccato il dito dal pulsante. Davide serrò i denti, decisosi: preferiva di gran lunga quando non sapeva neanche quale fosse il suono del suo campanello.

Quando con un occhio guardò dallo spioncino, non sapeva proprio cosa aspettarsi. Non ne aveva la più pallida idea. Eppure, poteva giurarlo, a tutto avrebbe creduto tranne che a quello che vide.

“Lorenzo?” balbettò, incredulo.

Il ragazzo fuori dalla porta doveva avere decisamente un udito a dir poco perfetto perché, mentre Davide ancora sillabava il suo nome, tolse finalmente il dito dal bottoncino rosso e annuì, serio:

“Mi fai entrare o no, Serino?”

Davide arretrò di un passo istintivamente, stringendo gli occhi. Osservò la porta, percorrendola con lo sguardo più volte, come per saggiarne lo spessore; oppure, piuttosto, per tentare di indovinare quanto sarebbe stato rischioso aprirla. Dopo una manciata di secondi dovette decidere che sarebbe stato peggio lasciarla chiusa, perché con un salto felino strinse il pomello fra le dita e spalancò la porta. Un tuono, lontano, accompagnò il suo gesto.

“Era ora” grugnì l’ospite, superandolo ed entrando in casa senza ulteriori indugi. Tipico di Lorenzo.

“Che ci fai qui?”

“E’ questo il modo di rivolgersi ad un compagno di sventure?”

Davide inarcò un sopracciglio, appoggiandosi con la schiena al muro come se temesse che le gambe non lo avrebbero retto ancora a lungo. Squadrò il ragazzo e sospirò: doveva anche rispondergli?

Lorenzo sembrò intuire i suoi pensieri, un sorrisetto che gli incurvava le labbra, ironico:

“Non andiamo subito al punto, ti prego”

“E quale sarebbe questo punto?”

“A tempo debito” rispose Lorenzo, lanciando un’occhiata in giro per la stanza “Che stavi facendo?”

Davide non rispose, limitandosi ad accennare con il capo al portatile sul tavolo: l’altro annuì piano, avvicinandosi al computer e piegandosi in avanti per leggere cosa vi fosse scritto sullo schermo:

 

La prima prova scritta inizierà alle ore 08.30 di martedì 22 giugno 2011

 

Il sorriso era scomparso dalle esili labbra di Lorenzo che, scuotendo il capo, borbottò contrariato:

Sette giorni è meno inquietante di questo

Davide non si mosse, non asserì, quasi non respirò: osservava il ragazzo che aveva di fronte e si chiedeva quando era stata l’ultima volta che ci aveva parlato. Settimane? Forse mesi prima.

Lorenzo Salvatore. Biondo, alto, occhi grigi. A quanto si diceva, incredibilmente simile ad un certo Alex Pettyfer. Certo, Davide non aveva idea di chi fosse questo tale Pettyfer: immaginava però che dovesse essere discretamente carino… al diavolo, doveva essere un vero schianto se avevano avuto l’ardire di paragonarlo a Lorenzo Salvatore. Esatto: non era il Salvatore ad essere una pallida copia del non-conosciuto-Pettyfer, bensì assolutamente e irrevocabilmente il contrario.

Perché Lorenzo Salvatore era un angelo. O quantomeno, era bello quanto un angelo.

Davide era etero. Lo era sempre stato e non provava un particolare desiderio di cambiamento. Sul Salvatore, tuttavia, chiunque ci avrebbe fatto un pensierino. E sì, Davide ci aveva ragionato, con lui c’erano ottime possibilità che ci sarebbe stato. Anche da etero convinto quale era.

Come se non bastasse la bellezza esteriore, poi, c’era il corpo: talmente simile a quello del David di Michelangelo che veniva da chiedersi se lo scultore italiano non avesse preso lui a modello.

E come se non bastassero la bellezza, il corpo, gli occhi – così pieni di sfumature da lasciare senza fiato – e chi più ne ha più ne metta… c’era anche il carattere. Quel dannatissimo modo di fare che aveva: non una volta che fosse prevedibile. Sapeva essere docile e bastardo al tempo stesso: se a qualcuno riservava sorrisi e parole dolci, c’era qualche povero cane che, sicuramente, di lì a poco avrebbe passato le ire dell’inferno. Non era facile trovare una spiegazione plausibile.

Semplicemente, cambiava. Così. Da un momento all’altro.

Ride, urla. Sorride, ringhia. Accarezza, colpisce. Il modo di fare di Lorenzo Salvatore. 

A sentirlo così, verrebbe da pensare che sia impossibile da sopportare; e invece no. Per qualche ragione non ancora chiarificata, era un carattere ipnotizzante. Quel po’ di gentilezza e strafottenza che si fondevano e mescolavano nel modo più opportuno. In due parole? Lorenzo Salvatore.

“Che ci fai qui, Lorenzo?” chiese ancora Davide, massaggiandosi le tempie.

Ora ricordava l’ultima volta che avevano parlato: due mesi prima, all’ultima ora, arte. Stavano per uscire dall’aula quando, inciampando, Lorenzo gli era finito addosso. Si era scusato subito, senza neanche guardarlo in faccia. Poi aveva alzato gli occhi, fissandolo con sguardo vuoto. Lo guardava.

Sì, come se non lo avesse mai visto prima. E probabilmente era così. Lo aveva studiato, arrivando infine alla sua conclusione: non lo conosceva. Cinque anni di liceo insieme e non lo conosceva… Lorenzo aveva stretto le labbra e gli aveva detto che gli intrusi non erano mai graditi: poteva anche tornarsene nella sua classe. Davide non ebbe la forza di rispondere.

Come poteva dirgli che c’era già?

“Che ci fai qui?” soffiò Davide, palesemente innervosito “Per l’ultima volta, Lorenzo

“Ho deciso” disse il biondo, sorridendo “Dobbiamo brindare

“Cosa?”

“Brindiamo”

“A cosa?”

“Brindiamo alla nostra prossima dipartita

Davide lo trafisse con lo sguardo, come per accertarsi che non avesse appena perso il senno.

“Stai scherzando?”

“Ascoltami, Serino” sospirò Lorenzo, passandosi una mano fra i riccioli biondi.

“Mi chiamo Davide”

“Davvero?” si sorprese l’altro, stringendosi nelle spalle “Bene. Davide. Ascoltami, Davide”

“Non mi sembra di avere altra scelta”

“Infatti” sorrise Lorenzo “Ecco…”

“A parole tue” ringhiò Davide, esasperato, il sarcasmo nella voce.

“Siamo rimasti in dieci. Ho deciso che dobbiamo brindare”

Il sopracciglio del padrone di casa si avvicinò pericolosamente all’attaccatura dei capelli, esaustivo.

“So che in questi anni non siamo stati esattamente la classe ideale” cominciò Lorenzo, strusciando il piede sul parquet “Non siamo mai stati uniti o solidali. Non ci siamo mai parlati. Non ci siamo mai aiutai, non siamo mai usciti assieme. Non abbiamo mai fatto un beneamato…”

Il biondino si interruppe, l’espressione corrucciata, come se avesse perso il filo. Poi annuì e riprese:

“A stento ci conosciamo di vista, per i nomi neanche a parlarne. Eravamo in 26, lo ricordi Davide?”

Certo che lo ricordava: il primo anno erano in 26. Il secondo anno cinque ragazzi avevano deciso di cambiare istituto. Il terzo anno tre erano stati bocciati. Il quarto anno in sei avevano optato per cambiare classe. Il quinto anno erano rimasti in dodici. Dodici su 26. E di quei dodici, altri due non erano stati ammessi all’esame. Risultato? In dieci. In dieci, su 26 iniziali, erano arrivati alla fine.

“Siamo rimasti in dieci, Davide” fece Lorenzo “Potrei anche farcela con i nomi, lo sai?”

“Perché mai dovresti?!” scoppiò il ragazzo, staccandosi dal muro “Perché adesso? Perché dopo cinque fottutissimi anni in cui ognuno si è fatto i maledettissimi affari propri? Perché cambiare le cose? Ce ne siamo sempre fregati. Di tutto e di tutti. E’ andata bene? No. E’ andata da schifo. Ma è inutile, controproduttivo e via dicendo cambiare adesso, okay?

“Non sono d’accordo”

Semplice, conciso. Irremovibile. E la frustrazione di Davide evaporò in pochi secondi.

“Dobbiamo brindare, Davide” ghignò Lorenzo “E’ la notte prima degli esami

Ascolta il rumore della pioggia che scende
Che viene giù come la fiamma di Armageddon

 

“Dici che pioverà?”

Lorenzo si strinse nelle spalle, tenendo la porta aperta con un piede. Un lampo attraversò il cielo e di lì a poco un tuono portentoso sembrò far tremare la terra. Davide rabbrividì. Si chiedeva se fosse normale che scoppiasse un temporale in giugno inoltrato; forse era un segno: un presagio che era ben lontano dall’essere roseo e tranquillizzante. Avrebbe dovuto intuirlo, si disse il ragazzo.

Avrebbe dovuto capirlo quando aveva visto Lorenzo fuori dalla porta.

“Quindi vuoi brindare” non era stata un’affermazione ma nemmeno una domanda. Era una frase priva di alcuna intonazione. Lasciava carta bianca al suo biondo compagno.

“Esattamente”

“Dove, se posso chiedere?”

“Fuori la scuola”

Davide annuì, riscontrando a fatica un minimo di senso nelle parole che sentiva.

“Come ti sei organizzato con gli altri?”

“I due Iossa e Burla li incontriamo direttamente lì

“E gli altri?”

Lorenzo distolse lo sguardo, in imbarazzo: “Bè… ricordi la questione dei numeri?”

“Non sei neanche riuscito a trovarli su facebook?” si stupì Davide, incredulo.

“Non è colpa mia se i prof. fanno l’appello quando io sto ancora dormendo. Senza il caffè non riesco a carburare e loro sembrano non capirlo: eppure hanno avuto cinque anni per…

“Dobbiamo andare a chiamarli?” lo interruppe Davide, seccato. 

“Neanche tu hai i numeri?” ghignò il biondo, caustico.

“No” soffiò Davide “Io, però, so dove abitano

Lorenzo scosse la testa: “Non è che il tutto abbia un suo senso, eh?”

“Me ne torno dentro”

“No, no, no” lo trattenne Lorenzo “Stavo scherzando, dai, andiamo. C’è Rebecca in macchina”

A quelle parole Davide sobbalzò, portando veloce lo sguardo verso la strada: un’auto grigia, ferma alla destra del cancelletto, sembrava star aspettando proprio loro.

“Rebecca?” chiese, la gola secca “Perché non l’hai fatta entrare?”

“Non è esattamente entusiasta della mia idea” mormorò Lorenzo “Così l’ho lasciata a fumare

Si chiusero la porta alle spalle, avviandosi verso la macchina, silenziosi. Lorenzo si sedette davanti, Davide, il fiato corto, prese posto dietro. Le lucine di sicurezza non si erano accese, perciò l’unica illuminazione proveniva dal lampione mal funzionante che era in fondo alla strada buia.

Eppure, anche in quel fioco chiarore, Davide non riusciva a distogliere lo sguardo da Rebecca.

Aveva detto di essere etero. E aveva affermato che con Lorenzo ci sarebbe stato comunque. Etero.

Era etero, Davide. Quindi, come poteva mai controllarsi in presenza della sorella del Lorenzo che lo avrebbe portato a rinnegare momentaneamente la sua eterosessualità? Come? Non poteva. Etero.

Era etero. Era etero e Rebecca, la sorella di Lorenzo, era la sua dannatissima copia al femminile.

Rebecca Salvatore. Un anno in meno di quell’angelo di suo fratello: aveva cominciato la scuola in anticipo, per questo ora si trovavano nella stessa classe. E come si faceva a descriverla?

Era Lorenzo. Solo con i capelli biondi e lunghi che le arrivavano ai fianchi. E le labbra che erano due petali di rosa. E la pelle chiara, incredibilmente affascinante. Come solo lei poteva esserlo.

E fumava. Una delle poche differenze tra i due Salvatore. Forse l’unica.

Per quanto riguardava il sarcasmo, i sorrisi, la bellezza eterea, niente li distingueva. Lei parlava di meno, volendo proprio cercare il pelo nell’uovo. Quando lo faceva, però…

“Cosa? Avete consumato un bell’amplesso lì dentro, in tutto questo tempo, Enzo?

“Ti avevo detto che mi serviva il tempo per convincerlo

Lei sorrise, glaciale, accorgendosi prima del fratello della sfortunata scelta di parole che il ragazzo aveva fatto. Gliel’aveva servita su un piatto di argento.

“Volevo ben dire” ghignò lei, mostrando i denti bianchissimi “Ero sicura che tu non durassi tanto

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Non risponde nessuno”

“Sicuro che abitino qui?” chiese Lorenzo, osservando scettico la casa immersa in completo silenzio.

“Sì.”

“E se ti fossi sbagliato?”

“No.”

Lorenzo bussò ancora una volta, caparbio, senza ottenere alcun risultato.

“Secondo me ti sei sbagliato”

Rebecca sospirò, alzando drammaticamente gli occhi al cielo mentre, allontanandosi dall’auto, li raggiungeva con passi misurati. Spense la sigaretta sul brecciolino, quindi si avvicinò alla porta. Vi poggiò l’orecchio contro, socchiudendo gli occhi: dopo pochi secondi strinse il pomello fra le dita e spinse. La porta si aprì docilmente, lasciandoli liberi di osservare l’interno della casa.

“Idioti” sussurrò la ragazza, le labbra appena incurvate in un sorriso. Senza più degnarli nemmeno di uno sguardo entrò, guardandosi attorno circospetta: si trovavano nell’atrio, semi immerso nel buio più totale. Un’enorme scalinata proseguiva verso l’alto, apparentemente senza fine.

Quanti diavolo di piani ha, questa casa?” mugugnò Davide, il capo reclinato all’indietro, sorpreso.

“Sicuramente non a…”

Quale fosse la risposta sarcastica che Rebecca stava per dargli, Davide non le seppe mai: le parole della ragazza furono interrotte da un urlo disperato, terrorizzato. Potente, risuonò fino a loro.

Si scambiarono un’occhiata veloce, poi, come di comune accordo, cominciarono a salire.

Facevano gli scalini due a due, l’eco dell’urlo che ancora aleggiava nell’aria. Stavano per superare la quarta rampa quando il grido si fece risentire, questa volta decisamente più vicino. Ecco.

Si fermarono, individuando una luce che proveniva dal fondo del corridoio: la porta della quarta stanza era aperta; si avvicinarono piano, a passi felpati, il cuore in gola. Erano quasi arrivati, che un nuovo ululato li colpì, acuto, prolungato. Si affacciarono oltre l’uscio in tempo per vedere il palmo di Ugo abbattersi ad altissima velocità sulla guancia di Massimiliano. L’ululato si affievolì.

“Hai finito?” chiese, funereo, il ragazzo in piedi.

Quello che stava seduto fece per annuire, gli occhi umidi, la guancia imporporata. Non riuscì a concludere il gesto, però, che un nuovo lamento gli uscì dalle labbra, irrefrenabile. La mano che  prima lo aveva colpito non si era ancora abbassata: riprese la carica, questa volta dall’altro lato, per affibbiargli un portentoso manrovescio in pieno viso. E il lamento si spense.

“Finito?”

Il ragazzo seduto questa volta annuì con decisione, convinto. Guardò l’altro, le labbra dischiuse e…

“Grazie” … sì, era gratitudine quella che gli faceva brillare gli occhi. Gratitudine per Ugo.

“Grazie” ripeté Massimiliano.

“Dovere” rispose Ugo, stringendosi nelle spalle, il ritratto della calma e della serenità.

Rebecca, ferma sull’uscio fra Davide e Lorenzo, sentito l’ultimo scambio di battute fra i due gemelli fece per fare dietrofront, allibita. Le mani dei suoi accompagnatori la bloccarono, pronte.

“Ehm” si schiarì la voce Davide “Disturbiamo, ragazzi?”

I gemelli Pavesi si voltarono in contemporanea, colti del tutto di sorpresa da quella voce inattesa.

“Davide?” esclamò Massimiliano, gli occhi sgranati, fissandolo come se si aspettasse di vederlo sparire da un momento all’altro “E i Salvatore?!” aggiunse poi, ancor più sconvolto.

“State bene?” chiese Rebecca, ignorando la sua espressione basita. Non era chiaro se la domanda fosse riferita alla salute fisica o mentale. Conoscendola, probabilmente alla seconda.

“Noi?” balbettò Ugo, carezzandosi il mento “Certo

I due gemelli si scambiarono un’occhiata, incerti. Davide li squadrò, scuotendo lievemente il capo: i gemelli Pavesi. Ugo e Massimiliano. I nomi erano come loro: antitetici. Ugo era alto, muscoloso: i capelli cortissimi e i tratti duri, quasi severi. Incuteva timore. Sempre serio, di poche parole; molto, molto saggio per essere uno che aveva appena superato l’esame per la patente. Ugo era un mastino giudizioso: l’esatto opposto di Massimiliano. Il gemello era esile e dinoccolato: i capelli lunghi che portava sempre legati con un elastico e i tratti gentili, quasi femminei. Non avrebbe fatto paura ad una mosca. Sempre allegro, ciarliero e spensierato: sembrava non stare mai con i piedi per terra.

Erano diversi in tutto e per tutto, i due fratelli, eppure erano gemelli.

Complementari nella loro incompatibilità. 

“Lo stavi prendendo a schiaffi” ribatté Lorenzo, indicando le guance di Massimiliano.

“Lo so” annuì Ugo “Si stava facendo venire una crisi isterica, la femminuccia

“Domani abbiamo gli scritti!” guaì Massimiliano, scuotendo il capo affranto. Ugo lo fulminò con gli occhi, implacabile: “Non ricominciare” sibilò, perentorio.

“E poi mi chiedono perché non interagisco con i miei coetanei” sospirò Rebecca, accendendosi una nuova sigaretta “Vi aspetto giù, non metteteci troppo o vi lascio a piedi

Quattro paia di occhi contemplarono il punto in cui poco prima era lei, come per accertarsi che era davvero stata lì. Fissavano ancora il vuoto, quando la voce divertita di Massimiliano li distrasse:

“Allora, è morto qualcuno?”

“No” risposero assieme Davide e Lorenzo, girandosi verso di lui, meravigliati.

“Sta per finire il mondo?” chiese di nuovo, elettrizzato.

“Quello è nel 2012” brontolò Ugo, accorciandosi le maniche della camicia bianca.

“Un meteorite, allora?” provò ancora Massimiliano, prima che un lampo di terrore gli attraversasse gli occhi “O è qualcosa che ha a che fare con gli esami?!

Davide intuì che se il ragazzo avesse continuato su quella strada, di lì a poco si sarebbe beccato una nuova sberla, perciò si affrettò a spiegare:

“Abbiamo deciso che…”

“Dobbiamo brindare” lo interruppe Lorenzo, a quanto pareva affezionato a quell’affermazione.

“Ah, sì?”

“E’ pur sempre la notte prima degli esami, ragazzi

Il rumore dello schiaffo, pochi secondi dopo, riuscì a sentirlo anche Rebecca.

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Perché non sono venuti con noi?”

“Ci vediamo direttamente fuori scuola”

“E come, di grazia?” sibilò Rebecca, lamentosa. Lorenzo sospirò, alzando gli occhi al cielo:

“Hanno la macchina” rispose, secco “Ugo ha preso la patente, non lo sapevi?”

La sorella lo fulminò, stringendo i denti, un’espressione di sfida a colorarle il volto.

“Me lo ha detto Serino”

“Davide” mugugnò Davide, da dietro “Mi chiamo Davide

“Si può sapere perché te la prendi tanto?” domandò Lorenzo, un sopracciglio inarcato.

“Perché è il mio nome!”

“Perché non sopporto la Fazioli!”

Le voci dei due si confusero, fondendosi assieme.

“Oh, parlavi con lei” fece Davide, ridacchiando imbarazzato.

“E’ una piaga, quella ragazza”

“E i gemelli Pavesi in che modo, di grazia, avrebbero cambiato la situazione?”

“Stai attento, Enzo” mugugnò Rebecca “Ci manca tanto così dal convincermi a evirarti

L’auto si fermò di colpo davanti all’ultima villetta gialla della strada: i due ragazzi scesero veloci, non provando nemmeno a chiedere alla furia bionda di accompagnarli. Lorenzo scrollò le spalle, come per liberarsi di uno strato di nervosismo, quindi premette il dito sul campanello.

Per quanto assurdo, la porta si aprì subito, lasciandoli sbigottiti. Un uomo calvo li osservò da dietro le lenti spesse quanto due fondi di bottiglia, sospettoso: “Chi siete? Che volete?”

Davide deglutì, atteggiando un’espressione innocente: “C’è Martina? Siamo suoi compagni di…”

“Entrate” brontolò l’uomo, scortandoli fino ad un piccolo salotto: al centro della stanza regnava un grande tavolo in legno, stracolmo di libri. Una ragazza sedeva, la testa fra le mani, apparentemente sfinita: la parlantina snervante e pretenziosa che di solito la contraddistingueva, assente.

“Martina, li conosci?”

Lei sollevò lo sguardo, svogliata: “Voi?” domandò, reprimendo un moto di incredulità e forzando un’espressione indifferente. Un boccolo scuro le scivolò sul viso, coprendole un occhio.

“Noi…” mormorò Davide, assestando una gomitata a Lorenzo prima che potesse pronunciare la sua solita battuta “Possiamo parlarti un attimo?”

Martina lo fissò, corrucciata, annuendo impercettibilmente. Si alzò, avvicinandosi ai ragazzi.

“Non metterci troppo” disse l’uomo, guardandola con impazienza mentre si allontanava.

“Certo, papà”

La seguirono, fermandosi poco dopo nel corridoio: Martina sistemò i pugni chiusi sui fianchi e li squadrò, diffidente; gli occhi che, silenziosi, chiedevano spiegazioni:

“Dobbiamo brindare”

Lorenzo non era riuscito a trattenersi oltre, per niente scalfito dal sospiro che scappò a Davide.

“Siete dei bambini” scosse il capo lei, come se non avesse bisogno di altre spiegazioni.

“E tu sei una secchiona” borbottò Lorenzo, confermando le parole della ragazza. Davide alzò gli occhi al cielo, intervenendo prima che il biondo si esibisse anche in una linguaccia:

“Non sei stanca di studiare, Martina?”

“E’ quella notte” sussurrò Lorenzo, apparentemente di nuovo padrone di sé.

Lei non rispose, guardando oltre di loro: un’occhiata al ripiano pieno di libri, uno sguardo al padre, seduto con un manuale di chimica sulle ginocchia e un ultimo, irrefrenabile, sospiro.

“Andiamo”

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Perché non posso guidare?”

Lorenzo guardò con la coda dell’occhio la sorella, seduta al posto del passeggero. Imbestialita.

“Enzo” sibilò lei “Rispondimi o ti do un calcio fra le gambe così forte che…

“Li hai scaricati” sillabò lui, guardandola con occhi increduli.

“No.”

“Becca” ridacchiò il ragazzo “Hai frenato fuori casa dei Pavesi e gli hai detto di scendere

“Non esattamente”

“Hai ragione” convenne il ragazzo “Glielo hai ordinato

Rebecca sospirò, esasperata: “Scusa, eh, ma a loro cosa cambiava? O con noi o con i gemelli…”

Lorenzo non l’ascoltava, guardava nello specchietto retrovisore i due posti vuoti, prima occupati da Davide e Martina. Sorrise, segretamente divertito.

“Tu stai ridendo” sussurrò improvvisamente la sorella, incredula “Tu ti sei divertito!” lo accusò, se possibile ancora più arrabbiata di prima.

“E se anche fosse?”

“Perché non posso guidare?”

“Mi sembri un tantino troppo nervosa per guidare

Rebecca grugnì, assestando un calcio sul cruscotto: “Cretino” borbottò, frugando nella borsetta e prendendo un’altra sigaretta. L’accese, aspirando con furia.

“Quante te ne rimangono?”

Lei non rispose, richiudendo il pacchetto; Lorenzo però aveva fatto in tempo a guardare:

“Una” ridacchiò “Non credo durerai fino a domani

Rebecca continuò ad ignorarlo, le labbra serrate: l’avrebbe conservata. Sì, avrebbe fatto così. Fino al momento più opportuno. Ce l’avrebbe fatta.

“Vieni?” chiese Lorenzo, fermando l’auto fuori una casetta di periferia.

“Qui chi ci abita?” ribatté Rebecca, inarcando un sopracciglio.

“Sara Del Giudice”

“E chi è?” domandò la ragazza, genuinamente curiosa.

Lorenzo non rispose, facendole segno di seguirlo. Non rispose per non darle la soddisfazione di vedere che neanche lui, sinceramente, lo sapeva.

Bussò delicatamente alla porta, priva di campanello. Questa volta non vennero ad aprire subito: i due fratelli si scambiarono uno sguardo, stringendosi nelle spalle, e Lorenzo riprovò.

“Arrivo” l’urlo giunse soffocato fino a loro: i due non si mossero, disinteressati. Diversi rumori si susseguirono, come se qualcosa o qualcuno fosse caduto ripetutamente; infine la porta si aprì.

Una ragazza minuta, esile, in short bianchi e canotta nera li osservava, stordita. Un caschetto di capelli castani, sbarazzino, e due occhioni più grandi del normale, eppure, assurdamente belli. Non furono gli occhi scuri, tuttavia, a stupire Lorenzo, quanto il corpo di lei che la tenuta sportiva metteva bene in mostra: come caspita aveva fatto a non notarla per cinque anni?

“Brindiamo?” chiese Sara, sollevando appena la bottiglia di birra che stringeva in una mano.

Rebecca sorrise, di un sorriso vero, ben attenta a non farsi vedere dal fratello.

Lui, però, era troppo basito per accorgersi di qualsiasi cosa: osservava le labbra della ragazzina, attento. Che aveva detto? Gli aveva rubato la battuta, forse?

“Non sapevo bevessi”

Sara si mordicchiò un labbro, come per trattenere la risposta che davvero avrebbe voluto dare. Scosse il capo, sorridendo: “E’ quella notte, no?”

Gli aveva rubato la battuta. Ancora.

 

Ascolta il rumore della pioggia che scende
Che viene giù come la fiamma di Armageddon

 

“Alziamo i calici e…”

Un mormorio confuso faceva da sottofondo, incessante, fastidioso come il frinire delle cicale.

“Ragazzi” mormorò Lorenzo, tentando di attirare l’attenzione dei compagni, invano. Parlavano, ridevano, ammiccavano: facevano quello che avrebbero dovuto fare in cinque anni e che, tuttavia, non avrebbero dovuto fare in quel momento. Non mentre era lui a parlare.

Lorenzo sospirò e aggrottò le sopracciglia, palesemente infastidito: come diavolo era possibile che lo stessero ignorando? Cioè, tanto per essere chiari, lui era Lorenzo. Lorenzo Salvatore. E…

“Ragazzi!” gridò quasi, accaldandosi, incredulo. Niente, assolutamente niente. Una mosca avrebbe avuto maggiori possibilità, probabilmente. In quel momento un fischio acuto perforò l’aria.

Stordente, penetrante, come solo Rebecca era in grado di fare.

“Zitti” sussurrò la ragazza, ottenendo all’istante il silenzio più totale. Il fratello la fissò, ponderando se fosse il caso o no di ringraziarla; alla fine decise che non era il caso: ne andava della sua virilità.

“Grazie per la vostra pronta attenzione” disse, un velo di ironia nella voce “Alziamo i calici e…”

“Dove li hai presi questi flute?”

“Sono magnifici, è vero?”

“Avete visto che strano effetto che fa stare qui fuori?”

“E se domani uscisse l’analisi del testo di un autore che non abbiamo studiato?”

“Attento. Dalle sberle passo ai calci, altrimenti”

Lorenzo chiuse gli occhi per qualche istante, sconsolato. Quando li riaprì, lasciò vagare lo sguardo sul cancello alle sue spalle: nero, imponente, dannatamente inquietante; la porta per l’inferno.

L’edificio era enorme: avvolto nell’oscurità, sembrava incombere tetramente su di loro.

Guardò Rebecca, e muovendo le labbra senza emettere alcun suono, la pregò di compiere di nuovo il miracolo: la ragazza sorrise, scuotendo impercettibilmente la testa e sollevando con grazia un preciso dito verso di lui. Cristallina.

“Ragazzi!” urlò allora, emettendo involontariamente un suono più acuto di quanto volesse.

Il silenzio calò, inaspettatamente, attorno a lui. Durò poco.

“Urli come una ragazzina” commentò qualcuno, facendo nascere un coro di risatine convulse.

“Come siete puerili, fatemelo dire”

“Certo, ragazzina” e giù di nuovo risate.

“Insomma!” brontolò Lorenzo “Vogliamo farla sì o no questa cosa?”

Una serie di consensi riuscirono, alla fine, a farlo sorridere di nuovo: il biondo, rinfrancato, sollevò il bicchiere: “Alziamo i calici e…

“Che c’è ora?” si lamentò Davide, seccato e appena appena divertito dall’ulteriore interruzione.

“Perché hai due bicchieri, Ugo?” chiese Lorenzo, l’espressione seria.

Tutti si voltarono verso il ragazzo che, accigliato, sbuffò sonoramente: “Non posso?”

“No” ribatté Lorenzo, concentrato “O almeno, non dovresti potere. Ho portato dieci flute, io”

“E quindi?”

“Ergo: manca qualcuno, cerebrolesi” asserì Martina, sospirando.

“Non siamo tutti?”

“Contatevi, porco cane” sibilò Rebecca, alzando gli occhi verso il cielo, le stelle coperte da una coltre scura di nuvoloni carichi di pioggia. Un tuono riecheggiò proprio in quel momento, scuotendoli.

“Si può sapere chi diavolo manca?”

Lorenzo improvvisamente si voltò verso i gemelli Iossa. Quei due si erano meritati il titolo di cloni. In parte per distinguerli dai gemelli Pavesi, in parte perché, sinceramente, era ciò che sembravano. A differenza di Ugo e Massimiliano, infatti, non avevano alcunché che li distinguesse. Persino i nomi non giocavano a loro favore: Marco e Gianmarco Iossa. Altissimi, capelli rossi, occhi verdi. Neo all’angolo della bocca, neo all’angolo della bocca. R moscia, r moscia. Identici. Arrivavano persino a completarsi le frasi a vicenda, se non le pronunciavano assieme, è chiaro.

“Sapete che non avevo mai notato la vostra somiglianza con Fred e George Weasley?” mormorò Sara, guardandoli sovrappensiero “Davvero, me li ricordate tantissimo”

Lorenzo grugnì, nervoso: “Burla non era con voi?”

“No” risposero assieme “Non doveva venire con noi” aggiunse Gianmarco, scuotendo il capo.

“Non avevi detto che doveva essere già qui anche lui?” chiese Davide, fissandolo interrogativo.

“Credevo” brontolò il biondo, preso in contropiede.

“In che senso?” domandò Massimiliano “Ci hai parlato?”

“Non esattamente”

Lorenzo si passò una mano fra i riccioli biondi, cercando di riordinare le idee: “Gli ho lasciato un messaggio in segreteria” concluse, sicuro.

“Idiota”

“Se non ci hai parlato come sapevi se sarebbe venuto?”

“Gli ho detto di farsi trovare qui, no?” mugugnò lui, sulla difensiva “Non bastava?”

Lorenzo non approvò il coro di protesta che si levò in risposta: corrucciato, mostrò la lingua a tutti.

“Che fa quello?”

La voce di Rebecca si levò, solitaria, catturando magicamente l’attenzione di tutti. L’indice della ragazza indicava il cancello: un ragazzo in nero lo aveva appena socchiuso, sgattaiolando all’interno del cortile e correndo poi in direzione della scuola. Il silenzio divenne improvvisamente pesante.

“Incredibile”

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Diluvia”

“Non mi dire” sibilò Rebecca, scuotendosi di dosso le ultime gocce di pioggia.

“Certo che avremmo dovuto aspettarcelo” mormorò Davide, sfregandosi i capelli fradici.

“Cosa vuoi, Serino?”

“Mi… mi dai una sigaretta?”

Lei non rispose, allungando il passo e superandolo: Davide la osservò, pochi metri avanti a lui nel corridoio. Sospirò, sconfortato. Al diavolo, non aveva possibilità.

“Tu fumi?”

“No” mugugnò Davide, guardando Lorenzo con la coda dell’occhio: il ragazzo camminava ora al suo fianco, le mani nelle tasche dei jeans resi ancora più attillati dalla pioggia.

“Mi sembrava” approvò il biondo, ridacchiando “Quindi glielo hai chiesto perché…?”

“Perché non sapevo cos’altro dire”

“Pessima scelta, permettimi” sentenziò l’altro “Se anche non fosse stata l’ultima che le rimane, Becca non offre mai le sue sigarette. Aspetta… forse se si affezionasse a qualcuno… no. Forse se provasse stima per qualcuno… no, assurdo. Non avevi speranze”

Davide non lo ascoltava neanche: osservava il gruppetto che lo precedeva. Rebecca, Ugo, i cloni. Camminavano per i corridoi del pian terreno, irrequieti, scioccati dal trovarsi in quel luogo venti minuti dopo la mezzanotte: come se le ore mattutine non fossero già abbastanza.

“Devo ammettere che è strano” commentò Martina, affiancandoli “Ed elettrizzante, anche

“Sai che non sei male, Martina?” disse Lorenzo, sereno “Certo, escludendo la parte secchiona, dico

Sara li superò in quel momento a passo di marcia, la testa bassa, una sola parola sulle labbra:

“Stronzo”

Lorenzo inarcò un sopracciglio, sorpreso: “Con chi ce l’aveva?”

“Con te” risposero in contemporanea Martina e Davide, candidamente.

“Io?!” si scandalizzò quello “Che ho fatto? Che ho detto?”

“Ci penso io” sospirò Davide, ammiccando a Martina “Ha una cotta per te dal primo anno

Lorenzo pietrificò, lo sguardo fisso sugli short bianchi che passeggiavano accanto a sua sorella.

“Scherzate?”

“Certo che voi uomini siete incredibilmente lenti” borbottò Martina, esasperata.

“Lo sanno tutti” confermò Davide “E’ di dominio pubblico. Solo il diretto interessato a quanto p…”

“Non può essere”

“Lo sanno tutti” ripeté il compagno “Come si sa che Gianmarco ha un debole per la ragazza di Marco, come si sa che Massimiliano è gay, come si sa che Ugo ha mandato in ospedale uno del terzo, come si sa che…

“Ma non eravamo partiti dal presupposto che qui ognuno si faceva sempre i cazzi propri?!” scoppiò Lorenzo, rosso in volto, il fiato corto. Scosse il capo, forsennatamente, come per riprendersi:

“Non è il momento” decise “Dobbiamo trovare Burla”

“Siamo entrati per questo” ridacchiò Martina, sinceramente divertita.

“Ah, sì? Io credevo per non rischiare di affogare lì fuori” s’intromise Massimiliano “Però avete ragione, potrebbe essere entrato: la tentazione è forte, ammettiamolo

“Troviamo Burla e brindiamo, una volta per tutte

“Si chiama Orlando, sai?” lo riprese Davide, assestandogli una spallata. Lorenzo sbuffò, seccato:

“Cosa si sa di Orlando?” chiese di malavoglia, cercando almeno di mettere a fuoco il ragazzo in questione: ne ricordava una versione sfocata. Non era l’aspetto esteriore, del resto, quello che contava: di Orlando Burla a far furore era ciò che c’era dentro. Era sì il solito buffone: quasi volesse tener fede al cognome, si comportava sì da pagliaccio, eppure lo faceva con classe, con stile. Non era un idiota: era tutto fuorché quello. Le battute, le freddure, i commenti: sagaci, irriverenti, sempre taglienti e, probabilmente, eccezionali proprio per questo.

Lorenzo ne ricordava alcuni con piacere: talmente splendidi da penetrare persino la nebbia di menefreghismo che era tipica della loro classe. Orlando Burla.

“Che alle volte fuma anche erba”

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“E’ affollato”

Ciò a cui stavano pensando tutti e nove, increduli.

Il corridoio del primo piano, a differenza di quello al piano terra, era pieno di gente. Ragazzi: tanti, troppi. Non dieci, non venti, non trenta, no: di più. Come se tutte le quinte dell’istituto si fossero date appuntamento lì. Di notte. Quella notte. E non per brindare.

Rebecca placcò il primo studente che le passò accanto e mugugnò: “Che fate tutti qui?”

Quello la fissò, arruffato: “Come?” vedendo l’espressione di lei, poi, si affrettò a continuare “Io sono di quinta D. Facciamo una seduta

“Una seduta?” chiese Marco, non capendo “Che seduta?”

“Spiritica” rispose quello, stringendosi nelle spalle “E’ divertente

Rebecca liberò la maglia del ragazzo, alzando gli occhi al cielo: “Cosa mi tocca sentire

“E tutti gli altri?” s’intromise Martina, curiosa “Sono con voi?”

“Oh, no” fece il ragazzo “Ci sono i ragazzi della B che giocano l’ultima partita di pallavolo con quelli della F. La I mi sembra che si sia attrezzata con il proiettore per non so che foto. Quelli della A stanno attaccando bigliettini sotto i banchi di tutto l’istituto… i ragazzi della E mi pare di averli visti giocare a strip poker” si toccò il mento, pensoso, giochicchiando con la candela che teneva fra le mani “Ah! La G e la H giocano l’ultima partita di pallacanestro… sotto l’acqua, a quanto pare

“Quindi non manca nessuno?” domandò Massimiliano, incredulo.

“Mm… quelli della C non ci sono”

“Siamo noi quelli della C, cretino” soffiò Rebecca.

Il ragazzo sussultò, guardandoli con diffidenza: “Certo che vi si conosce poco

“Non sono affari tuoi” ringhiò Ugo, raccogliendo l’apprezzamento di Rebecca, al suo fianco.

“Come volete…” mormorò quello, facendo per andarsene.

“Aspetta” lo fermò Davide “Come avete fatto a entrare?”

“Credevi che la creolina, qui dentro, ci crescesse da sola?” rise il ragazzo, allontanandosi sorridente.

“Okay” mormorò Lorenzo, lo sguardo perso “Dividiamoci. Fra un ora all’ingresso”

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Non c’è traccia di Orlando in tutta la scuola

Martina si guardò attorno, scorgendo le espressioni estatiche e perse degli altri: “Che avete?”

Erano tutti lì, puntuali, riuniti nell’atrio: eppure lei sembrava l’unica a essere ancora davvero in sé.

“Che avete fatto?” chiese di nuovo, intuendo di essere stata anche l’unica a cercare Orlando.

“La migliore ultima partita di basket del mondo” rispose Lorenzo, bagnato fino al midollo, battendo il cinque a un Davide altrettanto fradicio e a un Massimiliano grondante acqua.

“Uno strip poker a dir poco entusiasmante” risero assieme Sara e i cloni, sovraeccitati.

“Una seduta incredibile” sussurrò Ugo, sorridente “Credo di aver parlato con Bob Marley

“Ho scroccato sigarette” concluse Rebecca, guardando fuori della vetrata d’ingresso, pensosa.

Martina annuì, poggiando la schiena contro il muro: “E Orlando?”

Sentire di nuovo quel nome sembrò riportare tutti alla realtà: “Ci siamo persi Burla

“Non possiamo brindare senza di lui”

“Dove lo andiamo a pescare però?”

“Scusate…” cominciò Gianmarco “… perché non andiamo a vedere…” continuò Marco.

“Dove?” sospirò Lorenzo, strofinando la maglietta diventata ormai trasparente.

 “A casa sua”

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Cosa canti?”

“I beg to dream and differ from the hollow lies

“Che stai cantando?” chiese di nuovo Rebecca, fissando scontrosa il fratello che guidava.

“This is the dawning of the rest of our lives…”

Senza parlare, ringhiando appena, la ragazza si tolse la cintura e scivolò abile sul sedile posteriore, mandandolo silenziosamente a quel paese. Fece appena in tempo a sistemarsi che qualcuno bussò contro lo specchietto del lato passeggero: Lorenzo tolse la sicura e Sara prese posto davanti.

“Mi hanno detto di venire con voi” sibilò Sara a mo’ di spiegazione “Bastardi

Lorenzo mise in moto e si affrettò a seguire la macchina dei gemelli Pavesi: i cloni li seguivano in motorino. Senza quasi accorgersene si trovò di nuovo a cantare, questa volta per il disagio:

“I beg to dream and differ from the hollow liesThis is the dawning of the rest of our lives…”

“Green Day” sussurrò la ragazza al suo fianco, imitandone involontariamente il ritmo “Holiday

Lorenzo si zittì, osservandola di sottecchi: possibile che gli altri avessero detto la verità? Lanciò una rapida occhiata a quel viso sottile e delicato, a quegli occhioni che fissavano diritti davanti a sé… poi lo sguardo gli cadde sulle gambe accavallate, avvolte in quei piccoli short attillati. E fu la fine.

“Stronzo” sibilò lei, spintonandolo “Non sei altro che un dannatissimo stronzo!”

Il biondo non fece in tempo a schiudere le labbra che Sara riprese, la voce vibrante furore:

“Cinque anni che siamo in classe insieme. Cinque! Cinque anni che ti saluto e tu a stento rispondi. Che ti sorrido e tu non mi calcoli minimamente. Che parlo e non mi senti! Cinque anni che siedo al banco accanto al tuo e tu nemmeno mi hai mai vista!

A ogni esclamazione corrispondeva una botta, un pugno, una qualsiasi ripercussione sulla spalla di lui: Lorenzo, attonito, non distoglieva gli occhi dalla strada.

“Cinque anni e non ti sei mai accorto di me. Ti presenti l’ultima sera, l’ultima notte… e solo perché ti vengo ad aprire la porta in short tu finalmente ti rendi conto che esisto?! Dopo cinque anni bastano un paio di gambe per attirare la tua attenzione?!

Sara si trattenne a stento dallo schiaffeggiarlo brutalmente: “Un animale. Tu… voi maschi non siete altro che animali. Mi stavi guardando le cosce… tutto quello che riesci a fare dopo cinque lunghi maledettissimi anni è guardarmi le gambe!

Un sospiro sfuggì dalle labbra tremanti della ragazza: “Anche stronzo è troppo poco per te

La mano di Rebecca si sporse in quel momento fra i sedili, rivolta verso Sara:

“Vuoi una sigaretta?”

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

Lorenzo frenò, imitando la macchina che aveva davanti.

“Che diavolo…” mormorò, sporgendo il viso fuori del finestrino per cercare di capire. Erano fermi a bordo strada, un silenzio funereo che gravava su di loro; solo in quel momento, sorpreso, si rese conto dell’ironia dei suoi pensieri: stavano sostando davanti al cimitero appena fuori città.

“Si può sapere cosa vi passa per quelle teste vuote?”

L’urlo di Rebecca, come al solito, colse tutti alla sprovvista. Ugo, quello con più sangue freddo fra i presenti, indicò mollemente con il dito verso i cancelli del cimitero: un motorino giallo canarino era appoggiato alle inferriate, apparentemente abbandonato. Lorenzo dischiuse le labbra, sospirando.

“E’ quello che penso?” sussurrò Sara, scendendo a sua volta dalla vettura e affiancandosi agli altri, già riuniti attorno al mezzo che riluceva nella notte.

“Il motorino di Orlando”

Dal ciclomotore, tutti gli occhi si spostarono in un sol colpo verso il cimitero, basiti.

Massimiliano si lasciò sfuggire un minuscolo singhiozzo, subito represso dalla stessa mano del ragazzo che si posizionò saldamente sulla bocca, a sigillare le labbra.

Ugo, di fronte a lui, alzò gli occhi al cielo e, posato, oltrepassò i cancelli neri. Massimiliano squittì.

“Che facciamo?” chiese uno dei cloni, non era ben chiaro quale dei due.

“Sulla strada non è” mormorò Martina, lanciando un’ultima, pragmatica, occhiata alla carreggiata.

“Forse gli alieni…” cominciò Davide, zittito all’istante dallo sguardo di Rebecca.

“Seguiamo Ugo” brontolò alla  fine Lorenzo, ricevendo in risposta una serie di espressioni sconvolte e una di pura terrore da parte di Massimiliano.

“Sei pazzo”

“Non se ne parla neanche”

“Non porterà male?” pigolò Massimiliano “Domani abbiamo gli…” si zittì, scrutandosi attorno come temendo di veder comparire magicamente la manona del fratello, pronta a tacitarlo.

“Ho detto andiamo” ripeté, lapidario, Lorenzo. Si avviò lungo il sentiero, i passi che scricchiolavano sulla ghiaia: all’ultimo istante arpionò l’avambraccio di Sara e cominciò a trascinarla con sé.

“Che ti prende?” sbottò lei, guardandolo storto “Lasciami subito andare!”

“Vieni” sussurrò il biondo, continuando a tirarla senza degnarsi neanche di girarsi a guardarla.

“Che razza di… cafone!” brontolò Sara, cercando inutilmente di divincolarsi, i passi incerti mentre provava ad adattarsi alla camminata veloce di lui. Lorenzo grugnì, affatto contrariato:

“Dobbiamo chiarire alcuni punti” sibilò, seguendo quelle che sperava fossero le orme di Ugo “Tanto per cominciare: io non sono uno stronzo

E Sara si fermò: i piedi puntati sul terreno, letteralmente, pietrificò. Un sorriso ironico e allibito:

“Tu” disse, un riso amaro nella voce, il dito puntato sulla schiena del ragazzo “Tu non saresti uno…

“Stronzo?” terminò Lorenzo, girandosi a fronteggiarla “No. Sono sicuro di no”

“Animale, idiota, cretino, cerebroleso, bastardo, cafone, snob, tronfio, egoista…” prese un bel respiro, un lampo di sfida negli occhi “Non ti riconosci in alcuno di questi aggettivi, Lori?”

Lorenzo si avvicinò di un passo, il capo leggermente inclinato, un sorriso indecifrabile sulle labbra:

“Come mi hai chiamato?” chiese, ancora più vicino, palesemente divertito dalla confusione che improvvisa lasciò la ragazza senza parole “Sei ancora più carina quando arrossisci

Il suono che seguì quell’ultimo sussurro fu quanto di più simile al latrato di un animale in agonia: Rebecca li superò, le mani sulle orecchie, livida. Il resto del gruppo seguì il suo esempio, evitando però commenti di alcun genere, lasciando indietro i due non più tanto litiganti.

“Cosa!” sillabò la ragazza, scuotendo il capo “Cosa mi tocca sentire!”. Scimmiottò la frase del fratello, tra l’esilarato e il sarcastico. “Incredibile” brontolò fra se e se.

“Sei un’arpia”

Rebecca voltò appena il viso, forse convinta di aver capito male: incontrò lo sguardo duro di Davide e dovette ricredersi, malvolentieri. Possibile che fosse arrabbiato? Lui, il pezzo di pane?

“Un’arpia” ripeté il ragazzo, continuando a camminare “Una vera vipera. Ti stanchi mai di essere così cattiva?”

“No” ghignò lei, glaciale “Ma ti prego, continua

Davide, per una volta sicuro di sé, non se lo fece ripetere due volte: “Sei perfettamente consapevole di essere bellissima. Come potresti non esserlo? Ne sei consapevole e sfrutti la cosa fino all’ultima goccia. Guai ad andare contro di te, guai, guai, sempre guai. Non si può parlare con te, non ti si può nemmeno guardare… non senza essere aggrediti verbalmente e fisicamente

Rebecca aveva rallentato il passo, scrutando suo malgrado con la coda dell’occhio quella pulce.

“Sai che ti stai rovinando, vero? Perché se anche avrai sempre la possibilità di trovare un ragazzo, non avrai ancora per molto quella di trovare un amico. Non se ti comporti così, non se continui a parlare, a pensare e a…

La mano di Rebecca si abbatté sulla guancia di Davide.

I due rimasero fermi, faccia a faccia, guardandosi come se prima di quello scambio di battute non si fossero mai realmente visti. Il che, probabilmente, non era poi tanto lontano dalla verità.

“Superiamo anche loro?” sussurrò un clone a nessuno in particolare.

“Sì” rispose Martina, affrettandosi ad aggirare il nuovo ostacolo “Che cavolo hanno tutti, stanotte?”

“Non sono carinissimi?” sorrise Massimiliano, lanciando un’occhiata alle sue spalle “Che cuccioli che sono a conoscersi proprio l’ultima sera… certo, un po’ di tempismo in più avrebbero potuto cercare di averlo, ma anche così va bene” concluse, annuendo convinto.

Il braccio teso di Martina lo bloccò, facendolo inchiodare di colpo sul posto: Massimiliano seguì lo sguardo di lei e individuò la figura del fratello, stagliata nella notte. Cauti e silenziosi s’avvicinarono a Ugo, chiedendo spiegazioni solamente con gli occhi. Il mastino annuì, indicando loro qualcosa.

Orlando. Seduto a gambe incrociate sul prato. Lo sguardo fisso su una lapide.

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

Lentamente, formarono un semicerchio attorno a Orlando.

Lui non si mosse, non diede segno di aver percepito la loro presenza: almeno non fino al momento in cui a Massimiliano sfuggì uno starnuto. A quel punto sorrise appena, toccando il marmo con due dita tremanti: “Era mia sorella

L’aria sembrò di colpo troppo pesante. Era come se respirare fosse diventato impossibile.

“Sapete, mi sarebbe piaciuto condividere le emozioni di questa notte anche con lei

Un singhiozzo sfuggì a Massimiliano, ma questa volta nessuno provò neanche a rimproverarlo.

“Farle sapere quanto fossi preoccupato, l’ansia… la voglia matta di ubriacarmi e risolvere il tutto

Un sorriso più aperto illuminò il volto del ragazzo, subito represso.

“E’ stato più forte di me venire qui” mormorò “Non potevo farne a meno. E’ un momento vero, non trovate? Importante. Il primo, forse, il primo per cui vale davvero la pena

Il nome sulla lapide non si leggeva: complici il buio e il tempo, era andato sbiadendo del tutto. Ugo sospirò, scuotendo impercettibilmente il capo. Martina soffiò via la ciocca di capelli dall’occhio. Rebecca assestò un solo pugno nervoso sulla spalla di Davide, il volto contratto in un’espressione indecifrabile. Lorenzo attirò Sara più vicina, avvolgendola con le braccia e nascondendo il viso fra i suoi capelli. I cloni si scambiarono vicendevolmente una pacca di conforto, annuendo. Il più vicino ad Orlando era Massimiliano che, senza ulteriori indugi, si tuffò sul ragazzo: le braccia strette attorno al suo collo, singhiozzava, disperato: “Non lo sapevo, Orlandino! Non ce lo hai mai detto”

“Ci dispiace, davvero” mormorò qualcun altro, con voce dimessa.

“Possiamo fare qualcosa?”

Orlando scosse la testa, liberandosi fiaccamente dalla stretta di Massimiliano. Si alzò in piedi, le dita che frugavano nelle tasche dei jeans, cercando qualcosa. Possibile?

Possibile che persino il classico buffone, colui che hai sempre e solo considerato un giullare, fosse ben più di quello? Perché tutte le convinzioni, anche quelle più radicate, dovevano sempre rivelarsi dannatamente sbagliate? Non era più semplice prima? Senza sapere nomi, modi di fare, pensieri?

Non era più facile limitarsi ad un misero appellativo, a un’etichetta blanda e comune affibbiata in pochi minuti? No. Era sufficiente una serata, una nottata, veramente, e tutto finiva in miseria.

I castelli di carta che avevi creato, annientati da un mero alito di vento.

Orlando estrasse il cellulare dalla tasca, aprendo lo slide e cominciando a comporre un numero.

“Che fai?” chiese Lorenzo, non riuscendo a trattenersi.

“Chiamo mia sorella”

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Era morto il motorino, che altro potevo fare?”

Orlando scoppiò a ridere, lasciandosi ricadere sul prato, l’espressione esilarata.

“Chiamarci?” sillabò Davide, gli occhi sgranati.
“Senza sapere i numeri” meditò Orlando “Sì, in qualche decennio forse…

“Segnali di fumo, piccione viaggiatore, anche urlare sarebbe andato bene!” ringhiò Lorenzo.

“Ma dai” ridacchiò Orlando “Sapevo che sareste venuti a cercarmi. E la strada è solo questa”

Gli altri sospirarono: chi davvero, chi idealmente. Non si poteva fare altro.

“E hai ben pensato di ideare questa… sceneggiata” mugugnò, oltraggiata, Rebecca.

“Di pessimo gusto” aggiunse Martina.

Orlando fece correre lo sguardo fra i nove ragazzi, dubbioso. Alla fine ghignò, meravigliato:
“Lo avete trovato divertente” sussurrò, quasi non credendoci lui stesso.

“Cosa?”

“No. Certo che no”

“Voi lo avete trovato divertente” sorrise Orlando, ammirato “State ridendo sotto i baffi tutti quanti

“Non è vero” sibilò Rebecca, l’unica che riuscì a controbattere. Guardandosi  in torno, poi, decise:

“Restiamo qui, su” disse “Qualcuno vada a prendere flute e bottiglia. Vediamo di concludere al più presto” concluse, premendo le mai sulle spalle di Davide e facendolo sedere sul prato.

Lui non oppose resistenza più di tanto: si sedette, le gambe incrociate. E Rebecca prese posto sulle sue gambe, ignorando il brivido che assalì il ragazzo: “Solo per non sporcarmi i pantaloni

Davide annuì, le pupille dilatate e il fiato improvvisamente corto: effetto di Rebecca, sicuramente.

Marco arrivò in quel momento, seguito a ruota da Massimiliano: la bottiglia e i bicchieri che tanto tempo avevano dovuto aspettare. Pochi minuti e i flute erano stati distribuiti, lo champagne versato e lo sguardo puntato su Lorenzo: il biondo, perfettamente a suo agio al centro del gruppetto e della conseguente, così anelata, attenzione, sorrise inumidendosi le labbra.

“Eccoci” cominciò, le dita che tamburellavano sul vetro sottile. E non continuò.

Accigliato, le labbra atteggiate in una smorfia di fastidio chiese: “E se aspettassimo ancora un po’?”

 

Ascolta il rumore della pioggia che scende
Che viene giù come la fiamma di Armageddon

 

Aveva ricominciato a piovere.

Una pioggia leggera, per niente fastidiosa. Talmente silenziosa da risultare indifferente a tutti.

Un mormorio confuso, rilassato e stranamente amichevole animava il cimitero.

Dalla strada era difficile sentirlo, eppure, prestando attenzione, qualche risatina convulsa sarebbe sicuramente  giunta all’orecchio. Sorprendente, certo, dato sia il luogo che l’ora; ma concentrandosi solo un pochino, si sarebbe potuto notare che era pur sempre la mattina degli esami e che, alla prima prova, mancavano poco più di cinque ore. E solo questo bastava a giustificare tutto.

“Cosa farai dopo?”

“La fotografa”

Nonostante le conversazioni fossero numerose, quell’unica risposta di Martina fermò tutti.

“Come?” chiese qualcuno, esprimendo finalmente l’incredulità dei presenti.

“Avete capito” disse la ragazza, stringendosi nelle spalle e avvolgendo le ginocchia con le braccia.

“Tu non puoi fare la fotografa” mormorò Marco, spintonandola appena.

“Perché, se posso chiedere?” soffiò lei, squadrandolo con rabbia repressa.

“Perché tu sei Martina!” fece il ragazzo, telegrafico.

Il sopracciglio inarcato che lei sollevò in risposta spinse qualcun altro a provare con le spiegazioni:

“Tu sei quella che ha la media del nove”

“L’unica che alla fatidica domanda sul dopo, avrebbe potuto rispondere qualsiasi cosa

“Chi pensa a te, ci pensa come a una dottoressa di fama internazionale…

“…premio nobel…”

“…potresti scoprire la cura per il cancro o per qualche altra atroce malattia…

“…sconfiggere la morte!” concluse Massimiliano, l’espressione trasognata.

Martina sospirò, scuotendo il capo con un sorriso: “E invece voglio fare la fotografa

Nel silenzio che seguì, il sussurro della ragazza rimbombò come un tuono: “E’ quello che mi piace

E quell’affermazione bastò, mettendo un punto fermo alla conversazione. Ci fu un giro di assensi, qualche occhiata di approvazione e un paio di sorrisi di ammirazione; solo Rebecca, schioccando la lingua, non si mostrò d’accordo. La biondina sollevò gli occhi al cielo, sistemandosi meglio fra le gambe di Davide e decidendosi a guardare Martina:

“Secondo me è un’enorme caz… scemenza” si corresse, forse incoraggiata da un lieve pizzico del ragazzo dietro di lei “Sarebbe un errore. Puoi fare molto di più. Puoi guadagnare molto di più”

“Qualunque strada prendi” rispose la ragazza “Sarà sempre in salita e controvento. L’unico modo per far sì – per fingere – che non sia troppo faticosa, è sorridere durante il percorso

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Tu che farai dopo?”

Sara schiuse le labbra in un sorriso, la testa poggiata sul grembo di Lorenzo:
“Non lo so” sussurrò, chiudendo gli occhi “E non voglio saperlo

“Non ci credo” disse lui, scrutandola con attenzione. Sara chiuse gli occhi, ignorandolo:

“E’ una domanda che odio”

“Non significa che tu non abbia una risposta
“Se pure l’avessi non è a te che interesserebbe

“Te l’ho chiesto”

Sara sospirò, riaprendo gli occhi e fissandoli in quelli grigi di lui: “Tu che farai?”

“Hai rigirato la domanda, non vale!” mugugnò Lorenzo, solleticandole un fianco “L’ho chiesto prima io, signorina

“E se non volessi risponderti?”

“Vuol dire che anche io non ti risponderò

“Che parafrasato sta a significare che neanche tu lo sai?”

Lorenzo sorrise, per la prima volta con quello che poteva essere un alone di affetto in viso:

“Come fai?” domandò, piegando il capo per avvicinarsi alla ragazza.

“A far cosa?”

“A capirmi così… come se fossi prevedibile

“Non sei prevedibile, Lori”

Lui ghignò al suono di quel soprannome, ghignò per nascondere quello che era troppo per essere un sorriso: “Eppure mi capisci” sussurrò “Più degli altri, quantomeno

“Ti ho osservato” rispose lei, dopo un lasso di tempo non così breve.

“E io non me ne sono accorto” borbottò lui, carezzandosi il mento, meditabondo. Sara non parlava, non lo guardava: a un certo punto fece per sollevarsi, allontanandosi, ma la mano di Lorenzo, fulminea, la bloccò. Le dita fresche le stringevano il polso, invitandola a guardarlo:

“Non ti muovere” sussurrò il ragazzo, estraendo il cellulare dalla tasca.

“Lorenzo…”

“Il tuo numero?”

Sara spalancò gli occhi, un’espressione di pura sorpresa che non era riuscita a nascondere:

“Io… non te lo do”

“Ma io lo voglio”

“L’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Mi viene da vomitare”

Davide ridacchiò, osservando la stessa scena che sembrava star facendo venire la nausea a Rebecca.

“Sono carini, su” mormorò il ragazzo, smettendo di guardare, ricordandosi improvvisamente di un certo qualcosa comunemente chiamato privacy.

“Sono orribili” brontolò lei, scuotendo il capo “Assolutamente e pateticamente infantili

Davide annuì, non provando nemmeno a ribattere alla sequela di improperi che uscì dalle dolci labbra della ragazza. La stringeva a sé, la bocca poggiata sui capelli biondi, il suo profumo ad inebriargli la mente e il cuore. Non sentiva la pioggia, non provava ansia, niente.

“Tu non sei assolutamente e pateticamente puerile, vero?” le chiese, improvvisamente, serio.

Rebecca si zittì, non sapendo cosa rispondere:

“No” mormorò “No, certo che no”

“Ciò significa che se ti chiedessi il numero, me lo daresti senza fare storie?”

Davide attese, gli occhi chiusi, il cuore a mille. Aspettava una risposta, un qualunque segno.

Anche un altro schiaffo sarebbe andato bene.

Si stava chiedendo quanto negativo fosse poi stato sentire il campanello, quella notte.

Quanto avrebbe dovuto odiare quel suono…

Si interrogava su un sacco di cose, Davide, quando avvertì il brivido che percorse Rebecca. Il viso di lei che s’inclinava appena di lato, cercando il suo sguardo; il sussurro quasi impercettibile: “Sì

E Davide cambiò idea, di colpo, irreversibilmente.

Non c’era suono migliore di quello del campanello di casa sua.

 

Questo è l’inizio del resto delle nostre vite

 

“Non andare in iperventilazione”

“E se andasse male?”

Gianmarco inarcò un sopracciglio, fissando Massimiliano con sconforto:

“Perché dovrebbe andar male?”

“Si sa” mugolò il ragazzo, giocando con il bicchiere e bevendo in fretta l’ultimo sorso “Se qualcosa può andar male, lo farà

“A noi non succederà” affermò, sicuro, Marco.

“Come puoi dirlo?” pigolò Massimiliano “Noi siamo a terra, lo capisci. Siamo… siamo a livello del pavimento. Siamo…”

“Almeno dal pavimento non possiamo cadere” ridacchiò Lorenzo, l’espressione vittoriosa mentre lanciava in aria il cellulare.

“Il pavimento può crollare, però” ribatté Sara, afferrando al volo il telefono e allontanandolo da lui.

Un’ondata di silenzio travolse tutti, lasciandoli come in un limbo: un momento di stallo, perfetto, che magnanimo regalava un sorriso involontario, apparentemente privo di motivo eppure carico di significati e sottintesi.

Il silenzio, tuttavia, è fedifrago: stanco, dopo poco, riportò quelle menti alla realtà da cui tanto si erano affaccendate per fuggire…

“Pronti per il brindisi?”

Il sussurro di Lorenzo arrivò inaspettato, catturando senza problemi l’attenzione.

I flute furono sollevati: pieni, vuoti o a metà che fossero. Si alzarono, nella notte, rapidi.

Per la prima volta, insieme.

“Brindiamo” mormorò Lorenzo, la voce roca e il sorriso sulle labbra, sorpreso di star finalmente riuscendo a mettere in atto il suo progetto.

“Brindiamo” ripeté “Brindiamo alla nostra prossima dipartita

 

Queste sono le nostre vite in vacanza

 

“Fa schifo come brindisi”

“Per una volta,” sospirò Rebecca, gli occhi puntati su Martina “Sono d’accordo con te”

“Era bellissimo” si lamentò Lorenzo.

“No”

“Se qualcuno sa fare di meglio si faccia avanti” ringhiò il ragazzo, a mo’ di sfida.

E Sara sorrise, accettandola.

“Brindiamo, ragazzi” sussurrò “Perché più si parla a vanvera, più si fa centro

 

Brindiamo.

 

§

 

 

 

 

 

   
 
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