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Autore: skiyes    07/11/2011    6 recensioni
 
-Hai capito bene Justin-. Pattie fece per andarsene, ma suo figlio la fermò.
-E’ una punizione? Perche’ se lo è, è tutto inutile. Non ho cinque anni, ne ho diciotto, cazzo! So che ho sbagliato, e ne sono consapevole, ma d’altronde tutti fanno degli errori, no? E mi dispiace! Mi dipiace, ancora e ancora! Ho capito la lezione, giuro che non lo farò mai più. Lasciami stare qui…ti prego-.
Il volto del ragazzo era rosso e paonazzo.
Sua madre lo guardò indecisa, turbata dalle condizioni del figlio.
Ma la sua decisione era la migliore, si disse.
– Mi dispiace Justin, ma lo faccio per il tuo bene…-.
Il ragazzo scoppiò. –Il mio bene? Da quando farmi andare da qualche parte nel mondo senza dirmi nulla sarebbe “fare per il mio bene”?-.
La donna gli rispose per le rime: -Da quando mio figlio ha iniziato a drogarsi! Ecco da quando!-.

 
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Surgery: Twenty Minute
Prologo









Kim.


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C’era sempre qualcuna migliore di lei, era questo quello che pensava Kimberly Clarke ogni volta che si confrontava con qualcuno.
Qualunque cosa facesse, dal prendere un B in un compito di chimica al cimentarsi in qualche nuovo sport, era sempre seconda.
Iniziava realmente a dubitare di se stessa, insomma, cosa aveva di sbagliato?
Perche’ non aveva nessuna eccellenza?
Per non parlare della sua scarsa, se non minima, autostima.
Non era nulla di speciale, una ragazza qualsiasi, ecco cos’era.
Ma la cosa che più la infastidiva era quell’atmosfera di perfezionismo che le si incollava addosso quando accendeva la tv. Vedeva ragazze meravigliose, con capelli lucenti e con delle perfette forme, che sembrava che la deridessero per la sua scarsa seconda o per il suo buffo ciuffo che non riusciva mai a stare al suo posto; oppure ragazzi se non perfetti che le facevano ricordare quanto i suoi rapporti extra-scolastici fossero disastrati.
Kimbery, inoltre, non amava essere al centro dell’attenzione, infatti a scuola cercava di farsi notare il meno possibile, conquistandosi l’appellativo di “ragazza fantasma” attaccato come con una super colla al nome.
Kimberly Clarke non era felice.
E così, Lena Cooper, sua madre, aveva contattato uno psicologo: Per aiutare la figlia a uscire dal suo mondo grigio.
E se non sarebbe servito a nulla, almeno avrebbe potuto dire di averci provato.
D’altronde era risaputo che le Cooper erano coloro che amavano le sfide.




Jey.
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-L’avevano detto. Scooter ci aveva avvisati, per non parlare di Usher! Iddio, Justin!-. Una signora con dei capelli color cioccolato e decisamente bassetta, continuava a camminare davanti ad un ragazzo troppo indaffarato a smanettare il telefono che aveva in mano.
-Justin! Diamine, mi stai ascoltando?-. Sbottò lei, fermandosi di colpo, con una faccia assai furente.
Il ragazzo sembrò sbuffare. –Sì, mamma. Prometto che smetterò. Ora posso andare?-.
-No che non puoi!-. Inveì lei, alzando la voce di un’ottava.
Justin incrociò le braccia al petto, spostando lo sguardo verso oltre qualcosa le spalle di Pattie.
-Mi dispiace, okay? Smetterò, te lo prometto.- Ripete’ finalmente, spostando lo sguardo negli occhi delusi della madre.
La donna desiderava ardentemente credergli, ma preferì prendere dei provvedimenti.
-Ho parlato con Karin e Scooter poco fa-. Sussurrò lei. –Prepara le valigie, sta sera si parte-.
-Cosa?-. Domandò il ragazzo furente, balzando su dal divanetto dove era spaparanzato poco prima.
-Hai capito bene Justin-. Pattie fece per andarsene, ma suo figlio la fermò.
-E’ una punizione? Perche’ se lo è, è tutto inutile. Non ho cinque anni, ne ho diciotto, cazzo! So che ho sbagliato, e ne sono consapevole, ma d’altronde tutti fanno degli errori, no? E mi dispiace! Mi dispiace, ancora e ancora! Ho capito la lezione, giuro che non lo farò mai più. Lasciami stare qui…ti prego-.
Il volto del ragazzo era rosso e paonazzo.
Sua madre lo guardò indecisa, turbata dalle condizioni del figlio.
Ma la sua decisione era la migliore, si disse.
– Mi dispiace Justin, ma lo faccio per il tuo bene…-.
Il ragazzo scoppiò. –Il mio bene? Da quando farmi andare da qualche parte nel mondo senza dirmi nulla sarebbe “fare per il mio bene”?-.
La donna gli rispose per le rime: -Da quando mio figlio ha iniziato a drogarsi! Ecco da quando!-.
Il ragazzo tacque, mordendosi una guancia, furente.
Non sapeva cosa risponderle.
Aveva ragione, la droga lo aveva ammaliato e lui ci era cascato come un cretino.
Non si ricordava nemmeno quando aveva iniziato, probabilmente cinque mesi da quella parte, a qualche after-party mal riuscito.
Era stato C-Jay, gli aveva assicurato che tutti i suoi problemi o tutti quegli stress che lo assillavano sarebbe spariti magicamente, poof, come per magia.
E lui da bravo imbecille ci era cascato.
Si maledisse mentalmente.
-Vedi Justin? Lo vedi? Sei diventato completamente succube dalla droga! Ne sei dipendente-.
Il ragazzo non resse. –Questo non è vero! Come ti ho detto prima posso anche subito smettere-.
-Ah si? Sai, me l’hai detto anche un mese fa-. La donnetta sospirò. –Justin, per favore, voglio aiutarti. Permettimi di farlo-.
Il ragazzo ingoiò il rospo.
Lo trattava come un malato grave e ciò non gli piaceva affatto.
Aveva compiuto da poco diciannove anni, era diventato un adulto grande e vaccinato.
Sapeva cos’era giusto per lui e, al contrario, cosa era sbagliato.
-No. Te lo ripeto, posso smettere-.
Pattie scosse la testa, rassegnata. –Prepara le valige. Ho chiamato uno dei migliori psicologi d’America. Vedrai, il Dott. Bennett ti aiuterà-.
E detto questo uscì dalla porta.
Justin, dal canto suo, provò un tale rabbia soffocò un urlo quasi disperato, limitandosi a dare un veloce pugno alla parete, per poi accasciarsi al pavimento dolorante e scoppiare in lacrime.
Aveva diciannov’anni e nonostante tutto non aveva il controllo sulle sue azioni, non gli fregavano le conseguenze del drogarsi. Gli piaceva, quando respirava quella magica polverina si sentiva bene, leggero e senza ansie da portasi appresso.
E comunque volveva affrontare la cosa da solo, se stava sbagliando andando per quella strada erano affari suoi, non voleva che sua madre o il suo manager si immischiassero.
Voleva essere indipendente, artefice delle proprie scelte.
Non desiderava aiuti, aveva l'intenzione di sbagliare, sbagliare, e sbagliare, per poi riuscire da solo a trovare una soluzione.
Voleva essere libero.
Libero davvero.






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Ciau belesime. (-:
Spero che questo piccolo prologo vi sia piaciuto!
Fatemi sapere, ne sarei felicissima.

ahah, un bacione!

@afgkidrauhl


   
 
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