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Autore: braver than nana    08/11/2011    1 recensioni
[Blaine!centric, accenni Klaine, accenni Neff, Au Storica]
All’età di vent’anni ancora nessuno era stato capace di fargli cambiare idea, sul primo Roosvelt ma soprattutto sugli americani.
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Da alcune carrozze scesero dei turisti un po’ spaventati da quell’accoglienza e solo dopo qualche istante la faccia lunga di Jeff accompagnata dal caschetto biondo fece capolino da uno dei vagoni. Scese velocemente le scale e si fiondò tra le braccia del suo migliore amico che quasi non scoppiava nuovamente a piangere. Alle sue spalle poi apparve lui.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Warblers/Usignoli
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sogna l'America, niño.

 

Theodore Roosvelt aveva un viso che ispirava fiducia. Aveva una voce potente e il volto paffuto tipico degli americani per bene, nei suoi occhi brillava una particolare luce che gli aveva permesso di farsi amare dalla sua gente, che lo aveva fatto diventare uno dei migliori presidenti che gli Stati Uniti avevano mai avuto.

A Panama, i vecchi patriarchi lo ricordavano spesso alle cene di famiglia, con i toni smorzati degli anni si sedevano dritti e parlavano di come, quando erano giovani loro, avesse fatto tanto per il loro paese, di come aveva cacciato via i colombiani e gli aveva permesso di essere liberi.

Per quanto Blaine da bambino avesse sempre ammirato quei racconti, si ricordava le sere di Natale steso sul tappeto ad ascoltare rapito nonno Germàn che dalla sua poltrona di pelle alzava il bicchiere di vino ogni volta che doveva pronunciare il suo nome, la trovava una figura sbagliata nella storia del suo paese. Era arrivato, aveva fatto qualche giochetto politico e se loro ci avevano guadagnato la repubblica lui si era accaparrato il loro canale per i suoi comodi. E aveva vinto due guerre mondiali per merito loro senza mai dare niente in cambio, pensava all’età di sei anni.

La grande foto appesa nello studio di suo padre proprio sotto la grande bandiera rossa e blu poi, con quel monocolo e la cravatta di seta, gli incuteva un po’ di paura. Aveva un’aria così seria, i lineamenti ammorbiditi dalle guancie gonfie erano rigidi e lo sguardo, nascosto leggermente dalla lente, sembrava che lo seguisse ogni volta che entrava nella stanza.

Quando era arrivato al suo primo giorno di scuola una sua foto era appesa anche nell’atrio stretto che accoglieva tutti prima di essere assegnati alle classi e quando lui sbuffò a quella vista una maestra gli tirò uno scappellotto dietro la nuca, facendogli segno di camminare.

All’età di vent’anni ancora nessuno era stato capace di fargli cambiare idea, sul primo Roosvelt ma soprattutto sugli americani. I suoi genitori avevano anche provato a proporre una gita per arrivare fino in Texas che comprendeva prendere un autobus, una nave, poi in treno e infine un altro autobus alla quale si era fermamente opposto riuscendo ad averla vinta, grazie soprattutto all’ingerente somma che avrebbero dovuto pagare e che avrebbe sicuramente gravato sulla loro condizione economica. Tutto quello che Blaine conosceva era Penonomé e anche se a volte si ritrovava a pensare che la comunità bigotta e grossolana del suo paese non aveva mai progettato di andarsene da quel posto, dalle vie che lo avevano visto nascere, crescere e diventare un uomo. Ogni tanto aveva parlato con David della prospettiva di fare un viaggio, arrivando a Aguadolce magari o addirittura fino Santiago dove si diceva essere uno dei campi di baseball più belli del mondo.

All’età di vent’anni Blaine odiava gli americani e sognava una vita tranquilla, suonava la chitarra la sera quando si incontrava con il suo gruppo di amici nella piazza del paese e le ragazze gli cadevano ai piedi ma lui se ne interessava poco. Preferiva pensare ai soldi che stava mettendo da parte per raggiungere la somma che Juan gli aveva chiesto come caparra per quel piccolo appartamento in fondo a quella traversa dell’Avenida Sebastian Sucre, a pochi isolati da dove abitava con i suoi genitori. I suoi amici ogni tanto si mettevano a parlare di politica e lui si alzava con la sua chitarra e andava a sedersi sul bordo della fontana spenta, restando zitto per non mettersi a litigare con loro.

Aveva le sue idee lui e le difendeva. Jeff una volta, qualche anno prima, gli aveva detto di smetterla di fare il bambino e di capire come andava il mondo, che Panamà era un bel posto ma che la vita era un’altra, che l’America era il futuro e che se volevano sul serio realizzare i loro sogni dovevano guardare più in là del Messico. Qualche mese dopo aveva preso un pullman, una nave, un treno e infine un altro pullman, e non era più tornato.

Così ormai, quando si iniziava a parlare di Dallas e di come il presidente Kennedy fosse un grande uomo, -quasi alla pari di Theodore! aveva detto Thad un giorno con la sua solita cadenza forzata e ka voce così alta che un signore dal bar vicino si era avvinato e gli aveva tirato una colpo sulla schiena con il bastone da passeggio- lui si isolava perché aveva paura che un’altra sfuriata con uno dei suoi amici gli avrebbe invogliati ancora di più ad andare via.

Ma lui proprio non gli sopportava gli americani. Il giorno in cui Nick arrivò tutto trafelato con quasi un’ora di ritardo e alcuni fogli svolazzanti in mano, pensò che il corriere che quel pomeriggio aveva fatto il giro del paese gli avesse portato la nuova copia di un giornale che stampavano in Florida, invece era una lettera di Jeff che raccontava entusiasta della sua avventura in Ohio. Non era un gran paese diceva, non era New York ma tutto procedeva a gonfie vele, era stato assunto quasi subito da un brav’uomo nella sua officina e finalmente aveva raccolto abbastanza soldi per fare una vacanza e tornare a Penonomé per qualche giorno. Viveva il suo sogno americano. Blaine guardò la scena con orrore, immaginando il suo ritorno e il suo cambiamento. Nick era quasi in lacrime mentre stringeva talmente forte quei fogli sino a far diventare bianche le nocche e gli altri saltavano da una parte all’altra rubando la sua chitarra lasciata in un angolo per cantare qualche canzone con accenti strani che volevano assomigliare a quello del presidente Kennedy che ascoltavano alla radio.

«Blainito non fare quella faccia!» gli aveva praticamente urlato David, sorridendo e cercando di coinvolgerlo nella strana danza che avevano iniziato muovendosi in cerchio, attorno a qualche povero passante «Torna il nostro amico! E tra l’altro dice che porterà un pensierino per tutti e un suo nuovo amico. Un ragazzo americano qui! Ti rendi conto?»

Naturalmente non aveva aspettato una sua risposta e lo aveva lasciato all’altezza della pasticceria del centro, ridendo sguaiatamente mentre gli altri continuavano la loro corsa esagitata. La sua povera chitarra era stata malamente appoggiata contro un muro e lui andò a recuperarla, caricandosela con cura sul una spalla e incamminandosi cupo verso casa. Affamato ma con lo stomaco chiuso decise di salire direttamente nella sua stanza dove i suoi quattro fratelli facevano tanto di quel rumore che riuscivano addirittura e superare la confusione che aveva nella testa.

Era arrabbiato. Non voleva Jeff perché era ancora arrabbiato con lui, non voleva che corrompesse i suoi amici a fare la sua stessa fine, non voleva quel ragazzo nella sua città. Tutti lo avrebbero venerato come un Dio mentre era di sicuro un fottutissimo ragazzino viziato, biondo e abbronzato che avrebbe guardato e giudicato la sua città come se sapesse tutto della sua storia e delle sue sofferenze, perché gli americani sono sempre convinti di sapere tutto.

Sua madre era venuta nella sua stanza quella sera, cosa che non faceva più da quando a dieci anni si era alzato sul letto e l’aveva rimproverata dicendole che non era più un bambino e che le favole poteva anche raccontarsele da solo, e si era seduta sul suo letto mentre lui ancora infossava la faccia nel cuscino. Gli aveva accarezzato la schiena e quando lui si era girato lei aveva un sorriso splendido, uguale a quello che la nonna Agostina, l’unica nonna che non aveva mai conosciuto perché morta di colera qualche anno prima della sua nascita, aveva nelle foto. Aveva quasi quarantacinque anni la sua mamma ma in quel momento sembrava una ragazzina e lui di slancio si sedette e la abbraccio forte sussurrandogli ti voglio bene posandogli baci sulle guancie rosse dal caldo.

«Non me ne andrò mai da Penonomé mamma. Io resterò qui con te, con Luis e Alejandro che sono troppo piccoli per crescere da soli. Con il nonno German che invece si è fatto troppo vecchio e con papà che anche se fa il duro so che ci vuole bene.»

«Non dire queste cose niño, mi spezzi il cuore.»

«Ma io lo faccio per voi. Juan mi vende l’appartamento che ha il cartello qualche isolato più in là, il mio lavoro alla drogheria mi fa guadagnare abbastanza e io non sono come tutti gli altri ragazzi.»

Lei si era curvata, incassandosi lievemente nelle spalle, e il sorriso scomparve facendo tornare gli anni sul suo volto. E anche se in vent’anni niente era mai stato capace di far piangere sua madre in quel momento i suoi occhi si riempirono di lacrime e il verde intenso delle sue iridi si sciolse.

«Non dire così, tu devi avere dei sogni bambino mio. E se non è l’America che odi tanto allora vai a Panama, vai fino in Europa se ti piace ma non rimanere in questo paese. Io so che sei diverso, cosa ti nascondi dentro figlio mio,» disse respirando profondamente e guardandolo dritto negli occhi «e questo posto non fa per te. Succederà qualcosa che ti indicherà la tua strada, bambino mio, e allora capirai. E io ti vorrò sempre bene.»

Il suo discorso incomprensibile lo confuse e quando lei se ne andò sgridando i suoi fratelli e intimandoli di andare a dormire, rimase seduto sul letto per alcuni minuti sentendo ancora il calore della mano di sua madre sulla nuca e l’ombra della fronte sulla sua. Lui non voleva andare via, non sarebbe mai andato via.

Non dormì per niente e quando riuscì a chiudere gli occhi un attimo dopo era mattina. E i giorni passavano tra i racconti dei suoi amici su quello che Jeff avrebbe potuto portar loro e su quel nuovo decreto che probabilmente avrebbero potuto approvare in parlamento grazie alla campagna di Kennedy e al suo sottosegretario. Poi arrivò il quattro giugno e a Penonomé c’era aria di festa.

Una volta l’anno tutto il paese era solito scendere nella grande piazza, sistemare bancarelle dell’usato che aveva conservato per i precedenti dodici mesi e poi la sera il sindaco pagava qualche artificiere per sparare qualche fuoco d’artificio colorato. Dalla festa di Sant Amador mancavano ancora tre mesi e il chiacchiericcio infervorato delle vecchiette agli angoli delle strade, la fretta con cui i giovani attraversavano le strade stringendo tra le dita vecchi cappelli che venivano tirati fuori solo per le grandi occasioni, i toni accaldati dei vecchi seduti ai bar potevano significare solo una cosa. Il treno stava arrivando e su di questo Jeff e il ragazzo americano.

Da qualche giorno ormai cercava di non pensarci. L’indifferenza è la tattica migliore gli aveva detto qualcuno una volta, forse la zia Caterina quando voleva tirarlo su di morale se i suoi cuginetti lo prendevano in giro per la sua modesta altezza. Eppure sotto il sole cocente di quel giorno i pensieri che gli friggevano nel cervello giravano tutti attorno allo stesso argomento e se sua madre non lo avesse trascinato fino alla stazione di sicuro alla fine avrebbe corso come un matto per arrivare in orario.

Il treno, si sentiva dire in giro fin dalla mattina presto quando lui era uscito per andare a lavoro, sarebbe arrivato alle tre. Un treno rosso dicevano, come quelli che si vedevano nelle prime fotografie a colori. Lui fu il primo ad avvistarlo perché tutti gli altri guardavano dalla parte sbagliata ma non si azzardò a farlo notare agli altri fino a quando il rumore assordante delle rotaie e della locomotiva arrivarono alle orecchie di tutti.

Da alcune carrozze scesero dei turisti un po’ spaventati da quell’accoglienza e solo dopo qualche istante la faccia lunga di Jeff accompagnata dal caschetto biondo fece capolino da uno dei vagoni. Scese velocemente le scale e si fiondò tra le braccia del suo migliore amico che quasi non scoppiava nuovamente a piangere. Alle sue spalle poi apparve lui.

Aveva la pelle talmente chiara che a prima impressione gli era sembrata bianca come quella di un cadavere e lo aveva spaventato. Poi, quando scese lentamente i tre scalini, arrivando con un balzo sul pavimento rosso della banchina, si accorse che le sue guance erano leggermente tinte di rosa, assomigliava, si disse mentalmente, al colore delle pesche poco mature e dal sapore asprigno che mangiava quando ancora l’estate non era arrivata. Si girò per tirare giù dalla carrozza una grossa valigia e se non avesse odiato così tanto gli americano di sicuro si sarebbe avvicinato per dargli una mano visto che nessuno sembrava curarsi delle sue difficoltà. Quando finalmente riuscì a sistemarsi la borsa al suo fianco guardò verso la folla che aveva davanti per niente intimorito, cercò di individuare Jeff e sospirò amaramente quando si accorse che era inavvicinabile, circondato da una ventina di persone che alternavano calorose pacche sulle spalle e urla emozionate in una lingua che sicuramente non capiva.

Si appoggiò alla valigia e un istante dopo Blaine pensò di morire.

La morte era un argomento che in casa sua si trattava spesso, con le varie gravidanze che sua madre cercava di portare a termine e che poi si rivelavano un fiasco, con il colera che aveva dimezzato la famiglia di suo padre e la recente scomparsa di Albert, suo fratello maggiore, dopo aver recitato il rosario le sere passavano con l’enunciazione sulle varie teorie dei membri della famiglia. Il nonno ripeteva sempre di non vedere l’ora di passare dall’altra parte perché voleva incontrare l’amore della sua vita e perché voleva smettere di soffrire, che per certo la morte non poteva essere peggiore della vita che aveva vissuto lui. La mamma raccontava di come una sua zia una volta l’aveva presa da parte e le aveva confidato di aver visto il paradiso venirle mentre stava annegando nel lago e che era tutto bianco e luminoso. Blaine era credente ma non gli piaceva pensare alla morte, perché pensava che certi suoi ragionamenti lo avrebbero sicuramente mandato all’inferno e durante quelle chiacchierate un po’ macabre restava in silenzio ad ascoltare sempre le stesse storie.

Eppure quel giorno, guardando gli occhi del ragazzo americano pensò che era arrivato quel momento e mentalmente, più veloce che poté, recitò un Ave Maria. La luce del sole del primo pomeriggio creava un gioco di luci nelle iridi di quel ragazzo che vagamente gli ricordava una pietra preziosa che aveva visto al collo di una donna, una domenica mattina dopo messa.

Pensò di morire perché il cuore aveva iniziato a battergli talmente furiosamente che da un momento all’altro sarebbe potuto schizzare via dal petto, e il respiro gli si era bloccato in gola e lo stomaco all’improvviso si era accartocciato facendogli venir voglia di piangere. Tutti i suoni della folla che lo circondavano erano scomparsi e in tutto il corpo riusciva a chiaramente a sentire il rumore del suo cuore che pompava troppo velocemente il sangue nelle vene.

Il ragazzo gli sorrise e socchiuse leggermente le palpebre, mettendosi una mano davanti al viso e mise l’altra sulla valigia tirandosela dietro quando fece qualche passo verso di lui.

«Tu sei Blaine vero?»

La sua voce squillante arrivò stranamente alle sue orecchie e improvvisamente tutti i rumori tornarono violentemente. Il pensiero che quel ragazzo avesse appena parlato la sua lingua senza problemi non lo sconvolse più di tanto e si ritrovò ad annuire, mantenendo comunque la facciata seria che si era imposto di indossare qualche era stato scaricato lì nonostante la tempesta che si stava scatenando nel suo corpo.

«Io sono Kurt, Jeff mi ha parlato molto di te. A quanto pare non ti piacciono gli americani.»

Aveva sorriso ancora una volta ed era andato via, tirando Jeff dal bavero della camicia una volta ben stirata rovinata dal lungo viaggio. Il biondo prese la valigia del suo amico e gli poso un braccio sulle spalle facendo qualche passo più indietro arrivando quasi a sfiorare con il tacco della scarpa il vecchio treno ancora fermo alla stazione.

«Lui è Kurt Hummel.» aveva gridato e tutti avevano iniziato a parlare contemporaneamente. Il ragazzino aveva riso e il suo viso si era contratto in una smorfia strana. Quando si rese conto di essere stato contagiato dalla sua risata capì, correndo verso casa, che quel giorno non sarebbe morto ma che tutto quello in cui aveva creduto in quel momento stava per essere stravolto.

Le vie erano deserte e quando tornò a casa si rese conto con terrore che solo suo padre era rientrato e in ogni stanza echeggiava la tosse catarrosa che da un paio di settimane lo accompagnava. Era seduto in cucina, su una delle sedie di legno che aveva costruito lui stesso quando aveva comprato quella casa, e aveva un bicchiere di vino in mano.

«Vieni qua figliolo, siediti accanto al tuo vecchio.» aveva iniziato con una voce ubriaca «Siediti!» aveva finito scuotendo la sedia sul pavimento e alzando la voce, facendolo tremare mentre camminava per fare quello che gli era stato detto.

«È arrivato il treno. L’America è dall’altra parte di quel treno figlio mio e tu, come un cretino, hai ancora la testa piena di sciocchezze! Alla tua età la grande guerra era appena finita e tutti avevano grandi sogni e l’America in testa. C’era un nuovo Roosvelt e quindi non c’era niente che poteva andare storto.»

La sua risata gli penetrava le ossa e quando gli appoggiò una mano grande e callosa sul braccio tenendolo stretto, Blaine temette di scoppiare a piangere perché l’alito pesante di suo padre gli arrivava sul collo e lui aveva paura quando era così vicino. Chiuse gli occhi e la sua mano libera scese sulle gambe cercando di aggrapparsi ai pantaloni di cotone che una volta erano di Albert perché lui gli desse la forza.

«Penso che sia un bene che tu abbia paura di me, niño. La paura fa bene, rinforza le ossa e prepara il corpo alla vita. Senza la paura non si diventa uomini.» aveva sussurrato prima di sbattere il pugno sul tavolo facendolo sobbalzare. «La vita a Penonomé è una merda ragazzo, ma è una buona gavetta. Puoi uscire e conquistare il mondo adesso. Io ho messo incinta tua madre ma tu sei ancora libero di andare, di vivere.»

Guardare negli occhi stranamente seri e concentrati suo padre era come guardarsi a uno specchio. Il particolare colore delle iridi era sorprendentemente simile al suo e se quando era bambino trascorreva tanto tempo a giocare con quell’uomo incredibilmente alto dalle mani così grandi che era sicuro potessero racchiudere il mondo intero, ormai non ricordava più le sfumature color oro che circondavano la pupilla adesso annebbiate da una precoce cataratta. Non parlava più con suo padre da almeno quattro anni quando, tornato dalla scuola con un nuovo voto di cui andava particolarmente orgoglioso aveva trovato a casa una signora che non aveva mai visto sulla sua porta che parlava con la mamma. È un depravato! urlava la sconosciuta e quando si era avvicinato per chiedere cosa stesse succedendo gli era arrivato uno schiaffo in pieno viso che lo aveva fatto cadere a terra. Albert gli aveva raccontato la sera, una volta tornato dalla cena alla quale non aveva potuto partecipare per punizione, che la signora era la madre di un suo compagno di scuola. Era venuta e aveva raccontato che il figlioletto era stato vittima di abusi da parte di Blaine, che lo aveva toccato e che dichiarava a tutti di esserne innamorato e certe cose non erano tollerabili.

Quando dopo qualche minuto di shock riuscì a riprendersi dovette correre nel bagno infondo al corridoio per vomitare nonostante non toccasse cibo dalla sera precedente. Aveva capito chi era quella donna e l’idea che il suo migliore amico Herman gli avesse fatto quello dopo che gli aveva confessato il suo più grande segreto gli aveva fatto rivoltare lo stomaco.

L’ultima frase che si ricordava di aver scambiato direttamente con suo padre risaliva a quella giornata quando, poco prima di andare a dormire, aveva fatto irruzione nella camera e gli aveva tolto le coperte di dosso, lo aveva picchiato per poi guardarlo dritto negli occhi.

«Mi fai schifo.» aveva detto e poi se ne era andato. Albert poi si era steso nel letto con lui e lo aveva lasciato piangere tutta la notte.

Quel quattro giugno però, nonostante i fumi dell’alcol, suo padre sembrava essere tornato la persona che lo faceva saltare sulle sue ginocchia solo per sentirlo ridere. Sentiva ancora la mano che gli bloccava la circolazione del braccio premere ma poco a poco il dolore si annullava e con semplice cenno del capo cercò di fargli riassumere quello che sentiva in quel momento, incapace di parlare.

Ho capito papà, voleva dire. Lo so che mi vuoi bene, che vuoi il meglio per me, nonostante tutto.

Lo aveva lasciato andare, spingendolo con poca forza per farlo alzare e poi aveva ripreso il bicchiere tornando in silenzio. In quel momento tornarono i suoi fratellini tutti sporchi di terra e polvere e lui si alzò per andare a salutarli, scompigliando loro i capelli e posando baci sulle loro fronti.

Nessuno di loro sarebbe mai stato Albert, ma quelle pesti di sicuro sarebbero stati un sostituto migliore di quello che Blaine poteva essere. Salì la rampa di scale che portava alla sua stanza e dall’armadio tirò fuori una vecchia valigia che una volta era appartenuta a una vecchia zia, ricoperta da macchie scure di umidità ma funzionale quindi non se ne preoccupò più di tanto, anche perché aveva l’impressione che se non avesse fatto tutto e subito il tempo gli avrebbe fatto cambiare idea.

Prese i pochi vestiti che ancora aveva, il diario con le canzoni che aveva scritto di notte sul terrazzo quando tutti dormivano e la chitarra. In una sacca chiuse tutti i soldi che era riuscito a guadagnare e scese nel corridoio dove sua madre, tornata da poco, stava già lavorando passando la scopa sull’unico tappeto buono che erano riusciti a permettersi.

«Dove vai?»

«In America» aveva risposto e la aveva tenuta stretta mentre piangeva, sentendo le manine dei suoi fratellini che lo abbracciavano dove potevano. Li aveva sollevati uno alla volta e aveva posato un bacio dove prima c’era stato quello di suo padre e anche se loro non capivano quello che stava succedendo avevano iniziato a piangere e a lamentarsi. Nonno Gèrman poi gli aveva posato in mano il suo rosario e lo aveva buttato fuori di casa con un gentile Fai tanti soldi e torna che serviranno per il mio funerale che lo aveva fatto sorridere e poi scoppiare in lacrime.

Blaine aveva sempre odiato Theodore Roosvelt perché lo aveva sempre ritenuto un opportunista che si era approfittato della sua gente per ottenere più fama e gloria di quanta già gli Stati Uniti non avessero. Ma mentre camminava per la strada che portava alla stazione, passando davanti la scuola elementare nel quale era andato da bambino, guardò la foto di quell’uomo con la cravatta di seta che ancora gli incuteva un po’ di timore e i suoi lineamenti gli sembrarono meno duri. Erano passati sessanta anni dal suo governo e grazie a lui Panamà era un posto migliore, era quello che suo nonno raccontava a Natale e lui non aveva mai ascoltato fermo nelle sue convinzioni.

Niente era stato capace di fargli cambiare idea, su Roosvelt e sugli americani, ma era bastato quel treno rosso e quel pomeriggio assolato per sconvolgere la sua vita. Non sapeva perché ma improvvisamente sentiva che se mai sarebbe successa una cosa del genere doveva accadere grazie a suo padre che gli voleva bene, nonostante fosse difficile per lui accettare la natura del suo secondogenito.

Davanti al solito bar l’aria di festa andava consumandosi e la voce un po’ stridula di Jeff si sentiva dal fondo della strada. Quando lo vide arrivare gli andò incontro e lo guardò sorridendo.

«Vado in America» aveva detto improvvisamente, quando era stato sicuro che tutti li stessero guardando. Molti scoppiarono a ridere ma poi gli vennero incontro cantando e ballando, coinvolgendolo per la prima volta dopo tanto tempo in quei festeggiamenti.

Non era più arrabbiato e dopo averlo confessato ai suoi amici, un profondo senso di beatitudine lo travolse. Andava in America, si ripeteva. Vado negli Stati Uniti e realizzo tutti i miei sogni. Sogni che improvvisamente spuntavano da ogni angolo, che erano sempre stati lì nascosti e che cercava di soffocare, parlando di quella casa in fondo a quella traversa dell’Avenida Sebastian Sucre e al suo lavoro dal droghiere. Voleva cantare, e girare il mondo e innamorarsi di un ragazzo con gli occhi azzurri come il cielo, la pelle candida e le guance rosa come le pesche.

«Il primo treno è tra due giorni, il nostro.»

«Ma io devo partire subito, o cambio idea»

Le guance e la pancia gli facevano male per quanto le risate le scuotevano ma quando una mano piccola lo fece girare verso la fontana si fermò, sorridendo solo con gli occhi.

«Non ti preoccupare, arrivato a questo punto non cambi più idea.»

La sua voce era melodiosa e di nuovo sentì quella sensazione inebriante che solo qualche ora prima gli aveva fatto immaginare una morte lunga e piacevole. E avrebbe voluto andargli vicino e stringerlo perché grazie ai suoi occhi la sua vita era cambiata e anche se sembrava assurdo aveva voglia di passare il resto dei suoi giorni al fianco di quello splendido uomo con indosso vestiti costosi e il sorriso intelligente.

Kurt Hummel aveva un viso che gli ispirava fiducia e il volto così bello che sarebbe potuto essere un bellissimo dipinto, nei suoi occhi brillava una luce particolare che lo aveva portato fino a Penonomé per un motivo, che lo aveva fatto diventare la novità numero uno del suo paese, che gli aveva sconvolto la vita.

«Hai ragione, non cambio idea.»

 

 

 

Fine.

 

Da dove esce questa cosa? Dal mio libro di storia che mi ha fatto fissare con l’indipendenza di Panama e al personaggio di Roosvelt. Penso sia plausibile che una persona che non ha vissuto quei momenti possa mal interpretare le intenzioni del presidente. Ho come l’impressione che Blaine sia fuori carattere, se lo pensate avvisatemi che metto l’avviso con tranquillità.

Tutta la storia mi è piaciuta, credo a volte sia troppo lenta, con troppo flashback e a volte troppo veloce, ma penso che alla fine ci sia un buon equilibrio. Avrei voluto approfondire di più la Klaine ma la storia non me ne ha lasciato l’occasione. Peccato. Ho messo anche un po’ di Neff gratuito che non fa mai male v.v

La posto ora perché non credo avrò altre occasione. Saluto tutti quelli che mi vogliono bene, quelli che mi conoscono e chi morirà stanotte con me e con tutto il fandom di Glee. Pace, Nacchan.

   
 
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