Sogna
l'America, niño.
Theodore Roosvelt
aveva un viso che ispirava fiducia. Aveva una voce potente e il volto
paffuto
tipico degli americani per bene, nei suoi occhi brillava una
particolare luce
che gli aveva permesso di farsi amare dalla sua gente, che lo aveva
fatto
diventare uno dei migliori presidenti che gli Stati Uniti avevano mai
avuto.
A Panama, i
vecchi patriarchi lo ricordavano spesso alle cene di famiglia, con i
toni
smorzati degli anni si sedevano dritti e parlavano di come, quando
erano
giovani loro, avesse fatto tanto per il loro paese, di come aveva
cacciato via
i colombiani e gli aveva permesso di essere liberi.
Per quanto
Blaine da bambino avesse sempre ammirato quei racconti, si ricordava le
sere di
Natale steso sul tappeto ad ascoltare rapito nonno Germàn
che dalla sua
poltrona di pelle alzava il bicchiere di vino ogni volta che doveva
pronunciare
il suo nome, la trovava una figura sbagliata nella storia del suo
paese. Era
arrivato, aveva fatto qualche giochetto politico e se loro ci avevano
guadagnato la repubblica lui si era accaparrato il loro canale per i
suoi
comodi. E aveva vinto due guerre mondiali per merito loro senza mai
dare niente
in cambio, pensava all’età di sei anni.
La grande foto
appesa nello studio di suo padre proprio sotto la grande bandiera rossa
e blu
poi, con quel monocolo e la cravatta di seta, gli incuteva un
po’ di paura.
Aveva un’aria così seria, i lineamenti ammorbiditi
dalle guancie gonfie erano
rigidi e lo sguardo, nascosto leggermente dalla lente, sembrava che lo
seguisse
ogni volta che entrava nella stanza.
Quando era
arrivato al suo primo giorno di scuola una sua foto era appesa anche
nell’atrio
stretto che accoglieva tutti prima di essere assegnati alle classi e
quando lui
sbuffò a quella vista una maestra gli tirò uno
scappellotto dietro la nuca,
facendogli segno di camminare.
All’età di
vent’anni ancora nessuno era stato capace di fargli cambiare
idea, sul primo
Roosvelt ma soprattutto sugli americani. I suoi genitori avevano anche
provato
a proporre una gita per arrivare fino in Texas che comprendeva prendere
un
autobus, una nave, poi in treno e infine un altro autobus alla quale si
era
fermamente opposto riuscendo ad averla vinta, grazie soprattutto
all’ingerente
somma che avrebbero dovuto pagare e che avrebbe sicuramente gravato
sulla loro
condizione economica. Tutto quello che Blaine conosceva era
Penonomé e anche se
a volte si ritrovava a pensare che la comunità bigotta e
grossolana del suo
paese non aveva mai progettato di andarsene da quel posto, dalle vie
che lo
avevano visto nascere, crescere e diventare un uomo. Ogni tanto aveva
parlato
con David della prospettiva di fare un viaggio, arrivando a Aguadolce
magari o addirittura
fino Santiago dove si diceva essere uno dei campi di baseball
più belli del
mondo.
All’età di
vent’anni Blaine odiava gli americani e sognava una vita
tranquilla, suonava la
chitarra la sera quando si incontrava con il suo gruppo di amici nella
piazza
del paese e le ragazze gli cadevano ai piedi ma lui se ne interessava
poco.
Preferiva pensare ai soldi che stava mettendo da parte per raggiungere
la somma
che Juan gli aveva chiesto come caparra per quel piccolo appartamento
in fondo a
quella traversa dell’Avenida Sebastian Sucre, a pochi isolati
da dove abitava
con i suoi genitori. I suoi amici ogni tanto si mettevano a parlare di
politica
e lui si alzava con la sua chitarra e andava a sedersi sul bordo della
fontana
spenta, restando zitto per non mettersi a litigare con loro.
Aveva le sue
idee lui e le difendeva. Jeff una volta, qualche anno prima, gli aveva
detto di
smetterla di fare il bambino e di capire come andava il mondo, che
Panamà era
un bel posto ma che la vita era un’altra, che
l’America era il futuro e che se
volevano sul serio realizzare i loro sogni dovevano guardare
più in là del
Messico. Qualche mese dopo aveva preso un pullman, una nave, un treno e
infine
un altro pullman, e non era più tornato.
Così ormai,
quando si iniziava a parlare di Dallas e di come il presidente Kennedy
fosse un
grande uomo, -quasi alla pari di Theodore!
aveva detto Thad un giorno con la sua solita cadenza forzata e ka voce
così
alta che un signore dal bar vicino si era avvinato e gli aveva tirato
una colpo
sulla schiena con il bastone da passeggio- lui si isolava
perché aveva paura
che un’altra sfuriata con uno dei suoi amici gli avrebbe
invogliati ancora di
più ad andare via.
Ma lui proprio
non gli sopportava gli americani. Il giorno in cui Nick
arrivò tutto trafelato
con quasi un’ora di ritardo e alcuni fogli svolazzanti in
mano, pensò che il
corriere che quel pomeriggio aveva fatto il giro del paese gli avesse
portato
la nuova copia di un giornale che stampavano in Florida, invece era una
lettera
di Jeff che raccontava entusiasta della sua avventura in Ohio. Non era
un gran
paese diceva, non era New York ma tutto procedeva a gonfie vele, era
stato
assunto quasi subito da un brav’uomo nella sua officina e
finalmente aveva
raccolto abbastanza soldi per fare una vacanza e tornare a
Penonomé per qualche
giorno. Viveva il suo sogno americano. Blaine guardò la
scena con orrore,
immaginando il suo ritorno e il suo cambiamento. Nick era quasi in
lacrime
mentre stringeva talmente forte quei fogli sino a far diventare bianche
le
nocche e gli altri saltavano da una parte all’altra rubando
la sua chitarra
lasciata in un angolo per cantare qualche canzone con accenti strani
che
volevano assomigliare a quello del presidente Kennedy che ascoltavano
alla
radio.
«Blainito non
fare quella faccia!» gli aveva praticamente urlato David,
sorridendo e cercando
di coinvolgerlo nella strana danza che avevano iniziato muovendosi in
cerchio,
attorno a qualche povero passante «Torna il nostro amico! E
tra l’altro dice
che porterà un pensierino per tutti e un suo nuovo amico. Un
ragazzo americano
qui! Ti rendi conto?»
Naturalmente
non aveva aspettato una sua risposta e lo aveva lasciato
all’altezza della
pasticceria del centro, ridendo sguaiatamente mentre gli altri
continuavano la
loro corsa esagitata. La sua povera chitarra era stata malamente
appoggiata
contro un muro e lui andò a recuperarla, caricandosela con
cura sul una spalla
e incamminandosi cupo verso casa. Affamato ma con lo stomaco chiuso
decise di
salire direttamente nella sua stanza dove i suoi quattro fratelli
facevano
tanto di quel rumore che riuscivano addirittura e superare la
confusione che
aveva nella testa.
Era
arrabbiato. Non voleva Jeff perché era ancora arrabbiato con
lui, non voleva
che corrompesse i suoi amici a fare la sua stessa fine, non voleva quel
ragazzo
nella sua città. Tutti lo avrebbero venerato come un Dio
mentre era di sicuro
un fottutissimo ragazzino viziato, biondo e abbronzato che avrebbe
guardato e
giudicato la sua città come se sapesse tutto della sua
storia e delle sue
sofferenze, perché gli americani sono sempre convinti di
sapere tutto.
Sua madre era
venuta nella sua stanza quella sera, cosa che non faceva più
da quando a dieci
anni si era alzato sul letto e l’aveva rimproverata dicendole
che non era più
un bambino e che le favole poteva anche raccontarsele da solo, e si era
seduta
sul suo letto mentre lui ancora infossava la faccia nel cuscino. Gli
aveva
accarezzato la schiena e quando lui si era girato lei aveva un sorriso
splendido,
uguale a quello che la nonna Agostina, l’unica nonna che non
aveva mai
conosciuto perché morta di colera qualche anno prima della
sua nascita, aveva
nelle foto. Aveva quasi quarantacinque anni la sua mamma ma in quel
momento
sembrava una ragazzina e lui di slancio si sedette e la abbraccio forte
sussurrandogli ti voglio bene
posandogli baci sulle guancie rosse dal caldo.
«Non me ne
andrò mai da Penonomé mamma. Io
resterò qui con te, con Luis e Alejandro che sono
troppo piccoli per crescere da soli. Con il nonno German che invece si
è fatto
troppo vecchio e con papà che anche se fa il duro so che ci
vuole bene.»
«Non dire
queste cose niño, mi spezzi il cuore.»
«Ma io lo
faccio per voi. Juan mi vende l’appartamento che ha il
cartello qualche isolato
più in là, il mio lavoro alla drogheria mi fa
guadagnare abbastanza e io non
sono come tutti gli altri ragazzi.»
Lei si era
curvata, incassandosi lievemente nelle spalle, e il sorriso scomparve
facendo
tornare gli anni sul suo volto. E anche se in vent’anni
niente era mai stato
capace di far piangere sua madre in quel momento i suoi occhi si
riempirono di
lacrime e il verde intenso delle sue iridi si sciolse.
«Non dire
così, tu devi avere dei sogni bambino mio. E se non
è l’America che odi tanto
allora vai a Panama, vai fino in Europa se ti piace ma non rimanere in
questo
paese. Io so che sei diverso, cosa ti nascondi dentro figlio
mio,» disse
respirando profondamente e guardandolo dritto negli occhi «e
questo posto non
fa per te. Succederà qualcosa che ti indicherà la
tua strada, bambino mio, e
allora capirai. E io ti vorrò sempre bene.»
Il suo
discorso incomprensibile lo confuse e quando lei se ne andò
sgridando i suoi
fratelli e intimandoli di andare a dormire, rimase seduto sul letto per
alcuni
minuti sentendo ancora il calore della mano di sua madre sulla nuca e
l’ombra
della fronte sulla sua. Lui non voleva andare via, non sarebbe mai
andato via.
Non dormì per
niente e quando riuscì a chiudere gli occhi un attimo dopo
era mattina. E i
giorni passavano tra i racconti dei suoi amici su quello che Jeff
avrebbe
potuto portar loro e su quel nuovo decreto che probabilmente avrebbero
potuto
approvare in parlamento grazie alla campagna di Kennedy e al suo
sottosegretario. Poi arrivò il quattro giugno e a
Penonomé c’era aria di festa.
Una volta l’anno
tutto il paese era solito scendere nella grande piazza, sistemare
bancarelle
dell’usato che aveva conservato per i precedenti dodici mesi
e poi la sera il
sindaco pagava qualche artificiere per sparare qualche fuoco
d’artificio
colorato. Dalla festa di Sant Amador mancavano ancora tre mesi e il
chiacchiericcio infervorato delle vecchiette agli angoli delle strade,
la
fretta con cui i giovani attraversavano le strade stringendo tra le
dita vecchi
cappelli che venivano tirati fuori solo per le grandi occasioni, i toni
accaldati dei vecchi seduti ai bar potevano significare solo una cosa.
Il treno
stava arrivando e su di questo Jeff e il ragazzo americano.
Da qualche
giorno ormai cercava di non pensarci. L’indifferenza
è la tattica migliore gli
aveva detto qualcuno una volta, forse la zia Caterina quando voleva
tirarlo su
di morale se i suoi cuginetti lo prendevano in giro per la sua modesta
altezza.
Eppure sotto il sole cocente di quel giorno i pensieri che gli
friggevano nel
cervello giravano tutti attorno allo stesso argomento e se sua madre
non lo
avesse trascinato fino alla stazione di sicuro alla fine avrebbe corso
come un
matto per arrivare in orario.
Il treno, si
sentiva dire in giro fin dalla mattina presto quando lui era uscito per
andare
a lavoro, sarebbe arrivato alle tre. Un treno rosso dicevano, come
quelli che
si vedevano nelle prime fotografie a colori. Lui fu il primo ad
avvistarlo
perché tutti gli altri guardavano dalla parte sbagliata ma
non si azzardò a
farlo notare agli altri fino a quando il rumore assordante delle rotaie
e della
locomotiva arrivarono alle orecchie di tutti.
Da alcune
carrozze scesero dei turisti un po’ spaventati da
quell’accoglienza e solo dopo
qualche istante la faccia lunga di Jeff accompagnata dal caschetto
biondo fece
capolino da uno dei vagoni. Scese velocemente le scale e si
fiondò tra le
braccia del suo migliore amico che quasi non scoppiava nuovamente a
piangere.
Alle sue spalle poi apparve lui.
Aveva la pelle
talmente chiara che a prima impressione gli era sembrata bianca come
quella di
un cadavere e lo aveva spaventato. Poi, quando scese lentamente i tre
scalini,
arrivando con un balzo sul pavimento rosso della banchina, si accorse
che le
sue guance erano leggermente tinte di rosa, assomigliava, si disse
mentalmente,
al colore delle pesche poco mature e dal sapore asprigno che mangiava
quando ancora
l’estate non era arrivata. Si girò per tirare
giù dalla carrozza una grossa
valigia e se non avesse odiato così tanto gli americano di
sicuro si sarebbe
avvicinato per dargli una mano visto che nessuno sembrava curarsi delle
sue
difficoltà. Quando finalmente riuscì a sistemarsi
la borsa al suo fianco guardò
verso la folla che aveva davanti per niente intimorito,
cercò di individuare Jeff
e sospirò amaramente quando si accorse che era
inavvicinabile, circondato da
una ventina di persone che alternavano calorose pacche sulle spalle e
urla
emozionate in una lingua che sicuramente non capiva.
Si appoggiò
alla valigia e un istante dopo Blaine pensò di morire.
La morte era
un argomento che in casa sua si trattava spesso, con le varie
gravidanze che
sua madre cercava di portare a termine e che poi si rivelavano un
fiasco, con
il colera che aveva dimezzato la famiglia di suo padre e la recente
scomparsa
di Albert, suo fratello maggiore, dopo aver recitato il rosario le sere
passavano con l’enunciazione sulle varie teorie dei membri
della famiglia. Il
nonno ripeteva sempre di non vedere l’ora di passare dall’altra parte
perché voleva incontrare l’amore della sua vita e
perché voleva smettere di soffrire, che per certo la morte
non poteva essere
peggiore della vita che aveva vissuto lui. La mamma raccontava di come
una sua
zia una volta l’aveva presa da parte e le aveva confidato di
aver visto il
paradiso venirle mentre stava annegando nel lago e che era tutto bianco
e
luminoso. Blaine era credente ma non gli piaceva pensare alla morte,
perché
pensava che certi suoi ragionamenti lo avrebbero sicuramente mandato
all’inferno
e durante quelle chiacchierate un po’ macabre restava in
silenzio ad ascoltare
sempre le stesse storie.
Eppure quel
giorno, guardando gli occhi del ragazzo americano pensò che
era arrivato quel momento
e mentalmente, più veloce che poté,
recitò un Ave Maria. La luce del sole del
primo pomeriggio creava un gioco di luci nelle iridi di quel ragazzo
che
vagamente gli ricordava una pietra preziosa che aveva visto al collo di
una
donna, una domenica mattina dopo messa.
Pensò di
morire perché il cuore aveva iniziato a battergli talmente
furiosamente che da
un momento all’altro sarebbe potuto schizzare via dal petto,
e il respiro gli
si era bloccato in gola e lo stomaco all’improvviso si era
accartocciato
facendogli venir voglia di piangere. Tutti i suoni della folla che lo
circondavano erano scomparsi e in tutto il corpo riusciva a chiaramente
a
sentire il rumore del suo cuore che pompava troppo velocemente il
sangue nelle
vene.
Il ragazzo gli
sorrise e socchiuse leggermente le palpebre, mettendosi una mano
davanti al
viso e mise l’altra sulla valigia tirandosela dietro quando
fece qualche passo
verso di lui.
«Tu sei Blaine
vero?»
La sua voce squillante
arrivò stranamente alle sue orecchie e improvvisamente tutti
i rumori tornarono
violentemente. Il pensiero che quel ragazzo avesse appena parlato la
sua lingua
senza problemi non lo sconvolse più di tanto e si
ritrovò ad annuire,
mantenendo comunque la facciata seria che si era imposto di indossare
qualche
era stato scaricato lì nonostante la tempesta che si stava
scatenando nel suo
corpo.
«Io sono Kurt,
Jeff mi ha parlato molto di te. A quanto pare non ti piacciono gli
americani.»
Aveva sorriso
ancora una volta ed era andato via, tirando Jeff dal bavero della
camicia una
volta ben stirata rovinata dal lungo viaggio. Il biondo prese la
valigia del
suo amico e gli poso un braccio sulle spalle facendo qualche passo
più indietro
arrivando quasi a sfiorare con il tacco della scarpa il vecchio treno
ancora
fermo alla stazione.
«Lui è Kurt
Hummel.» aveva gridato e tutti avevano iniziato a parlare
contemporaneamente.
Il ragazzino aveva riso e il suo viso si era contratto in una smorfia
strana.
Quando si rese conto di essere stato contagiato dalla sua risata
capì, correndo
verso casa, che quel giorno non sarebbe morto ma che tutto quello in
cui aveva
creduto in quel momento stava per essere stravolto.
Le vie erano
deserte e quando tornò a casa si rese conto con terrore che
solo suo padre era
rientrato e in ogni stanza echeggiava la tosse catarrosa che da un paio
di
settimane lo accompagnava. Era seduto in cucina, su una delle sedie di
legno
che aveva costruito lui stesso quando aveva comprato quella casa, e
aveva un
bicchiere di vino in mano.
«Vieni qua
figliolo, siediti accanto al tuo vecchio.» aveva iniziato con
una voce ubriaca «Siediti!»
aveva finito scuotendo la sedia sul pavimento e alzando la voce,
facendolo
tremare mentre camminava per fare quello che gli era stato detto.
«È arrivato il
treno. L’America è dall’altra parte di
quel treno figlio mio e tu, come un
cretino, hai ancora la testa piena di sciocchezze! Alla tua
età la grande
guerra era appena finita e tutti avevano grandi sogni e
l’America in testa. C’era
un nuovo Roosvelt e quindi non c’era niente che poteva andare
storto.»
La sua risata
gli penetrava le ossa e quando gli appoggiò una mano grande
e callosa sul
braccio tenendolo stretto, Blaine temette di scoppiare a piangere
perché l’alito
pesante di suo padre gli arrivava sul collo e lui aveva paura quando
era così
vicino. Chiuse gli occhi e la sua mano libera scese sulle gambe
cercando di
aggrapparsi ai pantaloni di cotone che una volta erano di Albert
perché lui gli
desse la forza.
«Penso che sia
un bene che tu abbia paura di me, niño. La paura fa bene,
rinforza le ossa e
prepara il corpo alla vita. Senza la paura non si diventa
uomini.» aveva
sussurrato prima di sbattere il pugno sul tavolo facendolo sobbalzare.
«La vita
a Penonomé è una merda ragazzo, ma è
una buona gavetta. Puoi uscire e
conquistare il mondo adesso. Io ho messo incinta tua madre ma tu sei
ancora
libero di andare, di vivere.»
Guardare negli
occhi stranamente seri e concentrati suo padre era come guardarsi a uno
specchio. Il particolare colore delle iridi era sorprendentemente
simile al suo
e se quando era bambino trascorreva tanto tempo a giocare con
quell’uomo
incredibilmente alto dalle mani così grandi che era sicuro
potessero
racchiudere il mondo intero, ormai non ricordava più le
sfumature color oro che
circondavano la pupilla adesso annebbiate da una precoce cataratta. Non
parlava
più con suo padre da almeno quattro anni quando, tornato
dalla scuola con un
nuovo voto di cui andava particolarmente orgoglioso aveva trovato a
casa una
signora che non aveva mai visto sulla sua porta che parlava con la
mamma. È un depravato!
urlava la sconosciuta e
quando si era avvicinato per chiedere cosa stesse succedendo gli era
arrivato
uno schiaffo in pieno viso che lo aveva fatto cadere a terra. Albert
gli aveva
raccontato la sera, una volta tornato dalla cena alla quale non aveva
potuto partecipare
per punizione, che la signora era la madre di un suo compagno di
scuola. Era
venuta e aveva raccontato che il figlioletto era stato vittima di abusi
da
parte di Blaine, che lo aveva toccato e che dichiarava a tutti di
esserne
innamorato e certe cose non erano tollerabili.
Quando dopo
qualche minuto di shock riuscì a riprendersi dovette correre
nel bagno infondo
al corridoio per vomitare nonostante non toccasse cibo dalla sera
precedente.
Aveva capito chi era quella donna e l’idea che il suo
migliore amico Herman gli
avesse fatto quello dopo che gli aveva confessato il suo più
grande segreto gli
aveva fatto rivoltare lo stomaco.
L’ultima frase
che si ricordava di aver scambiato direttamente con suo padre risaliva
a quella
giornata quando, poco prima di andare a dormire, aveva fatto irruzione
nella
camera e gli aveva tolto le coperte di dosso, lo aveva picchiato per
poi
guardarlo dritto negli occhi.
«Mi
fai schifo.» aveva detto e poi se ne
era andato. Albert poi si era steso nel letto con lui e lo aveva
lasciato
piangere tutta la notte.
Quel quattro
giugno però, nonostante i fumi dell’alcol, suo
padre sembrava essere tornato la
persona che lo faceva saltare sulle sue ginocchia solo per sentirlo
ridere.
Sentiva ancora la mano che gli bloccava la circolazione del braccio
premere ma
poco a poco il dolore si annullava e con semplice cenno del capo
cercò di
fargli riassumere quello che sentiva in quel momento, incapace di
parlare.
Ho
capito papà,
voleva dire. Lo so che mi vuoi bene, che
vuoi il meglio per me, nonostante tutto.
Lo aveva
lasciato andare, spingendolo con poca forza per farlo alzare e poi
aveva
ripreso il bicchiere tornando in silenzio. In quel momento tornarono i
suoi
fratellini tutti sporchi di terra e polvere e lui si alzò
per andare a
salutarli, scompigliando loro i capelli e posando baci sulle loro
fronti.
Nessuno di
loro sarebbe mai stato Albert, ma quelle pesti di sicuro sarebbero
stati un
sostituto migliore di quello che Blaine poteva essere. Salì
la rampa di scale che
portava alla sua stanza e dall’armadio tirò fuori
una vecchia valigia che una
volta era appartenuta a una vecchia zia, ricoperta da macchie scure di
umidità
ma funzionale quindi non se ne preoccupò più di
tanto, anche perché aveva l’impressione
che se non avesse fatto tutto e subito il tempo gli avrebbe fatto
cambiare
idea.
Prese i pochi
vestiti che ancora aveva, il diario con le canzoni che aveva scritto di
notte
sul terrazzo quando tutti dormivano e la chitarra. In una sacca chiuse
tutti i
soldi che era riuscito a guadagnare e scese nel corridoio dove sua
madre,
tornata da poco, stava già lavorando passando la scopa
sull’unico tappeto buono
che erano riusciti a permettersi.
«Dove vai?»
«In America»
aveva risposto e la aveva tenuta stretta mentre piangeva, sentendo le
manine
dei suoi fratellini che lo abbracciavano dove potevano. Li aveva
sollevati uno
alla volta e aveva posato un bacio dove prima c’era stato
quello di suo padre e
anche se loro non capivano quello che stava succedendo avevano iniziato
a
piangere e a lamentarsi. Nonno Gèrman poi gli aveva posato
in mano il suo
rosario e lo aveva buttato fuori di casa con un gentile Fai
tanti soldi e torna che serviranno per il mio funerale che lo
aveva fatto sorridere e poi scoppiare in lacrime.
Blaine aveva
sempre odiato Theodore Roosvelt perché lo aveva sempre
ritenuto un opportunista
che si era approfittato della sua gente per ottenere più
fama e gloria di
quanta già gli Stati Uniti non avessero. Ma mentre camminava
per la strada che
portava alla stazione, passando davanti la scuola elementare nel quale
era
andato da bambino, guardò la foto di quell’uomo
con la cravatta di seta che
ancora gli incuteva un po’ di timore e i suoi lineamenti gli
sembrarono meno
duri. Erano passati sessanta anni dal suo governo e grazie a lui
Panamà era un
posto migliore, era quello che suo nonno raccontava a Natale e lui non
aveva
mai ascoltato fermo nelle sue convinzioni.
Niente era
stato capace di fargli cambiare idea, su Roosvelt e sugli americani, ma
era
bastato quel treno rosso e quel pomeriggio assolato per sconvolgere la
sua
vita. Non sapeva perché ma improvvisamente sentiva che se
mai sarebbe successa
una cosa del genere doveva accadere grazie a suo padre che gli voleva
bene,
nonostante fosse difficile per lui accettare la natura del suo
secondogenito.
Davanti al
solito bar l’aria di festa andava consumandosi e la voce un
po’ stridula di
Jeff si sentiva dal fondo della strada. Quando lo vide arrivare gli
andò
incontro e lo guardò sorridendo.
«Vado in
America» aveva detto improvvisamente, quando era stato sicuro
che tutti li
stessero guardando. Molti scoppiarono a ridere ma poi gli vennero
incontro
cantando e ballando, coinvolgendolo per la prima volta dopo tanto tempo
in quei
festeggiamenti.
Non era più
arrabbiato e dopo averlo confessato ai suoi amici, un profondo senso di
beatitudine lo travolse. Andava in America, si ripeteva. Vado
negli Stati Uniti e realizzo tutti i miei sogni. Sogni che
improvvisamente spuntavano da ogni angolo, che erano sempre stati
lì nascosti e
che cercava di soffocare, parlando di quella casa in fondo a quella
traversa
dell’Avenida Sebastian Sucre e al suo lavoro dal droghiere.
Voleva cantare, e
girare il mondo e innamorarsi di un ragazzo con gli occhi azzurri come
il
cielo, la pelle candida e le guance rosa come le pesche.
«Il primo
treno è tra due giorni, il nostro.»
«Ma io devo
partire subito, o cambio idea»
Le guance e la
pancia gli facevano male per quanto le risate le scuotevano ma quando
una mano
piccola lo fece girare verso la fontana si fermò, sorridendo
solo con gli
occhi.
«Non ti
preoccupare, arrivato a questo punto non cambi più
idea.»
La sua voce
era melodiosa e di nuovo sentì quella sensazione inebriante
che solo qualche
ora prima gli aveva fatto immaginare una morte lunga e piacevole. E
avrebbe
voluto andargli vicino e stringerlo perché grazie ai suoi
occhi la sua vita era
cambiata e anche se sembrava assurdo aveva voglia di passare il resto
dei suoi
giorni al fianco di quello splendido uomo con indosso vestiti costosi e
il
sorriso intelligente.
Kurt Hummel
aveva un viso che gli ispirava fiducia e il volto così bello
che sarebbe potuto
essere un bellissimo dipinto, nei suoi occhi brillava una luce
particolare che
lo aveva portato fino a Penonomé per un motivo, che lo aveva
fatto diventare la
novità numero uno del suo paese, che gli aveva sconvolto la
vita.
«Hai ragione,
non cambio idea.»
Fine.
Da dove esce
questa cosa? Dal mio libro di storia che mi ha fatto fissare con
l’indipendenza
di Panama e al personaggio di Roosvelt. Penso sia plausibile che una
persona
che non ha vissuto quei momenti possa mal interpretare le intenzioni
del
presidente. Ho come l’impressione che Blaine sia fuori
carattere, se lo pensate
avvisatemi che metto l’avviso con tranquillità.
Tutta la
storia mi è piaciuta, credo a volte sia troppo lenta, con
troppo flashback e a
volte troppo veloce, ma penso che alla fine ci sia un buon equilibrio.
Avrei
voluto approfondire di più la Klaine ma la storia non me ne
ha lasciato l’occasione.
Peccato. Ho messo anche un po’ di Neff gratuito che non fa
mai male v.v
La posto ora
perché non credo avrò altre occasione. Saluto
tutti quelli che mi vogliono
bene, quelli che mi conoscono e chi morirà stanotte con me e
con tutto il
fandom di Glee. Pace, Nacchan.