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Autore: bulletproofAliz    11/11/2011    4 recensioni
Aria. Aria fresca. Invadeva la trachea, sprofondava, poi arrivava ai polmoni, li squarciava, apriva il petto, fitte lancinanti, aliti di sangue trasparente uscivano dalle mie narici.
Aria d'inverno. Soltanto aria.
Come ci fossi finito lì ancora me lo stavo chiedendo.
Era un posto sperduto, in montagna. Lo potevo capire dall'aria gelida che si insinuava dentro di me. Voleva provare a corrompermi, cambiarmi, entrare in me e portarsi via quello che di mio restava ancora nel corpo vuoto e inerme. Nel mio restava poco di sano, quindi l'aria poteva portare via tutto quello che voleva.
- E' una oneshot piuttosto lunga, vi dico solo questo, non voglio anticipare altro.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Aria. Aria fresca. Invadeva la trachea, sprofondava, poi arrivava ai polmoni, li squarciava, apriva il petto, fitte lancinanti, aliti di sangue trasparente uscivano dalle mie narici.
Aria d'inverno. Soltanto aria.
Come ci fossi finito lì ancora me lo stavo chiedendo.
Era un posto sperduto, in montagna. Lo potevo capire dall'aria gelida che si insinuava dentro di me. Voleva provare a corrompermi, cambiarmi, entrare in me e portarsi via quello che di mio restava ancora nel corpo vuoto e inerme. Nel mio restava poco di sano, quindi l'aria poteva portare via tutto quello che voleva.
I miei genitori mi chiamavano malato. Sì, malato. In tono dispregiativo.
L'aria di montagna ha dei poteri su noi piccoli involucri vuoti, umani. Deboli. Rami insignificanti di un albero plurisecolare. Rami secchi, spogli.
Aria bianca, come la neve che mi si parava davanti agli occhi, spettacolo inquietante e affascinante.
Una baita sperduta tra i monti. Un posto di non ritorno. Bianco. Isolato. Immortale. Forse mi trovavo lì perchè ero morto.
Eppure il gelo intorpidiva le mie piccole mani, potevo sentire gli aghi che si infilavano lentamente nella pelle. Ero vivo, ed era atroce accorgersene.
Io non mi ero mai ritenuto malato. Eppure lo dicevano di me. Incurabile, addirittura.
In cura in una baita sperduta e desolata ai confini della carta geografica, io, il ragazzo incurabile.
Me ne fregavo del disprezzo dei miei genitori nei miei confronti, volevo solo tornare a casa, fuggire da quel luogo di non ritorno.
Credevano tutti che l'aria di montagna avrebbe aiutato. Un po' ci speravo anche io, a dirla tutta. Quindi respiravo a pieni polmoni.
Chiudevo gli occhi. Quel bianco mi si era appiccicato alla retina, anche quando chiudevo gli occhi vedevo comunque tutto bianco.
Silenzio, quasi totale, interrotto solo da qualche lieve fruscìo. Aveva iniziato a nevicare.
Piovevano pezzi di nuvole. Soffici aghi velenosi si posavano sulla pelle. Rientrai nella baita, sperando che la tempesta non mi ci avrebbe trattenuto troppo a lungo.
Era pronta la cena. Ormai non distinguevo più la mattina, il pomeriggio, le ore in cui le persone normali mangiano sedute tutte insieme a tavola, simulando l'ambiente familiare.
Quello non era un posto normale in cui mangiare come persone normali. Era avvolto da una patina bianca, una lieve nebbia, un nuvola di fumo leggero e sottile che si appiccicava alla pelle, faceva diventare tutti bianchi, irriconoscibili, cadaveri. Eppure la gente ospitata alla baita mangiava. Era pronta la cena.
Mi ritirai nella mia stanza come ogni sera, o pomeriggio, o mattina che fosse. Non faceva differenza per me; non mangiavo. Resistevo per qualche giorno, poi durante le mie 
asseggiate nella neve svenivo e mi venivano a prendere. Mi infilizavano la pelle con aghi e flebo di non so cosa, giusto per darmi forza per altri due o tre giorni. Ci erano abituati. Ed io con loro. Era routine. Era la mia vita. O meglio, la mia morte.
Come ci fossi finito lì ancora me lo stavo chiedendo. Ero un ragazzo sperduto, mi dicevano. Senza speranza.
Cambiare ambiente mi sarebbe servito. Cambiare aria. Aria nuova. Che poi, secondo me l'aria è sempre la stessa. Sono i pensieri che si mischiano insieme all'aria che respiri che la rendono diversa.
 
La baita si chiamava 'Eden'; altro che paradiso terrestre, quello sembrava l'inferno. Il luogo di non ritorno.
Senza collocazione nel tempo e nello spazio. Per questo motivo non riuscivo a distinguere la mattina dal pomeriggio e dalla sera, e camminavo per ore nei sentieri nella neve senza sapere dove mi trovassi. Non era un luogo di villeggiatura; di turisti non c'era neanche l'ombra. Il proprietario, lui non lo vidi mai. Non conoscevo neppure il suo nome.
Nella mia testa lui era il proprietario del Luogo di non ritorno, re del Nulla nel paese del Mai. Senza volto, lo immaginavo così. Nessuno.
Come ci fossi finito lì ancora me lo stavo chiedendo. Ricordavo poco della mia vita precedente. Però qualcosa mi apparteneva, un poco di quello che ero prima faceva ancora parte di me, forse avrei avuto qualche speranza di ricostruire la mia storia. Un mattino-pomeriggio-sera stavo riflettendo su cos'ero stato, fumavo una sigaretta sul balcone.
Mio Dio, iniziavo a ricordare, vita vera, persone vere, sensazioni vere. Allora ero esistito. Non ero confinato nel Luogo di non ritorno da sempre.
Ricordavo un volto. Un giovane, avrà avuto più o meno la mia età. Ma quanti anni avessi, era un mistero. Rimuginai a lungo sulla mia età, pensai a quello che non ricordavo di me.
Intorno al mio nome c'era un enorme punto di domanda. Possibile che avessi dimenticato anche il mio nome? Alla baita nessuno ricordava che mi fossi mai presentato con un qualche nome. Per loro era come se fossi lì da sempre. Eppure avevo appena iniziato a ricordare, non potevo essere lì da sempre.
La notte seguente a quel mattino-pomeriggio-sera mi svegliai improvvisamente. Distuinguevo che era notte. Era calato il buio sulla baita Eden.
Qualcosa mi aveva svegliato: un sospiro. Era un suono melodico, diceva una qualche parola per me irriconoscibile, mai udita prima, eppure al contempo sembrava familiare.
La sentii con chiarezza, ma sta volta ero sveglio: Frank. Un nome, il mio nome. Mi presentai alla baita, finalmente, con il nome di Frank, dopo non so quanto tempo, forse tutta la vita, o tutta la morte.
Mi balenava di continuo nella mente l'immagine di quel giovane. Occhi verdi, capelli neri. Viso angelico, innocente, sguardo ancora intrappolato nell'adolescenza.
Ci pensavo parecchio, a chi potesse essere. Aveva un nome? Non viveva alla baita, non avrei potuto chiederglielo. Come mai lo vedevo? forse apparteneva ad una qualche vita precendente. Mi sforzai troppo a ricordare, svenni. Mi piaceva svenire, per la fame. Vedevo nero. Quel bianco accecante spariva per qualche tempo -non avrei saputo dire quanto-.
Il nero mi dava pace. Respiravo, aria normale, non più il gelo del non ritorno.
Un giorno provai a disegnare il volto del ragazzo che veniva a galla da ogni mio pensiero.  Ovviamente non ci riuscii. Era terribilmente frustrante dare tutte quelle attenzioni a qualcosa di irrimediabilmente lontano dalla mia memoria, e anche fisicamente da me stesso. Una certezza che avevo era questa: quel volto ipnotico era davvero bellissimo.
Mi attirava e respingeva allo stesso tempo. Mi parlava. Iniziai a songare quel ragazzo. Prima solo i suoi occhi. Erano come gli aghi che usavano per iniettarmi qualche sostanza, quando svenivo. Era addirittura doloroso raffigurarli nella mia mente. Poi presi a sognare questo sconosciuto in diverse situazioni: lo vedevo che mi prendeva la mano, la stringeva. Mi osservava. Mi spiava, mi rubava la mia intimità, mi guardava dormire. Ero ossessionato dai suoi occhi vigili su di me. Ma li amavo. Mi facevano sentire vivo in quella terra del non ritorno. Svenire non mi serviva più: quando la vista mi si anneriva, i suoi occhi scomparivano. E arrivai al punto di non poter sopportare di non averli fissi su di me. Mi davano affetto. Neanche ricordavo che esistesse un sentimento simile. Mi davano amore. E allora cominciai a sognare dei lunghi pomeriggi trascorsi con questo sconosciuto, le sue mani che mi accarezzavano, i suoi abbracci che mi davano calore. Ma era tutto un ricordo? Dentro di me speravo vivamente che in un'altra vita lui fosse stato presente, per davvero. Anzi, forse sapevo che lo era stato. Mi svegliai dal sonno, una notte, dicendo il suo nome. Esisteva. Esisteva. Gerard. Così si chiamava. Iniziai ad amarlo.
Ma chi era lui per me..? Non l'avrei mai saputo, forse. 
Ero bloccato a letto da qualche giorno (a dire il vero non saprei dirlo, era un tempo troppo indefinito per precisare) quando successe una cosa parecchio strana.
Ero palesemente sveglio, avevo gli occhi aperti, ma allo stesso tempo stavo sognando. Per forza stavo sognando, perchè vedevo con chiarezza Gerard, in piedi, di fianco al mio letto.
Una stretta alla mano che sfidava la credibilità del sogno mi faceva avvampare. Era la mano di Gerard che stringeva la mia. Non l'avevo mai sentita così forte.
Che fosse lì davvero..? Impossibile.
Si avvicinò con il suo sguardo di ghiaccio (tutto in quel mondo era di ghiaccio, ma i suoi occhi erano comunque meravigliosi) quasi fino a far toccare la mia punta del naso con la sua. 
Mi fissava. Se quel mondo remoto in cui mi trovavo non era la morte, allora in quel momento potevo morire realmente, alla vista di quel volto così irrimediabilmente vicino.
Una dopo l'altra, mi versò addosso le sue lacrime, inesorabili, pungenti, quasi soffocanti, e la distanza che percorrevano dai suoi occhi alle mie guance era sempre minore, fino a che fu nulla.
 
-
 
Frankie si svegliò. Aprì gli occhi. Gerard era accoccolato sulla sedia dell'ospedale, di fianco al suo letto. Dopo lunghissimi mesi di attesa, finalmente rivedeva l'amico, vivo.
Non c'era pericolo, non più. Frankie si era risvegliato dal coma. Gerard aveva smesso di tenere il conto di quanto tempo era passato dall'incidente. Ma ricordava ancora perfettamente perchè Frankie si era spinto fino a tanto: dopo un'aspra lite con i genitori, si era ubriacato ed era uscito, in auto. Prevedibili le dinamiche dell'incidente. Meno prevedibili invece tutti quei mesi in coma farmacologico. Gerard si sentiva terribilmente in colpa, perchè Frank e i genitori avevano litigato per causa sua. O meglio: avevano scoperto la relazione tra il figlio e l'amico d'infanzia. Sconvolti per queso fatto, avevano iniziato a dire del figlio che era malato, irrecuperabile, un mostro.
Non si erano neanche mai presentati in ospedale, da che Frank era ricoverato. Mai. Solo Gerard c'era sempre stato, a stringergli la mano, a sussurrare il suo nome, a piangere mentre accostava le sue labbra a quelle fredde dell'amico che non poteva rispondere. Gli occhi di Frankie scrutarono la stanza. Gerard si alzò di scatto e scoppiò a piangere.
'Gerard..'
Sentendo il gemito di Frankie, i singhiozzi aumentarono notevolmente, la smorfia incredula sul viso di Gerard era straziante, nonostante stesse piangendo di gioia.
Tutto quello che era accaduto nella mente di Frank non era vero. Nel momento in cui aprì gli occhi, lo dimenticò. Era solo il riflesso di una vita a metà, con qualche schizzo di realtà in un universo amorfo, incolore, insapore. Ma ora Gerard gli stringeva la mano, per davvero, e la vita aveva ripreso ad avere un senso.
Gerard si asciugò le lacrime e si protese verso l'amico, che, con un nuovo sorriso sbocciato dal volto prima inespressivo, metteva a dura prova la sua capacità di trattenere un altro pianto: appoggiò delicatamente le labbra a quelle di Frankie, e questa volta le sentiva calde, secche, vive.
 
 
I swear that I can go on forever again,
Please let me know that my one bad day will end.
I will go down as your lover, your friend.
Give me your lips and with one kiss we begin.
Are you afraid of being alone?
Cause I am, I'm lost without you.
 
I'll leave my room open till sunrise for you,
I'll keep my eyes patiently focused on you,
Where are you now I can hear footsteps I'm dreaming,
And if you will, keep me from waking to believe this.

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Salve lettori :) non lascio mai un commento alla fine delle mie fan fictions però per questa volevo precisare qualche cosa:
-Prima di tutto, è una cosa che ho scritto parecchi mesi fa e che ho ripreso ora solo per adattarla alla Frerard. Inizialmente l'avevo pensata molto diversamente, ma così non è male, no? (voglio leggere le vostre opinioni, mi raccomando lasciatemi qualche recensione!)
-E' una oneshot piuttosto lunga, lo ammetto, però non volevo dividerla in capitoli, ha molto più senso se la si legge in un solo momento.
-Non ci sono scene lemon e altro perchè mi sono resa conto che è meglio se le evito nelle mie fan fiction HAHAH spero che vi sia piaciuta lo stesso!
-La canzone che mi ha ispirata (e che ho riportato alla fine) è 'I'm Lost Without You' dei Blink-182 (se non vi piacciono non cagate il cazzo, grazie, la canzone per me è significativa e ci azzecca con la storia e.e)
Peace & Love.
  
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