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Autore: Soul Sister    11/11/2011    6 recensioni
L'Honesty bar: un posto tranquillo, nella periferia di Lima, un locale dove gli amanti della musica si ritrovano e passano le serate ad esibirsi sul palco. Ha un che di magico, capace di farti dimenticare per un po' le preoccupazioni.
Kurt e Blaine amano andarci; entrambi sentono il bisogno di essere loro stessi per qualche ora, lontano da giocatori di football omofobi o da genitori che li preferirebbero malati piuttosto che gay.
Ed è lì, all'Honesty, che Kurt e Blaine s'incontrano.
E se questo angolo di paradiso dovesse essere chiuso?
E se, per trovare il paradiso, bastasse essere insieme?
Estratto del capitolo X: «Gli devo molto»
Anderson alzò un sopracciglio, osservando curioso Kurt e facendogli una muta richiesta di proseguire. Le labbra del controtenore si sollevarono appena, in un sorrisetto adorabile.
«Mi ha dato la possibilità di conoscerti»
Il cuore di Blaine si fermò. Ma non sapeva se era per la frase, o anche per quanto stupendo era Kurt quando arrossiva- forse per entrambi. Ci impiegò qualche secondo, per realizzare le parole; e quando lo fece, si ritrovò a cercare lo sguardo di Kurt e a sorridergli.
«Oh, io non gli devo molto: gli devo praticamente tutto. »
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angolo Autrice. C:
Ok, innanzitutto, salve a chiunque abbia aperto questa storia. ^^
Tanto per premessa, diciamo che questa fic è piuttosto differente dalla serie tv della Fox;
Kurt e Blaine non si incontrano per la prima volta alla Dalton. ù.ù Entrambi probabilmente saranno OOC, e magari la cosa non vi piacerà..nel caso non ve gusta come li ho trattati in questo primo capitolo, potreste sempre linciarmi e picchiarmi. ù.ù" Ricordate che sono delicata, niente mazze chiodate, per piacere >.<
Beh, io avevo in mente questa storia alternativa.. spero vi piaccia. :)
Honesty bar
Capitolo 1. Masks and songs
Le luci del locale si abbassarono, fino a che non calò una tenue e accogliente penombra.
Gli spettatori dell'Honesty erano silenziosi, tutti in una curiosa attesa per il primo numero di quella sera;
Kurt prese un respiro profondo, poi si spostò sul palco, e staccò il microfono dal sostegno.
Per qualche istante, si sentirono solo i suoi passi sul rialzamento di legno del pavimento.
Quando la base della canzone stucchevole che aveva scelto cominciò a vibrare in soavi note di pianoforte, un riflettore dalla luce debole lo illuminò; Kurt sorrise, sentendo la familiare aritmia del suo cuore che lo prendeva ogni volta che stava per esibirsi davanti ad un vero pubblico.
Era del tutto a suo agio, su quel piccolo palco scenico, che per Kurt era come una casa dove sentirsi al sicuro, protetto.
Senza quel localetto fuori Lima, Kurt si sarebbe sentito perso; da quando l’aveva trovato per caso, smarrendosi dopo aver accompagnato la sua amica Mercedes ad una cittadina vicina più di sei mesi prima, era diventato un frequentatore assiduo.
Aveva fatto amicizia col proprietario, ed era sempre il benvenuto, sia per bersi qualcosa di rigorosamente analcolico, sia per animare la serata con una delle sue canzoni.
Lì, Kurt si sentiva semplicemente sé stesso. A nessuno importava se fosse o meno gay; per quelle poche manciate di minuti in cui cantava,
venivano apprezzate la sua simpatia e il suo talento. Non si sentiva giudicato se cantava una canzone da donna, perché anche in quel caso la sua voce spazzava via ogni pregiudizio: perché se anche era una canzone prettamente femminile, la trasformava in un capolavoro marchiato “Hummel”. E la distinzione di sesso non era più nemmeno considerata.
Kurt cominciò a cantare, dando il meglio di sé come sempre: sapeva di essere bravo, molto bravo; la sua voce da soprano era magnifica, e non lo diceva solo per vantarsene.
Le canzoni di Kurt sapevano diventare struggenti in un modo inverosimile, quando ci metteva tutti i suoi sentimenti: come in quel momento.
Il successo fu assicurato: uno scroscio di applausi si levò non appena la melodia si affievolì e le luci si alzarono.
Kurt fece un breve inchino, con un sorrisetto soddisfatto sulle sue labbra piene e rosee.
Lanciò una breve occhiata verso un tavolo in particolare, incrociando uno sguardo brillante, caldo e profondo come l’infinito.
Per un secondo, Kurt perse la cognizione di tutto il resto, poi si riscosse, ripose il microfono, e scese dal palco; il proprietario del locale, John, gli diede una vigorosa pacca sulla spalla, con un sorriso compiaciuto.
«Complimenti ragazzo, sei quasi riuscito ad allagare il mio locale!» scherzò; o almeno, così credette Kurt. Non si era accorto che due signore, circa sulla quarantina, nel sentirlo cantare, si erano messe a piangere per le emozioni che aveva trasmesso con la sua voce.
Si sedette su di un divanetto, e ordinò qualcosa da bere; intanto le luci si stavano riabbassando: accavallò le gambe sotto il tavolino, e si mise più comodo per godersi il resto delle esibizioni.
.
Blaine salì sul palco con decisione, afferrò il suo migliore amico, il microfono, e lo avvicinò alle sue labbra tirate in un sorriso spavaldo.
La base di Misery cominciò a risuonare nel pub; come sempre, senza un briciolo di esitazione, si fece trasportare dal ritmo incalzante dei Maroon 5. Ad ogni battuta del pezzo che eseguiva, il cuore di Blaine ricomponeva i cocci, e semplicemente toglieva la maschera che portava costantemente.
Non era più il figlio dell’importante imprenditore Anderson, non era più quel ragazzo composto e rigido che non poteva mai dire la sua;
quando cantava lì all’Honesty, dava libero sfogo a tutti i suoi pensieri, alla sua rabbia repressa, e soprattutto al suo segreto che ormai lo soffocava.
La veste dell’etero cominciava a stargli stretta: erano due anni, che Blaine aveva capito di essere omosessuale.
E quando aveva cercato di dirlo a suo padre, non solo si era beccato uno schiaffo, ma si era sentito minacciato dal suo stesso genitore.
Il signor Anderson gli aveva imposto di essere etero, di rinnegare il suo essere, altrimenti l’avrebbe diseredato e mandato a vivere sotto un ponte, e si sarebbe scordato la scuola privata.
In quanto a sua madre, per quanto pensasse che il marito era stato esagerato, c’era rimasta male: Blaine gliel’aveva letto negli occhi.
«Spero che questa malattia ti passi presto» aveva detto suo padre, con un tono sibilante, «Spero che lo schiaffo ti faccia rinsavire».
Per un attimo, mentre quel ricordo amaro gli passava davanti agli occhi, la voce di Blaine tremò.
Immediatamente riprese controllo di sé, e rinchiuse a chiave i ricordi spiacevoli che aveva lasciato correre a briglia sciolta, in un cassetto della sua mente.
Concluse la sua esibizione con fischi d’approvazione; Blaine si aprì in un sorriso stiracchiato, e scese di filato dal palco.
Evitò accuratamente di passare accanto a John, prima che attaccasse con i suoi soliti elogi, e si risedette al suo tavolino appartato.
Prima ancora che potesse prendere un respiro, una figura scivolò al suo fianco.
«Ehi! » esclamò la ragazza, passandosi una mano tra i capelli lunghi e morbidi, nel palese tentativo di ammaliarlo. Peccato che con lui non attaccasse. «Ciao, sono Baily. Ti va di fare un giretto con me? Per divertirci un po’».
Blaine alzò un sopracciglio, e l’angolo destro della bocca andò verso l’alto, in un sorrisetto storto; «No, ti ringrazio ma non sono interessato».
Baily alzò a sua volta il sopracciglio, ma se l’espressione di Blaine era divertita, la sua era piuttosto scocciata. «Cagnolino fedele alla sua ragazza?» sibilò quelle parole come se fossero un oltraggio, e Blaine si trattenne dal riderle in faccia.
«No, nessuna ragazza» disse, con un tono pacato, «Sono gay.»
Baily rimase a bocca aperta, con gli occhi stralunati. «Oh» mormorò, arrossendo un po’ sulle gote, per poi alzarsi e chiedere scusa.
Mentre si voltava, Blaine la sentì borbottare qualcosa come «Ma perché migliori o sono gay o sono impegnati..?!»
Ridacchiò sotto i baffi, si mise comodo, e si preparò per godersi il resto della serata.
-
Quando il ragazzo dagli occhi brillanti concluse Misery, Kurt fu il primo ad applaudire con entusiasmo, anche se il tipo era sceso immediatamente dal palco con un’espressione tesa. Non poteva essere preoccupato di essere andato male, si disse Kurt.
Se lui aveva un talento naturale, quel ragazzo moro poteva benissimo competere con lui, era un dato di fatto.
Non sembrava un principiante come gli altri clienti che si prenotavano per il karaoke, anzi tutto il contrario; proprio come Kurt, pareva vivere per il palco e per la musica.
Quando Kurt aveva cominciato a frequentare l’Honesty, quel ragazzo già cantava lì: non sapeva da quando e per quanto tempo, ma già sei mesi prima, riscuoteva parecchio successo. E ogni giorno venerdì sera era sempre meglio.
Gli sarebbe piaciuto seguirlo al suo tavolino in fondo alla sala per fargli i complimenti personalmente; ma ovviamente non lo fece, non aveva tutto quel fegato.
Il resto della serata all’Honesty lo passò ad ascoltare vecchie canzoni country di alcuni signori di mezz’età, un tentativo lirico da parte di una donna della quale non si vedeva più il giro vita, e un fan di Elvis, con tanto di tutina bianca e parrucca col ciuffo. In quella particolare esibizione, Kurt non seppe se piangere o ridere fino alle lacrime. Gli sarebbe piaciuto avere lì con sé Mercedes o Rachel, solo per poter commentare con qualcuno. Certo, anche lui era stravagante, ma aveva stile.
Kurt guardò il suo orologio: era quasi mezzanotte, ed erano tre ore che se ne stava seduto lì all’Honesty.
Perciò decise che era giunto il momento di tornarsene a casa, anche perché a suo padre aveva detto che era a casa di Mercedes a vedere un film, e non era il caso che Burt venisse tentato improvvisamente dal telefonare a casa Jones per l’ora tarda.
Così, indossò il suo nuovo giacchetto bianco, si stiracchiò lentamente e con uno sbadiglio, poi salutò con un cenno John e uscì dal locale, diretto alla sua auto. O meglio, all’auto del padre.
In macchina accese la radio, e la mise sulla sua stazione preferita: in meno di un quarto d’ora, andando con calma e sgolandosi a ritmo dei suoi classici di un tempo preferiti, raggiunse casa sua.
Quando entrò in casa, trovò suo padre addormentato, in una posizione improponibilmente scomoda, sul divano.
Kurt sorrise intenerito, e dopo aver riposto la giacca sull’attaccapanni si avvicinò a Burt.
Lo scosse dolcemente, ricevendo in risposta solo un grugnito: suo padre continuò a russare.
Kurt sbuffò, un po’ esasperato e divertito. «Dai, papà. È tardi, vai a dormire di sopra»
A quel punto, Burt sbattè le palpebre, e guardò intontito il figlio. «Kurt..che ore sono? »
Kurt si aprì in uno dei suoi sorrisi smaglianti, cercando di far trasparire nei suoi occhi tutta la sincerità possibile. «Il film era più tragi-noioso di quello che Mercedes pensasse..ci siamo appisolati» spiegò il ragazzo; un po’ perché era ancora mezzo in coma, un po’ perché Kurt aveva un’aria genuina e innocente, Burt decise di non fare altre domande. Si alzò con un mugolio, poggiandosi la mano alla schiena. «Quel divano mi distrugge la schiena» borbottò.
Kurt ridacchiò, posando le mani su entrambe le spalle di Burt, e lo sospinse verso la sua camera. «Sei distrutto, buonanotte, papà»
«Mmm.. » rispose Burt, entrando nella sua stanza.
-
Blaine rincasò verso l’una, quella notte.
Quando entrò in casa sua, trovò suo padre che lo attendeva, con un’aria circospetta. «Dov’eri, Blaine? »
Il figlio sospirò, preparandosi a indossare la maschera del bravo figlio etero. «In giro, con una ragazza che ho trovato in una discoteca. Non me la sentivo di farla tornare da sola, l’ho accompagnata a casa io. Era carina» mezza verità.
Il signor Anderson rimase piacevolmente sorpreso; fissò il figlio più attentamente, come a trovare tracce di tentennamento; sembrava sincero, e questo lo rallegrò. Saperlo di nuovo normale, saperlo di nuovo il suo ragazzo, gli toglieva quel peso dal cuore. Solo il pensiero dello scandalo che avrebbe potuto portare il fatto che suo figlio avesse quella malattia gli faceva venire i brividi.
«Pensi che la rivedrai? » chiese, sondando meglio il terreno. Blaine trattenne a stento una smorfia: suo padre stava testando quanto fosse etero.
«Forse» soppesò, con un’aria indifferente, «Almeno finchè non ricomincerà la scuola»
Il signor Anderson annuì, «Ma potreste continuare a sentirvi. Magari si fa una cosa seria» disse, speranzoso.
Blaine si voltò, spostandosi verso l’appendiabiti, dando la schiena al padre. «Se le cose andassero bene, potrei anche presentarvela» disse con ironia e una smorfia, che suo padre ovviamente non colse. Al contrario, si aprì in un sorriso smagliante. «Ci conto!»
Blaine annuì, senza voltarsi verso di lui e spostandosi verso camera sua.
Non si tolse nemmeno le scarpe, si lasciò cadere a peso morto sul suo letto.
In quel momento, odiava con tutto sé stesso le vacanze di Natale.
Lo obbligavano a tornare dai suoi genitori, e di conseguenza a comportarsi come qualcuno che non era.
Alla Dalton, la scuola privata per soli ragazzi in cui andava, alcuni suoi amici fidati sapevano che era gay; avrebbe fatto tranquillamente un coming out, se in quella scuola non ci fossero stati alcuni figli dei colleghi di suo padre; se la voce fosse arrivata anche in ufficio, cosa per la quale Blaine era assolutamente tenuto a fingere di essere etero, si sarebbe ritrovato senza ombra di dubbio in mezzo alla strada.
Certo, sarebbe andato contro i principi di suo padre, se avesse avuto un altro tetto dove rifugiarsi e qualcosa con cui badare a sé stesso; ma dato che l’unico sostegno che aveva veniva dai suoi genitori, e la retta salata della Dalton la pagavano loro, era meglio non sconvolgere la loro vita.
Anche perché se avesse di nuovo detto di essere gay, probabilmente suo padre avrebbe avuto un ictus.
Blaine sospirò. Solo, non vedeva l’ora di tornare all’Honesty per quei momenti di pura pace.



  
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