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Autore: berlinene    14/11/2011    5 recensioni
Una raccolta di shot che hanno come protagonisti i Toho Boys e la “mia” Toho Girl Yasu Wakabayashi. Una serie di storielline ad ambientazione scolastica (e dintorni) che non hanno nessunissima pretesa, se non quella di strapparvi qualche sorriso e regalarvi un po’ di sano fluff - che non guasta mai... insomma per far tornare tutti al liceo... suvvia, alzi la mano chi non ha desiderato, almeno una volta, sedersi fra i banchi dell'Istituto Toho...
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Kojiro Hyuga/Mark, Nuovo personaggio
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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A differenza di quelle che seguiranno, questa prima storia è in prima persona... anche per creare un legame col Diario...

Il primo giorno di scuola....

Appello

Feci un profondo respiro, prima di varcare gli austeri cancelli dell’Istituto Privato Toho.
Me l’ero cercata. Su tutta la linea.
Eppure, anche se avevo paura, dovevo restare fedele a quella scelta che, per una volta, era stata genuinamente mia.
Da quando lo avevo seguito fuori dall’utero di nostra madre, mi sembrava di non aver mai fatto altro che andare dietro a Genzo. A scuola, agli allenamenti, in Germania…
Era arrivato il momento che Yasu Wakabayashi si facesse la sua vita e aveva deciso di farlo in modo drastico.
Così, quando i miei mi chiesero dove volessi proseguire gli studi, intendendo in che tipo di scuola, al limite in quale città della Germania o dell’Europa, io risposi invece: “In Giappone”. Mancavo dal mio Paese da tre anni, vacanze a parte. Per paura di restare sola, avevo seguito mio fratello ad Amburgo. Mi dispiaceva staccarmi da lui, era da sempre l’unica costante della mia vita, ma, paradossalmente, proprio per quello, frapporre tra noi migliaia di chilometri non mi spaventava: il nostro legame era più forte della distanza.
E, ovviamente, gli avevo anticipato le mie intenzioni. Lui si era stupito, “avevo sempre creduto che l’Europa ti fosse più congeniale” erano state le sue parole. Ma, alla fine, aveva compreso e condiviso questa mia voglia di distacco. E non poteva essere altrimenti.
Mia madre aveva fatto una delle sue solite scenate. Che, poi, era uno dei motivi per cui, invece, frapporre tra me e lei migliaia di chilometri avrebbe avuto di sicuro un effetto positivo sul nostro rapporto.
Mio padre inarcò leggermente il sopracciglio, segno, forse, che non si aspettava quella risposta, ma, al solito, non si scompose più di tanto. L’unica clausola che impose fu che andassi in collegio a Tokyo e non da sola nella villa a Nankatsu. Bene, dopo aver vissuto ad Amburgo, non è che morissi dalla voglia di tornare al paesello. E a Tokyo sarei comunque andata di lì a tre anni per l’università, quindi… “C’è un’ottima scuola, che io stesso ho frequentato e anche tuo fratello Ichirou. Andrai là.”  Aveva concluso, con quella sua solita calma che rasenta pericolosamente l’ indifferenza. Beh, se non sapesse mantenere la freddezza di fronte alle situazioni inaspettate e prendere decisioni su due piedi, non sarebbe l’imprenditore di successo che è! E se uno ci pensa bene, poi, in fondo, sono anche le doti di Genzo e… ma non divaghiamo.
Mi ero preparata a una lunga discussione e quella resa quasi immediata mi aveva spiazzata un attimo. Ma, lungi dal volerlo ammettere, chiesi invece, secca: “E sarebbe?”
“L’Istituto Toho”.
Ne avevo sentito parlare, ovviamente, per via dell’ottima squadra di calcio. I vecchi compagni di Nankatsu me l’avevano citata spesso ma, in quel momento, non ricordavo a che proposito. Sapevo pure che era un’ottima scuola e molto cara. Insomma, tutto sommato, ne ero entusiasta.
Tuttavia, la mia reazione davanti ai miei genitori era stata, al solito, piuttosto tiepida.
“Ok” avevo detto con un’alzata di spalle.
Tornata nella mia stanza, però, mi ero messa a saltellare: i pochi dubbi che avevo si erano dissipati e il futuro mi sembrava carico di promesse e avventure.

L’entusiasmo si era un po’ affievolito di fronte alla stanzetta spartana e disadorna che sarebbe dovuta essere la mia casa, almeno per i successivi tre anni. Tuttavia, avevo cercato di rincuorarmi, dicendomi che l’avrei personalizzata e decorata a modo mio.
Ma di fronte a quel pesante cancello grigio mangiato dalla ruggine, a quegli edifici scuri e austeri, a quella massa di sconosciuti che mi circondava, in quella mattina di aprile nuvolosa e insolitamente gelida, un brivido mi percorse. Mi dissi che era solo il vento, troppo freddo per l’uniforme estiva che indossavo.
Quella. Stramaledetta. Uniforme.
No dico io, con quello che costa la retta, DICO IO, potrebbero almeno fartela su misura? In effetti, la divisa in sé era pensata per essere austera quanto le strutture della scuola: la camicetta bianca e la gonna grigioverde sotto il ginocchio erano piuttosto eleganti. Peccato che la gonna al ginocchio mi ci arrivasse appena e che la  camicetta mi facesse sembrare ancora più piatta di quello che ero. Senza contare che, in puro stile giapponese, avevo deciso di sancire il nuovo taglio che prendeva la mia vita con un nuovo taglio di capelli. Ma come spesso mi accade, ero stata eccessivamente drastica e li avevo tagliati troppo corti. Avevo giurato di non farlo, ma non resistetti: tirai fuori il cappellino dalla borsa e me lo calcai in testa.
Maledetto viziaccio preso da Genzo. Però sì, il fatto di non vedere gli altri, ti fa illudere che gli altri non vedano te e non scorgere i loro occhi mentre ti valutano, ti spinge a convincerti che nessuno stia pensando a quanto sei ridicola con indosso quella divisa.
Percorrendo a lunghe e rapide falcate il vialetto, arrivai di fronte all’ingresso principale e sbirciai i cartelloni per vedere dove dovessi recarmi. Inglese. Bene, almeno si iniziava da qualcosa che mi piaceva. Aula 117. Facile, me l’avevano spiegato: stanza n°7 del primo piano dell’edificio numero uno, il principale.   
Quando raggiunsi l'aula, vidi che l'ingresso era parzialmente ostruito da un ragazzo molto alto che, appoggiato con la spalla allo stipite, chiacchierava animatamente con un compagno, lamentandosi, o almeno così mi sembrò, del fatto di non essere in classe insieme. Non riuscivo a vedere in faccia nessuno dei due.
Mi avvicinai, tentando di sgusciare attraverso la piccola parte libera del vano della porta, calcandomi bene la tesa sul viso per non dare troppo nell’occhio. Ma non riuscii a evitare di urtare il ragazzo più alto che, tuttavia, si limitò a mormorare delle scuse senza nemmeno voltarsi. Per fortuna.
I posti erano già quasi tutti occupati e, cercando di non pensare a tutti quegli sguardi trapunti su di me, mi avvicinai a un banco, in posizione piuttosto defilata, fra la finestra e un altro posto vuoto. O, meglio, occupato solo da una cartella e da un cappellino simile al mio. Il che mi fece venire in mente che era il caso di togliermelo. Me lo sfilai rapidamente e lo riposi in borsa, poi detti un’occhiata alla mia immagine sbiadita riflessa nella finestra. Passai una mano sui capelli, con un sospiro: non erano mai stati un gran che, ma questo taglio era davvero orribile. Desiderai ardentemente potermi rimettere il cappello.
Detti un’occhiata ai miei compagni: le ragazze, quasi tutte posizionate dall’altra parte della stanza, ridacchiavano divise in gruppetti, lanciandomi di tanto in tanto sguardi che andavano dall’incuriosito, al clinico. Una mi sorrise brevemente. Risposi con la solita piega sghemba delle labbra.
I ragazzi, in numero maggiore, discutevano tutti insieme, alcuni parlavano della squadra di calcio: a quanto pareva in settimana ci sarebbero stati i provini. Allungai le orecchie per cercare di capire quando, magari sarei andata ad assistere.
Sospirai guardando fuori. Chissà dov’era in quel momento Genzo: chissà se si sentiva solo come me. Decisi che, più tardi, lo avrei chiamato. Mi voltai e sorrisi vedendo il cappellino sul banco accanto: una parte di me sperava, irrazionalmente, che Genzo sarebbe presto arrivato e si sarebbe seduto lì, vicino, dov’era naturale che fosse.
Continuavo a fissare il berretto senza guardarlo davvero. Mi riscossi quando vidi una mano grande posarsi sul copricapo per prenderlo e ficcarlo con malagrazia nella cartella posata sulla sedia, quindi mettere la borsa a terra. La mano apparteneva al ragazzo della porta. Con la coda dell’occhio lo vidi infilare con un movimento fluido il corpo longilineo fra il banco e la sedia. Ebbi una rapida visione del suo viso affilato e del naso sottile e un po’ all’insù, prima che sparissero dietro una cortina di lunghi capelli neri.
In quel momento entrò il professore e tutti ci alzammo, col solito corollario di sedie e banchi che strusciano rumorosamente sul pavimento.
“Goodmorning, guys” disse. Era giovane e decisamente americano, a giudicare dall’accento.
“’morning teacher” biascicammo in coro.
Mr. Warner, come dichiarò di chiamarsi, aprì il registro e cominciò a fare l’appello, chiedendo a ognuno di presentarsi brevemente, per conoscerci e valutare il livello di inglese.
Se avessi dovuto giudicare io, sarei rimasta molto delusa da quello che sentivo: non solo una serie impressionante di pronunce pessime e orrori di grammatica, ma storielline tutte uguali di figli di capitani d’industria desiderosi di seguire le orme paterne e riuscire ad accaparrarsi un posto dietro una scrivania di mogano in qualche superufficio all’ultimo piano di qualche megagrattacielo, o di fanciulle di buona famiglia alla ricerca di un marito che avesse una scrivania del genere. In alternativa, tanto per mostrarsi moderna e disinibita, qualcuna confessava con una risatina imbarazzata di voler diventare un’attrice o una modella.
Il professor Warner aveva messo i nomi in ordine alfabetico occidentale e il mio si trovava dunque in fondo. Mi stavo quasi assopendo cullata da quelle tiritere sgrammaticate e tutte uguali, crogiolandomi al pensiero che avrei risposto: “My name is Wakabayashi Yasu, I am fourteen years old, I come from Nankatsu but I lived in Germany for the past three years and I want to become a goal-keeper”. Ridacchiavo fra me, pregustando le facce dei miei compagni, quando una voce con una pronuncia migliore delle altre scandì “Goodmorning, my name is Sorimachi Kazuki, I am fourteen years old and I come from the sorroundings of Tokyo. I like playing football and my dream is to become an internationally famous football player”.
Mi voltai per guardarlo e il mio misterioso vicino di banco fece lo stesso, in un turbine di capelli nerissimi e lunghissimi che guardai con una punta d’invidia. Scrollai le spalle e tornai a fissare quel Sorimachi. Lo osservai ringraziare educatamente il professore che si complimentava per il suo inglese, spiegando che era un appassionato di musica. Decisi che potevamo avere diverse cose in comune e che forse avevo trovato un potenziale amico.
Mentre pensavo a come attaccare discorso a fine lezione, magari usando la carta della “sorella di”, sentivo a un altro livello di coscienza il prof che continuava a chiamare nomi e i miei compagni a rispondere. Quando lo sentii iniziare incerto a dire “Waka…”, scattai rapidamente in piedi. Con qualche secondo di ritardo sul mio vicino di banco.
“…bayashi” concluse l’insegnante guardandoci perplesso.
Lentamente mi voltai verso il mio compagno, che mi guardava a occhi sgranati dall’alto del suo metro e ottanta buono di altezza. Mi fissò un attimo poi si guardò attorno. Come se cercasse qualcun altro… mio fratello? Perché ora che l’avevo visto in volto…
Sentii il professore schiarirsi la voce e chiedere in giapponese: “Allora chi è Wakabayashi?”
“Here I am” balbettai. Poi attaccai decisa: “I’m Wakabayashi Yasu. I am fourteen years old, I come from Nankatsu and…” feci una piccolo pausa “I have two older brothers and a twin brother. But they all live and study in Europe” conclusi, rispondendo al muto interrogativo del ragazzo.
“E tu sei Wakashimazu Ken, immagino”.
Ricollegai subito il nome e il volto… certo che lo avevo già visto! Anni prima… a Yomuri Land… il portiere del Meiwa! Ma soprattutto… che idiota! Ma certo, il Toho! La squadra che per tutti gli anni delle medie era arrivata in finale contro i miei ex compagni della Nankatsu e che nell’ultima, solo pochi mesi prima, aveva addirittura vinto il campionato a pari merito con loro!
“Sì, signore” rispose lui con un educato inchino. La voce era incerta, probabilmente era rimasto colpito quanto me da quell’incontro inaspettato. Lo osservai mentre si presentava e concludeva dicendo di giocare per la squadra della scuola: “I am the…” si fermò come se non ricordasse la parola.
“Goalkeeper” gli sussurrai piano. Mi guardò di nuovo sgranando gli occhi neri come la pece.
“I am the goalkeeper” ripeté, tornando a sedersi. Poi mi guardò di nuovo e mi fece l’occhiolino, disegnando un grazie con le labbra sottili. Strizzai a mia volta l’occhio e sorrisi. La sua espressione si fece seria per un attimo, poi sorrise di rimando, scuotendo la testa. Non ci posso far niente se somiglio così tanto a mio fratello quando rido.
Ci sedemmo di nuovo, mentre gli ultimi studenti si presentavano.
“Pss” bisbigliò Ken, interrompendo i miei pensieri. “Quindi tuo fratello è ancora in Germania”.
“Sì” risposi, sempre a bassa voce.
“E ci resta?”
“Sì”
“E cosa fa?”
“Cosa vuoi che faccia” sibilai un po’ stizzita. “Studia, si allena, gioca…”
“E tu come mai sei venuta in Giappone?”
Ora, capivo la sua curiosità su mio fratello, ma cosa gli importava di me? Stavo per rispondergli per le rime, quando il professore ci richiamò ed entrambi tornammo a guardare la cattedra.
“Psss” fece di nuovo.
“Zitto, Wakashimazu” lo rimbrottai. Volevo evitare una punizione subito il primo giorno.  Ma quando mi rivolsi verso il signor Warner, mi accorsi che ci guardava male. E infine fece cambiare posto a Ken, dividendoci.
Con la coda dell’occhio tornai a fissare il portiere del Toho, cercando di sovrapporre il volto allungato dai tratti eleganti, incorniciato da quei meravigliosi capelli neri, al visetto del bambino allampanato che ricordavo, con il ciuffo sugli occhi e lo sguardo furbo. Difficile dimenticare la tracotanza con cui era entrato in campo dichiarando che avrebbe parato il rigore di Matsuyama. Difficile anche dimenticare che, poi, l’aveva fatto davvero, dimostrando un’agilità e un talento inferiori solo a quella sua sfrontatezza ma, forse, sufficienti a giustificarla. Difficile, infine, dimenticare l’ottima prestazione durante la finale di quello stesso campionato… Ora, come allora, sembrava più grande dell’età che aveva – la mia.
Mentre lo guardavo, mi accorsi che le sue labbra si muovevano.
Aspettami a fine lezione.
Lessi. Sicuramente me l’ero sognato. Mi voltai indietro e dalle parti. Non c’era nessun altro. Stava parlando con me.
Io? sillabai in silenzio puntandomi l'indice al petto, poi feci roteare il dito per dire "dopo?".
Lui sorrise di nuovo, con quell'aria un po' supponente. Poi mosse lentamente la testa su e giù: così facendo i capelli scesero di nuovo a coprirgli il viso, ma stavolta le lunghe dita affusolate corsero a risistemarli dietro l'orecchio. Poi incrociò le braccia, appoggiando i gomiti sul tavolo e, sempre voltato nella mia direzione, fece il gesto di bere qualcosa e simulò uno sbadiglio.
Ridacchiai, feci segno "ok" con la mano e mi voltai verso l'insegnante.
D’improvviso realizzai chi fosse l'altro ragazzo sulla porta, prima dell'inizio della lezione: era senz'altro Kojiro Hyuga. Lui e Wakashimazu erano amici e compagni di squadra fin dalle elementari. Erano passati tre anni ma ricordavo bene la sua piazzata durante le selezioni della Nankatsu e ricordavo l’emozione della finale… che partita! Ma, soprattutto, mi ricordai come, nonostante fossi solo una bambina, Kojiro Hyuga mi fosse sembrato bellissimo… Ero curiosa di vedere se crescendo si era mantenuto! Sicuramente in caffetteria ci sarebbe stato anche lui. Sentii un sorriso allargarsi sul volto e lentamente mi voltai di nuovo verso Wakashimazu, rendendomi conto, con un po' di imbarazzo, che i suoi occhi erano ancora incollati su di me. Aveva allungato le gambe chilometriche sotto il banco e incrociato le braccia in grembo: sedeva sul bordo della sedia, appoggiato contro lo schienale.
Quando i nostri sguardi si incrociarono, ebbe un impercettibile sussulto, ma subito le spalle si rilasciarono e sorrise di nuovo, socchiudendo gli occhi.
Credo di essere rimasta un po' imbambolata a osservarlo. Forse è stato uno di quei momenti in cui, per qualche strana congiunzione astrale, hai l'impressione di poter vedere con chiarezza, per un attimo, tutto il tuo futuro, ma l'attimo è talmente breve che, poi, non ricordi niente. Non ero attratta dal suo sorriso come lo sarei stata un giorno, non mi faceva andare in pappa le gambe, né mi faceva venir voglia di baciare quelle labbra sottili.
Tutto questo faceva ancora parte di un futuro che, in quel momento, non sapevo di avere. Ma c'era una scintilla in quegli occhi socchiusi, una scintilla di vitalità e di impazienza, di intelligenza  e di scaltrezza. E di comprensione, di affinità, affiatamento…
Sorrisi ancora, in risposta, e sentii che, stavolta, lo facevo in un modo che era soltanto mio.
"WAKASHIMAZU e WAKABAYASHI!" urlò il professore, evitando abilmente di impappinarsi coi nomi.
Per fortuna la presentazione della classe aveva preso più tempo del previsto e la campanella interruppe il prof e ci salvò da una bruttissima figura.
Mi alzai e recuperai la mia roba, poi mi girai verso di lui calcandomi il berretto in testa. Solo per vederlo compiere, come in uno specchio, lo stesso movimento. Ridacchiammo di nuovo.
"Allora Wakabayashi" pronunciò il mio cognome con una smorfia, come avesse un cattivo sapore. "Andiamo a prenderci qualcosa in –uhm- cafeteria? Vorrei ringraziarti per il suggerimento e scusarmi per averti fatto rischiare una punizione subito il primo giorno."
Dissi che non ce n’era bisogno, ma accettai l’invito e mi affrettai a seguirlo: con pochi passi delle sue gambe lunghissime era già a metà corridoio.
"Anche tu hai la borsa di studio?" chiesi. Mi muovevo a passi rapidissimi per tenere il suo ritmo e avevo un po' di fiatone.
"Sì" rispose secco, rallentando un po'. "Sennò col cavolo che mio padre mi pagava la retta di questo istituto"
“Troppo alta?”
“Beh, per i comuni mortali, sì, è piuttosto alta…”
"Te la meriti, la borsa di studio" risposi trascurando la frecciatina. "Sei un ottimo portiere".
Si fermò e mi squadrò, un sopracciglio alzato.
"Specie da quando tuo fratello non mi fa più concorrenza..."
"Che c'entra? Tu sei bravo, indipendentemente dal confronto con lui".
"Perché lui lo è di più, vero?"
"Non ho detto questo"sbuffai contrariata. Volevo fargli i complimenti per lo scorso campionato, ma evitai.
Nonostante la piccola discussione, appena entrati nel locale che fungeva da mensa e da bar interno, mi fece cenno di sedermi mentre andava a prendere da bere. A quanto pareva, saremmo stati solo noi due. Tornò con due tazze fumanti. Presi la mia e l’avvicinai alle labbra, quando dall’odore mi accorsi che era tè. Abbassai rapidamente la tazza per posarla sul tavolo, con la faccia un po’ schifata, immagino.
“Uh” fece lui, imbronciandosi. “Non ti piace il tè?”
“No” mentii, “è solo mmm troppo caldo”.
Rimanemmo in silenzio un paio di minuti. Io con le braccia conserte poggiate sul tavolino, cercando il coraggio per tirare giù la brodaglia, che, comunque, mi era stata offerta.
Ken sorseggiava lentamente il suo tè, guardandomi. Alla fine si mise a ridere.
“Non devi berlo, se non ti piace” disse.
“Sul serio?” chiesi speranzosa.
“Sul serio”confermò lui, sghignazzando.
“Vado a prendermi un caffè. Vuoi qualcos’altro?” domandai. Volevo farmi perdonare.
“No, grazie”
“Magari un dolcetto, hanno dei muffin meravigliosi” lo tentai.
“Non li ho mai assaggiati…” rispose, aggrottando le sopracciglia.
“Faremo a metà così lo assaggi”.
Tornai di lì a poco con una bella tazza di caffè e un muffin al cioccolato veramente notevole. Lo spezzai con le mani e gliene detti metà.
“Grazie” disse, accennando un inchino con la testa. Dette un morso al dolcetto e gli occhi gli brillarono letteralmente. “E’ buonissimo!”
“Decisamente” confermai io.
“E pensare che è per questo che mio padre non vuol pagare la retta” sospirò, guardando con aria sconsolata l’ultimo boccone al cioccolato.
“Per i muffin?” chiesi strabuzzando gli occhi.
“Ahahaha, certo che no, intendo…” fece un gesto con la mano come a indicare tutto quello che li circondava. “L’impostazione americana”.
“Oh, beh… il motivo per cui io sono qui” ridacchiai.
“Davvero?” si stupì Ken.
“Quando Genzo è partito per la Germania, l’ho seguito. Ma poi ho deciso di tornare in Giappone e mio padre ha voluto venissi qui, dove hanno studiato anche lui e mio fratello maggiore Ichirou”.
“Pensa un po’. Mio padre preferirebbe pagare una buona scuola giapponese che non mandarmi qui gratis…”
“Famiglia tradizionalista?”
“Molto.”
“Io e Genzo, invece, siamo cresciuti con una tata inglese e un maggiordomo tedesco. Da piccoli parlavamo poco giapponese…”
“Beh, a scuola…”
“Finché Genzo non è entrato a giocare nella Schutetsu, avevamo un’istitutrice privata… ma almeno lei era giapponese…” ridacchiai. “E poi, dopo, c’era anche Mikami…”
“Mi… Mikami?” chiese lui, sbalordito, rischiando che l’ultimo sorso di tè gli andasse di traverso. “Tatsuo Mikami, l’ex portiere della Nazionale?”
“Sì” risposi con indifferenza. “Era l’allenatore personale di Genzo, praticamente viveva a casa nostra”.
“Kamisama” mormorò quasi fra sé.
“E invece… tu?” incalzai, curiosa.
“Casa mia è l’opposto” rifletté, guardando pensoso il bicchiere vuoto. “Mio padre gestisce un dojo di karate che è della mia famiglia da generazioni… pensa che mia mamma di solito porta abiti tradizionali, persino in casa – o cazzo.”
Ascoltavo rapita ma quell’imprecazione mi riscosse.
“Dobbiamo andare alla prossima lezione!”
Appurato che anche all’ora successiva saremmo stati compagni di classe, ci fiondammo per il corridoio, raggiungendo l’aula di matematica quasi in tempo.
Nel corso della giornata, scoprimmo di avere praticamente tutti i corsi in comune. In alcuni c’era anche Kojiro. Il quale, per la cronaca, si era conservato parecchio bene (detto in breve, era un figo da paura) anche se non aveva un’aria molto affabile e mi rivolse sì e no due parole, il minimo sindacale della cortesia.
Io e Ken pranzammo insieme e poi ci avviammo verso gli alloggi. Dopo aver finito il discorso sulle famiglie, eravamo passati a parlare di calcio. Gli allenamenti sarebbero iniziati da lì a una settimana, dopo i provini per i nuovi giocatori.
“Quindi avete ancora qualche giorno di riposo” osservai.
“Sì, anche se volevo già iniziare a fare qualcosa… son stato un sacco fermo, prima la spalla, poi la mano…” sospirò.
Ricordava la brutta caduta durante la finale del campionato e la terribile agonia della semifinale dove Wakashimazu aveva giocato con il polso in pessime condizioni…
“Se ti va, ti aiuto ad allenarti,” buttai là, non so neanche io perché. “Posso insegnarti un po’ di cose che mi ha detto il signor Mikami” continuai, mentre mi chiedevo perché diavolo lo stessi facendo.
Mi guardò, sbattendo le palpebre. “Se ci tieni” borbottò con una scrollata di spalle.
“Un po’ di allenamento non fa mai male”.
“Ti andrebbe bene già questo pomeriggio?”
“Sì, sì… il tempo di cambiarmi e…” dissi accennando alla palazzina che avevo di fronte.
“Vivi qui?” chiese stupito.
“Sì”
“Non credevo che i dormitori femminili e maschili… Bah che strano… a che piano?”.
“Secondo”
“Sec- anche io! Sarà l’appartamento di fronte…”
Quando arrivammo al pianerottolo, ci salutammo ancora, dandoci appuntamento da lì a un paio d’ore per andare a correre. Quindi… ci avvicinammo entrambi alla stessa porta!
Ci guardammo stupiti: “E’ questa casa tua?” chiedemmo all’unisono.
La porta si aprì e apparvero Kojiro Hyuga, Kazuki Sorimachi, quello che segue Inglese con me e Ken, e un altro ragazzino più piccolo.
“Ci siamo riusciti Wakashimazu, abbiamo fatto a cambio con quei Watanabe, Uchibe e Wada e ora io, Sawada e Sorimachi viviamo qui. Il quinto non si è ancora visto… però la stanza è occupata…”
“Ehm” intervenni timidamente. “La roba è mia…”
“Tua?” chiese stupito Kojiro, strabuzzando gli occhi. “Ma tu sei una-”
“Ci sarà stato un errore” osservò Sorimachi.
“Credo di sapere cosa è successo” sospirai. “A iscrivermi è venuta la mia tata che non ha ancora capito che se scrive ‘Yasu’ invece di ‘Yasuko’ mi scambiano per un maschio… siccome, a quanto pare, hanno distribuito le stanze per cognome… eccoci qua…”
“Non credo sia un grosso problema…” sorrise Kazuki, vedendomi un po’ mogia. “Ti accompagniamo in segreteria, vedrai che si sistema tutto”.
“Sì, beh, io… devo radunare le mie cose avevo… iniziato a sistemarmi” balbettai.
“Non è necessario che fai tutto di fretta” disse Ken. “Al limite per stanotte rimani qui e poi domani facciamo tutto con calma… non ti pare? Se per te non è un problema…”
“No, no” risposi, con un sorriso. “Se non lo è per voi…”
“Figurati” la liquidò Sorimachi, tornando alla propria stanza.
Ken sorrise: “A quanto pare è il destino che mi mette sempre un qualche Wakabayashi fra i piedi”. Allungò la mano come se volesse spettinarmi i capelli, ma poi optò per una pacca sulla spalla, prima di sparire in camera.
Kojiro guardò l’amico aggrottando la fronte, poi mi squadrò da capo ai piedi e biascicò: “Fa' come se fossi a casa tua”.
Rimase solo il ragazzino che mi tese la mano presentandosi come Takeshi Sawada per poi sparire. In effetti a Yomuri Land avevo visto anche lui, ma era molto crsciuto da allora.
Il pomeriggio passò rapido: i compiti di matematica, la corsa e gli esercizi con Ken, la doccia… Stavo rimettendo la roba in valigia, quando mi chiamarono per cena.
“Avete cucinato?” mi stupii. “Io pensavo di andare in mensa…”
“Veramente,” intervenne Ken un po’ imbronciato, “avevo preparato anche per te”.
“Fidati” mi confidò Kazuki prendendomi per mano e accompagnandomi al tavolo. “La zuppa fatta da Ken è mille volte più buona della merda della mensa.”
Ridemmo tutti e cominciammo a mangiare. Alla fine, mi offrii di lavare i piatti e Kojiro mi aiutò. Sistemammo in fretta la cucina, poi rimanemmo ancora un po’ a parlare, finché la stanchezza della giornata e la prospettiva di doversi svegliare presto la mattina seguente non ebbero la meglio.
Mi addormentai quasi subito, stanca ma felice: era solo il primo giorno e avevo già trovato quattro amici. Peccato non poter restare in quell’appartamento: certo i ragazzi potevo vederli anche fuori, ma chissà con che squinziette avrei dovuto vivere!
Mentre le palpebre si facevano pesanti, mi baloccai con l’idea che, magari, avrei potuto restarci.
E, in effetti, così fu…




   
 
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