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Autore: Lost dream    16/11/2011    2 recensioni
"Scappa con me" mi urlava mentre il giardino innevato scompariva dalla mia vista.
Cos'è la felicità mi chiese un giorno un vecchio saggio? Sinceramente non seppi rispondere.
E forse non saprei rispondere neanche adesso, perchè non si può dare un nome alla felicità, specialmente se sei un sociopatico.
So soltanto che Maria Grazia ed io la provavamo mentre eravamo insieme, stando insieme eravamo felici, divisi eravamo solo come delle biglie in un universo immenso e spaventoso.
Lei una ragazza piena di paure e di incertezze ed io un folle, un folle carico di normalità.

Qui amant ipsi sibi somnia fingunt
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo 1°: L’ospedale degli Innocenti

 

 

La sensazione di esser folle è una cosa sublime, radicata ad una realtà distorta ma allo stesso tempo reale.

La normalità è solo una sensazione che i veri folli credono di provare per dimostrare a se stessi e al mondo che possono intrattenere rapporti sociali.

Ma il folle non ha bisogno di cadere nelle tentazioni della società, di una società corrotta dal denaro e dal sesso.

Io sapevo ,in cuor mio, che anche la realtà non esiste, poiché tutto è distorto, ma soprattutto ogni cosa in questo mondo è relativo.

Quella mattina all’interno della clinica psichiatrica di Boston, stavo riflettendo sul mio futuro, IO, un ragazzo di sedici anni chiuso in una clinica psichiatrica, uno stesso futuro che in realtà non esiste, gettato al vento come le foglie di un parco in autunno.

La mia memoria è stata cancellata da un ripetersi di eventi catastrofici ed inutili, un’antitesi della normalità e della fortuna.

Ora chiuso in quella gabbia di matti che i “normali” chiamavano clinica di riabilitazione sociale, qui tutto avveniva ciclicamente.

Verso mezzogiorno in genere si pranzava, era presto, ma Juliana, l’infermiera caporeparto di soli ventitre anni, di bell’aspetto, preferiva che tutto andasse così.

Ogni cosa in quella clinica aveva dei tempi da rispettare, orari da mantenere e pillole da ingoiare.

Una routine che sarebbe finita solo nel giorno della mia morte.

E mentre pensavo a queste cose stavo aspettando pazientemente la mia razione di cibo, era un piacere passeggiare nei corridoi e trovare sempre gente con cui chiacchierare.

“Ehi Dìatene, come va?” mi salutò affettuosamente Juliana.

Io risposi al saluto sorridendo, quella donna era una miniera di emozioni, sprizzava allegria da tutti i pori.

Il pomeriggio continuò tranquillamente nell’assoluto silenzio del salone principale, unico luogo dov’era presente un televisore, l’unica TV della struttura che però era riservata agli anziani che controllavano i numeri del lotto. Nonostante la TV di pomeriggio fosse chiusa in quanto gli anziani verso quell'ora erano occupati nelle varie sedute riabilitative o visite di parenti lontani, senza contare quelli che erano impegnati a far finta di fare le parole crociate.

Infatti la Televisione in genere veniva aperta di sera, ora in cui non ci si poteva stare a causa del frastuono provocato dagli anziani.

I Ragazzi avevano solo il diritto di pensare, o di guardare le forme delle nuvole.

Niente letture, niente televisore, niente visite, niente sesso, niente felicità, niente normalità…

Tutto era programmato e deciso da Miranda, il capo dell’intera struttura, una donna forte e potente.

Lei, la si vedeva ogni giorno, in genere spuntava fuori dal nulla per rimproverare i suoi dipendenti poiché sprecavano troppo “Perché gettati i guanti al primo utilizzo?” “Perché comprare il prosciutto se gli si può dare i resti degli avanzi del giorno prima?”.

La verità è che quel posto era un semplice ritrovo per persone normali, i veri folli erano coloro che lavoravano sotto quella donna.

Io trovo folle colei che mi ritiene folle, e non avevo tutti i torti a crederlo.

Miranda era una persona molto malvagia, la crudeltà le usciva da tutte le parti, anche se era una bella donna, nonostante l’età.

Era alta, snella con gambe sottili e sensuali, capelli corti color argento, tacchi alti, sciarpe, pellicce, borse, anelli, orecchini ed era molto versatile, nel senso che ogni volta che la si incontrava aveva un uomo diverso che noi “pazzi” adoravamo chiamare Cane, ci immaginavamo le loro cene, lei seduta sul tavolo a mangiare caviale e champagne e lui seduto su una ciotola con scritto “Fido” a mangiare cotoletta o pesce avariato se voleva disfarsi di lui.

Inoltre adoravamo assegnare ai vari Cani un numero, non sapevamo bene se fossero giusti perché poteva sfuggircene qualcuno, ma più o meno eravamo capaci di contare.

La sera rientrava dal salone sul retro e andava direttamente nel suo ufficio, noi non avevamo il permesso di entrare nella zona A, luogo con tutte le loro postazioni, eravamo confinati nella zona B e la sera nella zona C, ovvero i dormitori, ma eravamo comunque abbastanza vicini da sentire urla di piacere o di dolore.

Quando ciò accadeva alcuni membri più anziani ridevano segretamente e quando chiedevi loro qualcosa, subito ti rispondevano in malo modo “Tu non puoi saperlo, sei nato qui”.

In ogni caso, era vero, nacqui in quella clinica, cioè non proprio nato, ero stato depositato dal grembo di mia madre nell’Ospedale di S.S. Annunziata a Cosenza in Calabria dove, all’età di sei anni hanno notato un mio leggero ritardo mentale, che chiamano “sociopatia” ma che io non vedo, e quindi mi sono ritrovato in questo luogo sperduto.

Mia madre mi scrive ogni Lunedì ma non vogliono mai consegnarmi la lettera, in genere me la leggono e poi la distruggono, invece papà viene a trovarmi una volta al mese per lavoro è costretto a passare da Boston e quindi viene a farmi visita ma tutto ciò che chiede è “Hai preso la pillola” – “Si papà”.

Ritornando al rumore molesto, esso continuava per circa un’oretta fin quando poi si sentiva una voce che diceva di doversene andare per problemi di lavoro.

Anche se io non ho mai capito bene cosa fosse un lavoro, ma non perché fossi sociopatico ma semplicemente perché ero chiuso qua dentro e il mondo non mi aveva dato l’opportunità di scoprire molti dei suoi segreti, così come le “seratine” della direttrice nel suo ufficio con Cane.

Quella sera tutto stava procedendo come sempre, i signori anziani stavano litigando tra loro per i numeri del lotto alla televisione, loro non giocavano, non sapevano giocare, eppure amavano guardare quell’oggetto magico, si sentivano orgogliosi perché a differenza nostra potevano utilizzarlo.

La signorina Juliana controllava che tutto andasse come previsto e c'era qualche altro uomo in camice bianco che aiutava alcune persona a camminare.

Albore si avvicinò a me e sussurrò “ Hai mai provato a volare?”

Io non avevo né la forza né la voglia di rispondergli, cosi feci un leggero cenno con la mano per farlo allontanare, ma lui si arrabbiò e mi rispose con uno schiaffo.

Seduto sulla solita sedia vicino alla finestra ci rimasi male, Albore, è uno dei miei migliori amici, aveva sessantadue anni, le signore del the dicevano che non era adatto ad un ragazzo come me, ma in quel posto non esistevano distinzioni d’età o di malattia.

Eravamo tutti uguali, tutti uomini in gabbia, con la leggera differenza che il piccione ha la libertà di mangiare quando vuole, noi avevamo solo i nostri pensieri, non ci era concesso neanche di parlare su fatti reali come il cibo o i numeri, potevamo parlare solo di pillole e di come il parco della clinica fosse bello, anche se io ancora non avevo il permesso di entrarci.

Bisognava avere almeno diciannove anni e mantenere una buona condotta nel tempo passato in questa “gabbia”.

Quel giorno prima o poi sarebbe arrivato anche per me, il mondo esterno era un posto segreto e ancora sconosciuto ma nel momento in cui mi sarei ritrovato fuori dal cancello avrei vissuto un solo attimo superiore ad un’intera esistenza di una persona normale.

Il folle vive ogni attimo come fosse il migliore della sua vita sapendo che gli altri saranno peggiori, il normale non riesce a notare la differenza tra due momenti e vive un’esistenza persa tra i piaceri del lusso e della carne nel dispiacere.

Decisi quindi di tornare in camera mia dove mi aspettava il mio compagno di giochi, lui era un ragazzo strano, ma d’altronde chi non l’era in quel postaccio, mangiava strani panini con carne, fumava, leggeva e utilizzava il cellulare di nascosto.

 

“Ehi Wosh” lo chiamai

“Cosa stai facendo”.

“Sto leggendo” mi rispose seccato.

“Ma dai, tu non sai leggere, come pretendi di voler leggere”.

“Taci Dìatene io non sono pazzo”.

“Certo, è quello che dicono tutti in questo posto, ma la realtà è che nessuno lo è davvero”.

“Tu non mi conosci, non puoi parlare, ed ora zitto che sto leggendo”.

Le sue risposte erano sempre molto seccate o annoiate, ma comunque andavamo molto d’accordo.

Insieme ridevamo della sedia speciale del signor Bobò in fondo alla sala, e di come la signora Bellont che si vantava della sua nobiltà fosse in realtà solo una vecchia pazza rozza e cafona.

Non è vero che io non ho conosciuto il mondo, anzi, l’ho conosciuto più io di qualsiasi altra persona normale, ho avuto esperienza con ogni tipo di persona esistente in questo mondo.

Ed ho anche conosciuto i nomi più strani e bizzarri del pianeta, a cominciare dal mio, Dìatene, per finire con quello del signore delle pulizie “Sfrodensang”, lui si arrabbiava quando i vecchietti con la dentiera lo prendevano in giro, e rispondeva ogni volta con la stessa frase “E’ tedesco” ma avendo vissuto molti anni qui in America aveva perso l’accento, ora gli rimaneva solo quell’orribile nome, marchio d’infamia.

“Cosa leggi?”

“Un folle ha la capacità di pensare solo ciò che il normale vuole che egli pensi”.

“E con questo, cosa vorresti dire?”

“Tu sei pazzo, non capiresti, non conosci la letteratura”.

“Ahh, ma andiamo dimmelo e basta” risposi infuriato.

“Veronika decide di morire, conosci?”

 

Ero stanco della sua saccenteria, ed io della mia ignoranza, ma il mondo gira così, decide di dare agli stupidi il Logos e agli interessati il Patos.

Guardai fuori dalla finestra, era buio, andai quindi a dormire sperando in una mattinata migliore, ripensando al momento di oggi.

 

 

 

 

 

“Svegliaaaa” furono le prime parole che sentii quella mattina, era Sfrodensang che doveva pulire la stanza, mi guardai attorno ma Wosh era già sparito, probabilmente era in salone a leggere o a litigare con qualche infermiera che diceva “Leggere logora la mente”…

In ogni caso decisi di alzarmi e di lasciare la stanza a Sfrodensang che canticchiava felice come un bambino.

Ancora in pigiama andai verso il salone dove sentii Juliana lanciare urla contro uno dei tanti cani.

Chissà cosa aveva combinato, mi avvicinai a Salmore, il capo dei vecchietti senza denti e gli chiesi cosa fosse successo quella mattina, la sua risposta fu chiara e coincisa “Non lo so”.

Nessuno lo sapeva, e nessuno riusciva a sentire ciò che stesse succedendo poiché erano chiusi in una stanza a vetro, riuscimmo a capire soltanto che dopo cinque minuti uscirono da questo sgabuzzino Juliana, Miranda e Cane23.

Miranda tornò nei suoi uffici, Cane23 lasciò la clinica sbattendo la porta principale e Juliana andò a piangere nei bagni pubblici.

Quei bagni erano davvero la cosa più orribile che avessi mai visto, anche più brutti della dentiera di Salmore ma Juliana era sempre stata gentile con me, dovevo andarla ad aiutare.

Così mi feci coraggio, mi tappai il naso con la mano ed entrai in quei bagni pestilenti.

I vetri dei lavandini erano sporchi di un sudiciume e uno squallore sconcertante, le porte dei water erano tutte rotte. *Che posto strano* pensai, poi vidi Juliana nell’androne del bagno a piangere.

Mi avvicinai e lei mi sorrise “Dìatene, perché sei qui”. La mia risposta fu “Volevo consolarti”.

Si avvicinò e mi strinse forte a se, era la prima volta che qualcuno faceva una cosa del genere, mi spostai spaventato “cos’è” chiesi incuriosito.

Juliana si asciugò le lacrime con un fazzoletto che prese dal taschino e disse “un abbraccio”.

Non sapevo cosa fosse un abbraccio, anche se ne avevo sentito parlare in uno dei vari libri di Wosh.

Lei mi guardò sbalordita “Non sai cos’è un abbraccio?”.

Si avvicinò ancora di più e posò le sue labbra sulle mie “e questo?”

Non sapevo cosa fosse, ma era bellissimo, una sensazione di freschezza, di beatitudine e di spossamento.

Cercai di rifarlo, ma lei si spostò.

“Questo è un bacio, non conosci?”

“Io sono pazzo, ricordi?”

Lei abbassò la fronte emanando una lieve esclamazione di dispiacere, forse si stava rendendo conto che la vita di noi pazzi non è bella, anzi è misera, chiusa in una sottospecie di struttura curiosa a vedere fuori dalla finestra la gente che si diverte.

Lei era profondamente delusa e dispiaciuta, lo si notava dalla faccia.

Così si avvicinò a me e continuò a “baciarmi”, io ero inorridito ma anche euforico, stavo provando una sensazione unica al mondo, piacevolissima e così continuammo a baciarci per circa dieci minuti.

Lei se andò di colpo, io rimasi nel bagno in estasi, non sapevo cosa pensare, cosa credere, era stato bellissimo, un’esperienza unica ed irripetibile.

Questo non c’era nei libri di Wosh, era accaduto soltanto a me, ero l’unico... il fortunato.

 

Uscito dal bagno, notai Juliana presa nel distribuire il pranzo, c’erano i soliti vecchietti che si lamentavano dell’insalata poco condita e del pesce andato a male.

Andai da Rosalie, un’altra mia amica che non mangiava, lei odiava mangiare, e quando lo faceva correva subito in bagno a rimettere.

Ma era anche la ragazza più dolce e più simpatica fra tutte e nonostante il suo problema bulimico lei adorava parlare.

E non era “pazza” psicologicamente, leggeva il giornale, faceva passeggiate fuori, avendo già venti anni e si divertiva a giocare con i vecchietti.

Ma aveva un problema: più di una volta ha tentato di ingoiare così tante pillole da star male, lo ricordo ancora come se fosse ieri, l’hanno portata in un altro centro psichiatrico, ed è stata lì per oltre un mese.

Era stato davvero un brutto periodo senza Rosalie, ed ora non vedevo il momento di raccontarle ciò che era appena successo con Juliana, ma prima avrei dovuto mangiare, e non sopportavo mangiare davanti a lei che iniziava a togliermi il cibo dalle mani tagliandolo in tanti piccoli pezzettini e gettandone alcuni nella pattumiera più vicina.

Wosh non si trovava, chiesi ad Albore, ma mi rispose che non aveva la minima idea di dove fosse, chiesi a Sfrodensang e alla stessa Juliana ma nessuno lo aveva visto.

“Lo cercherò dopo” pensai tra me e me.

Intanto andai da Rosalie che mi accolse con un sorriso a trentadue denti, come al solito non aveva mangiato, quindi attorno a lei c’erano due infermiere che le facevano pressione minacciandola di mandarla a letto senza pillole.

Ma lei se ne fregava altamente, anzi, preferiva non assumere quelle dannatissime pillole che ci propinavano due volte al giorno.

Dopo circa quindici secondi che le due infermiere se n’erano andate, ne arrivò un’altra.

Questa era per me, presi la mia pillola quotidiana mentre Rosalie mi guardava sbalordita come per dire “Perché prendi queste pillole? Sono orribili”.

Io risposi che mi facevano dormire bene la notte, o almeno era quello che dicevano i medici per farcele prendere.

Rosalie aveva iniziato a parlare a manetta, ma le dissi che non c’era tempo di pensare a queste cose poiché le dovevo dire alcune cose importanti.

Appena finito il racconto di me e Juliana nei bagni pubblici lei si alzò cercando di urlare ciò che appena le avevo detto, ma fortunatamente la fermai tappandole la bocca.

Lei continuava a sorridere e a chiedermi com’era stato baciarla.

Lei sapeva benissimo cosa significava baciare, era venuta nella clinica all’età di quindici anni e quella mattina disse che era arrivata l’ora di spiegarmi alcune cose.

Andammo a fare un giro nei piani 3, 4 della zona B dove c’erano le sale di riabilitazione, di musicoterapia, fisioterapia e infine anche le celle singole per punire i ragazzi che si comportavano male, Rosalie era finita là più volte.

Mentre passavamo tra le varie aule del terzo piano Rosalie mi iniziò a spiegare cosa vuol dire abbracciarsi, baciarsi e scambiarsi tenerezze.

Non feci ulteriori domande, e restammo tutto il giorno a passeggiare e a parlare di Juliana…era davvero una bella ragazza.

Ma ben presto ci accorgemmo che si era fatto tardi, erano le 19:00.

L’ora della cena e della seconda pillola quotidiana, così scendemmo giù e cenammo insieme.

Rosalie finalmente decise di mangiare qualcosa, prese un uovo sodo, io mangiai tutto ciò che c’era sul piatto, ovvero una porzione di pasta ed una strana cosa bianca che loro chiamavano mozzarella con un panino vuoto.

Ancora una volta i vecchietti si lamentavano del poco condimento utilizzato dalle cuoche mentre le signore del the con a capo la donna di cui avevo parlato prima con Wosh, la signora Bellont si lamentava dello scalpore che Salmore e i suoi amici senza denti stessero facendo in sala.

Io e Rosalie ci fermammo a riflettere sulle personalità legate al nostro ospedale, eravamo sempre gli stessi da anni, l’ultima arrivata era proprio lei.

Così Rosalie mi fece cenno di avvicinarmi con la testa ed iniziò a parlare delle caste o gerarchie che si formavano nel salone principale.

“Osserva bene, noi pazzi occupiamo la zona B e la zona C.

Nella zona C si sono solo i nostri letti, mentre la zona A è la zona svago divisa in cinque piani, nel primo piano c’è il salone principale con TV, bagni pubblici che tu conosci molto bene” disse facendo l’occhiolino prima di ricominciare “ e la mensa, questa è la zona dove governa Juliana, caporeparto che si occupa della salute dei pazienti nelle ore mattutine e pomeridiane ed è anche la responsabile della mensa.

Poi c’è il secondo piano “la biblioteca” ci sono un sacco di volumi, è lì che Wosh passa gran parte del suo tempo, poi c’è il terzo piano con la sala di musicoterapia, fisioterapia e tutte queste pratiche orientali di medicina alternativa, mentre al quarto piano ci sono le celle di isolamento, il quinto piano invece è segreto, sempre chiuso a chiave e noi non abbiamo il permesso di utilizzarlo.

La sala B invece è segreta sappiamo solo che le uniche persone ad avere il permesso di andarci sono Miranda, Juliana, Sfrodensang, le varie infermiere e tutti i nostri parenti.”.

Prese un attimo di respiro e poi continuò a parlare.

“Qui invece nel salone principale ci sono tre gerarchie principali: i vecchietti senza denti, le signore del the e i singoli pazzi, noi due facciamo parte di quest’ultima categoria, tra noi ci sono anche Bobò, il povero folle con la sedia speciale, Wosh e tutti gli altri ragazzi del centro.

Poi abbiamo le signore del the comandate dalla signora Bellont, sono signore di mezz’età che si considerano l’elite dell’ospedale e sono sempre in contrasto con i vecchi senza denti comandati da Salmore, e di questa categoria fa anche parte il nostro amico Albore, nei vecchietti senza denti sono ammessi solo uomini dai sessanta anni insù, loro hanno il possesso del televisore, le signore del the hanno il possesso del servizio di porcellana, noi singoli pazzi, invece, abbiamo il possesso delle nostre parole.”.

“Wow, che spiegazione” risposi allibito, come aveva fatto a pronunziare così poche parole, in così poco tempo.

Il pomeriggio passò tranquillamente, finalmente trovai Wosh e dopo avergli raccontato la storia di Juliana rimase colpito ma anche felice, soprattutto perché avevo iniziato a capire cos’è il mondo.

A quanto pare tutti in quell’ospedale sapevano cosa fosse l'amore, tutti tranne me.

Io e Juliana non ci guardammo per tutto il pomeriggio, forse felici, forse scontenti dell’accaduto.

Dopo cena presi la pillola, salutai Rosalie e insieme a Wosh ci dirigemmo nella nostra stanza.

Stavolta anch’io avevo qualcosa da fare prima di andare a dormire, non solo Wosh che come al solito si mise a leggere, stavolta anch’io avrei avuto qualcosa da raccontare pensando alla bellissima giornata appena trascorsa, la più bella di tutta la mia vita.

Anche se un folle non può dire certe cose, perché non saprà mai quale sarà la più bella giornata della sua vita, potendo vivere mille emozioni non avendo vissuto nulla per molti anni.

 

AD PERPETUAM REI MEMORIAM

  
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