Ragno. Colibrì. Balena. Condor. Gigante. Scimmia. Lucertola.
L’uomo alla guida del Cesla controllò per la decima volta la superficie dell’altopiano di Nazca, mentre il sole cocente faceva riverberare la sabbia causando un curioso effetto tremolante, come se si stesse guardando la scena dall’interno di un acquario.
Si lisciò il pizzetto nero, confuso. La sera prima quasi non aveva creduto a sé stesso, ma per fortuna non si era trattato altro che di uno sbaglio.
I segni erano ancora tutti lì, nessuno escluso.
Eppure, Juan era sicuro che il Ragno fosse scomparso per qualche secondo, lasciando una distesa deserta laddove precise linee tracciate nella dura terra avevano osservato il cielo per cinquemila anni.
Dopo qualche minuto, l’archeologo sudamericano fece atterrare l’aeroplano nel bel mezzo dell’altopiano: come poggiò i piedi al suolo, fu invaso da una strana sensazione, un crescente disagio che gli faceva venire una gran voglia di andarsene da lì.
Lentamente si avvicinò al primo dei simboli conosciuti come le Linee di Nazca: il Ragno. Primo a essere scoperto dagli archeologi, era lungo ben cinquanta metri: l’uomo entrò dentro la figura, varcando il perimetro tracciato dalle linee curve.
Non accadde nulla.
Juan rimase immobile, fissando il cielo azzurro in contemplazione. Dopodichè si voltò verso il suo aereo e - possibile? - per un attimo, un solo attimo, intravide con la coda dell’occhio una soffusa aura viola innalzarsi dal disegno attorno a lui. La visione - o era un’allucinazione, dovuta al sole e al caldo? - durò qualche secondo, svanendo con un semplice battito di ciglia.
L’uomo ebbe improvvisamente paura, mentre un brivido gelido scendeva lungo la sua schiena.
Era come se sotto di lui, la terra ribollisse. La sentiva, ne percepiva il bisogno e l’urgenza di emergere.
Là sotto, c’era qualcosa di maledettamente vivo, come lo era l’archeologo.
Uno squillo interruppe il silenzio sepolcrale, spezzando quel folle attimo di ineluttabile fatalità che l’uomo percepiva farsi sempre più pesante. Prese il cellulare nella tasca.
- Signor Carlos. -
- Capo - disse l’uomo, tremante - sono arrivato da poco sul posto, il resto della squadra è al sito più a sud. -
-Ottimo. Com’è la situazione, laggiù? Ci sono stati…cambiamenti? - chiese la voce al telefono, con una punta di ansia mista a trepidazione.
Juan esitò per qualche secondo, cercando di controllare la sua paura del tutto fuori luogo.
- …No ,è tutto a posto. -
- Ne è sicuro? -
L’archeologo tornò a osservare il simbolo, immobile. Le linee, elegantemente tracciate sul terreno, gli cominciavano a far venire il malditesta.
- Sì, non si preoccupi. -
- Bene, mi tenga aggiornato. E’ nel nostro interesse avere sotto controllo la situazione,chiaro? -
- Sarà fatto, signor Goodwin. -
Juan chiuse la telefonata e, scrollandosi di dosso quella brutta sensazione che lo aveva assalito fin dal primo istante in cui aveva messo piede in quella terra maledetta, salì sul Cesla. L’aeroplano decollò, stagliando la sua argentea forma metallica contro il sole splendente.
Il vento soffiò, portando con sé sabbia e polvere. Ma, a un orecchio attento e allenato, qualcuno sarebbe riuscito a udire qualcos’altro, come un mormorio confuso.
Il Ragno, all’improvviso, incominciò a pulsare, risplendendo di una sinistra luce viola. Dopodichè, scomparve nel nulla, lasciando al suo posso nient’altro che terra e sassi.
Come se non fosse mai esistito.
Come se il sigillo fosse stato spezzato.
Le Divinità Terrestri erano tornate nel Mondo, dopo cinquemila anni di prigionia.
L’Oscurità stava per ritornare, forse più forte che mai.