“Scherzi del tempo”
Quando il telefono squilla nel cuore della notte è come un veggente che preannunzia sciagure, il risveglio può tramortire il respiro ed il buio trovarti impreparato, raramente bisbiglia all’orecchio qualcosa di promettente e se qualcuno di caro quella notte non ha fatto ritorno, non resta che pregare che il numero digitato non sia stato quello giusto.
Vegeta sbarrò gli occhi e balzò con la schiena in
avanti.
La donna che respirava profondamente, con la testa
chinata sulla sua spalla, si mosse con disappunto sotto le pesanti coltri e si
rigirò dall’altra parte come se niente fosse.
Ricevette un’occhiata truculenta e poi si sentì
dire:
“Dannazione, Bulma! Rispondi a quel maledetto
telefono!”.
L’apparecchio era poggiato sul suo comodino.
Se Vegeta non allungò il braccio non fu per non
darsi disturbo, ma semplicemente perché non ne aveva mai alzato uno dacché era
sulla Terra.
Bulma mugugnò qualcosa di incomprensibile, afferrò
la martellante cornetta dopo averla cercata a tentoni e senza aprire gli occhi
chiese:
“Pronto…?” il suono uscì impastato e confuso.
Dall’altro lato del cavo parlò concitata la voce di
Chichi.
Bulma riacquistò lucidità mentale solo quando udì
che era successo qualcosa di grave:
“Trunks!” scattò seduta, rammentandosi del figlio
“gli è successo qualcosa?”.
A quelle parole anche Vegeta accigliò lo sguardo.
Il bambino si era recato nel pomeriggio a casa di
Goten ed aveva chiesto di trattenersi anche per la notte, il che si ripeteva
sovente da quando il loro sodalizio si era andato rafforzando in seguito allo
scontro con Majinbu diversi mesi prima.
Permesso accordato come tutte le altre volte.
Ma Chichi le disse che non era lui il problema.
Vegeta la vide impallidire lo stesso, stringere
nella mano un lembo del pigiama, dischiudere le labbra con trepidazione:
“Veniamo subito!” risolse alla fine agganciando
energicamente.
Con una mossa rapida si liberò della coperta e scese
dal letto:
“Dobbiamo andare a casa di Goku, Gohan sta molto male, ha la febbre
altissima!”.
Il saiyan non si mosse:
“E con questo? Siamo forse dei medici? Non vedo in
cosa potremmo essere d’aiuto” fu il suo cronico cinismo.
Lei recuperò da terra i vestiti che aveva fatto
cadere prima di coricarsi:
“Chichi dice che non è una febbre normale” si infilò
il reggiseno ed allacciò la blusa “ha gli stessi spasmi di quando Goku fu
colpito dalla malattia cardiaca poco dopo l’arrivo dei cyborg!”.
Vegeta restò ancora inerte:
“Ti decidi a vestirti sì o no?!” l’apostrofò Bulma
“di questa malattia si muore o forse lo hai dimenticato? Se ci hanno chiesto di
andare vorrà dire che possiamo fare qualcosa di importante!”.
Il saiyan si infilò i pantaloni con stizza e in meno
che non si dica aprì la finestra e saltò sul davanzale:
“Avanti! Muoviti…” le fece segno di aggrapparsi a lui.
“Non credi sia meglio prendere uno dei miei jet?”
fece scettica.
“Così faremo prima” scalpitò l’altro impaziente.
“Non voglio arrivare fino a casa di Goku così…
preferisco i miei mezzi, fa freddo, non mi va di prendere un raffreddore, per
non aggiungere poi che si scompigliano tutti i capelli e…”
Ma Vegeta l’aveva già piantata in asso.
* * *
L’aereo atterrò scuotendo le cime degli alberi:
nella quiete notturna ruppe il sonno degli animali come una sveglia
irriguardosa disturba quando è ora.
Il giardino era rischiarato dai fasci di luce
provenienti dalle finestre.
Bulma entrò in casa e scoprì tutta la famiglia
stretta intorno al moribondo, adagiato su di un materasso gettato al centro
della stanza.
Trunks e Vegeta stavano più in disparte, entrambi
chiusi nell’abituale posa conserte delle braccia.
Sul volto di Chichi l’insofferenza aveva gettato
un’altra manciata di anni.
Il piccolo Goten l’osservava misurare la stanza con
nervosismo, asciugare le lacrime con un fazzoletto che tirava ogni volta dalla
manica della vestaglia.
Videl, che la provvidenza volle si trovasse pure lei
lì quella notte, imbeveva uno straccio nell’acqua fredda e lo riponeva sulla
fronte febbricitante del ragazzo.
Era stata lei a scoprire il suo malore mentre
raccontava una fiaba a Goten e Trunks per conciliarli al sonno.
Solo Goku l’accolse con un’occhiata fiduciosa:
“Il mio povero Gohan…” mugugnava la madre “come
faremo? Della medicina che salvò Goku non è rimasto più nulla, sarei dovuta
essere più accorta, è evidente che si tratta di una malattia ereditaria”.
Ricordava bene le terribili ore di angoscia
trascorse al capezzale del marito, mentre gli altri competevano con
l’indistruttibile metallo degli androidi.
“Non è tutto perduto” parlò quest’ultimo “io credo
che Bulma potrà esserci d’aiuto”.
Solo allora gli astanti sembrarono accorgersi del
suo arrivo.
Vegeta ebbe un rapido movimento del sopracciglio.
Chichi si arrestò davanti a lei, mentre Videl, Goten
e Trunks restarono a fissarla senza capire di quali potenzialità lei potesse
disporre:
“Io…?” arretrò Bulma.
“La macchina del tempo” spiegò Goku “io non posso
muovermi, debbo vegliare su mio figlio, ma se tu andassi nel futuro, Trunks
potrebbe darci altra medicina”
“Ehi… ma cosa state dicendo?” si intromise il
bambino sentendosi chiamare in causa “io sono qua e non ho nessuna medicina”
“Che significa futuro?” domandò Goten con
l’irresistibile broncio di chi si sente troppo inadeguato dinanzi a certi
discorsi degli adulti.
“Mi sembra una bellissima idea!” esclamò la
scienziata “ma ho bisogno di un paio di giorni per prepararla”.
Non l’aveva mai voluta progettare, ritenendolo un
apparecchio potenzialmente pericoloso, ma aveva analizzato in dettaglio
l’invenzione quando Trunks, col volto di un aitante giovanotto, era stato da
loro anni addietro, e si era intimamente compiaciuta per il sapiente lavoro che
un’altra sé stessa aveva dovuto portare a termine ad ogni costo.
“Ricordo bene come era fatta, non dovrei avere
difficoltà a riprodurla”.
Chichi le aveva già gettato le braccia al collo:
“Ti supplico, salva mio figlio, ti sarò debitrice
per tutta la vita”
“No” parlò Vegeta e calò un silenzio gelido.
Tutti guardarono nella sua direzione.
Goku si adombrò sotto una maschera di incredulità e
di astio.
“Vado io nel futuro, è meglio così per tutti”.
Allora all’altro non restò che rilassarsi:
“Ti ringrazio” gli sorrise “sei un vero amico”
“Non fraintendermi Kakaroth” sogghignò il principe
dei saiyan “preferisco andarci solo perché qui non ho altro di meglio da fare”.
Ma a Goku restò l’ombra dissolvente di quel sorriso
nel riflettere che non sarebbe mai cambiato del tutto, che pretenderlo
equivaleva a chiedere alla neve di ammantare i boschi in piena estate.
“Non perdiamoci in altre chiacchiere” intervenne
laconica Bulma “ogni minuto è prezioso!” ed uscì fuori.
Il piccolo jet troneggiava ancora al centro del
giardino.
Vegeta la vide incapsularlo e poi tornare indietro
verso di lui:
“I mie mezzi sono lenti, avevi ragione tu, non è che
potresti farmi venire con te?” gli porse uno sguardo mellifluo facendo fremere
le lunghe sopracciglia.
“Meriteresti di tornare a casa a piedi” disse,
l’afferrò rudemente e poi la sollevò verso le stelle.
Bulma sentì le viscere come liquefarsi: il saiyan la
teneva stretta ad un fianco con un solo braccio.
Strinse le palpebre per non guardare in basso.
In quello stesso modo aveva sorvolato le montagne
quando aveva fatto ritorno a casa insieme a lui dal Palazzo del Supremo al
termine del terribile scontro di alcuni mesi prima.
Gli occhi le lacrimavano per la velocità sostenuta
ed il corpo si contorceva nel timore sgusciasse dalla presa, così salda eppure
ugualmente negligente:
“Sta buona… o finirò veramente per farti cadere!”
fece severo.
“Ehi, non è meglio rallentare un po’?” provò a dire
ma il saiyan la ignorò continuando a piantonare l’orizzonte rischiarato dai
primi barlumi dell’aurora.
Il vento gelido le attraversava la stoffa dei
vestiti facendola intirizzire come un gattino sorpreso da un acquazzone, poi ad
un tratto anche l’altro braccio dell’uomo si mosse a stringerla ed un tepore
corroborante si propagò per tutte le membra.
Anche adesso, come l’ultima volta, Bulma sentì di
non essere mai stata meglio e al sicuro che tra quelle braccia vigorose e
robuste.
Avvinghiata al caldo corpo di lui, dimenticando
l’impellenza per la quale procedevano, sperò che la via del ritorno fosse solo
un po’ più lunga.
* * *
“A me sembra una macchina come tutte le altre”
commentava scettico Trunks girandoci intorno “non ha proprio niente di
speciale”
“Io non riesco ancora a capire dov’è che tuo padre
deve andare” si grattò Goten la zazzera cespugliosa.
I due bambini erano stati spediti alla Capsule Corp.
già da due giorni perché si temeva la malattia potesse contagiarli.
Goku aveva allontanato pure Videl, non lasciandosi
intenerire dalla sua ostinazione a voler rimanere a tutti i costi.
Le aveva detto che se le fosse successo qualcosa,
Gohan non glielo avrebbe mai perdonato e alla fine non le era rimasta altra
scelta che inghiottire le lacrime e correre via.
Bulma controllò per l’ultima volta le coordinate,
poi saltò giù dall’abitacolo.
Erano state due giornate di denso lavoro: poche ore
per dormire e poi, prima che spuntasse il nuovo giorno, tornava a mettersi
all’opera.
Vegeta sentiva il materasso sollevarsi ed i lacci
delle scarpe stringarsi frettolosamente.
“Mamma,ma non possiamo andare anche noi?”
“Mi spiace, ma è stata progettata per una sola
persona”
“Uffa… non è giusto!” si allontanò imbronciato,
seguito a ruota dall’altro.
Vegeta intanto si avvicinò e gli furono impartite le
ultime istruzioni.
“Ah… e c’è un’altra cosa…” la vide rientrare in casa
ed emergere poco dopo.
Aveva tra le mani una lettera sigillata:
“Vorrei che dessi questa a Trunks quando lo vedi, ma
non provare ad aprirla”.
Vegeta se la rigirò tra le mani.
Suppose fosse una di quelle patetiche cose che una
madre può scrivere ad un figlio.
Lui stava per salire sulla macchina quando si sentì
ancora dire:
“E mi raccomando… quando sarai lì evita di
incontrarmi, magari sono invecchiata, con gli androidi intenti a distruggere le
città non credo abbia avuto il modo ed il tempo di mantenermi giovane ed
attraente”.
Il saiyan scosse la testa.
Quella donna era irriducibile almeno quanto lui.
“Comunque buona fortuna…” lo guardò con due occhi
limpidi ed intensi “e torna presto… tesoro”.
Solo per un istante lui si immerse dentro quello
sguardo, lasciandosi annegare come raramente le permetteva di fare, poi salì e
chiuse lo sportello.
Trunks e Goten corsero incontro al velivolo che si
sollevò facendo spianare l’erba per un vasto raggio, agitando le braccia in
segno di saluto.
Fu solo un puntino e poi scomparve oltre la linea
del tempo, sottile e fatale…
* * *
Trunks asciugò con il dorso della mano la fronte
perlata di sudore e le ciocche ribelli dei suoi capelli si appiccicarono di
vernice, poi continuò a pennellare di bianco la staccionata, non prima di aver
rivolto al cielo terso di quel mattino un’occhiata carica di serenità e di
fiducia.
Il sole abbronzava la schiena ricurva ed i lombi
muscolosi.
Gli occhi cerulei registrarono un lampo di sgomento
ancor prima di sentire la ghiaia che veniva calpestata alle sue spalle.
“Padre…” mormorò voltandosi.
Vegeta restò a guardarlo.
Non era cambiato da quando l’aveva visto l’ultima
volta, avendo Bulma posizionato le stesse coordinate di quel futuro da dove lui
era giunto.
Per Trunks non erano trascorsi gli stessi anni di
Vegeta.
Per interminabili minuti padre e figlio restarono a
scrutarsi reciprocamente.
Fu il ragazzo ad interrompere il silenzio in modo
brusco:
“E’ successo qualcosa? Perché sei venuto qui?”.
“Sulla Terra sono trascorsi già diversi anni da
quando te ne sei andato l’ultima volta” spiegò arrivando subito al dunque
“Gohan ha contratto la stessa malattia cardiaca che colpì suo padre, hanno
bisogno di quella medicina”.
“Capisco” tornò a spostarsi i capelli dalla fronte
con una movenza lenta e misurata.
Non per un solo istante aveva pensato che suo padre
fosse venuto nel futuro per la semplice voglia di rincontrare lui.
Rimise il pennello nel secchio della vernice e si
scrollò dai pantaloni il terriccio.
“Seguimi…” gli disse.
Ma l’altro non si mosse:
“Non temere” gli sorrise “in casa non c’è nessuno,
mia madre è uscita da poco per la spesa”.
Vegeta allora lo seguì.
In casa lo accolse l’odore della pittura fresca.
I mobili erano stati spostati dalle mura e ricoperti
con delle lenzuola:
“Sto rimettendo a posto la casa, tutti lo stanno
facendo da quando gli androidi sono stati distrutti. Le città riprendono
finalmente a ripopolarsi” riecheggiò la sua voce nell’ampio salone.
Quando restò solo, Vegeta si guardò intorno.
Questa casa non aveva conosciuto niente degli agi
che impreziosivano l’altra.
Un’atmosfera di desolazione l’aveva smaltata troppo
a lungo, aveva impregnato le pareti e non bastavano delle pennellate di bianco
ad insabbiarla.
Qualcos’altro era e sarebbe mancato per sempre.
Vegeta sentì quel nulla incombere sulle spalle,
commutarsi in un’angoscia indefinibile e sottrargli il respiro.
Quando Trunks fece ritorno lo vide guardare fuori
dall’ampia vetrata senza tende:
“Ecco la medicina”.
Vegeta mise la boccetta nella tasca.
“Se aspettassi ancora un altro po’, la mamma
riuscirebbe a vederti”
“Non ho tempo da perdere, poi…” rifletté più
attentamente “non credo sia una buona idea”.
Aveva voglia soltanto di andarsene via.
Il ragazzo sorrise, malgrado tutto:
“Allora non le dirò che tu sei venuto…”.
Era meglio che lei non sapesse: guardare in faccia
il passato poteva fare molto male a chi aveva già sofferto tanto a lungo.
Trunks lo scortò fin nel retro del giardino, dove si
era materializzata la macchina del tempo che lui non aveva sentito giungere.
Vegeta chiuse lo sportello, digitò la rotta del
ritorno e lo salutò con lo stesso gesto di molti anni prima.
La macchina si era già issata in alto, prossima a
scomparire, quando si accorse che dietro al pannello dei comandi era scivolata
la lettera che Bulma gli aveva affidato.
“Dannazione!” imprecò sperando che non fosse troppo
tardi per tornare indietro a dargliela.
Azzerò le coordinate e tentò di abbassare la quota,
un risucchio vorticante sconquassò la navicella e poi non ricordò più nulla.
* * *
La testa gli doleva terribilmente, era come se
qualcuno lo avesse sollevato per il capo e tentato di stritolarglielo.
Anche il corpo, adagiato su di un letto, era mal
ridotto.
Aprì gli occhi a fatica e riconobbe oltre una coltre
nebulosa le pareti della sua stanza, ruotò la testa ed osservò la sveglia sul
comodino: il giorno, il mese e l’anno erano gli stessi di quando era partito.
Non era certo di cosa fosse accaduto né come ci
fosse arrivato, ma almeno era di nuovo nel suo letto, mai così desiderato come
in quel momento.
La porta si aprì e Bulma si avvicinò con calma solo
quando vide che teneva gli occhi aperti:
“Finalmente si è svegliato, come si sente?” gli
chiese con gentilezza.
Vegeta accigliò lo sguardo, senza capire perché si
stesse rivolgendo a lui con la terza persona.
“Che cosa è successo?” chiese restituendo una
smorfia di dolore.
“E’ quello che vorrei sapere anche io, mio marito
l’ha trovata nel giardino di casa mia…”.
Vegeta si liberò dalle coperte come fossero divenute
di fuoco:
“Bulma, che diavolo stai blaterando?!”.
La donna sgranò gli occhi perché lui sembrava
conoscere il suo nome.
La porta tornò ad aprirsi e Iamcha si portò
all’interno della stanza:
“Allora, cara, si è svegliato?”
“Direi proprio di sì…” commentò senza distogliere lo
sguardo dall’uomo seduto al centro del letto, che li osservava come avesse
visto due fantasmi.
“Ne sono contento” fece l’altro “comunque io mi
chiamo Iamcha e lei è mia moglie…” gli porse uno sguardo cordiale e alla mano.
“Siete impazziti tutti?!” saltò giù dal letto “avete
deciso di prendervi gioco di me?!”.
Bulma e Iamcha si guardarono senza capire:
“E’ molto strano, questo signore conosce il mio nome
ma io non l’ho mai visto prima d’ora”
“Si può sapere cosa vi prende?!” respirava ansimante
“sono stato via soltanto per poche ore! Che sta succedendo?!”.
Ma i due si chiusero in un eloquente ermetismo.
Era evidente li stesse scambiando per altre persone
o che il suo farneticare fosse il risultato dell’incidente subito.
Vegeta si guardò attorno con più attenzione.
Ad un esame più attento, la stanza non era come
l’aveva lasciata lui, i mobili erano gli stessi ma le suppellettili non le
riconosceva.
Con tremore aprì un cassetto del suo comodino,
quello degli oggetti personali, e lo scoprì vuoto.
Lo videro allora lasciare la camera come un
forsennato e correre fuori.
Vegeta percorse i corridoi conosciuti con un arto
claudicante e la testa prossima a scoppiargli.
Di certo doveva trattarsi di un incubo.
Dove era finito?
In quale assurda dimensione?
Questo non era più né il passato né il futuro.
Doveva recuperare la macchina del tempo ed andarsene
via al più presto, ma qualcosa al centro del giardino lo lasciò pietrificato:
la macchina del tempo era ridotta ad un rottame inservibile.
Un urlo straziante lo fece brillare d’oro e poi
tornò a svenire.
* * *
Un profumo gli solleticò il naso, lo respirò
lasciandoselo entrare fin nel sangue, lo avrebbe riconosciuto tra altri mille
odori: era buono, seducente, era quello di Bulma, della sua Bulma.
“Dimmi che è stato solo un incubo” mormorò con calma
senza aprire gli occhi.
“Mi piacerebbe che fosse così” le sentì dire “se
solo lei mi dicesse chi è e come ci è finito a casa mia”.
Vegeta tornò di nuovo a scattare seduto sul letto.
Era la seconda volta che Iamcha era stato costretto
a riportarlo lì.
Bulma l’osservò diventare di nuovo stravolto ed
ansimante, poi lo vide ricadere sul cuscino.
Vegeta osservò il soffitto senza dire nulla, in
preda ad un turbinio di pensieri era la sua mente meditando cosa ne sarebbe
stato di lui, se ascoltando la sua storia l’avessero ritenuto un mentecatto.
Non gli restava che scoprire dove era veramente
capitato:
“Kakaroth…” pensò a lui all’improvviso “dove si
trova?”
“Non conosco nessuno con questo nome” scosse il capo
la donna.
Poi Vegeta ricordò che lei non lo aveva mai chiamato
per quel nome:
“Goku… intendevo dire, dimmi dove si trova”.
Il suo volto si schiarì:
“Conosci Goku, sei un suo amico?”
“Io non ho amici, lo conosco e basta”.
Doveva essere un tipo molto tenebroso, meditò la
donna, oltre che forestiero.
Abbassò gli occhi e disse:
“Goku è morto diversi anni fa”
Allora volle sapere chi lo avesse sconfitto e quando
scoprì che era deceduto a causa di una rara forma di malattia, tornò ancora ad
inquisire:
“E dimmi… hai mai sentito parlare di Freezer o di
Cell?”
Ma la donna fece ancora un cenno di diniego col
capo.
Né Namecc né gli androidi, dunque, avevano mai
turbato i sogni suoi e quelli di molti altri, quanto a lui, neanche era mai
arrivato sulla Terra.
I terrestri di quella dimensione potevano ritenersi
molto fortunati.
“Uffa… ti decidi a dirmi chi sei o no?” fece
spazientita.
Lui tornò a rialzarsi con la schiena:
“Questi non sono affari tuoi”.
“Come sarebbe a dire?” sbottò l’altra facendosi
paonazza “sei piombato dal cielo sul mio giardino, mio marito ti ha dovuto
trascinare non una ma ben due volte su questo letto, ho tutto il diritto di
sapere chi sei, altrimenti tornatene da dove sei venuto!”.
Sentirla riferirsi a Iamcha come a suo marito lo
fece andare su tutte le furie.
Era la cosa più assurda di tutta quella situazione:
“Me ne andrei se solo sapessi come!”
“Non sei nelle condizioni di andartene, sei
piuttosto malconcio”
“Ne ho passate di peggiori”.
La parte più razionale le suggeriva di cacciarlo
via, eppure quell’individuo emanava un carisma da far tremare le mura.
L’aspetto misterioso e cupo alimentavano la sua sfrontata curiosità e oltre al fatto avesse un aspetto molto affascinante, aveva conosciuto Goku e questo bastava ad infonderle fiducia.
Bulma capì che per il momento non avrebbe carpito
nulla da lui e così lasciò la stanza.
Rimasto solo, Vegeta provò a rimettersi in piedi.
Per oltre un’ora se ne stette seduto sul ciglio del
letto a pensare quale sciagura gli fosse toccata in sorte, una realtà dove non
era più nessuno e niente più gli era rimasto.
Se fosse accaduto in passato, lo avrebbe ritenuto un
dono del cielo, ma non ora, non adesso che era felice di avere una famiglia ed
aveva dato la sua stessa vita per preservarla.
Sbirciò l’orologio.
A quest’ora Trunks, come accadeva tutte le sere,
avrebbe fatto penare la madre prima di decidere di mettersi a letto, poi Bulma
si sarebbe andata a coricare cercando calore accanto a lui, sotto le coperte,
avrebbero litigato o forse finito per fare l’amore.
Vegeta era a pezzi, nello spirito e nel corpo.
Si trascinò stancamente nel bagno e si gettò sotto
la doccia, poi uscì dalla stanza e si mosse alla volta della cucina, ma una
porta attirò per prima la sua attenzione: era quella che occupava suo figlio.
Con circospezione aprì l’uscio per scoprire che era
arredata come una delle tante camere riservate agli ospiti, non c’erano i suoi
dinosauri computerizzati, il trenino con le rotaie, il lume dalla forma di
coccinella sul comodino accanto a letto.
Trasse un respiro profondo: di marmocchi dal sangue
terrestre in giro non sembrava esserci l’ombra.
“Credo sia meglio che vada via” fece Iamcha ancora
seduto al tavolo della cucina.
Quando la squadra di baseball, di cui era
allenatore, si trovava in ritiro, si finiva sempre per cenare tardi.
“Di lui non sappiamo niente, domani dovrà andare
via, lo abbiamo accolto solo perché stava male”
“Ha un caratteraccio” parlò Bulma riponendo nel
piatto l’osso della coscia di pollo appena consumata “ma non mi sembra veramente
cattivo, piuttosto direi che gli è accaduto qualcosa che deve averlo sconvolto
molto”.
L’oggetto del discorso emerse dal buio del
corridoio, addosso aveva solo un paio di pantaloni.
Bulma non aveva immaginato che sotto quei vestiti ci
fosse un fisico a tal punto scolpito:
“Suppongo tu abbia fame, ti preparo qualcosa…”
“Lascia perdere, faccio da solo”.
La cosa strana non fu che il suo comportamento tutto
sembrava tranne quello di un ospite, ma sapeva con esattezza dove fossero
conservati il pane, gli affettati e gli altri contorni sott’olio, muovendosi
con dimestichezza tra il mobile accanto al lavello ed il frigorifero.
Iamcha invece restò a guardare le cicatrici che gli
solcavano la pelle della schiena e del petto e la sua fronte si contrasse
gravemente, si alzò da tavola per essere libero di assumere una posa di
combattimento qualora ce ne fosse stato il bisogno, perché l’aura dello
sconosciuto era azzerata, ma quello che gli era rimasto del suo istinto da
guerriero gli suggeriva che, se sprigionata, sarebbe stata immane:
“Tu non sei uno qualunque… se hai conosciuto Goku
vuol dire che sei anche tu un guerriero, chi sei veramente?”.
Bulma vide il forestiero oltrepassare Iamcha e
sedersi ignorando il tono di minaccia del marito.
Pareva non intenzionato a rispondere ed invece
disse, senza degnarli di uno sguardo:
“Mi chiamo Vegeta e sono il principe dei saiyan”.
Fiero, orgoglioso, intrepido era quell’uomo seduto
innanzi a lei, non un terrestre, dunque, ma un guerriero venuto dalle
profondità del cosmo.
Poche parole furono le sue eppure sufficienti a
delucidarli sulle origini di quell’essere dall’assurda coda fulva che era stato
Goku.
“Ma da quanto tempo sei qui sulla Terra? Sei
riuscito ad incontrarlo? Lui ti ha mai conosciuto?” una raffica di domande
giunte quando la sua loquacità si era andata già dissolvendo.
Vegeta aveva decretato che non avrebbero saputo
altro.
Questo, tuttavia, bastò al terrestre per
tranquillizzarsi sulle intenzioni non veramente pericolose di quell’alieno.
Malgrado non avesse niente della spensieratezza e
della mansuetudine di Goku, non dava segnali di essere intenzionato a far loro
del male, piuttosto continuava ad osservare il piatto con un contegno
profondamente scosso e sembrava volesse trovare lì dentro la risposta ai suoi
tormenti.
“Avanti Bulma…” si alzò “non affliggerlo più, è
molto stanco e deve ancora mangiare, è stata una giornata lunga per tutti
quanti, andiamocene a letto!”.
Vegeta sentì le viscere contorcersi dentro quando
lui le passò un braccio intorno alle spalle.
La movenza fu registrata con un lampo di smarrimento
e sconcerto, prima di assumere nel suo encefalo contorni più netti.
Il solo pensiero che dormissero nello stesso letto
gli fece letteralmente schiumare le ossa e le nocche si illividirono mentre i
loro passi si attutivano lungo il corridoio.
Avrebbe voluto gridargli di non provare a metterle
le mani addosso, che quel corpo apparteneva soltanto a lui, che di diritto se
la sarebbe andata a prendere, ma l’urlo venne inghiottito come il più amaro dei
morsi e alla fine ne uscì solo un guaito lancinante.
* * *
Dalle lamiere di ferro si levava ancora una striscia
sottile di fumo.
Vegeta osservava i rottami della macchina del tempo
col piglio più grave del solito: era come se un cadavere redivivo esaminasse la
sua tomba.
Per quanto respirasse ancora, Vegeta si sentiva allo
stesso modo di un morto che cammina.
Sotto le macerie qualcosa colpì la sua attenzione,
si piegò a scavare e trasse la lettera che Bulma aveva scritto per suo figlio.
Era rimasta intatta e l’aprì incurante delle
raccomandazioni della donna.
Se per colpa di quella lettera aveva azzerato le
coordinate quando già era troppo tardi, determinando un brusco salto temporale,
tanto valeva sapere di cosa si trattasse.
Osservò il suo contenuto e la nascose sotto la
maglia quando alle sue spalle sovvenne una presenza concitata.
“Questa non è una navicella!” esclamò Bulma “ho
esaminato quello che resta della scatola nera, si tratta di una macchina del
tempo!”.
Vegeta non batté ciglio.
Si aspettava che prima o poi lei la esaminasse,
fosse anche solo perché era rimasto visibile il marchio della casa di
produzione, soltanto non poteva immaginare che lo avesse fatto di notte, troppo
interessata a scoprire altro sul suo conto per aspettare che fosse almeno
l’alba.
“Si può sapere da dove vieni? Dal passato o dal
futuro?”
“Né dall’uno e né dall’altro”.
Lui parlò soltanto di un viaggio affrontato nel
passato e di un salto spazio-tempo in un’altra dimensione.
Bulma pendeva letteralmente dalle sue labbra.
Scoprire che esistessero altri contesti temporali
era una rivelazione a dir poco eclatante per uno scienziato.
“Dunque esistiamo anche in altre dimensioni…
suppongo diverse da questa”
“Più o meno” poi soggiunse “da dove vengo io,
Kakaroth non è morto”
“Tu mi conoscevi già, non è così?” indagò
scrutandolo negli occhi, come volesse sviscerare la risposta che sperava.
Ma il saiyan le diede le spalle:
“Ti ho visto solo qualche volta” mentì e fu come se
un cilicio gli stesse squarciando la carne “era Kakaroth che ti conosceva bene”.
Per molto tempo non dissero più nulla.
Bulma fissava i rottami del velivolo quando si sentì
dire all’improvviso, con fare perentorio:
“Ricostruiscila! E’ l’unico modo che ho per
andarmene via!”.
Lei sussultò:
“Ma io… si tratta di iniziare da zero, non ho nessun
dato da cui partire, non è rimasto nulla di questa macchina che possa aiutarmi,
potrebbero volerci settimane… forse mesi”
“Non importa” disse Vegeta senza guardarla “se anche
ci volesse una vita intera… devo andarmene”.
* * *
Iamcha sorseggiò la lattina di birra senza
distogliere lo sguardo dalle carte sparpagliate sul tavolo da lavoro.
Era già da una settimana che sua moglie era alle
prese con calcoli quantistici di insondabile spessore.
Le bozze della macchina del tempo erano graffi
circondati da appunti indecifrabili.
“Non capisco se tu lo stai facendo per accontentare
quell’individuo oppure per soddisfare la tua sete di sapere”.
Bulma non alzò la testa, solo per istante la matita
restò sospesa dal foglio prima di riprendere lo schizzo.
Neanche ella sapeva perché veramente lo stesse
facendo, o forse la risposta c’era ma non osava confessarla, e così non
rispose.
“Va bene” cestinò al volo la lattina “io vado…” e la
bacio sulla tempia “stasera potrei ritornare tardi, dopo la partita ci sarà la
conferenza stampa, la federazione ha poi organizzato un rinfresco per tutti i
giornalisti”.
“Già…” fece torva “scommetto con tante belle
ragazze”
“Beh, quelle non possano mancare, si tratta di
pubblicità in fondo” si grattò la nuca “ma tu puoi stare tranquilla”
“Bugiardo” sibilò a denti stretti nel vederlo andare
via.
Per un’altra ora la schiena fu ricurva sullo
scrittoio: così la trovò Vegeta quando fece il suo ingresso nel laboratorio.
Bulma gli accennò un sorriso niente affatto
corrisposto.
Da una settimana che era lì aveva sempre avuto quel
piglio impenetrabile e caliginoso, eppure non riusciva a smettere di restarne
affascinata.
Si stappò anche lei una lattina, dopo avergliene
offerta una:
“E’ noioso stare in un posto e non avere niente da
fare” sperava di sapere qualcosa in più della sua vita “facevi qualcosa in
particolare… di solito… nella tua realtà?”
Il saiyan si asciugò la bocca con il dorso della
mano:
“Mi allenavo e basta”
“Esattamente come Goku, evidentemente voi saiyan non
sapete fare altro oltre che combattere” sorrise di nuovo, poi lo penetrò a
fondo nelle sue iridi di ebano ed osò domandargli:
“Hai una famiglia?”.
Vegeta non le permise di scandagliarlo oltre il
dovuto e così spostò lo sguardo:
“No” fu laconico.
Bulma si sentì pervadere da un’insolita euforia
prima di chiedergli ancora:
“Ed allora perché hai tanta fretta di ritornare da
dove sei venuto?”
“Questi sono affari miei”
“Ti conviene darmi una motivazione, ho bisogno di
capire se vale la pena affrontare questo lavoro”.
Vegeta ridusse in poltiglia la lattina.
In una dimensione o in un’altra, Bulma non cambiava
di una virgola, irriverente e linguacciuta.
Eppure, se non si fosse tenuto a bada, le avrebbe
ugualmente strappato di dosso quei vestiti e piegata lì, sul tavolo, tra le
scartoffie e gli altri strumenti da lavoro, come aveva già fatto una volta.
Trunks neanche era stato ancora addestrato a
combattere.
Bulma si era trattenuta fino a tardi a lavorare ed
era riuscita a convincerlo a venire per vedere la sua ultima invenzione.
Non seppe mai cosa gli passò per la testa, forse
perché a causa di quel progetto, ella disertava il suo letto da oltre una
settimana.
Perciò le aveva sollevato senza alcun preavviso la
gonna e sistemata rudemente sul ripiano, facendola protestare prima e poi
supplicare di non smettere.
Erano stati due sprovveduti all’epoca.
Quando il sig. Brief era entrato inaspettatamente
nel laboratorio, erano già distanti e ricomposti ma ancora affannati per
l’orgasmo che li aveva travolti.
“Ne vale la pena più di quanto tu possa immaginare”
disse ritornando alla realtà e lasciandola a riflettere ancora a lungo da sola.
* * *
Vegeta tese l’orecchio, il volto si contrasse in una
posa di raccoglimento: gli era sembrato di sentire la voce di suo figlio
chiamarlo dal giardino.
Spalancò la finestra, ma nel giardino sottostante il
sibilo del vento raccoglieva soltanto le foglie in cerchio e poi se le
trascinava via.
Era lì da un mese e forse stava già uscendo di
senno.
Accese l’abat-jour sul comodino per rischiarare la
stanza e trasse da un cassetto la lettera indirizzata a Trunks, l’aprì e tornò
di nuovo ad osservarne il contenuto.
Un’increspatura impercettibile ai lati della bocca
sarebbe stata un sorriso se forse si fosse sforzato un po’ di più.
Poi la ripose dov’era e chiuse il cassetto con un
gesto di stizza.
Se la macchina del tempo non fosse stata pronta tra
breve, sarebbe andato altrove ad attendere il momento.
Le pareti di quella casa gli stavano succhiando il
giudizio, scoprire che al posto della camera gravitazionale c’era una palestra
con squallidi attrezzi ginnici gli aveva fatto rivoltare lo stomaco, e pensare
che la sua donna condivideva il letto con un altro uomo gli faceva gorgogliare
il sangue e scuotere il corpo durante la notte.
La voce di quell’adorabile marmocchio lo
perseguitava come fosse stato un fantasma, perché in quella dimensione altro
non era purtroppo che pura inconsistenza.
Finanche l’inferno era stato a confronto più
vivibile.
Ora era vivo ma quanto di più caro avesse mai avuto
non esisteva più lo stesso.
Bulma stava riscontrando delle difficoltà nella
realizzazione della macchina del tempo ed il progetto originale era stato
sottoposto a revisione già molte volte.
Con molta franchezza gli aveva comunicato proprio
alcuni giorni prima che sarebbero occorsi molti mesi ancora, forse anche anni
per riuscire ad individuare l’elemento mancante per il suo perfezionamento e
che non si poteva essere negligenti a riguardo perché avrebbe corso il rischio
di trovarsi in una dimensione senza né spazio né tempo, nel nulla più assoluto,
come un astronauta sganciato dalla sua navicella che vaga nel cosmo senza più
meta.
E quando pensò che un’altra notte da solo sarebbe
stata impossibile da superare anche per una tempra coriacea come quella sua,
qualcuno bussò alla sua porta ed entrò piano.
Bulma era raccolta in una vestaglia, il viso era
senza trucco e gli occhi avevano smesso di piangere già da un pezzo.
Suo marito era fuori in trasferta e sentire la voce
suadente di una donna rispondere al suo cellulare era stato molto umiliante.
Infelice: questo era l’aggettivo giusto per il suo
matrimonio.
Tempo perso: neanche un figlio era riuscita ad
avere.
Un impenitente donnaiolo: questo era sempre stato
Iamcha.
Alla fine aveva finito per farsi impalmare come una
stupida ingenua.
Vegeta la vide avanzare con flemma al centro della
stanza e fermarsi davanti a lui, desiderabile come sempre.
Era la prima volta che veniva a fargli visita a
quell’ora ed il saiyan ebbe voglia di naufragare in quel mare in tempesta che
erano diventati i suoi occhi, come l’ultima volta che aveva guardato la sua
Bulma prima di partire, come se questa fosse morta o dispersa ed ora gli
apparisse finalmente in carne ed ossa.
Eppure era proprio lei, con la frangetta accostata
ad un lato della fronte, quel vezzo che aveva di stringersi il labbro quando
non era certa di volergli rivelare qualcosa, il petto morbido stretto tra le
braccia conserte.
La conosceva meglio di chiunque altro, non aveva
niente di diverso dall’altra a parte quello di essere sua.
Questa era davanti a lui e forse l’altra Bulma non
l’avrebbe mai più rivista: questo pensiero lo martellava ogni volta che si
ritrovava a guardarla, per questo ormai aveva preso ad evitarla, come ad
aggirare un burrone nel quale c’era il rischio di restare inghiottito.
Non vederla equivaleva a pensare di meno.
Ma adesso innanzi a lui non c’era una donna
qualunque con cui consolarsi, c’era proprio lei e se per un istante avesse
dimenticato che quella aveva un anello al dito e avesse immaginato che nella
stanza accanto c’era Trunks che dormiva, avrebbe potuto credere che in fondo
non era cambiato niente della sua vita.
La bocca della donna tremò prima di pronunciare:
“Non so cosa tu mi abbia fatto, di te non conosco
quasi niente, eppure da quando sei arrivato sento che niente più è come prima,
ma se vuoi cha vada via…”.
Vegeta non aspettò neanche che finisse.
L’attirò a sé rudemente e dopo un istante era già
sopra di lei, travolgendola come un fiume in piena, di baci, di morsi, di
carezze, senza lasciarle tregua.
Bulma non si sarebbe mai aspettata che quell’uomo
celasse una passione talmente incontenibile, era come se stesse gettando anche
l’anima, era come se la stesse amando.
Una bramosia quasi disperata soggiogava il suo
organismo e reclamava le sue mani nivee e le gambe affusolate per trovarvi
consolazione.
Sapeva come e dove procurarle piacere, quasi fossero
stati amanti di lunga data.
Non aveva mai sperimentato niente di simile neanche
con suo marito, mai aveva provato un coinvolgimento fisico e mentale talmente
profondo.
Vegeta si inarcava tra le sue gambe flessuosamente.
Possederla come era abituato a fare, smorzava per
davvero l’angosciante preoccupazione di non riuscire in qualche modo a
ritornare a casa.
Se fosse stato costretto a rimanere in quella
dimensione, niente sarebbe dovuto essere diverso da come lo ricordava lui.
Sotto di lui stringeva la sua Bulma: era ritornato a
casa, infine.
Lei urlò come mai aveva fatto e alla fine giacquero
silenziosi l’uno accanto all’altra.
* * *
L’intelaiatura della macchina del tempo faceva
mostra di sé all’interno del laboratorio.
Altre due settimane di lavoro, ad un ritmo
tollerabile, sarebbero state sufficienti per ultimarla grazie al lampo di genio
tanto atteso e trovato per caso mentre da dietro i vetri della finestra
osservava lo scrosciare della pioggia ed i fulmini che si abbattevano sulle
città in lontananza.
Aveva dimenticato di comunicarlo a Vegeta quando la
sera prima era andata a fargli visita nella sua stanza, con gli occhi arrossati
per il pianto.
La scoperta del tradimento di Iamcha e la notte
passata con il saiyan avevano azzerato molte delle sue preoccupazioni.
Ma i progetti che invadevano la scrivania erano
stati messi da parte, e Bulma non si stava affaccendando intorno come lui si
sarebbe aspettato.
Vegeta la trovò seduta nel soggiorno intenta a
sfogliare un giornale per sole donne con le gambe accavallate comodamente.
Quando lo vide arrivare, arrossì imbarazzata.
Sulla pelle sentiva ancora il ricordo di quella
notte rovente da poca trascorsa.
“Si può sapere perché non stai lavorando?” le chiese
senza mezzi termini l’altro.
“Che senso ha costruire adesso una macchina del
tempo?” la sua logica sembrava non fare una piega.
Stretta a lui sotto le coperte, aveva meditato sulla
felice prospettiva di passare il resto della sua vita insieme a quell’uomo.
Erano fatti l’uno per l’altra, l’ardente trasporto
del saiyan l’aveva lasciata senza parole.
Non si sarebbe potuta ingannare sul fatto che
neanche per lui era stato solo sesso.
Iamcha sarebbe tornato tra una settimana ed avrebbe
trovato le valige sullo zerbino già pronte.
“Che cosa vorresti dire?” si accigliò gravemente
Vegeta.
“Perché dovresti andartene via? Dopo quello che c’è
stato tra di noi questa notte…” allungò le braccia e le posò sulle sue spalle
con familiarità.
“Ma che cosa stai dicendo?!” la staccò brusco “Non
capisci che non posso restare qui?!”
Bulma si sentì trasportare sull’orlo di un
precipizio:
“E a me non pensi…” mormorò annichilita “io pensavo
di significare qualcosa per te, che avevi intenzione di restare…”
“Non mi sembra di averti lasciato intendere niente
del genere” Vegeta comprese che la debolezza di quella notte era stata un grave
errore.
“Portami allora con te, costruirò una macchina del
tempo in grado di trasportare due persone!”
“Questo è impossibile, tu appartieni a questo
mondo!”
La vide avvampare allora di dolore e di rabbia:
“Che cosa hai di tanto importante per cui
ritornare?! Che cosa hai lì che qui non potresti avere?!”
“Ho una moglie ed un figlio” disse e la fece
arretrare inorridita.
Vide il suo corpo fremere e le lacrime tracimare
come un torrente fuori dagli argini:
“Siete tutti uguali voi uomini! Bastardi e
fedifraghi!” gli tempestò il petto di inutili pugni “ed io sono una povera
sciocca che serve solo a scaldare il letto!”.
Respirava ancora ansimante quando disse:
“Non preoccuparti, la tua macchina del tempo sarà
pronta prima di quando pensi, non voglio che resti qui un minuto di più!”
E così fu.
Bulma lavorò intensamente e in meno di una settimana
l’opera fu realizzata, traendo forza ed ispirazione dalla rabbia e dal dolore
che aveva dentro.
Non lo rivide più fino a quando non gli andò a dire
freddamente che poteva andarsene anche
all’inferno.
Prima di salire, Vegeta controllò che il medicinale
per Gohan fosse nelle tasche.
Selezionando le coordinate dello stesso giorno di
quando era partito, c’era speranza ancora di salvarlo.
Nessuno avrebbe saputo dove era stato, nessuno al
suo ritorno sarebbe andato ad accoglierlo col volto affranto e rigato dalle
lacrime per il suo inspiegabile ritardo.
Se avesse saputo che a causa di quel moccioso
avrebbe dovuto patire tutto quello, lo avrebbe fatto fuori quando lo aveva
visto infermo in un letto.
La macchina del tempo sorvolò il giardino della
Capsule Corp. e poi scomparve per sempre.
Bulma non volle vederlo, col volto indignato ascoltò soltanto il rumore dei motori e poi il lugubre silenzio che sovvenne.
Ritornata nei suoi laboratori, scoprì sulla
scrivania la busta bianca di una lettera.
Non era segnato né il mittente né il destinatario,
non era stata neanche sigillata, piuttosto qualcuno ci aveva già sbirciato
dentro.
L’aprì e scoprì al suo interno una fotografia.
Era stato l’unico scatto a cui Vegeta si era
prestato in tutta la sua vita.
Accanto a lui, tenebroso senza eccezioni, Bulma ed
il piccolo Trunks sorridevano sullo sfondo di una spiaggia soleggiata, dove
erano stati solo un mese prima.
Bulma allora se la strinse al cuore, si piegò su sé
stessa e pianse amaramente.
FINE