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Autore: lilly81    16/07/2006    16 recensioni
Vegeta è costretto a compiere un viaggio nel futuro, ma al ritorno la realtà non sarà più la stessa...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bulma, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Scherzi del tempo”

“Scherzi del tempo”

 

 

 

Quando il telefono squilla nel cuore della notte è come un veggente che preannunzia sciagure, il risveglio può tramortire il respiro ed il buio trovarti impreparato, raramente bisbiglia all’orecchio qualcosa di promettente e se qualcuno di caro quella notte non ha fatto ritorno, non resta che pregare che il numero digitato non sia stato quello giusto.

Vegeta sbarrò gli occhi e balzò con la schiena in avanti.

La donna che respirava profondamente, con la testa chinata sulla sua spalla, si mosse con disappunto sotto le pesanti coltri e si rigirò dall’altra parte come se niente fosse.

Ricevette un’occhiata truculenta e poi si sentì dire:

“Dannazione, Bulma! Rispondi a quel maledetto telefono!”.

L’apparecchio era poggiato sul suo comodino.

Se Vegeta non allungò il braccio non fu per non darsi disturbo, ma semplicemente perché non ne aveva mai alzato uno dacché era sulla Terra.

Bulma mugugnò qualcosa di incomprensibile, afferrò la martellante cornetta dopo averla cercata a tentoni e senza aprire gli occhi chiese:

“Pronto…?” il suono uscì impastato e confuso.

Dall’altro lato del cavo parlò concitata la voce di Chichi.

Bulma riacquistò lucidità mentale solo quando udì che era successo qualcosa di grave:

“Trunks!” scattò seduta, rammentandosi del figlio “gli è successo qualcosa?”.

A quelle parole anche Vegeta accigliò lo sguardo.

Il bambino si era recato nel pomeriggio a casa di Goten ed aveva chiesto di trattenersi anche per la notte, il che si ripeteva sovente da quando il loro sodalizio si era andato rafforzando in seguito allo scontro con Majinbu diversi mesi prima.

Permesso accordato come tutte le altre volte.

Ma Chichi le disse che non era lui il problema.

Vegeta la vide impallidire lo stesso, stringere nella mano un lembo del pigiama, dischiudere le labbra con trepidazione:

“Veniamo subito!” risolse alla fine agganciando energicamente.

Con una mossa rapida si liberò della coperta e scese dal letto:

“Dobbiamo andare a casa di Goku,  Gohan sta molto male, ha la febbre altissima!”.

Il saiyan non si mosse:

“E con questo? Siamo forse dei medici? Non vedo in cosa potremmo essere d’aiuto” fu il suo cronico cinismo.

Lei recuperò da terra i vestiti che aveva fatto cadere prima di coricarsi:

“Chichi dice che non è una febbre normale” si infilò il reggiseno ed allacciò la blusa “ha gli stessi spasmi di quando Goku fu colpito dalla malattia cardiaca poco dopo l’arrivo dei cyborg!”.

Vegeta restò ancora inerte:

“Ti decidi a vestirti sì o no?!” l’apostrofò Bulma “di questa malattia si muore o forse lo hai dimenticato? Se ci hanno chiesto di andare vorrà dire che possiamo fare qualcosa di importante!”.

Il saiyan si infilò i pantaloni con stizza e in meno che non si dica aprì la finestra e saltò sul davanzale:

“Avanti! Muoviti…” le fece segno di aggrapparsi a lui.

“Non credi sia meglio prendere uno dei miei jet?” fece scettica.

“Così faremo prima” scalpitò l’altro impaziente.

“Non voglio arrivare fino a casa di Goku così… preferisco i miei mezzi, fa freddo, non mi va di prendere un raffreddore, per non aggiungere poi che si scompigliano tutti i capelli e…”

Ma Vegeta l’aveva già piantata in asso.

 

* * *

 

 

L’aereo atterrò scuotendo le cime degli alberi: nella quiete notturna ruppe il sonno degli animali come una sveglia irriguardosa disturba quando è ora.

Il giardino era rischiarato dai fasci di luce provenienti dalle finestre.

Bulma entrò in casa e scoprì tutta la famiglia stretta intorno al moribondo, adagiato su di un materasso gettato al centro della stanza.

Trunks e Vegeta stavano più in disparte, entrambi chiusi nell’abituale posa conserte delle braccia.

Sul volto di Chichi l’insofferenza aveva gettato un’altra manciata di anni.

Il piccolo Goten l’osservava misurare la stanza con nervosismo, asciugare le lacrime con un fazzoletto che tirava ogni volta dalla manica della vestaglia.

Videl, che la provvidenza volle si trovasse pure lei lì quella notte, imbeveva uno straccio nell’acqua fredda e lo riponeva sulla fronte febbricitante del ragazzo.

Era stata lei a scoprire il suo malore mentre raccontava una fiaba a Goten e Trunks per conciliarli al sonno.

Solo Goku l’accolse con un’occhiata fiduciosa:

“Il mio povero Gohan…” mugugnava la madre “come faremo? Della medicina che salvò Goku non è rimasto più nulla, sarei dovuta essere più accorta, è evidente che si tratta di una malattia ereditaria”.

Ricordava bene le terribili ore di angoscia trascorse al capezzale del marito, mentre gli altri competevano con l’indistruttibile metallo degli androidi.

“Non è tutto perduto” parlò quest’ultimo “io credo che Bulma potrà esserci d’aiuto”.

Solo allora gli astanti sembrarono accorgersi del suo arrivo.

Vegeta ebbe un rapido movimento del sopracciglio.

Chichi si arrestò davanti a lei, mentre Videl, Goten e Trunks restarono a fissarla senza capire di quali potenzialità lei potesse disporre:

“Io…?” arretrò Bulma.

“La macchina del tempo” spiegò Goku “io non posso muovermi, debbo vegliare su mio figlio, ma se tu andassi nel futuro, Trunks potrebbe darci altra medicina”

“Ehi… ma cosa state dicendo?” si intromise il bambino sentendosi chiamare in causa “io sono qua e non ho nessuna medicina”

“Che significa futuro?” domandò Goten con l’irresistibile broncio di chi si sente troppo inadeguato dinanzi a certi discorsi degli adulti.

“Mi sembra una bellissima idea!” esclamò la scienziata “ma ho bisogno di un paio di giorni per prepararla”.

Non l’aveva mai voluta progettare, ritenendolo un apparecchio potenzialmente pericoloso, ma aveva analizzato in dettaglio l’invenzione quando Trunks, col volto di un aitante giovanotto, era stato da loro anni addietro, e si era intimamente compiaciuta per il sapiente lavoro che un’altra sé stessa aveva dovuto portare a termine ad ogni costo.

“Ricordo bene come era fatta, non dovrei avere difficoltà a riprodurla”.

Chichi le aveva già gettato le braccia al collo:

“Ti supplico, salva mio figlio, ti sarò debitrice per tutta la vita”

“No” parlò Vegeta e calò un silenzio gelido.

Tutti guardarono nella sua direzione.

Goku si adombrò sotto una maschera di incredulità e di astio.

“Vado io nel futuro, è meglio così per tutti”.

Allora all’altro non restò che rilassarsi:

“Ti ringrazio” gli sorrise “sei un vero amico”

“Non fraintendermi Kakaroth” sogghignò il principe dei saiyan “preferisco andarci solo perché qui non ho altro di meglio da fare”.

Ma a Goku restò l’ombra dissolvente di quel sorriso nel riflettere che non sarebbe mai cambiato del tutto, che pretenderlo equivaleva a chiedere alla neve di ammantare i boschi in piena estate.

“Non perdiamoci in altre chiacchiere” intervenne laconica Bulma “ogni minuto è prezioso!” ed uscì fuori.

Il piccolo jet troneggiava ancora al centro del giardino.

Vegeta la vide incapsularlo e poi tornare indietro verso di lui:

“I mie mezzi sono lenti, avevi ragione tu, non è che potresti farmi venire con te?” gli porse uno sguardo mellifluo facendo fremere le lunghe sopracciglia.

“Meriteresti di tornare a casa a piedi” disse, l’afferrò rudemente e poi la sollevò verso le stelle.

Bulma sentì le viscere come liquefarsi: il saiyan la teneva stretta ad un fianco con un solo braccio.

Strinse le palpebre per non guardare in basso.

In quello stesso modo aveva sorvolato le montagne quando aveva fatto ritorno a casa insieme a lui dal Palazzo del Supremo al termine del terribile scontro di alcuni mesi prima.

Gli occhi le lacrimavano per la velocità sostenuta ed il corpo si contorceva nel timore sgusciasse dalla presa, così salda eppure ugualmente negligente:

“Sta buona… o finirò veramente per farti cadere!” fece severo.

“Ehi, non è meglio rallentare un po’?” provò a dire ma il saiyan la ignorò continuando a piantonare l’orizzonte rischiarato dai primi barlumi dell’aurora.

Il vento gelido le attraversava la stoffa dei vestiti facendola intirizzire come un gattino sorpreso da un acquazzone, poi ad un tratto anche l’altro braccio dell’uomo si mosse a stringerla ed un tepore corroborante si propagò per tutte le membra.

Anche adesso, come l’ultima volta, Bulma sentì di non essere mai stata meglio e al sicuro che tra quelle braccia vigorose e robuste.

Avvinghiata al caldo corpo di lui, dimenticando l’impellenza per la quale procedevano, sperò che la via del ritorno fosse solo un po’ più lunga.

 

 

* * *

 

 

“A me sembra una macchina come tutte le altre” commentava scettico Trunks girandoci intorno “non ha proprio niente di speciale”

“Io non riesco ancora a capire dov’è che tuo padre deve andare” si grattò Goten la zazzera cespugliosa.

I due bambini erano stati spediti alla Capsule Corp. già da due giorni perché si temeva la malattia potesse contagiarli.

Goku aveva allontanato pure Videl, non lasciandosi intenerire dalla sua ostinazione a voler rimanere a tutti i costi.

Le aveva detto che se le fosse successo qualcosa, Gohan non glielo avrebbe mai perdonato e alla fine non le era rimasta altra scelta che inghiottire le lacrime e correre via.

Bulma controllò per l’ultima volta le coordinate, poi saltò giù dall’abitacolo.

Erano state due giornate di denso lavoro: poche ore per dormire e poi, prima che spuntasse il nuovo giorno, tornava a mettersi all’opera.

Vegeta sentiva il materasso sollevarsi ed i lacci delle scarpe stringarsi frettolosamente.

“Mamma,ma non possiamo andare anche noi?”

“Mi spiace, ma è stata progettata per una sola persona”

“Uffa… non è giusto!” si allontanò imbronciato, seguito a ruota dall’altro.

Vegeta intanto si avvicinò e gli furono impartite le ultime istruzioni.

“Ah… e c’è un’altra cosa…” la vide rientrare in casa ed emergere poco dopo.

Aveva tra le mani una lettera sigillata:

“Vorrei che dessi questa a Trunks quando lo vedi, ma non provare ad aprirla”.

Vegeta se la rigirò tra le mani.

Suppose fosse una di quelle patetiche cose che una madre può scrivere ad un figlio.

Lui stava per salire sulla macchina quando si sentì ancora dire:

“E mi raccomando… quando sarai lì evita di incontrarmi, magari sono invecchiata, con gli androidi intenti a distruggere le città non credo abbia avuto il modo ed il tempo di mantenermi giovane ed attraente”.

Il saiyan scosse la testa.

Quella donna era irriducibile almeno quanto lui.

“Comunque buona fortuna…” lo guardò con due occhi limpidi ed intensi “e torna presto… tesoro”.

Solo per un istante lui si immerse dentro quello sguardo, lasciandosi annegare come raramente le permetteva di fare, poi salì e chiuse lo sportello.

Trunks e Goten corsero incontro al velivolo che si sollevò facendo spianare l’erba per un vasto raggio, agitando le braccia in segno di saluto.

Fu solo un puntino e poi scomparve oltre la linea del tempo, sottile e fatale…

 

 

* * *

 

 

Trunks asciugò con il dorso della mano la fronte perlata di sudore e le ciocche ribelli dei suoi capelli si appiccicarono di vernice, poi continuò a pennellare di bianco la staccionata, non prima di aver rivolto al cielo terso di quel mattino un’occhiata carica di serenità e di fiducia.

Il sole abbronzava la schiena ricurva ed i lombi muscolosi.

Gli occhi cerulei registrarono un lampo di sgomento ancor prima di sentire la ghiaia che veniva calpestata alle sue spalle.

“Padre…” mormorò voltandosi.

Vegeta restò a guardarlo.

Non era cambiato da quando l’aveva visto l’ultima volta, avendo Bulma posizionato le stesse coordinate di quel futuro da dove lui era giunto.

Per Trunks non erano trascorsi gli stessi anni di Vegeta.

Per interminabili minuti padre e figlio restarono a scrutarsi reciprocamente.

Fu il ragazzo ad interrompere il silenzio in modo brusco:

“E’ successo qualcosa? Perché sei venuto qui?”.

“Sulla Terra sono trascorsi già diversi anni da quando te ne sei andato l’ultima volta” spiegò arrivando subito al dunque “Gohan ha contratto la stessa malattia cardiaca che colpì suo padre, hanno bisogno di quella medicina”.

“Capisco” tornò a spostarsi i capelli dalla fronte con una movenza lenta e misurata.

Non per un solo istante aveva pensato che suo padre fosse venuto nel futuro per la semplice voglia di rincontrare lui.

Rimise il pennello nel secchio della vernice e si scrollò dai pantaloni il terriccio.

“Seguimi…” gli disse.

Ma l’altro non si mosse:

“Non temere” gli sorrise “in casa non c’è nessuno, mia madre è uscita da poco per la spesa”.

Vegeta allora lo seguì.

In casa lo accolse l’odore della pittura fresca.

I mobili erano stati spostati dalle mura e ricoperti con delle lenzuola:

“Sto rimettendo a posto la casa, tutti lo stanno facendo da quando gli androidi sono stati distrutti. Le città riprendono finalmente a ripopolarsi” riecheggiò la sua voce nell’ampio salone.

Quando restò solo, Vegeta si guardò intorno.

Questa casa non aveva conosciuto niente degli agi che impreziosivano l’altra.

Un’atmosfera di desolazione l’aveva smaltata troppo a lungo, aveva impregnato le pareti e non bastavano delle pennellate di bianco ad insabbiarla.

Qualcos’altro era e sarebbe mancato per sempre.

Vegeta sentì quel nulla incombere sulle spalle, commutarsi in un’angoscia indefinibile e sottrargli il respiro.

Quando Trunks fece ritorno lo vide guardare fuori dall’ampia vetrata senza tende:

“Ecco la medicina”.

Vegeta mise la boccetta nella tasca.

“Se aspettassi ancora un altro po’, la mamma riuscirebbe a vederti”

“Non ho tempo da perdere, poi…” rifletté più attentamente “non credo sia una buona idea”.

Aveva voglia soltanto di andarsene via.

Il ragazzo sorrise, malgrado tutto:

“Allora non le dirò che tu sei venuto…”.

Era meglio che lei non sapesse: guardare in faccia il passato poteva fare molto male a chi aveva già sofferto tanto a lungo.

Trunks lo scortò fin nel retro del giardino, dove si era materializzata la macchina del tempo che lui non aveva sentito giungere.

Vegeta chiuse lo sportello, digitò la rotta del ritorno e lo salutò con lo stesso gesto di molti anni prima.

La macchina si era già issata in alto, prossima a scomparire, quando si accorse che dietro al pannello dei comandi era scivolata la lettera che Bulma gli aveva affidato.

“Dannazione!” imprecò sperando che non fosse troppo tardi per tornare indietro a dargliela.

Azzerò le coordinate e tentò di abbassare la quota, un risucchio vorticante sconquassò la navicella e poi non ricordò più nulla.

 

* * *

 

 

La testa gli doleva terribilmente, era come se qualcuno lo avesse sollevato per il capo e tentato di stritolarglielo.

Anche il corpo, adagiato su di un letto, era mal ridotto.

Aprì gli occhi a fatica e riconobbe oltre una coltre nebulosa le pareti della sua stanza, ruotò la testa ed osservò la sveglia sul comodino: il giorno, il mese e l’anno erano gli stessi di quando era partito.

Non era certo di cosa fosse accaduto né come ci fosse arrivato, ma almeno era di nuovo nel suo letto, mai così desiderato come in quel momento.

La porta si aprì e Bulma si avvicinò con calma solo quando vide che teneva gli occhi aperti:

“Finalmente si è svegliato, come si sente?” gli chiese con gentilezza.

Vegeta accigliò lo sguardo, senza capire perché si stesse rivolgendo a lui con la terza persona.

“Che cosa è successo?” chiese restituendo una smorfia di dolore.

“E’ quello che vorrei sapere anche io, mio marito l’ha trovata nel giardino di casa mia…”.

Vegeta si liberò dalle coperte come fossero divenute di fuoco:

“Bulma, che diavolo stai blaterando?!”.

La donna sgranò gli occhi perché lui sembrava conoscere il suo nome.

La porta tornò ad aprirsi e Iamcha si portò all’interno della stanza:

“Allora, cara, si è svegliato?”

“Direi proprio di sì…” commentò senza distogliere lo sguardo dall’uomo seduto al centro del letto, che li osservava come avesse visto due fantasmi.

“Ne sono contento” fece l’altro “comunque io mi chiamo Iamcha e lei è mia moglie…” gli porse uno sguardo cordiale e alla mano.

“Siete impazziti tutti?!” saltò giù dal letto “avete deciso di prendervi gioco di me?!”.

Bulma e Iamcha si guardarono senza capire:

“E’ molto strano, questo signore conosce il mio nome ma io non l’ho mai visto prima d’ora”

“Si può sapere cosa vi prende?!” respirava ansimante “sono stato via soltanto per poche ore! Che sta succedendo?!”.

Ma i due si chiusero in un eloquente ermetismo.

Era evidente li stesse scambiando per altre persone o che il suo farneticare fosse il risultato dell’incidente subito.

Vegeta si guardò attorno con più attenzione.

Ad un esame più attento, la stanza non era come l’aveva lasciata lui, i mobili erano gli stessi ma le suppellettili non le riconosceva.

Con tremore aprì un cassetto del suo comodino, quello degli oggetti personali, e lo scoprì vuoto.

Lo videro allora lasciare la camera come un forsennato e correre fuori.

Vegeta percorse i corridoi conosciuti con un arto claudicante e la testa prossima a scoppiargli.

Di certo doveva trattarsi di un incubo.

Dove era finito?

In quale assurda dimensione?

Questo non era più né il passato né il futuro.

Doveva recuperare la macchina del tempo ed andarsene via al più presto, ma qualcosa al centro del giardino lo lasciò pietrificato: la macchina del tempo era ridotta ad un rottame inservibile.

Un urlo straziante lo fece brillare d’oro e poi tornò a svenire.

 

 

* * *

 

 

Un profumo gli solleticò il naso, lo respirò lasciandoselo entrare fin nel sangue, lo avrebbe riconosciuto tra altri mille odori: era buono, seducente, era quello di Bulma, della sua Bulma.

“Dimmi che è stato solo un incubo” mormorò con calma senza aprire gli occhi.

“Mi piacerebbe che fosse così” le sentì dire “se solo lei mi dicesse chi è e come ci è finito a casa mia”.

Vegeta tornò di nuovo a scattare seduto sul letto.

Era la seconda volta che Iamcha era stato costretto a riportarlo lì.

Bulma l’osservò diventare di nuovo stravolto ed ansimante, poi lo vide ricadere sul cuscino.

Vegeta osservò il soffitto senza dire nulla, in preda ad un turbinio di pensieri era la sua mente meditando cosa ne sarebbe stato di lui, se ascoltando la sua storia l’avessero ritenuto un mentecatto.

Non gli restava che scoprire dove era veramente capitato:

“Kakaroth…” pensò a lui all’improvviso “dove si trova?”

“Non conosco nessuno con questo nome” scosse il capo la donna.

Poi Vegeta ricordò che lei non lo aveva mai chiamato per quel nome:

“Goku… intendevo dire, dimmi dove si trova”.

Il suo volto si schiarì:

“Conosci Goku, sei un suo amico?”

“Io non ho amici, lo conosco e basta”.

Doveva essere un tipo molto tenebroso, meditò la donna, oltre che forestiero.

Abbassò gli occhi e disse:

“Goku è morto diversi anni fa”

Allora volle sapere chi lo avesse sconfitto e quando scoprì che era deceduto a causa di una rara forma di malattia, tornò ancora ad inquisire:

“E dimmi… hai mai sentito parlare di Freezer o di Cell?”

Ma la donna fece ancora un cenno di diniego col capo.

Né Namecc né gli androidi, dunque, avevano mai turbato i sogni suoi e quelli di molti altri, quanto a lui, neanche era mai arrivato sulla Terra.

I terrestri di quella dimensione potevano ritenersi molto fortunati.

“Uffa… ti decidi a dirmi chi sei o no?” fece spazientita.

Lui tornò a rialzarsi con la schiena:

“Questi non sono affari tuoi”.

“Come sarebbe a dire?” sbottò l’altra facendosi paonazza “sei piombato dal cielo sul mio giardino, mio marito ti ha dovuto trascinare non una ma ben due volte su questo letto, ho tutto il diritto di sapere chi sei, altrimenti tornatene da dove sei venuto!”.

Sentirla riferirsi a Iamcha come a suo marito lo fece andare su tutte le furie.

Era la cosa più assurda di tutta quella situazione:

“Me ne andrei se solo sapessi come!”

“Non sei nelle condizioni di andartene, sei piuttosto malconcio”

“Ne ho passate di peggiori”.

La parte più razionale le suggeriva di cacciarlo via, eppure quell’individuo emanava un carisma da far tremare le mura.

L’aspetto misterioso e cupo alimentavano la sua sfrontata curiosità e oltre al fatto avesse un aspetto molto affascinante, aveva conosciuto Goku e questo bastava ad infonderle fiducia.

Bulma capì che per il momento non avrebbe carpito nulla da lui e così lasciò la stanza.

Rimasto solo, Vegeta provò a rimettersi in piedi.

Per oltre un’ora se ne stette seduto sul ciglio del letto a pensare quale sciagura gli fosse toccata in sorte, una realtà dove non era più nessuno e niente più gli era rimasto.

Se fosse accaduto in passato, lo avrebbe ritenuto un dono del cielo, ma non ora, non adesso che era felice di avere una famiglia ed aveva dato la sua stessa vita per preservarla.

Sbirciò l’orologio.

A quest’ora Trunks, come accadeva tutte le sere, avrebbe fatto penare la madre prima di decidere di mettersi a letto, poi Bulma si sarebbe andata a coricare cercando calore accanto a lui, sotto le coperte, avrebbero litigato o forse finito per fare l’amore.

Vegeta era a pezzi, nello spirito e nel corpo.

Si trascinò stancamente nel bagno e si gettò sotto la doccia, poi uscì dalla stanza e si mosse alla volta della cucina, ma una porta attirò per prima la sua attenzione: era quella che occupava suo figlio.

Con circospezione aprì l’uscio per scoprire che era arredata come una delle tante camere riservate agli ospiti, non c’erano i suoi dinosauri computerizzati, il trenino con le rotaie, il lume dalla forma di coccinella sul comodino accanto a letto.

Trasse un respiro profondo: di marmocchi dal sangue terrestre in giro non sembrava esserci l’ombra.

“Credo sia meglio che vada via” fece Iamcha ancora seduto al tavolo della cucina.

Quando la squadra di baseball, di cui era allenatore, si trovava in ritiro, si finiva sempre per cenare tardi.

“Di lui non sappiamo niente, domani dovrà andare via, lo abbiamo accolto solo perché stava male”

“Ha un caratteraccio” parlò Bulma riponendo nel piatto l’osso della coscia di pollo appena consumata “ma non mi sembra veramente cattivo, piuttosto direi che gli è accaduto qualcosa che deve averlo sconvolto molto”.

L’oggetto del discorso emerse dal buio del corridoio, addosso aveva solo un paio di pantaloni.

Bulma non aveva immaginato che sotto quei vestiti ci fosse un fisico a tal punto scolpito:

“Suppongo tu abbia fame, ti preparo qualcosa…”

“Lascia perdere, faccio da solo”.

La cosa strana non fu che il suo comportamento tutto sembrava tranne quello di un ospite, ma sapeva con esattezza dove fossero conservati il pane, gli affettati e gli altri contorni sott’olio, muovendosi con dimestichezza tra il mobile accanto al lavello ed il frigorifero.

Iamcha invece restò a guardare le cicatrici che gli solcavano la pelle della schiena e del petto e la sua fronte si contrasse gravemente, si alzò da tavola per essere libero di assumere una posa di combattimento qualora ce ne fosse stato il bisogno, perché l’aura dello sconosciuto era azzerata, ma quello che gli era rimasto del suo istinto da guerriero gli suggeriva che, se sprigionata, sarebbe stata immane:

“Tu non sei uno qualunque… se hai conosciuto Goku vuol dire che sei anche tu un guerriero, chi sei veramente?”.

Bulma vide il forestiero oltrepassare Iamcha e sedersi ignorando il tono di minaccia del marito.

Pareva non intenzionato a rispondere ed invece disse, senza degnarli di uno sguardo:

“Mi chiamo Vegeta e sono il principe dei saiyan”.

Fiero, orgoglioso, intrepido era quell’uomo seduto innanzi a lei, non un terrestre, dunque, ma un guerriero venuto dalle profondità del cosmo.

Poche parole furono le sue eppure sufficienti a delucidarli sulle origini di quell’essere dall’assurda coda fulva che era stato Goku.

“Ma da quanto tempo sei qui sulla Terra? Sei riuscito ad incontrarlo? Lui ti ha mai conosciuto?” una raffica di domande giunte quando la sua loquacità si era andata già dissolvendo.

Vegeta aveva decretato che non avrebbero saputo altro.

Questo, tuttavia, bastò al terrestre per tranquillizzarsi sulle intenzioni non veramente pericolose di quell’alieno.

Malgrado non avesse niente della spensieratezza e della mansuetudine di Goku, non dava segnali di essere intenzionato a far loro del male, piuttosto continuava ad osservare il piatto con un contegno profondamente scosso e sembrava volesse trovare lì dentro la risposta ai suoi tormenti.

“Avanti Bulma…” si alzò “non affliggerlo più, è molto stanco e deve ancora mangiare, è stata una giornata lunga per tutti quanti, andiamocene a letto!”.

Vegeta sentì le viscere contorcersi dentro quando lui le passò un braccio intorno alle spalle.

La movenza fu registrata con un lampo di smarrimento e sconcerto, prima di assumere nel suo encefalo contorni più netti.

Il solo pensiero che dormissero nello stesso letto gli fece letteralmente schiumare le ossa e le nocche si illividirono mentre i loro passi si attutivano lungo il corridoio.

Avrebbe voluto gridargli di non provare a metterle le mani addosso, che quel corpo apparteneva soltanto a lui, che di diritto se la sarebbe andata a prendere, ma l’urlo venne inghiottito come il più amaro dei morsi e alla fine ne uscì solo un guaito lancinante.

 

 

* * *

 

 

Dalle lamiere di ferro si levava ancora una striscia sottile di fumo.

Vegeta osservava i rottami della macchina del tempo col piglio più grave del solito: era come se un cadavere redivivo esaminasse la sua tomba.

Per quanto respirasse ancora, Vegeta si sentiva allo stesso modo di un morto che cammina.

Sotto le macerie qualcosa colpì la sua attenzione, si piegò a scavare e trasse la lettera che Bulma aveva scritto per suo figlio.

Era rimasta intatta e l’aprì incurante delle raccomandazioni della donna.

Se per colpa di quella lettera aveva azzerato le coordinate quando già era troppo tardi, determinando un brusco salto temporale, tanto valeva sapere di cosa si trattasse.

Osservò il suo contenuto e la nascose sotto la maglia quando alle sue spalle sovvenne una presenza concitata.

“Questa non è una navicella!” esclamò Bulma “ho esaminato quello che resta della scatola nera, si tratta di una macchina del tempo!”.

Vegeta non batté ciglio.

Si aspettava che prima o poi lei la esaminasse, fosse anche solo perché era rimasto visibile il marchio della casa di produzione, soltanto non poteva immaginare che lo avesse fatto di notte, troppo interessata a scoprire altro sul suo conto per aspettare che fosse almeno l’alba.

“Si può sapere da dove vieni? Dal passato o dal futuro?”

“Né dall’uno e né dall’altro”.

Lui parlò soltanto di un viaggio affrontato nel passato e di un salto spazio-tempo in un’altra dimensione.

Bulma pendeva letteralmente dalle sue labbra.

Scoprire che esistessero altri contesti temporali era una rivelazione a dir poco eclatante per uno scienziato.

“Dunque esistiamo anche in altre dimensioni… suppongo diverse da questa”

“Più o meno” poi soggiunse “da dove vengo io, Kakaroth non è morto”

“Tu mi conoscevi già, non è così?” indagò scrutandolo negli occhi, come volesse sviscerare la risposta che sperava.

Ma il saiyan le diede le spalle:

“Ti ho visto solo qualche volta” mentì e fu come se un cilicio gli stesse squarciando la carne “era Kakaroth che ti conosceva bene”.

Per molto tempo non dissero più nulla.

Bulma fissava i rottami del velivolo quando si sentì dire all’improvviso, con fare perentorio:

“Ricostruiscila! E’ l’unico modo che ho per andarmene via!”.

Lei sussultò:

“Ma io… si tratta di iniziare da zero, non ho nessun dato da cui partire, non è rimasto nulla di questa macchina che possa aiutarmi, potrebbero volerci settimane… forse mesi”

“Non importa” disse Vegeta senza guardarla “se anche ci volesse una vita intera… devo andarmene”.

 

 

* * *

 

 

Iamcha sorseggiò la lattina di birra senza distogliere lo sguardo dalle carte sparpagliate sul tavolo da lavoro.

Era già da una settimana che sua moglie era alle prese con calcoli quantistici di insondabile spessore.

Le bozze della macchina del tempo erano graffi circondati da appunti indecifrabili.

“Non capisco se tu lo stai facendo per accontentare quell’individuo oppure per soddisfare la tua sete di sapere”.

Bulma non alzò la testa, solo per istante la matita restò sospesa dal foglio prima di riprendere lo schizzo.

Neanche ella sapeva perché veramente lo stesse facendo, o forse la risposta c’era ma non osava confessarla, e così non rispose.

“Va bene” cestinò al volo la lattina “io vado…” e la bacio sulla tempia “stasera potrei ritornare tardi, dopo la partita ci sarà la conferenza stampa, la federazione ha poi organizzato un rinfresco per tutti i giornalisti”.

“Già…” fece torva “scommetto con tante belle ragazze”

“Beh, quelle non possano mancare, si tratta di pubblicità in fondo” si grattò la nuca “ma tu puoi stare tranquilla”

“Bugiardo” sibilò a denti stretti nel vederlo andare via.

Per un’altra ora la schiena fu ricurva sullo scrittoio: così la trovò Vegeta quando fece il suo ingresso nel laboratorio.

Bulma gli accennò un sorriso niente affatto corrisposto.

Da una settimana che era lì aveva sempre avuto quel piglio impenetrabile e caliginoso, eppure non riusciva a smettere di restarne affascinata.

Si stappò anche lei una lattina, dopo avergliene offerta una:

“E’ noioso stare in un posto e non avere niente da fare” sperava di sapere qualcosa in più della sua vita “facevi qualcosa in particolare… di solito… nella tua realtà?”

Il saiyan si asciugò la bocca con il dorso della mano:

“Mi allenavo e basta”

“Esattamente come Goku, evidentemente voi saiyan non sapete fare altro oltre che combattere” sorrise di nuovo, poi lo penetrò a fondo nelle sue iridi di ebano ed osò domandargli:

“Hai una famiglia?”.

Vegeta non le permise di scandagliarlo oltre il dovuto e così spostò lo sguardo:

“No” fu laconico.

Bulma si sentì pervadere da un’insolita euforia prima di chiedergli ancora:

“Ed allora perché hai tanta fretta di ritornare da dove sei venuto?”

“Questi sono affari miei”

“Ti conviene darmi una motivazione, ho bisogno di capire se vale la pena affrontare questo lavoro”.

Vegeta ridusse in poltiglia la lattina.

In una dimensione o in un’altra, Bulma non cambiava di una virgola, irriverente e linguacciuta.

Eppure, se non si fosse tenuto a bada, le avrebbe ugualmente strappato di dosso quei vestiti e piegata lì, sul tavolo, tra le scartoffie e gli altri strumenti da lavoro, come aveva già fatto una volta.

Trunks neanche era stato ancora addestrato a combattere.

Bulma si era trattenuta fino a tardi a lavorare ed era riuscita a convincerlo a venire per vedere la sua ultima invenzione.

Non seppe mai cosa gli passò per la testa, forse perché a causa di quel progetto, ella disertava il suo letto da oltre una settimana.

Perciò le aveva sollevato senza alcun preavviso la gonna e sistemata rudemente sul ripiano, facendola protestare prima e poi supplicare di non smettere.

Erano stati due sprovveduti all’epoca.

Quando il sig. Brief era entrato inaspettatamente nel laboratorio, erano già distanti e ricomposti ma ancora affannati per l’orgasmo che li aveva travolti.

“Ne vale la pena più di quanto tu possa immaginare” disse ritornando alla realtà e lasciandola a riflettere ancora a lungo da sola.

 

* * *

 

 

Vegeta tese l’orecchio, il volto si contrasse in una posa di raccoglimento: gli era sembrato di sentire la voce di suo figlio chiamarlo dal giardino.

Spalancò la finestra, ma nel giardino sottostante il sibilo del vento raccoglieva soltanto le foglie in cerchio e poi se le trascinava via.

Era lì da un mese e forse stava già uscendo di senno.

Accese l’abat-jour sul comodino per rischiarare la stanza e trasse da un cassetto la lettera indirizzata a Trunks, l’aprì e tornò di nuovo ad osservarne il contenuto.

Un’increspatura impercettibile ai lati della bocca sarebbe stata un sorriso se forse si fosse sforzato un po’ di più.

Poi la ripose dov’era e chiuse il cassetto con un gesto di stizza.

Se la macchina del tempo non fosse stata pronta tra breve, sarebbe andato altrove ad attendere il momento.

Le pareti di quella casa gli stavano succhiando il giudizio, scoprire che al posto della camera gravitazionale c’era una palestra con squallidi attrezzi ginnici gli aveva fatto rivoltare lo stomaco, e pensare che la sua donna condivideva il letto con un altro uomo gli faceva gorgogliare il sangue e scuotere il corpo durante la notte.

La voce di quell’adorabile marmocchio lo perseguitava come fosse stato un fantasma, perché in quella dimensione altro non era purtroppo che pura inconsistenza.

Finanche l’inferno era stato a confronto più vivibile.

Ora era vivo ma quanto di più caro avesse mai avuto non esisteva più lo stesso.

Bulma stava riscontrando delle difficoltà nella realizzazione della macchina del tempo ed il progetto originale era stato sottoposto a revisione già molte volte.

Con molta franchezza gli aveva comunicato proprio alcuni giorni prima che sarebbero occorsi molti mesi ancora, forse anche anni per riuscire ad individuare l’elemento mancante per il suo perfezionamento e che non si poteva essere negligenti a riguardo perché avrebbe corso il rischio di trovarsi in una dimensione senza né spazio né tempo, nel nulla più assoluto, come un astronauta sganciato dalla sua navicella che vaga nel cosmo senza più meta.

E quando pensò che un’altra notte da solo sarebbe stata impossibile da superare anche per una tempra coriacea come quella sua, qualcuno bussò alla sua porta ed entrò piano.

Bulma era raccolta in una vestaglia, il viso era senza trucco e gli occhi avevano smesso di piangere già da un pezzo.

Suo marito era fuori in trasferta e sentire la voce suadente di una donna rispondere al suo cellulare era stato molto umiliante.

Infelice: questo era l’aggettivo giusto per il suo matrimonio.

Tempo perso: neanche un figlio era riuscita ad avere.

Un impenitente donnaiolo: questo era sempre stato Iamcha.

Alla fine aveva finito per farsi impalmare come una stupida ingenua.

Vegeta la vide avanzare con flemma al centro della stanza e fermarsi davanti a lui, desiderabile come sempre.

Era la prima volta che veniva a fargli visita a quell’ora ed il saiyan ebbe voglia di naufragare in quel mare in tempesta che erano diventati i suoi occhi, come l’ultima volta che aveva guardato la sua Bulma prima di partire, come se questa fosse morta o dispersa ed ora gli apparisse finalmente in carne ed ossa.

Eppure era proprio lei, con la frangetta accostata ad un lato della fronte, quel vezzo che aveva di stringersi il labbro quando non era certa di volergli rivelare qualcosa, il petto morbido stretto tra le braccia conserte.

La conosceva meglio di chiunque altro, non aveva niente di diverso dall’altra a parte quello di essere sua.

Questa era davanti a lui e forse l’altra Bulma non l’avrebbe mai più rivista: questo pensiero lo martellava ogni volta che si ritrovava a guardarla, per questo ormai aveva preso ad evitarla, come ad aggirare un burrone nel quale c’era il rischio di restare inghiottito.

Non vederla equivaleva a pensare di meno.

Ma adesso innanzi a lui non c’era una donna qualunque con cui consolarsi, c’era proprio lei e se per un istante avesse dimenticato che quella aveva un anello al dito e avesse immaginato che nella stanza accanto c’era Trunks che dormiva, avrebbe potuto credere che in fondo non era cambiato niente della sua vita.

La bocca della donna tremò prima di pronunciare:

“Non so cosa tu mi abbia fatto, di te non conosco quasi niente, eppure da quando sei arrivato sento che niente più è come prima, ma se vuoi cha vada via…”.

Vegeta non aspettò neanche che finisse.

L’attirò a sé rudemente e dopo un istante era già sopra di lei, travolgendola come un fiume in piena, di baci, di morsi, di carezze, senza lasciarle tregua.

Bulma non si sarebbe mai aspettata che quell’uomo celasse una passione talmente incontenibile, era come se stesse gettando anche l’anima, era come se la stesse amando.

Una bramosia quasi disperata soggiogava il suo organismo e reclamava le sue mani nivee e le gambe affusolate per trovarvi consolazione.

Sapeva come e dove procurarle piacere, quasi fossero stati amanti di lunga data.

Non aveva mai sperimentato niente di simile neanche con suo marito, mai aveva provato un coinvolgimento fisico e mentale talmente profondo.

Vegeta si inarcava tra le sue gambe flessuosamente.

Possederla come era abituato a fare, smorzava per davvero l’angosciante preoccupazione di non riuscire in qualche modo a ritornare a casa.

Se fosse stato costretto a rimanere in quella dimensione, niente sarebbe dovuto essere diverso da come lo ricordava lui.

Sotto di lui stringeva la sua Bulma: era ritornato a casa, infine.

Lei urlò come mai aveva fatto e alla fine giacquero silenziosi l’uno accanto all’altra.

 

 

* * *

 

 

L’intelaiatura della macchina del tempo faceva mostra di sé all’interno del laboratorio.

Altre due settimane di lavoro, ad un ritmo tollerabile, sarebbero state sufficienti per ultimarla grazie al lampo di genio tanto atteso e trovato per caso mentre da dietro i vetri della finestra osservava lo scrosciare della pioggia ed i fulmini che si abbattevano sulle città in lontananza.

Aveva dimenticato di comunicarlo a Vegeta quando la sera prima era andata a fargli visita nella sua stanza, con gli occhi arrossati per il pianto.

La scoperta del tradimento di Iamcha e la notte passata con il saiyan avevano azzerato molte delle sue preoccupazioni.

Ma i progetti che invadevano la scrivania erano stati messi da parte, e Bulma non si stava affaccendando intorno come lui si sarebbe aspettato.

Vegeta la trovò seduta nel soggiorno intenta a sfogliare un giornale per sole donne con le gambe accavallate comodamente.

Quando lo vide arrivare, arrossì imbarazzata.

Sulla pelle sentiva ancora il ricordo di quella notte rovente da poca trascorsa.

“Si può sapere perché non stai lavorando?” le chiese senza mezzi termini l’altro.

“Che senso ha costruire adesso una macchina del tempo?” la sua logica sembrava non fare una piega.

Stretta a lui sotto le coperte, aveva meditato sulla felice prospettiva di passare il resto della sua vita insieme a quell’uomo.

Erano fatti l’uno per l’altra, l’ardente trasporto del saiyan l’aveva lasciata senza parole.

Non si sarebbe potuta ingannare sul fatto che neanche per lui era stato solo sesso.

Iamcha sarebbe tornato tra una settimana ed avrebbe trovato le valige sullo zerbino già pronte.

“Che cosa vorresti dire?” si accigliò gravemente Vegeta.

“Perché dovresti andartene via? Dopo quello che c’è stato tra di noi questa notte…” allungò le braccia e le posò sulle sue spalle con familiarità.

“Ma che cosa stai dicendo?!” la staccò brusco “Non capisci che non posso restare qui?!”

Bulma si sentì trasportare sull’orlo di un precipizio:

“E a me non pensi…” mormorò annichilita “io pensavo di significare qualcosa per te, che avevi intenzione di restare…”

“Non mi sembra di averti lasciato intendere niente del genere” Vegeta comprese che la debolezza di quella notte era stata un grave errore.

“Portami allora con te, costruirò una macchina del tempo in grado di trasportare due persone!”

“Questo è impossibile, tu appartieni a questo mondo!”

La vide avvampare allora di dolore e di rabbia:

“Che cosa hai di tanto importante per cui ritornare?! Che cosa hai lì che qui non potresti avere?!”

“Ho una moglie ed un figlio” disse e la fece arretrare inorridita.

Vide il suo corpo fremere e le lacrime tracimare come un torrente fuori dagli argini:

“Siete tutti uguali voi uomini! Bastardi e fedifraghi!” gli tempestò il petto di inutili pugni “ed io sono una povera sciocca che serve solo a scaldare il letto!”.

Respirava ancora ansimante quando disse:

“Non preoccuparti, la tua macchina del tempo sarà pronta prima di quando pensi, non voglio che resti qui un minuto di più!”

E così fu.

Bulma lavorò intensamente e in meno di una settimana l’opera fu realizzata, traendo forza ed ispirazione dalla rabbia e dal dolore che aveva dentro.

Non lo rivide più fino a quando non gli andò a dire freddamente che poteva andarsene anche  all’inferno.

Prima di salire, Vegeta controllò che il medicinale per Gohan fosse nelle tasche.

Selezionando le coordinate dello stesso giorno di quando era partito, c’era speranza ancora di salvarlo.

Nessuno avrebbe saputo dove era stato, nessuno al suo ritorno sarebbe andato ad accoglierlo col volto affranto e rigato dalle lacrime per il suo inspiegabile ritardo.

Se avesse saputo che a causa di quel moccioso avrebbe dovuto patire tutto quello, lo avrebbe fatto fuori quando lo aveva visto infermo in un letto.

La macchina del tempo sorvolò il giardino della Capsule Corp. e poi scomparve per sempre.

Bulma non volle vederlo, col volto indignato ascoltò soltanto il rumore dei motori e poi il lugubre silenzio che sovvenne.

Ritornata nei suoi laboratori, scoprì sulla scrivania la busta bianca di una lettera.

Non era segnato né il mittente né il destinatario, non era stata neanche sigillata, piuttosto qualcuno ci aveva già sbirciato dentro.

L’aprì e scoprì al suo interno una fotografia.

Era stato l’unico scatto a cui Vegeta si era prestato in tutta la sua vita.

Accanto a lui, tenebroso senza eccezioni, Bulma ed il piccolo Trunks sorridevano sullo sfondo di una spiaggia soleggiata, dove erano stati solo un mese prima.

Bulma allora se la strinse al cuore, si piegò su sé stessa e pianse amaramente.

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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