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Autore: Exelle    23/11/2011    4 recensioni
Seguito di tutte quelle Charles&Erik che ho scritto precedentemente.
... Solo che questa ha più capitoli.
"Charles si chiedeva se la colpa non fosse sua. Forse era perchè Westchester non gli era mai sembrata tanto accogliente, al pensiero che Erik fosse lì, che dormisse a poche porte di distanza dalla sua."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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WELCOME TO WESTCHESTER
Charles&Erik (X-Men First Class) Pt. 4


So when tears flow
And you don't know
What on earth to do
And your world is blue
When your dream dies
And your heart cries
Shahadaroba
Fate knows what's best for you


                                                       Ray Orbison, Shahadaroba

 


CAPITOLO IV




Quasi due mesi prima, Washington D.C, 1962

“Non è niente di malvagio.”
“Davvero, Erik. Non voglio andare a vedere un film del genere.”
“Perfetto, allora ci vediamo in albergo. Non è un problema.”
“Dico sul serio, Erik.”
“Certo. Non c’è nessun problema, Charles.”
“Ma non sono stanco.”
“Ah-a.”
Charles si morse il labbro inferiore, infilandosi le mani in tasca. Incrociò lo sguardo di Erik e si ritrovò quasi a ridere,
lanciando ancora un’occhiata alla locandina.
La pioggia aveva slavato il disegno, rivoli rossi e neri su sfondo pergamena, scivolavano sulle lettere che componevano la parola…
“Sterminatore, Erik. Che assurdità può mai essere? E’ un film su un angelo sterminatore, che altro…”
Erik alzò gli occhi al cielo, facendo un cenno verso il nome del regista.
“Charles, non essere sciocco. Certo che non parla di angeli sterminatori.”
“Qual è il titolo?”
Erik alzò lentamente un sopracciglio. “Non essere sempre così letterale.”
Charles si morse il labbro, evitando di ridere. “Non lo sono mai.”
“E’ una figura retorica. E’ solo cinema sur…”
“E’ un film europeo, Erik” disse Charles fingendosi un po’ troppo esasperato. “Con tutto il rispetto…”
“Il cinema è nato in Europa, Charles”  replicò Erik tranquillo, arretrando un poco sul marciapiede,
fissando l’ingresso del vecchio cinema. I fari delle sue insegne brillavano troppo vistosamente,
a dispetto della vernice stinta e scrostata, con le locandine appese un po’ storte, un po’ di sbieco.
“Persino tu dovresti saperlo.”
“Sì, ma il cinema americano è migliore” replicò Charles con tono sornione.
Erik si mise le mani in tasca con decisione, gli lanciò uno sguardo obliquo e cominciò a camminare.
“Continua pure a crederlo”, disse quando gli passò vicino, superandolo. Charles lo seguì,
camminando al suo fianco, sorridendo. Pensò che Erik adesso l’avrebbe assecondato.
Sarebbero probabilmente finiti a concludere la serata in qualche bar nella zona della Fifth Avenue,
e la cosa non gli dispiaceva. Erano già varie sere che uscendo dal Four Season,  le ore passavano così,
tra una cena e un lungo giro per la città, come se fossero intrappolati in una vacanza forzatamente
autoimposta. E non gli dispiaceva.
Charles non se la sentiva di interrompere quella breve routine appena stabilita; nemmeno per
assecondare quella strana passione che Erik sembrava avere per film sconosciuti e dal dubbio titolo.
Angelo sterminatore era un brutto soggetto per uno come Erik, per quanto metaforico potesse essere.  
A Charles, la cosa non piaceva e cosa più rilevante, sembrava che quella considerazione cominciasse
a stargli davvero più a cuore del necessario.
Avrebbe voluto prenderlo per la manica e tirarlo via non appena l‘aveva visto fermarsi, ma Erik
fortunatamente  si era spostato prima. Charles non era sicuro di come avrebbe potuto giustificare
il suo gesto.  Anche adesso, si ritrovava a rimuginare a che cosa sarebbe successo se l’avesse fatto.
Ce l’aveva nel sangue. Non riusciva a toccare le persone, a fare verso di loro gesti insignificanti,
tanto per cercare un contatto.
A volte, si scopriva infastidito persino se Raven, -Raven, con cui viveva da anni- lo abbracciava senza
una precisa ragione, allungandosi in ingiustificate manifestazioni d‘affetto.
Per Charles, cose del genere erano come se dovessero rispettare un codice; il contatto fisico era ammesso
solo  in date situazioni. E di certo non con Erik, che oltre ad essere un uomo adulto, era anche qualcuno
che conosceva da poco meno di un mese.
Qualcuno che preferiva cinema e libri, alle persone. Qualcuno che parlava poco, qualcuno che nonostante
tutto, Charles non era ancora riuscito e per ora, non voleva capire. Se gli fosse venuto a noia, lo sapeva,
sarebbero già tornati a Richmond da giorni. Era molto più volubile di quello che dava a vedere.
Ma per adesso andava bene così.
Era una fortuna che Erik non fosse davvero come lui, che non riuscisse a leggergli nella mente.
Fecero quasi un isolato in silenzio, Erik guardandosi attorno incuriosito, Charles apparentemente
immerso nei suoi pensieri, cercando di tenere le mani nella tasca della giacca, al riparo dal freddo.
“Non credo comunque che fosse un bel film” disse, tanto per parlare.
Strizzando gli occhi nella gelida aria notturna, Erik abbassò un poco la testa, nascondendo un mezzo sorriso.
“Farò finta di non aver sentito.”
Charles scosse la testa, sospirando; era combattuto, erano giorni che cercava di ripromettersi di essere
gentile ed amichevole, ma non riusciva a trattenersi dal comportarsi così, come se volesse infastidirlo.
Non nel modo consueto, come se volesse davvero disturbarlo, ma come se volesse attirare la sua attenzione,
il più spesso possibile. Non era una gran cosa come comportamento. Di solito, era qualcosa di ammissibile
con le ragazze.
Doveva smetterla di bere a cena. Doveva smetterla di bere e basta, rifletté, tornando per un momento
con la mente al suo patrigno. Cercò di scacciarlo dalla mente, un poco disgustato da sé stesso.
Guardò di nuovo Erik, sperando di trovare qualcosa da dirgli, ma non ci riusciva.
L’unica cosa che avrebbero potuto fare adesso, due come loro in una città grande e apparentemente
accogliente, sarebbe stato andare in qualche bar, o club, ovunque. Sedersi a bere e parlare fino ad annoiarsi,
finchè non si fosse fatto tardi ed entrambi non fossero stati d’accordo sul tornare in albergo.
Sembrava che negli ultimi tempi la gente non facesse altro che bere e fumare centinaia di sigarette
e dire sciocchezze. E anche Charles si comportava così; il suo patrigno l’avrebbe senz’altro trovato un
uomo adatto ai suoi tempi.
Si sarebbe complimentato con lui, probabilmente. Gli avrebbe regalato un fermacravatta d’oro,
se fosse stato ancora in giro. Però adesso Charles voleva bere di nuovo e non riusciva a non pensarci.
Forse, se avesse bevuto ancora, l’euforia sarebbe passata e sarebbe subentrata la calma.
Così, non avrebbe dovuto più preoccuparsi di rischiare di assomigliare al suo patrigno, o di assecondare
Erik, solo perché gli sembrava qualcuno così abituato a sparire senza avvertire nessuno, che avrebbe
potuto lasciarlo lì con i suoi progetti, le sue idee, senza tanti problemi. Non voleva sembrargli monotono,
non voleva annoiarlo, voleva dimostrarsi interessante almeno quanto lui, non era così superficiale.
Sarebbe stato così facile. Semplice, se fosse riuscito a capire davvero com‘era Erik.
E tutto senza leggergli nella testa; aveva il presentimento che avrebbe rovinato tutto.
Lo guardò ancora, di sfuggita, accanto a lui, socchiudendo appena le palpebre.
Provò a immaginarlo con lui a Oxford, sarebbe sembrato così fuori contesto, pensò con una vaga e
ingiustificata felicità. Charles sarebbe sembrato nel suo elemento, sarebbe stato più a suo agio di lui
e questo gli dava una certa pretesa di superiorità.
Anche questa ingiustificata, vero, ma Charles la trovava così confortante…
Non riusciva ad essere sempre alla pari su ciò che sembrava interessare ad Erik.
A Charles, poco importava dei libri, se non contenevano formule e classificazioni e di certo,
come aveva appena scoperto da sé,  non sarebbe diventato un estimatore del cinema europeo.
Preferiva credere che lui e Erik avessero altro su cui intendersi, qualunque cosa fosse.
Era inutile trovarsi d’accordo su cose superficiali; voleva essere amico di Erik perché lo trovava
interessante come persona, non perché spendevano quattro dollari di biglietto per lo stesso film…
Il promontorio della paura” disse ad un certo punto, soffocando un colpo di tosse.
Erik lo guardò. “Come?”
“L’ultimo film che ho visto” spiegò Charles. “Non è uscito da molto, ed è americano. Non dirmi che…”
“Mai sentito.”
Charles sollevò le sopracciglia. “Conoscerai almeno Gregory Peck.”
Erik fece appena una smorfia, apparentemente perplesso: “Prego?”
“E’ il protagonista.”
Erik lo guardò, inespressivo e Charles si grattò la tempia, pensando.
“E… Un certo… Non ricordo il nome del cattivo. L’avevo già visto, ma…”
“Ci sarà stata anche un’attrice” replicò Erik in risposta, rallentando il passo. “Di solito…”
Charles lo guardò di rimando, incuriosito. Non capiva dove stava andando la conversazione.
“Sì, ecco, sono loro i protagonisti, quindi…”
“Ricordi i nomi degli attori ma non delle attrici?” domandò Erik, incuriosito. Charles non ne comprendeva
il perché. In verità, di cinema in generale, conosceva molto meno di quanto dava ad intendere, perciò
decise di saltare quella parte di discorso. Non capiva a cosa potessero alludere le parole di Erik, casomai
alludessero davvero a qualcosa.  Probabilmente era solo un’ennesima delle sue frecciate incomprensibili.
Forse, era il modo che aveva Erik di infastidirlo e Charles riusciva solo a pensare che quello era proprio
il modo con cui aveva cominciato a parlare con lui.
Era una strana evoluzione, rispetto alla facciata un po’ troppo educata e sostenuta, e soprattutto scostante,
che Erik aveva avuto all’inizio.
Se con loro ci fosse stata Raven, anche solo Hank, sarebbe stato tutto molto diverso. Si ritrovava a preferire
che le cose andassero così, per un po’.
Erik sembrava essere molto più interessante di una missione alla CIA, non gli andava di subordinarlo ad altro.
L’unico quasi rimpianto, era non aver chiesto a Moira di accompagnarli, ma a pensarci bene, Charles non
aveva nemmeno mai voluto davvero chiederglielo. E non perché fosse umana, anche se Erik era stato chiaro
su quel punto. Solo i mutanti cercano i mutanti.
Immaginò  Moira con loro, nel club dove avevano trovato Sputafuoco-Ali-di-Fata,  -il soprannome era di Erik,
aveva dato un soprannome a tutti quelli che Charles aveva voluto cercare. Charles pregava che nessuno di loro
scoprisse quali- , la immaginò a chiacchierare con loro, in quella via a tarda sera.
Sembrava qualcosa di così sbagliato. E non solo perché quello non era il posto per una donna, non per una
donna, anche solo spettatrice. Non ci sarebbe mai andato senza Erik.
“Però ricordo dove l’hanno girato” disse Charles, rispondendogli come se quasi dovesse scusarsi per quella sua
apparente mancanza. “In Georgia.”
“Notevole” disse Erik vago. Adesso il suo tono sembrava un po’ stanco. Charles decise di astenersi dall’iniziare
a parlare di qualcosa che sembrava annoiarlo.
Si era preparato un bel discorso, rapido rapido; avrebbe anche potuto iniziare a parlargli di quali posti avesse visto.
Forse così, Erik avrebbe fatto lo stesso; a quanto ne sapeva Charles, non sembrava mai essere stato tanto a lungo
nello stesso posto e questo un po’ lo incuriosiva. Però, non riusciva più a fargli nessuna domanda diretta.
Erik senza dubbio sapeva che Charles aveva visto quasi, se non tutto, ciò che lo riguardava, ma da quando erano
partiti aveva evitato con cura l’argomento.
Non aveva avuto nessun problema a dirgli quanto comodo sarebbe stato per lui farsi degli amici, nell’affrontare Shaw.
Però, a ben guardare, sembrava che l’unico amico che Erik avesse guadagnato -e agli occhi autocritici di Charles
non era un grande affare- fosse lui. Ed era stato lui a fare in modo che fosse così.
Charles non era abituato ai giri di parole, preferiva essere diretto e schietto, ma con Erik era come se dovesse trattenersi;
non sarebbe sembrato molto normale dire tutto ciò che ultimamente gli passava per la mente.
Avrebbe voluto entrargli nella testa, sarebbe stato così facile. Che poteva fare, Erik di rimando?
Charles continuò a guardarlo di sottecchi, ogni tanto, mentre oltrepassarono le pozze d’acqua lucida.
L’avrebbe odiato, ecco cosa sarebbe successo. Erik sembrava tenerci molto a quello che pensava e probabilmente era
molto più che insofferente a stare con qualcuno, che in ogni momento, avrebbe potuto decifrare le sue intenzioni.
“Vuoi tornare in hotel?”
“Scusami?” domandò Charles, trasalendo nel sentire la sua stessa voce.
“Non…” cominciò Erik, distraendosi nel guardare la strada buia, fermandosi al centro del marciapiede.
I lembi del suo lungo soprabito si mossero un poco nell’aria fredda della sera. Si era anche vestito con un
ennesimo completo scuro, insolitamente elegante per solo una cena. Quel dettaglio, già da solo, sarebbe
bastato a far decidere Charles.
“Solo se va bene a te” replicò Charles prendendo tempo, tornando a fissarlo. Lo vide sorridere.
“Non è una risposta che mi lasci molta scelta.”
“Allora è quella sbagliata, immagino.”
Charles gli sorrise, in segno di scusa. Non aveva voglia di andare a dormire, non era stanco. E a quanto aveva capito,
durante quell’ennesimo giorno a Washington, lui ed Erik non sarebbero partiti nemmeno il giorno dopo.
Sarebbero rimasti ancora, forse un altro giorno o due. Sarebbe rimasto finché Erik non gli avesse detto
che dovevano tornare indietro, perché Charles non aveva voglia di pensarci.
“Charles…”
“Vuoi sapere cosa vorrei davvero?” gli rispose, quasi ghignando. “Un Tom Collins, una ragazza e un bel tavolo.”
Erik annuì, mentre con un mezzo sorriso riprendeva a camminare nella sera fredda.
“C’è sicuramente una soluzione.”
Charles fin troppo soddisfatto, lo seguì, aggiustandosi il bavero della giacca .

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“Lo stai facendo?”
“No.”
“E adesso?”
Charles sorrise contro il bordo del bicchiere. Bevve e lo posò lentamente, guardandolo. “No.”
Erik fece un vago cenno verso un tavolo, verso uno dei separé che si succedevano contro la parete.
Charles, dopo un momento si girò con noncuranza,
leccandosi appena le labbra.
Erano due uomini e una donna. Lei era molto bella, notò Charles. Il tipo di donna che rideva rovesciando la
testa all’indietro, scuotendo i capelli biondi e mettendo in mostra la collana di perle.
Rigorosamente vere, rigorosamente regalate. Per un momento, ripensò a sua madre.
Si girò di nuovo verso Erik e lo squadrò. Impassibile, era tornato a guardare al piano di sotto, verso la sala centrale.
I suoi occhi si spostavano lenti, sulle teste di quelli che ballavano. Charles si sfiorò la tempia, concentrandosi appena,
arricciando le labbra in un sorriso lieve.
“Non è quel tipo di donna.”
Erik sorrise. Afferrò il bicchiere, ma si limitò a rigirarlo tra le lunghe dita.
“Non è quello che volevo sapere.”
“Però è abbastanza interessante. Non è sposata con nessuno dei due.”
“Ah. Curioso.”
Charles socchiuse appena gli occhi.
“Lavora con loro e… Ah. No. Ha un figlio” Charles lanciò ancora una vaga occhiata verso il tavolo.
Erik alzò gli occhi su di lui. “Ed è un problema?”
“Leggergli nella testa? Non è un problema, no.”
“Charles. Stai ignorando la mia domanda.”
Charles si allungò sulla sedia, guardandolo divertito. “Tu lo fai di continuo. Allora, chi altro…”
Tornò a guardarsi in giro, senza mai davvero sfiorarsi la tempia, sapendo che Erik lo stava guardando.
Forse fu per quello che smise, preferendo tornare a guardarlo, nuovamente incuriosito.
“Ti piaceva?”
“Chi?”
Charles fece un leggero cenno verso il tavolo dietro di loro. Inclinò appena il capo, ma Erik non si disturbò
a seguire la sua occhiata. “Veramente…” disse, “Veramente pensavo potesse piacere di più a te.”
Charles rise. “E’ più grande di me, Erik.”
“Non di molto” replicò Erik. “Non pensavo potesse essere un problema.”
“Non lo è, però…” Charles fece una smorfia. Come se fosse terrorizzato.
“Due anni in più. Mi tratterebbe come un bambino.”
“Che sciocchezza.”
“Perché dovrebbe piacermi?”
Scoccò solo un’ultima occhiata alla donna e ai suoi accompagnatori, decisamente più vecchi e non altrettanto attraenti.
Erik alzò le spalle. “Non ne ho la minima idea. Perché è bionda, magari?”
Charles scrollò la testa, cercando di non ridere. Ancora.
“Se fosse mora quindi non dovrebbe piacermi, secondo te? Vuoi sistemarmi?”
“Non mi permetterei mai. Però hai il tavolo. E qualcosa da bere.”
“A dire la verità, stavo pensando a Moira, ultimamente” disse.
“Non l’avrei mai detto” rispose Erik, con un tono così pacato che Charles ritenne vero.
“Non è male. Un po’ troppo sostenuta ma…” Charles fece un sorriso vago. “Che ne pensi?”
“Non ci penso.”
“Allora devo ritenerla una fortuna.”
“Perché?” Posò il bicchiere lentamente. La donna dietro di loro rise, gettando all’indietro il capo.
“Credevo che con te in giro, avrei avuto problemi con lei” disse Charles ridendo. Ma lo disse in fretta,
come se temesse che Erik non sentisse e così, quella che doveva essere una battuta, divenne un‘affermazione.
Erik vide che i suoi occhi luccicavano, stranamente vividi, come se in realtà pensasse ad altro.
“Non sono qui per preoccuparmi di certe cose” disse pacatamente.
Charles, senza esserne davvero dispiaciuto, temette di averlo infastidito, poi però, lo vide sorridere e
distogliere lo sguardo, inclinando la testa. Per un istante, Charles pensò che quella fosse la cosa più vicina
ad una forma d’imbarazzo che Erik potesse mostrare. Sorrideva per qualcosa che sembrava conoscere solo lui.
“Perché?”
Charles si sporse oltre la balaustra, soffermandosi a guardare le luci scintillanti del lampadario che illuminava
la sala sottostante.
“Perché ritengo che tu sia una persona attraente” disse, serio, cercando di sembrare indifferente.
Era poco a suo agio a dire cose del genere, però non se la sentiva di inventare scuse. Che Erik fosse attraente,
una di quelle persone dai tratti fortunati che affascinavano Charles -aveva un insolito ereditato vizio per la bellezza-
gli sembrava la cosa più evidente del mondo.
E probabilmente, lo stesso Erik ne sembrava profondamente consapevole quando, con la coda dell‘occhio,
lo vide sorridere ancora.
Charles si aspettò che facesse una battuta. Qualsiasi cosa, ma Erik si limitò a ringraziarlo educatamente.
Aveva immaginato una reazione così diversa che ne rimase sorpreso.
“Sono tutti così in Germania?” Charles non avrebbe voluto dirlo. Lo stava solo pensando.
Erik inclinò il capo, come se lo stesse studiando, per capire se fosse serio o scherzasse. Charles cercò di mostrare
l’espressione più rilassata e possibile che gli potesse riuscire.
“Sono tutti così, in America?” chiese Erik ironico, guardandosi appena attorno.
Charles afferrò il bicchiere, annuendo e sorridendo. Con sua sorpresa, si accorse di avere caldo, ma probabilmente
era normale, stava bevendo e quel locale era così affollato. Forse in America erano tutti così.
“Tu sembri in tutto e per tutto un perfetto ariano” scherzò.
Gli occhi di Erik s’incupirono. Nonostante continuasse a sorridere, Charles sapeva di aver detto qualcosa di
profondamente sbagliato, ma non se la sentiva di giustificarsi. Il gin nel suo bicchiere era sceso ulteriormente
di livello. Se Erik apprezzava la sua onestà, perché non poteva tollerare anche questo?
Erik stava quasi per replicare, ma poi sollevò solo le sopracciglia, preferendo cambiare argomento:
“Dovremmo tornare a Richmond. Non ci sono più mutanti qui.”
Il sorriso sulle labbra di Charles si restrinse, componendosi in un’espressione seria. Sapeva che ora Erik gli
avrebbe fatto pagare ciò che aveva detto. Gli avrebbe di nuovo ricordato di essere responsabile,
ma perché Erik non lo capiva? Charles era responsabile. Non c’era bisogno che glielo ricordasse.
“Lo so.”
“Però?”
“Però non mi va” replicò Charles bevendo un ultimo, lungo sorso, guardandolo fisso.
“Charles…”
“No.” Non pensare che non voglia. So che vuoi trovare Shaw. E lo faremo, ma adesso non voglio pensarci.
Charles immaginò che ora si sarebbe arrabbiato perché gli avrebbe parlato nella mente. O perché aveva
nominato Shaw. E forse anche perché gli aveva detto che non sarebbero tornati subito alla CIA…
Ma Erik si limitò ad annuire, quasi distratto, sorprendendolo ancora. Allentò solo la presa sul bicchiere,
come se si fosse tranquillizzato. Charles non gli domandò il perché. Provò ad indovinarlo, ma i suoi pensieri
rimasero privi di immaginazione.
Avrebbe tanto voluto leggergli nella mente, adesso. Cominciava a desiderare di farlo così spesso che presto,
forse, avrebbe trovato il coraggio di chiederglielo.
“Potremmo provare ancora a cercare. Solo qualcun altro, come noi.”
“Potremmo, sì.”
Charles incrociò le braccia, posando i gomiti sul tavolo e si protese verso di lui, in modo da non dover parlare
a voce troppo alta. “Pensi ancora che questo ci renda speciali?” chiese divertito.
Erik non staccò gli occhi dalla folla del piano inferiore. “Pensi ancora che sia solo normale evoluzione?”
“La verità è che non lo so” disse Charles con semplicità. “Ma è confortante sapere che non sono solo.”
“Tu avevi Raven” commentò Erik, scrutandolo.
Charles aggrottò appena la fronte. “Eravamo soli in due.”
Erik sorrise, un po’ beffardo, un po‘ sorpreso. “Non si può essere soli in due.”
Charles abbassò appena la testa. Era un po‘ egoista dire certe cose proprio ad Erik.
“Forse no. Ma devo anche ammettere…” Strizzò appena gli occhi chiari, osservandolo. Non è stato male trovarti.
“Perché sono più simile a te?”
Charles non capiva cosa Erik intendesse. Ma non gli venne difficile dirgli che sì, era proprio così.
E non perché fosse la risposta che Erik voleva sentire, ma perché, a dispetto di tutto, era la più onesta che
potesse dargli. Quando alzò gli occhi ne incrociò ancora lo sguardo e gli sorrise, perché era quello che prevedeva
il momento, suppose Charles. Stava passando troppo tempo con Erik. Aveva imparato che di qualunque cosa
stessero  parlando, se ne avesse intercettato lo sguardo sorridendogli gentilmente, Erik sapeva che aveva capito.
Era quasi un felice inganno, perché Charles non si era mai sentito tanto smarrito.
Rimasero in silenzio per un po’. Charles si appoggiò alla balaustra, guardando ancora la folla sottostante;
i suoi occhi si posavano sull’uno o sull’altra, velocemente, sfogliandoli velocemente, scartandoli, sorridendo
ogni tanto quando incontrava un pensiero buffo, strano o senza senso.
 “Ci sono solo persone per bene qui.”
“Nessun assassino pluriomicida?”
Charles si voltò verso di lui, sorridendo beffardo. “Oh. Un cacciatore di nazisti.”
Erik s’irrigidì, distogliendo in fretta lo sguardo.
“So solo che li hai cercati” mormorò Charles, questa volta preoccupandosi dell’ennesimo passo falso.
“Non ho visto nient’altro, non preoccuparti.”
“Quando…”
“Solo quando te ne stavi andando. Non l’ho più fatto da allora.” Charles sperò che il suo tono non tradisse
quanto in realtà desiderasse il contrario.
“E comunque, anche una persona normale trova poco credibile andare in palestra a quell’ora di notte.”
Erik roteò gli occhi, vagamente irritato. “Il fatto che tu non ci vada a nessuna ora del giorno…”
“Non c’è nessuna palestra nello stabile di Richmond, Erik” ribatté Charles ridendo, risentendosi un poco,
appena appena, per la frecciata. Charles pensò che se Erik fosse stato solo un poco meno attraente lo avrebbe
odiato. Erik lo guardò storto, prima di sorridere a sua volta.
“Come qui non c’è nessuna cameriera” aggiunse Charles, lanciando uno sguardo per il piano.
“Scusami un momento.” Si alzò lentamente, avvicinando in un gesto vago la mano alla tempia.
Erik parve non sentirlo. Aveva preso il suo posto alla balaustra e guardava la gente, come prima aveva
fatto Charles che ora lo guardava di sottecchi, interessato. Avvertiva una strana sensazione di costrizione,
come se fosse impossibilitato a fare qualcosa. Avrebbe voluto, ogni tanto, vedere il mondo dal punto di vista di Erik.
Doveva essere così ristretto, sicuro. Qualcosa su cui era facile orientarsi, concentrarsi.
Erik era solo, era tenuto a preoccuparsi solo di sé stesso, era lui che sceglieva.
Quello che c’era nella testa di Charles era troppo vasto  e il rischio di perderne frammenti, troppo grande.
“Charles? Charles Xavier?”
Erik si girò, incontrando lo sguardo di Charles, che si voltò a sua volta, ritrovandosi di fronte ad un ragazzo,
poco più basso di lui e sufficientemente più largo, tanto che la giacca da sera che indossava era brutalmente
tesa sulle spalle. Aveva lisci capelli rosso scuro, pettinati con una decisa scriminatura laterale e la sua faccia
somigliava ad un cartellone pubblicitario sulle buone intenzioni.
Erik lo detestò all’istante. Lui stesso fu il primo a sorprendersi. Fu qualcosa di così profondo che dapprima,
riuscì a giustificare quel sentimento solo con il fatto che il nuovo arrivato fosse umano.
Oltre il tavolo, Charles percepì l’immotivato odio di Erik attraversarlo come uno spettro e si
ritrovò interdetto e spiazzato. Sfoderò in fretta un sorriso affabile, simulando un vago smarrimento.
“Howard? Howard Williams?”
“Xavier. Mio dio, sono Howie, per te. Gli anni cancellano le cose così alla svelta?”
Charles finse di ridere, ma non con lo stesso entusiasmo del ragazzo che fece tremare abbondantemente
la mano in cui reggeva il suo drink. Erik lo guardò, imperscrutabile, ma soprattutto guardò Charles e
il suo essere diventato rigido e molto poco tranquillo.
“Cosa ci fai a Washington?” domandò, sostituendo l’espressione gioviale ad una profondamente seria,
con sorprendente velocità.
“Dovresti essere in Inghilterra, Xavier. Dovresti essere in un qualche buco a bere tè, a correre sotto la
pioggia con dei montoni.” esclamò di colpo. Il drink tremò ancora, alte onde rosse contro le pareti di vetro.
Il sorriso cordiale di Charles si restrinse di un paio di denti. Erik osservò la sua mano contrarsi appena.
Pregò silenziosamente che Charles s’infilasse nella mente di quel volgare umano, facendolo sparire dal
grottesco teatrino da cui sembrava essere uscito.
“Ah. La verità è che mi sono laureato.”
Fu il turno del sorriso sciocco di Howard a restringersi. “Capisco. Che disgrazia” disse, cercando di essere
scherzoso. “Interessante. In cosa se è lecito? Aspetta… Roger, Roger Falstaff ricordi? Bè, me l’aveva detto...”
Howie assunse una vistosa espressione pensierosa, poi s’illuminò:
“Legge!” esclamò. A confermare il suo entusiasmo, diede una vigorosa e trionfante pacca sulla spalla di
Charles che arretrò un poco, infilandosi le mani in tasca.
“Veramente no. Genetica.”
Fingendosi un po’ troppo inorridito, Howie sorrise beffardo. “E’ c’è bisogno di una laurea?”
“Più di una” intervenne Erik, scrutandolo fisso.
Howard fece un lento movimento con la testa, voltandosi. Erik non ne fu sorpreso, doveva essere difficile
muovere il capo con quel collo tarchiato. Gli avrebbe volentieri prestato una delle sue maglie a collo alto,
giusto per vederlo strozzarsi, pensò malignamente.
“Non credo di conoscerla” mormorò Howie con le labbra lucide d’alcool.
“Lui è Erik Lensherr, Howie. E’…”  Charles guardò Erik, guardingo. “Un mio amico.”
Emergendo dalle profondità rosse del suo bicchiere, Howie continuò a fissare Erik negli occhi.
I suoi erano piccoli, vide Erik, un po’ allungati e completamente neri, le iridi fuse con la pupilla.
Gli occhi di un insetto, rifletté Erik.
“Eri alla St. John?” domandò Howie abbassando le palpebre, sospettoso.
“Temo di no.”
“Come hai detto che ti chiami?”
“Non l’ho detto” ghignò Erik affabile. Gli occhi da insetto di Howie divennero due sottili fessure e
la sua bocca una smorfia volgare.
“Divertente. Che college hai frequentato? Dartmouth? Lebanon? ”
“No, Howie. Non… Erik non è di qui” intervenne Charles in fretta, cercando quasi di riportare
l’attenzione su di sé, sorridendo.  “Erik è tedesco. Dell‘Ovest.”
“Credevo li avessimo uccisi tutti nel ‘45” sbottò Howie, ridendo fragorosamente.
Charles contrasse la mano e non riuscì a nascondere un’espressione visibilmente disgustata.
Erik lanciò una rapida occhiata alle ceste di posate -coltelli- in uno dei carrelli del personale,
vicino alla parete, accarezzano piano il suo bicchiere.
“Non fraintendermi, sto scherzando” continuò Howie dopo essersi ripreso.
“Brava gente i tedeschi. Efficienti. Forse un po‘ troppo scostanti, ma se non ci fossero loro e i loro soldi,
mio padre non sarebbe seduto dove sta’.”
“Ne sono lieto” replicò Erik con un sorriso affabile e gelido. Intercettò lo sguardo allarmato di Charles
e il suo ’Non’ appena accennato sulle labbra rosee, ignorandolo.
“Dev’essere seduto in un posto molto comodo” aggiunse.
Howie sfoderò il migliore dei suoi sorrisi, gongolando nella sua giacca stretta. “In effetti sì. E’ al Senato.”
Erik fu troppo catturato dal fissare la smorfia insofferente di Charles per ribattere, mentre Howie continuava.
“Dove avrebbe dovuto esserci anche quello di Charles, ma certe cose non vanno mai come dovrebbero, vero?”
“Già. Sorprendente. Sei qui per tuo padre?” chiese Charles educato. La sua voce si era abbassata appena e
aveva appena sollevato il braccio, come per aggiustare
i capelli vicino alla tempia che Howie esclamò, con la sua voce chiassosa e gli occhi illuminati:
“Molto meglio, Xavier. Vieni a conoscerla!”
Lo afferrò per il polso, abbassandogli il braccio con foga, in un lampo di improvvisa eccitazione.
“Vieni Xavier” disse, prima di spostare distrattamente i suoi occhi liquidi su Erik. “Se tu vuoi seguirci.”
“Veramente…” attaccò Charles cercando di sottrarsi alla sua fin troppo confidenziale stretta.
“Veramente noi…”
“Abbiamo tutto il tempo del mondo, Charles” disse Erik, congiungendo appena la punta delle dita,
la personificazione stessa della calma e dell’educazione.
“Perché no?” aggiunse.
Perché no? Pensò irritato Charles, conscio del ghigno di Erik che lo seguiva, dei passi di Erik dietro di lui.


 

                                                                            __________________________________ 

 

“Charles, ti presento Sheila Frazer. Sheila, lui è Charles Xavier, studiavamo insieme alla Beauvouir.”
“Piacere, Sheila Fraser.”
La ragazza gli sorrise. “Frazer. Senza ‘S’.”
“Scusami” rispose Charles lasciandole la mano, guardandola negli occhi. Avrebbe tanto voluto suggerirle
telepaticamente di sparire, di allontanarsi da Howard Williams III,
dal seggio in Senato del padre e dai suoi soldi. Da tutto ciò che rappresentava, da tutto ciò che aveva fatto e
potuto far parte della vita di Charles.
Avevano preso posto al lungo tavolo di Howie da poco. Howie non si era disturbato a presentare Sheila ad Erik,
così come non si era disturbato a presentarlo gli altri invitati al tavolo. Charles si maledì di non aver scandagliato
anche l’area del ristorante, più in fondo, rispetto alla pista da ballo che vedevano dalla balconata.
Almeno li avrebbe evitati. Avrebbe evitato di essere stato visto da Howie.
Ora si ritrovava seduto tra loro. E la colpa era di Erik, perché l’aveva voluto. Charles si odiava, ma non voleva
opporsi ad Erik, non dopo tutte le fastidiose battute che gli aveva fatto, più o meno volontariamente,
durante la serata. Per Erik, seduto al suo fianco ed era apparentemente scivolato nella fredda immobilità
che lo spingeva ad osservare con più attenzione l’arredamento attorno a lui, piuttosto che le persone.
In realtà, Charles conosceva ben più di uno di loro. Pian piano, riconobbe nelle loro facce parecchi ex-membri
della Beauvouir, la scuola privata che aveva frequentato in New Hampshire, prima di iniziare l’università.
Abbastanza lontana da Westchester per non disturbare e non troppo lontana da far pensare che non lo volessero
a casa. E come aveva odiato quel posto, si riscoprì ad odiare le facce attorno a quel tavolo.
Perché stava sopportando tutto questo?
Perché?
Credevo ti annoiassi.
Non è vero.
E’ un tuo amico?
Secondo te?

Charles vide gli angoli delle labbra di Erik curvarsi un poco all’insù. Dagli tempo.
Ti leggerò nella mente, per questo.
Lo stai già facendo.
Ti sto solo parlando. Ma lo farò se resteremo qui…

“… Ed è incredibile, perché ero assolutamente convinto che Xavier fosse ad un oceano di distanza!” si stava sgolando
Howie, il bicchiere nuovamente pieno. “Fai un altro giro, Augusten” ordinò alla svelta ad uno dei camerieri.
A quanto pareva, riflettè Charles, aveva beccato anche il locale preferito di Howie e quasi sorrise
della propria sfortuna. Howie si risedette, cercando in fretta di coinvolgere Charles in una conversazione
con Wade Coddington e l‘immancabile Sheila, che sembrava appoggiata ad Howie come se fosse un‘estensione
del suo corpo.
Oltre ad aver frequentato la stessa scuola, Charles si ricordava di Wade perché possedevano entrambi una
casa nel Rhode Island. Quella di Wade era solo un po’ più grande e vicina a quelle dei Vanderbilt,
come non mancò di nuovo di ricordargli, trascinando Howie nella sua riscoperta di vecchie
reminescenze scolastiche. Charles cercò di parlare il meno possibile, cercando con i gesti di trovare una scusa
per avvicinare la mano alla tempia, lasciando cadere un commento ogni tanto. A dire la verità, la sua priorità
al momento era la conversazione che stava avendo luogo nella sua testa, e in quella di Erik, che impassibile,
fingeva di assaporare il Gin Tonic offerto da Howie con fin troppo interesse.
Ti prego Erik. Basta, andiamocene.
Erik fece un impercettibile sorriso. Ancora cinque minuti.
Se vuoi vendicarti della maleducazione di Howie te lo concedo, ma per favore…
Non ho bisogno che tu me lo conceda.
Non intendevo questo.
Voglio solo ascoltarlo.
E’ un povero idiota.
Charles si azzardò a girare il capo verso di lui, Erik fece lo stesso.
Charles sentì un vago senso di deja-vu. Per favore. Perché?
Erik fece un mezzo ghigno, tornando a guardare le facce degli altri presenti, intenti a chiacchierare,
ridere e bere. Charles si sentì molto solo. Lui ed Erik non c’entravano niente lì. Potevano andarsene molto in fretta;
bastava portarsi la mano alla tempia, annebbiare le loro menti.
Charles rimpiangeva di non essersi cancellato dalle loro teste, dalle loro memorie.
Solo perché voleva avere anche lui un passato. Ridicolo.
Il suo passato faceva così schifo. Per un attimo invidiò sinceramente Erik. Avrebbe cavato volentieri i denti
a Howie, se fosse servito a trasformare le sue parole in biascichii incomprensibili. Lo disgustava profondamente.
Perché ti interessa? Chiese di nuovo a Erik, cercando di dare al suo pensiero un tono arrabbiato.
Perché ti conosce, ovviamente.
Charles alzò le sopracciglia, annuendo alle parole di Wade.
Se vuoi sapere se possiedo una casa nel  Rhode Island basta chiederlo.
Ma è tuo amico.
Non è un mio amico.

Non è quello che voglio dire.
Erik, per favore.

Io non posso stare nella tua testa, Charles.
E allora ti racconterò tutto quello che vuoi, ma per favore…
Charles, tu non ti sai divertire.
Questo non è divertirsi, Erik.

Charles si girò verso di lui di nuovo, flettendo appena il braccio e guardandolo con aria di sfida.
Erik sollevò appena le sopracciglia, mentre allungando un braccio gli stringeva il polso, facendogli
abbassare il braccio.
“E tu di cosa ti occupi?”
 La perfettamente modulata voce di Sheila svolazzò sulla tavola come un colibrì, catturando l’attenzione
degli altri presenti, impegnati fino a quel momento nelle loro conversazioni.
“Di varie cose” replicò Erik in tono piatto, degnandola appena di un’occhiata, tornando a girarsi
verso Charles. Gli aveva lasciato andare il braccio. Non se ne era accorto nessuno, ma ora Charles sembrava
essere scivolato in un profondo stato di confusione, combattuto tra il desiderio di scappare da lì,
abbandonando quella gente ed Erik e il rimanere, solo per vedere dove il suo grado di presunta
perversità potesse condurlo.
Sheila non si arrese. Batté le lunghe ciglia arcuate, una, due, tre volte, allontanandosi impercettibilmente
da Howie. “Varie?”
Erik spostò lentamente lo sguardo su di lei. Charles lanciò appena un’occhiata a Sheila, ma ne lesse
brevemente i pensieri, riemergendone profondamente disgustato. Avrebbe voluto mostrare ad Erik
quello che vedeva, ma non gli fece nulla. Non si meritava di sapere.
“Investimenti” disse Erik pacatamente.
“Erik non lavora” disse Charles contemporaneamente. Sheila spalancò gli occhi confusa.
Fiutando un vago inganno in cui avrebbe potuto facilmente far valere qualche suo sprezzante commento,
Howie si protese verso di loro, spalleggiato da Wade e da un certo Thomas Elder. Charles sapeva che il padre
di Elder aveva recuperato un po’ dei privilegi e contatti perduti con dei buoni affari durante la guerra di Corea.
Privilegi e contatti che gli erano stati sottratti dal patrigno di Charles.
“Investimenti?” chiese Howie a voce ancora più alta del normale.  “E come fa se …”
“Ho un fondo fiduciario” replicò Erik lanciando un’occhiata irritata a Charles che gliela restituì, ignorando
le molte paia di occhi che avevano cominciato a seguire la loro discussione. La cosa sorprendente, era che a
quel tavolo molti vivevano esattamente nello stesso modo di Erik, a quanto lui aveva detto, ma a giudicare
dalle loro facce, sembrava che un simile diritto fosse riconosciuto solo a loro.
“Un tedesco che vive di sola rendita” sillabò Howie lentamente. “Curioso.”
“Forse non lo è poi tanto, vero, Howie?” rilanciò con una risata qualcuno dal fondo del tavolo.
Charles alzò nuovamente gli occhi e vide Erik continuare a sorridere affabilmente. Charles avrebbe tanto
voluto allungarsi strattonarlo per la manica sinistra fino a strappargliela e mostrare a tutti quello che Erik
aveva sul braccio, facendoli morire di vergogna uno dopo l’altro.
Anche se probabilmente sarebbe servito solo ad acuire il loro odio. Se c’era qualcosa che Howie faceva sfoggio
di disprezzare oltre ai nazisti -per quanto parte dei suoi soldi venissero anche da lì- erano gli ebrei.
“E’ più comune di quanto non s’immagini” spiegò Erik in tono tranquillo.
Howie annuì, ma era evidente che non credeva ad una sola parola.
“Di cosa si occupa tuo padre?”
“Industria pesante” replicò Erik con la medesima calma, poi sfoderò un sorriso affilato. “Metalli.”
Questo fece scoppiare a ridere Charles che, prima di riuscire a controllarsi si era portato una mano alla fronte,
piegandosi sul tavolo. Erik lo guardò e sorrise a sua volta.
“Che c’è? E’ vero” mormorò.
Charles avrebbe voluto scuotere la testa e ridere ancora, poi si ricordò dov’era e il sorriso sparì.
Avrebbe voluto avere un orologio per fingere che si era fatto tardi.
“Ma davvero” borbottò Howie. “Immagino facciate un sacco di soldi.”
Immagina bene, pensò Erik. Charles lo sentì e il suo sorriso si allargò.
“Sicuramente un po’ più di quelli che ha Charles adesso” sghignazzò Howie all’improvviso, gettando indietro
la testa. Charles fece un sorriso abbastanza educato; Howie era ubriaco. Avrebbe voluto esserlo anche lui.
Va bene, adesso andiamo?
Erik non gli rispose.
“Allora Charles, dove hai trovato un industriale che vive di rendita tedesco?” gorgheggiò Howie, alzandosi
e ordinando un altro giro.
“Già” continuò l’allampanato Wade, tamburellando piano le dita sulla tavola, mentre le conversazioni
attorno al tavolo riprendevano, fra gruppi più piccoli. “Dove l’hai trovato?”
“Credo che continuino comunque a piacergli le ragazze, Wade” rincarò Howie, sghignazzando per la battuta.
“Sto scherzando Charlie, naturalmente” aggiunse con noncuranza.
“Naturalmente” rispose Charles, fingendosi sufficientemente divertito e bevendo l‘ennesimo bicchiere di gin.
Pregò che il suo viso non si chiazzasse di rosso. Normalmente avrebbe buttato in faccia a Howie tutte le cose
pessime che sapeva e vedeva su di lui, galleggianti tra i suoi pensieri. Ma non voleva dare spettacolo. C‘era Erik.
Howie guardò entrambi con i suoi lucidi occhi da insetto.
Charles ne sostenne lo sguardo con i suoi, cordiali ed azzurri. Di regola, era sempre andato d’accordo con
le altre persone. Non si era mai sentito particolarmente destato; forse non aveva molti veri e propri amici,
ma nessuno l’aveva mai fatto oggetto di disprezzo. A Oxford, ad Harvard e nel resto della sua vita in generale
si era sempre fatto una gradevole reputazione.
Tranne per alcune vistose eccezioni. Howie e i suoi amici del Beauvouir, rientravano tra quelle.
C’era qualche cosa di disgraziato, nell’aver trovato proprio loro, mentre l’unica cosa che avrebbe voluto fare
sarebbe stato passare una solita serata tranquilla con Erik, a parlare delle infinite possibilità che il contatto
con la CIA poteva offrire, delle dieci mosse con l’alfiere che avrebbero potuto attuare, di come Erik avrebbe
voluto affrontare Shaw.
“Mi dispiace ancora per la storia di Rose” disse Charles accennando un sorrisetto ironico e guardandolo con franchezza.
“Ma era molto carina, vero?”
Fu il turno di Howie per arrossire. Sheila di quella storia non ne sapeva niente, ma rise comunque in modo irritante,
tanto che Howie la fulminò con un’occhiataccia.
Era carina davvero, disse intanto Charles ad Erik. Avresti dovuto vedere quanto ha pianto Howie quando gli ha detto
che amava un altro
.
Erik prese un altro sorso di Gin&tonic, facendo sparire la sua smorfia divertita. Charles involontariamente sorrise,
contagiato dal divertimento di Erik e questo fece sbottare nuovamente Howie.
“Sono sicuro che somigliava a tua madre, Xavier” disse Howie, buttando giù un sorso di Wild Irish Rose.
Questo fece ridere tutti coloro che stavano ascoltando.
Charles inspirò appena. Poi si portò la mano alla tempia e in quell’istante Howie finì riverso sulla tavola,
sbattendo la testa  e appiattendo il centro tavola, rovesciando un gruppo di bottiglie.
Era stato colpito all’istante da un oggetto che Charles e gli altri a tavola ci misero un po’ ad identificare.
Quelli più lontani si alzarono con il loro bicchiere, assiepandosi accanto ad Howie che si rialzò imprecando,
facendo atterrare fragorosamente il cumulo di dolci e il pesante vassoio di metallo sul pavimento, maledicendo
Augusten il cameriere e la sua incapacità. Augusten sembrava anche più sconvolto di lui, non capendo.
Era molto lontano da Howie, molto lontano dal loro tavolo e non era colpa sua, voleva parlare con il direttore…
Mentre la gente accorreva e chi rideva, guardava e gli inservienti si avvicinavano, il responsabile di sala
con la mortificazione negli occhi, Charles si girò verso Erik, bevendo lentamente. Erik non lo degnò di uno sguardo,
impegnato a fissare malignamente Howie e la sua schiena imbrattata. Cadendo, Howie aveva allargato le braccia e
la sua costosa giacca da sera si era lacerata all’altezza delle spalle.
Tu sei completamente…
Erik si girò verso Charles, dandogli un colpetto e facendogli scostare la mano dalla tempia.
Sono solo un po’ più veloce di te.
Charles alzò un poco gli occhi al cielo. Saremmo dovuti andarcene prima.
Sai anche tu che non è vero.

Hai sopportato tutto questo solo per scoprire che avevo una casa nel Rhode Island?
Non esattamente per quello, pensò Erik, rimanendo impassibile.
Però è così che è andata.
Questo è vero.

Charles bevve un lungo sorso ancora. Forse era l’alcool che cominciava ad annebbiargli il cervello e  a dare
una veste nuova ai suoi pensieri, ma si ritrovò a credere di essere stato irrimediabilmente raggirato.
Come se il vero problema di quella serata umiliante e stressante, non fosse colpa di Howie e la sua megalomania,
o della risata irritante della sua ragazza, ma fossero Erik e le sue stranezze.
Lo sapeva che dopo un paio di giorni avrebbe cominciato a mal sopportarlo.
Erik percepì forse il suo fastidio, perché un solco sottile si disegnò sulla sua fronte e quando parlò ancora lo fece a
bassa voce, di modo che le imprecazioni di Howie contro Augusten distraessero tutti gli altri presenti, ma non Charles.
“Mi dispiace.”
Charles lo guardò di sottecchi. Non gli serviva leggere le ragioni del perché di quella stupida serata nella sua testa.
Gli bastava vedere l’espressione di Erik; era curiosa, per la prima volta. Erik voleva sapere almeno quanto lui cosa
c’era nella sua testa. Perché sì, forse erano davvero uguali e sì, voleva solo la conferma di quello…
Ma Charles non era affatto disposto a concederglielo, ora. Non con delle spiegazioni e nemmeno per vie traverse.
Si accorse di essere profondamente arrabbiato.
E allora fece l’unica cosa buona che aveva imparato da Howie, ignorando Erik. Continuò a bere.


______________________________

 

“Fai più piano.”
Charles pensò che fosse una buona idea. La seconda buona idea sarebbe stato chiederle di togliersi il vestito,
rendendo la cosa semplice… Ma a quanto sembrava, le fantasie perverse di Sheila Frazer, non si estendevano
al di là dei suoi lobi temporali.
Però baciava davvero bene. E solo il pensiero che baciasse Howie in quello stesso modo, era il motivo che
frenava Charles dal dirglielo.
C’era un vistoso banco di nebbia nella testa di Charles.  Non sapeva quando avesse iniziato a smettere di
considerare tutto ciò che lo circondava, quando l’unico obbiettivo era stato finire nei corridoi delle sale private,
verso la zona delle toilette. Sale che erano in linea perfetto stile con il resto del locale con la moquette blu notte,
i pannelli di legno lucido, le appliques dorate e appena ronzanti che disegnavano deboli coni di luce sul soffitto
basso e color crema. Era tutto così elegante e curato là dentro, tutto così artefatto che sembrava quasi un delitto
non approfittare del basso divano nel salottino, accanto al bagno delle signore.
Assieme alle luci basse e al bere e a tutto il resto…
In realtà, c’erano un numero infinito di ragioni per l’essere finito lì.
Charles cercava d’ignorarle, ridacchiando, mentre sussurrava a Sheila di spostarsi un po’, scendendo lungo il collo.
Era la dinamica che era poco chiara. Certo alla fine, riuscire a portare Sheila lontano da Howie non era stato
particolarmente difficile. Non ricordava di averle detto nemmeno particolarmente brillante. Forse voleva divertirsi
senza il suo fidanzato dai vestiti troppo stretti. Forse era stanca quanto lui di quella serata.
Forse aveva bevuto ed era eccitata quanto lui.
Le infilò una mano nella stretta scollatura, schiacciandosi su di lei. Sheila si lasciò andare ad un gemito, fin troppo
costruito. Un po’ come l’arredamento finto europeo. Cominciò a sospirare, alternando il tutto con mugolii stridenti
che provocarono a Charles un crescente fastidio. Avrebbe voluto dirle di smetterla, ma stava per farlo quando lei
allargò le gambe, supplicandole di tirarle su la gonna. Charles le sorrise, trionfante.
Era sempre così facile. Bastava dire solo quello che si volevano sentir dire.
Si stese su di lei, sentendo una delle sue gambe aggrapparsi alle sue, intrecciandole, sfregando i polpacci ancora
avvolti dai collant. Riprese a baciarla sul collo, seguendo il disegno della gola, e lei rovesciò il capo all’indietro,
schiacciando la piega ondulata dei capelli chiari. Le labbra lucide di rossetto, si aprirono un po’ di più, mentre
inclinava la testa verso la spalla. Mise una mano fra i capelli di Charles, tirandolo su di sé.
Charles si accorse di avere un ghigno ben poco appropriato in faccia. Cercò di non guardarla, fingendosi più
interessato ad accarezzarla, mentre lei allungava le mani verso la cintura dei suoi pantaloni.
“Che direbbe il tuo ragazzo di questo?” le sussurrò, scivolando un po’ a lato di lei, tirando una delle sue gambe
contro di sé. Lei lo attirò a sé, baciandolo esasperata. “Non è proprio il mio ragazzo” sospirò, rauca.
“Lui sembra convinto di sì” disse Charles. Era un po’ deluso. Se Sheila non era proprio la ragazza di Howie, 
questo diminuiva la soddisfazione di quello che stava per fare. Non sarebbe stata un’altra Rose, purtroppo.
La gonna del suo vestito si schiacciava tra loro come un voluminoso cuscino, ma non impedì a Charles di far
scivolare le mani sulle gambe di lei, oltre il bordo dei collant, cercando la pelle nuda delle cosce.
Si accorse che avrebbe potuto vomitare con facilità, adesso. La testa gli girava insopportabilmente e i mugolii
raschianti di Sheila sembravano una cantilena strozzata e registrata su vinile.
Faceva l’amore come se stesse leggendo un copione, rifletté Charles, sorprendendosi.
Amore era una scelta di termine strana, soprattutto per lui. Troppo, inutilmente retorica.
Charles non parlava così, i suoi pensieri neanche. La realtà era molto più banale e superficiale.
Voleva concludere con Sheila perché Howie comunque l’avrebbe scoperto, lo scopriva sempre.
Mezzo interessante per vendicarsi dell’orribile serata che stava passando…
Le baciò la spalla, abbassandole la spallina sottile dell‘abito con un gesto lento. La sua pelle aveva un
vago profumo di limone. Charles avrebbe trovato poetico anche questo, se non si fosse ricordato di un
paio di Gin Lemon che aveva bevuto mezz’ora prima, con Thomas e Sheila, dopo essere saliti al piano superiore,
per guardare dall’alto la pista da ballo e seguire una nuova sfuriata di Howie a distanza.
Era stato così concentrato a guardare Sheila in un certo modo, a fingersi divertito, a regalarle sorrisi gentili,
promettenti, a sfiorarla innocentemente col braccio mentre le proponeva insensati brindisi,
che si era dimenticato di lui.
Il suo viso già accaldato si colorò maggiormente di rosso. Si sentiva la pelle bollente e non perché stava baciando,
leccando, la pelle di Sheila, accarezzandola frettolosamente, stringendola più che poteva, ridendo ai suoi sussurri,
sentendo la sua lingua sulla guancia, le sue labbra sulle orecchie.
Non doveva vendicarsi di Howie, realizzò. Forse non ce l’aveva nemmeno davvero con Howie. Howie era fatto così,
Charles lo sapeva da tempo.
L’aveva capito già da sobrio, quasi sobrio, poi si era cancellato tutto ed era finito con Sheila che sembrava così felice,
alla prospettiva di stare lontana da Howie, che si era persino lasciata coinvolgere da Charles.
Charles avrebbe potuto sentirsi lusingato. Ma aveva visto i pensieri di Sheila al tavolo, aveva ascoltato la sua risata
troppo acuta e troppo gioiosa, le sue smorfie affettate e sapeva qual era la verità, che cosa Sheila avrebbe voluto,
a chi stava pensando adesso, facendo quasi finta.
Saperlo lo faceva arrabbiare e lo umiliava, ma era così…  così fuori di sé, frustrato e annoiato che non cercava di
passarci sopra, a costo di continuare a pensarci e tuttavia ignorarlo. Se non si fosse sentito così, forse avrebbe
avuto il coraggio di allacciarsi di nuovo i pantaloni e lasciarla lì, con la pettinatura scomposta e il suo vestito di
Chanel spiegazzato.
Ma era così ubriaco che solo la certezza dei punti fissi, il pensarci assiduamente, sembrava essere diventata
la cosa più giusta da fare. Non riusciva a impedirselo. Continuò a pensarci, non c’era soluzione. Sorrise.
Dov’era Erik?
Si ricordava solo che era al tavolo con lui. L’ultimo ricordo certo era lui che si scusava, ancora, impercettibilmente,
sparendo per prendere un altro drink. Avrebbe voluto sondare il locale, ma cosa avrebbe fatto se avesse scoperto
che se ne fosse andato? Non voleva sapere. Socchiuse gli occhi; le orecchie piene del sospiro di Sheila,
la bocca del suo alito caldo e dolce. Caramello.
Forse si era trovato una ragazza anche lui. Più bella di Sheila, senza dubbio. Con facilità.
Le persone belle cercavano le persone belle, solitamente. Sempre. E Charles lo trovava persino giusto,
accettabile. Sheila invece non aveva ricevuto più di un’occhiata distratta da Erik.
Nulla più che uno sguardo di sufficienza. Eppure lei lo stava pensando, anche con le mani di Charles addosso.
E Charles - per qualche grottesco e assurdo motivo, nemmeno a lui chiaro- era felice di questo. Così poteva ridere
delle fantasticherie di lei, lasciandosi andare al languore dell’eccitazione, mentre lei gemeva, seguendo le sue battute,
scena per scena. No. Non era la ragazza che avrebbe scelto Erik.
Probabilmente, se Erik ne aveva trovata una, l’aveva portata al Four Season. Nella sua comoda camera.
Dava l’idea di essere attento a quei dettagli; di certo, avrebbe agito molto diversamente di Charles, a cui era bastato
cercare una superficie piana e morbida nel raggio di venti metri. Per l’ennesima volta, sentì di stare sbagliando.
Le morse dolcemente il collo. La sentì ridere.
Aveva messo da parte quel modo di fare fin da quando Moira l’aveva contattato… Ma non era cresciuto affatto.
Era ancora lì, sdraiato scompostamente a cercare di tenere gli occhi aperti, la bocca umida di saliva non sua.
Forse Erik aveva pietà di lui. Se era così, lui aveva pietà di Erik, perché non capiva proprio niente.
Il mondo non era fatto solo da lui, gli altri non erano tasselli intercambiabili e sostituibili, cose temporanee,
destinate a sparire. Si accorse che ora le guance avevano cominciato a fargli male, e non perché stesse baciando
avidamente la bocca rossa di Sheila, sperando di lasciarle il segno dei denti, qualcosa di inequivocabile che Howie
avrebbe visto. Con Erik stava bene. Lo confondeva abbastanza da pensare che forse sì, aveva un amico.
Doveva essere per forza un amico importante, perché ci stava pensando così intensamente anche adesso,
con le mani di lei strette a lui.
Charles sorrise ancora. Sheila pensò che era per la sua abilità, per il suo fascino femminile. Si complimentò con lui,
gli disse che l’aveva trovato carino dal primo momento in cui Howie gliel’aveva presentato. Charles ghignò di quel
momento d’ingenuità perché sapeva che stava mentendo e perché in tutta franchezza,
era una cosa così ridicola da dire, con la mano di lei dentro i suoi pantaloni e la sua lingua dentro l’orecchio.
Forse Erik aveva ragione e alcune persone -esseri umani-, erano così scontati, prevedibili e grotteschi che era meglio
non averci a che fare. Chiuse gli occhi mentre Sheila lo toccava. Smise di stringerla sulla schiena e allontanò le
braccia da lei, accarezzando il velluto del divano, sospirando.
Howie non aveva poi questa grande fortuna. Sheila si muoveva troppo lentamente, per inerzia.
Era meccanica come i suoi gemiti. Orribile.
Faceva persino rimpiangere Marie McGowan, una matricola che aveva conosciuto ad Harvard.
Però si rese conto che non era così spiacevole. Anche se il rischio di vomitare gin, whiskey e forse persino il misto
di seltz e vodka, era sempre presente. Era grottesco, ma sopportabile.
Si ritrovò a immaginare Erik al suo posto, e dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. Non ci riusciva.
Ma sapeva che probabilmente l’avrebbe uccisa con un pesante vassoio.
Non avrebbe portato una ragazza come Sheila a vedere un film sugli angeli sterminatori.
Non le avrebbe mai dato ragione. Non avrebbe mai cercato di essere gentile con Howie, solo perché pensava che
l’andare tutti d’accordo fosse il più alto dei pregi. Non si sarebbe rinchiuso in un salottino opprimente per
vendicarsi di un paio di battute e fastidi, facendosi una ragazza che, a conti fatti, stava benissimo attaccata
al braccio di Howie. Erik non l’avrebbe baciata. L’avrebbe osservata gelidamente. Forse nemmeno quello.
Non l’avrebbe vista.
E così aveva fatto.
Erik non vedeva nessuno. Doveva avere un livello di cecità così profondo che questo terrorizzava Charles.
Lo invidiava e ne era spaventato, perché se era così lui forse era invisibile. E al sicuro.
Anche se da quello che Erik cercava di dirgli, ogni tanto, senza mai dilungarsi troppo, era una paura infondata.
Charles aveva cominciato a chiamarlo amico mio, sporadicamente, come il principio di un vizio. Amico mio.
Quanto valevano quelle parole, agli occhi freddi di Erik? Molto poco, sospettò Charles. Non avrebbe mai avuto
il coraggio di guardarlo nella sua testa.
Charles girò appena il viso, quando Sheila sollevò il capo per baciarlo. Non chiuse nemmeno gli occhi.
“Sono tutta tua” disse, giocosa. Charles pensò che purtroppo, almeno fisicamente, era vero. Congiunse la  mano
alla sua e le sorrise. Le disse ancora un po’.
Le disse di continuare. Che gli piaceva, era così brava. Howie era così fortunato. Le avrebbe presto restituito il
favore, le sussurrò maliziosamente.
Intanto, pensò ad Erik che gli diceva che erano uguali.
Charles avrebbe voluto che fosse vero, accarezzando Sheila, persuadendola. Lei reclinò il capo, ancora.
La gola era un segmento bianco, in un corpo banale. Aveva un bel collo.
Avrebbe voluto che Erik fosse lì per poterglielo dire. Non sembrava un desiderio così strano. Certo, sembrava
un desiderio che potevano avere degli amanti, non degli amici… Ma forse i confini non erano poi così netti.
Erik non gli sarebbe mai venuto a noia, non gli avrebbe mai dato fastidio. Gli era sembrato, a quel tavolo,
dopo le sue insistenze, Erik fosse un po‘ troppo insopportabile, incomprensibile, lontano, egoista…
Ma gli mancava. Era da lunghi giorni che stava sempre con lui. Avrebbe voluto averlo lì con lui per
commentare la stravagante teatralità di Sheila. Avrebbe voluto dirgli che gli dispiaceva per tutto,
che l’unico motivo per cui non parlava di sé era perché non c’era niente di importante da dire.
Nessun mistero, niente di interessante.
Sheila s’inarcò appena mentre Charles si premeva contro di lei, scostandole i capelli dal viso, scivolando
sullo zigomo rotondo e artificialmente rosato. Lei cercò scherzosamente di mordergli le dita, dicendogli di
smetterla di giocare.Charles sentì che l’avrebbe volentieri lasciata lì.
Avrebbe tanto voluto ridere di lei con Erik.
Erik che non sarebbe mai andato con Sheila perché era troppo attraente, troppo superiore. Erik si sarebbe
trovato solo qualcuno di simile a sé, rifletté Charles, puntellandosi sulle spalle di Sheila, sollevandosi su di lei.
Tutto era troppo offuscato, agitato, incerto. Immaginò di lasciarla andare. Non l’avrebbe fatto, ne aveva bisogno.
Non necessariamente si Sheila, era solo quello che poteva dargli a interessarlo.
La baciò ancora, con urgenza, comprimendole la bocca con la sua. Lei quasi rise, deliziata, inappagata.
Se Erik voleva qualcuno di simile a sé stesso, avrebbe dovuto andare con Charles.
Fu un pensiero così veloce. Così veloce che il ritrovarsi raggelato e con gli occhi sbarrati, le mani strette
convulsamente alle spalle di lei, sembrò una conseguenza eccessiva.  Il suo bacino aderiva a quello di Sheila.
Quel contatto avrebbe dovuto bastare a guidare i suoi pensieri e i suoi gesti, ma era tutto così lontano adesso.
Non aveva senso.
Avrebbe voluto dare la colpa all’alcool. Ma non era del tutto così. Probabilmente era perché Erik era bello e
questo confondeva la sua capacità di giudizio. Charles non avrebbe voluto essere così sensibile, così capace di
rimanere affascinato da certe cose. Era tutta questione di geni. I geni di Erik l’avevano reso bello e lui,
Charles, era affascinato dalla bellezza. Perciò trovava attraente Erik. Era così semplice, una spiegazione
così primordiale e universale. Persino la differenza uomo-donna smetteva di esistere.
La bellezza non serviva forse a quello? Distruggeva le divisioni elementari creandone di nuove, più sottili,
aveva letto Charles da qualche parte. Filosofia.
Ed Erik era una persona. Che altro modo c’era per possedere una persona, rifletté, posando gli occhi su Sheila,
senza veramente vederla. Le mise solo una mano tra i capelli, stringendo appena, afferrandoli, sollevandole la testa.
Che altro modo c’era, per possedere una persona?
“Charles?” mormorò lei, un po’ sorpresa, un po‘ risentita da quell‘atteggiamento.
Inclinò il capo e la guardò. Aveva lasciato Erik per quella ragazza. Si era arrabbiato con lui, quando voleva tanto
essere suo amico. Aveva preferito lei. Per il suo troppo acceso e volgare rossetto, per la sua risata stordente e per il
fatto che andava a letto con Howie. Era carina però. E lui, soffocato da pensieri e sensazioni così contrastanti che
non capiva granché. Quello che pensava nella sua testa era così diverso da quello che stava facendo. Le mosse la testa
come se fosse una bambola, incuriosito.
“Charles…” Lei gli strinse il polso, allontanandogli il braccio, i suoi occhi un poco più seri.
“Che ne dici se concludiamo?” disse, sfoderando di nuovo il tono da gatta. “Prima o poi Howie…”
Charles le sorrise, gentilmente adesso, come per scusarsi. Le fece scivolare le mani sui fianchi, sollevandosi un poco.
Era in ginocchio sul divano adesso,
le gambe di lei strette saldamente a lui. Ancora di più, quando cercò di farlo avvicinare a sè. Charles si morse il labbro, indugiando, poi le chiese di spostarsi.
Gli bastò appena calcare un po’ la mano con la gentilezza, con la malizia, per convincerla. Sheila sorrise indulgente, lamentandosi appena e solo nella sua testa, quando scesa dal divano s’inginocchiò per terra, davanti a lui.
Charles dovette solo chiudere gli occhi. Vedere la piega di Sheila disfatta, le forcine allentate che avevano
provocato un crollo di onde bionde e il vestito abbassato sul petto, poteva anche essere squallidamente eccitante
ma non ne poteva più. Voleva solo godersi il momento e, almeno in quello, lei era brava.
Si morse le labbra, cercando di non lasciarsi sfuggire né un gemito, né un sospiro. L’ubriachezza, la frustrazione
e la rabbia si erano ormai così impossessate di lui, che ci mise un po’ a capire che stava pensando di nuovo ad Erik.
Aveva sempre pensato ad Erik e non era niente di normale.
Deviato, si disse. Allungò una mano, toccando la testa di Sheila fra le sue gambe e aprì gli occhi, rivolto al soffitto.
Non poteva essere vero.
Maledisse le associazioni di idee. Però si ritrovò solo a pensare al modo in cui Erik lo guardava mentre parlavano
e si ritrovò a socchiudere le labbra, il respiro rallentato. Pensò che aveva sbagliato.
Aveva sbagliato tutto. Aveva sbagliato a trovarlo -come se fosse stato possibile-. Aveva sbagliato a non farsi trascinare
dal mare e sparire, lasciandolo solo.
Aveva sbagliato a non dare retta a sua madre. Aveva sbagliato a non ignorare il suo singolare potere e a non
essere diventato amico di Howie, complimentandosi a vicenda per i seggi al Senato dei loro padri, più o meno biologici.
Era ubriaco e avrebbe voluto bere ancora, soffocando ogni cosa.
Non poteva  essere così semplice. Non si poteva cadere in un baratro così facilmente.
Stava succedendo solo perché era ubriaco, ubriaco di gin, rabbia e smarrimento.
Ed era una gran brutta cosa, provare tutte quelle cose assieme.
Una cosa deplorevole, Charles. Deplorevole, ricordò.
Non poteva essere vero. Lui era una persona normale e certe cose non aveva il diritto di pensarle.
Era lui che pensava di essere in qualche modo simile ad Erik. Era lui che gliel’aveva detto e gliel’aveva fatto capire.
E non per quello a cui Charles pensava ora, cercando di ricordare i dettagli di Erik, il modo in cui stringeva il bicchiere, quell’impercettibile ironia che aveva sempre nello sguardo. Quel sorriso affilato e inquietante.
Quello che lo divertiva, che lo interessava.
Non conosceva Erik come un amico. Non si era relazionato così, rifletté, gli occhi puntati al soffitto chiaro.
Lo aveva conosciuto perché lo giudicava uguale a lui e ne subiva il fascino. L’aveva voluto conoscere come le cose che
si volevano avere per sé, per trovare un modo per non farle andare via.
Non era niente di grave, non poteva esserlo, vero?
Era qualcosa d’ingenuo, ma lo faceva sentire così colpevole, perché a quello si mischiavano altri pensieri, che non
avevano proprio nulla di normale, di coerente.
Quelle spiegazioni non spiegavano perché avrebbe voluto stare con Erik, in un modo che ricordava parecchio quello
in cui ora era impegnata Sheila. Anzi, di più. Riusciva a immaginarlo con facilità preoccupante e non riusciva a
porre nessun tipo di resistenza. E non solo quello, rifletté, turbato e appagato dal piacere crescente.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa. Si sarebbe lasciato fare qualsiasi cosa.
Avrebbe solo voluto avere Erik, che fosse con Erik. Ma non era giusto che fosse così e lui si sentiva sempre peggio,
ma non riusciva a scacciare quei pensieri dalla testa. Non voleva niente se non trattenerli.
Così chiuse gli occhi.
Pensarci adesso, non poteva costituire alcun problema. Si sentì improvvisamente calmo, rilassato.
Pensava ad Erik, era come se fosse lì. E Charles, per quanto fosse turbato dalla sua stessa immaginazione,
continuò a pensare. Era qualcosa che gli riusciva così bene.

 

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“Erik.”
Erik si girò piano, con circospezione. Sembrava essere qualcuno a cui piaceva poco essere sorpreso alle spalle.
Charles sapeva che era esattamente così. Ma non sapeva perché Erik fosse uscito, fuori dal Victorian, al riparo
sotto la tettoia e a fissare la nebbia umida e fosca che s’era impossessata delle strade e del cielo di Washington.
Avrebbe potuto leggerglielo nella testa.
Erik lo guardò a lungo, come se lo stesse valutando. Poi parlò.
“Sei orribile.”
Charles si sentì sbiancare. Si aspettava di trovarlo arrabbiato, ma non al punto da…
“Volevo dire, hai un aspetto orribile” Erik lo squadrò ancora, un po‘ preoccupato. “Mi sono espresso male.”
Charles si sentì insolitamente sollevato. Se ora aveva un aspetto orribile, ci sarebbe stato sicuramente del
tempo per migliorarsi. Si sentiva gli occhi febbricitanti, lucidi, e i capelli e i vestiti appiccicosi.
Con tutta probabilità, aveva macchie di gin sulla giacca e sui pantaloni. E la faccia arrossata, per il caldo della
sala, per la serata e ora per il freddo della notte. I vestiti di Erik erano appena spiegazzati, la sua faccia recava
appena qualche segno di stanchezza e di certo, il mondo non gli appariva attraverso un filtro opaco e vorticante.
Si accorse di stare dondolando sul posto e di stare deglutendo un po’ troppo spesso. Girò i suoi occhi vividi verso
Erik e lui lo afferrò per il gomito, trascinandolo lontano dall’ingresso del Victorian.
Charles strizzò appena gli occhi, soffocando un conato di vomito, barcollando. Non guardò Erik, ma il sapere che
- adesso, adesso dopo un tempo indefinitamente lungo- era a due passi da lui, lo faceva anche ridere.
Si appoggiò al muro a cui si erano accostati, sentendo Erik che gli lasciava il braccio. Non vomitò, ma il mondo
attorno a lui girava comunque troppo veloce e si sentiva la gola così stretta e un persistente senso di malessere
e insoddisfazione, che gli impediva di ritrovare l’autocontrollo.
Avrebbe dovuto scoparsi la cara Sheila, realizzò. Perché non aveva concluso? Almeno si sarebbe sfogato.
Anche se ha giudicare da come stava adesso, sarebbe stata una mossa avventata; aveva seriamente rischiato
di vomitare sul suo Chanel, rovinandole la festa. Forse un po’ di più di quanto non aveva fatto, macchiandole
qualcos’altro. Si pentiva di averla solo baciata, di non averci fatto altro, a parte lasciare ogni cosa a lei,
quando avrebbe tanto voluto solo qualcosa di più. Se fosse stato al gioco, se fosse stato sé stesso, sapeva che avrebbe
pensato ancora a Sheila, non a chi e cosa voleva davvero.
E invece se ne era stato lontano. La ragazza era stata solo un mezzo.
Se Erik sapeva, non vedeva anche quello?
Non vedeva la vergogna sulla sua faccia?
Era ubriaco, era fuori città e l’unica cosa che era riuscito a combinare, era stato ridurre il mondo ad un universo
languido e vorticante, sprecando il suo tempo con persone che non sopportava, solo perché Erik ne aveva espresso
il desiderio. Era lui ad averlo trascinato in quella situazione, obbligandolo a comportarsi così, no? 
Avrebbe avuto anche un senso. E poi Erik era solo rimasto a guardare.
Se Erik si fosse comportato come lui, se avesse cercato di adeguarsi ed evitare giochetti cerebrali; evitare
stratagemmi per conoscerlo meglio, per cominciare. Charles era così stanco di parlare, di indovinare le cose.
Poteva far finta che fosse normale, per una sera? Quasi un essere umano…
Di certo, la festa l’avevano comunque rovinata a Howie. Si pentiva di non essere un poco malvagio, un poco subdolo.
Avrebbe ridotto Howie e tutti gli altri a larve dementi. Li aveva sempre sopportati solo perché voleva dimostrare
a sé stesso che ogni tipo di convivenza era possibile.
E questa era la sua ricompensa.
“Stai meglio?”
“Oh. Ehi.” Charles si lasciò sfuggire un singhiozzo. Voleva dirgli che in realtà non era così ubriaco.
Che sì, stava meglio… ma quel problema, quella legge morale di non dover mentire ad Erik, sembrava pesare molto sulla coscienza fradicia di Charles. Stava male. Era stanco e arrabbiato, e in parte ancora con Erik.
No, si corresse. Non era arrabbiato. Lo odiava, ne era quasi sicuro. Come faceva ad essere così tranquillo,
a guardarlo come se fosse preoccupato per lui?
Non vedeva che era così disgustosamente chiaro? Fingeva?
Charles tirò ancora su col naso, aveva la gola inacidita. Era profondamente desolato e aveva solo l’intenso desiderio
di tornare di gran carriera a Richmond, lontano da quella strada, con quella sporadica pioggia, fine come spilli che
gli bagnava la testa, i capelli, le mani.
Quando aveva cominciato a piovere?
“Faccio chiamare un taxi?” disse la voce di Erik, da un punto molto lontano alla sua destra. Charles scosse la testa.
La mano che teneva sul muro scivolò appena, raschiando sul cemento.
“Era un sì?”
“N-No” Charles si raddrizzò. Cercò di scacciare la sensazione di occlusione alla gola tossendo, ma riuscì solo a farsi
contrarre le viscere e costringersi a cercare di nuovo il sostegno del muro. “No” ripeté, inspirando profondamente.
Aveva la vaga sensazione di avere le lacrime gli occhi e sapeva di doversi soffiare il naso.
La sera sembrava insolitamente movimentata e vorticante; appoggiò la fronte contro al muro, cercando di fermarla, inchiodarla. Nasconderla.
“Charles.”
Lo aveva chiamato? Perché?
Non poteva stare zitto, lasciarlo pensare?
“Charles? Aspettami qui.”
Mormorò qualcosa, qualcosa che voleva solo somigliare ad un vattene via. Fece solo uno strano verso smorzato.
A metà strada tra un insulto e una vaga richiesta. Erik non lo capì.
“Charles. Mi aspetti qui?”
Riuscendo a voltarsi, si ritrovò Erik davanti a pochi passi. Dall’ingresso del Victorian, poco lontano, era uscito un
gruppetto di persone. Ridevano e parlavano così forte che quello che disse Erik, non lo sentì. I suoni rimbombavano
così forte nella sua testa e l’unica cosa che sentiva distintamente, era il rumore della pioggia fine sull’asfalto.
Le luci erano bianche macchie liquide e l’asfalto un profondo fiume nero. Avrebbe avuto paura ad attraversare
la strada, pensava, la corrente l’avrebbe trascinato via.
“Non so nuotare” mormorò, gli occhi fissi sulla strada nera.
“Cosa?”
Charles lo guardò. Non vedeva chiaramente il viso di Erik, con le ombre a contenderselo.
Si sentì stringere per la spalla, però. Quando realizzò che era stato lui, indietreggiò di scatto, finendo con le spalle
al muro, ancora.
Erik, quasi per riflesso, indietreggiò lentamente a sua volta e Charles, grazie alle luci baluginanti dei lampioni
riuscì a vederlo meglio. Aveva i capelli bagnati. Logico, pioveva. Solo che gli erano scivolati su un occhio, quasi.
Charles inspirò col naso e deglutì. Aveva la sensazione di aver ballato tutta la sera e di ritrovarsi di colpo paralizzato.
Non voleva che Erik lo toccasse di nuovo. Era … Era disgustoso, provò a pensare. Non era vero, lo sapeva, ma lo
confortava fare finta di crederci.
Almeno per adesso.
“Non chiamare niente. Nessuno” disse piano, abbassando lo sguardo. Si allontanò piano dal muro. Era il peggior
venerdì sera della sua vita, pensò meravigliandosi. Era già venerdì? Da quanto tempo doveva essere a Richmond
e invece era ancora lì? Non era frustrante? Che incapace.
“Vado a piedi” disse in tono piatto. Fino a Richmond, pensò. Vado a piedi fino a Richmond e non mi fermo.
“Charles…”
“Non ho detto che debba farlo anche tu.”
Iniziò a sorridere, finché non riuscì più a trattenersi, battendosi le mani sulle gambe e piegandosi. Rise così forte
che un paio di teste all’ingresso si girarono.
Immaginò Erik che gli diceva di non dare spettacolo; sembrava proprio il tipo di frase che avrebbe potuto dirgli.
Però non gli disse nulla. Ovvio, faceva sempre il contrario di quello che pensava Charles. Questo riaccese il fastidio
che provava verso di lui. Come se quello che provava già non fosse abbastanza.
“Che cosa vuoi fare?” domandò Erik. Non sembrava spazientito, né offeso dal suo comportamento.
Sembrava solo gentile.
Ancora scosso dai sussulti, Charles fece un paio di passi in avanti, guardando lungo la via, ignorando l‘asfalto
che continuava a scorrere. Quella nebbia acquosa faceva vedere molto poco. Da che direzione erano arrivati?
Non lo ricordava.
“Torno in hotel” disse piano, passandosi una mano fra i capelli umidi, sperando che Erik non intuisse il suo
piano di correre a Richmond. Avrebbe voluto dirglielo solo per vedere la faccia che avrebbe fatto.
“Charles, prendiamo un taxi.”
Mordendosi il labbro inferiore, Charles lo guardò a lungo. Avrebbe voluto dirgli di lasciarlo in pace, e quasi
si sentiva soffocare dal bisogno di dirglielo. Voleva dirgli che lo sapeva che era tutta una menzogna, che non
poteva credere che fosse venuto in mente solo a lui. Ma rimase zitto e si girò, allontanandosi in direzione
opposta ad Erik. Camminando davvero lentamente, nonostante si fosse convinto di essere arrivato abbastanza
lontano, sentì presto Erik sopraggiungere dietro di lui. Camminò fin quasi ad affiancarlo, mantenendosi
sempre però ad una certa distanza.
“Parliamo un momento?” chiese Erik con calma.
Charles, a testa bassa, sospirò, aggrottando la fronte, chiudendo le mani a pugno dentro le tasche. “No.”
Camminarono per più di quattro isolati. In silenzio, incontrando qualche figura sporadica, finendo illuminati
dai fanali di qualche auto, seguendo i cerchi di luce dei lampioni.
Charles non ricordava la strada, ma pian piano, Erik si era spostato impercettibilmente in avanti, cosicché ora
era Charles a seguire Erik, e non il contrario. La fredda calma di Erik somigliava incredibilmente all’indifferenza
della pioggia, che ben presto smise di cadere. Rimasero solo l’asfalto bagnato e grandi pozze lucide.
La strada smise di essere un fiume e tornò lentamente solo una strada.
Con la stessa lentezza, Charles si tranquillizzò e ben presto, cominciò ad essere annoiato dal silenzio. Forse non
odiava nemmeno Erik poi così tanto. Non abbastanza da sopprimere le parole. Poteva concedergli una conversazione.
“La prossima volta vada per gli angeli sterminatori.”
Lo sbuffo divertito di Erik fu il primo suono vivo che sentì Charles. “E’ solo un’allegoria.”
“La prossima volta ti darò ragione.”
“Forse” rispose. “Ma credo che nemmeno quella fosse la scelta giusta.”
Charles alzò un po’ più la testa. Provava il desiderio di dirgli di stare zitto, di smetterla di parlare in quel modo
che sottolineava una fin troppa esclusività. Perché gli piaceva che parlasse così.
Ora Erik era giusto un passo davanti a lui. Rallentò appena, così Charles riuscì a metterglisi alla stessa altezza,
camminando al suo fianco. Era ancora ubriaco e lo sarebbe stato ancora per un pezzo, a giudicare dal reticolo
delle fessure nel marciapiede che si dipanava davanti a lui, come se avessero un senso. Però la rabbia acuta
che aveva provato si era quasi dissolta; era solo ancora un po’ a disagio, contrastato, dispiaciuto e stranamente
euforico. Era tutto finito, realizzò. Era tutto finito.
C’erano solo lui ed Erik adesso. Era tornato tutto normale.
Bastava non pensare troppo a quello a cui aveva pensato mentre era con Sheila. Fare finta di niente.
Il Four Season non poteva essere così lontano e lui voleva solo dormire. Il posto migliore per seppellire le cose
era tra le pieghe di un cuscino. Avrebbe dimenticato tutto se avesse dormito, ne era sicuro.
Certe cose si dimenticano. Però aveva anche voglia di parlare, parlare con Erik. Anche se prima voleva l’opposto.
La realtà stava cambiando troppo velocemente, ora voleva tutt’altro. Fargli capire che gli dispiaceva, se si erano divisi.
Che gli dispiaceva, se era così.
Che gli dispiaceva se conosceva gente come Howie. A cui aveva rischiato di somigliare.
“Sono disgustosi.”
Erik si girò appena verso di lui, poi tornò a guardare la strada. “Non parlare così.”
“Perché?”
“Non è da te, Charles” rispose Erik tranquillo.
“Vuoi che ti dica che erano simpatici?”
Erik sorrise. “Ecco. Solo un po‘ di sforzo.”
“Mi dispiace se…”
“Perché?”
“Perché…”
Erik alzò gli occhi al cielo, fingendo una divertita disperazione. “Perché li conosci?”
Charles rimase in silenzio. In realtà, sentiva di doversi dispiacersi di un sacco di cose. Forse di nessuna.
“L’importante è aver fatto una buona impressione” aggiunse Erik divertito.
Charles soffocò un colpo di tosse, strizzando appena gli occhi. “Secondo te quella era una buona impressione?”
“Ho detto buona. Non migliore” Erik lo stava guardando ancora. “Sei … Vuoi ancora parlare?”
“Non sto così male” mentì Charles. Parlare lo aiutava. Se parlava pensava alle risposte, non a quello che in
realtà aveva per la testa. Non voleva cadesse il silenzio, era una prospettiva spaventosa.
“Tuo padre era davvero un industriale?”
“Mio padre era un farmacista, Charles.”
Charles accennò un sorriso debole. “Povero Howie. Ingannato così.”
Erik aggrottò le sopracciglia. Anche lui aveva un sorriso appena accennato sulle labbra.
“Tuo padre, invece?” gli chiese piano, dopo un po‘.
“Ah. No.” Charles s‘irrigidì appena, guardando fisso la strada ondeggiante davanti a sé.
“Volevo dire, quello di cui parla Howie non è mio padre. E’ il mio patrigno.”
Al suo fianco, Erik annuì lentamente. Non fece nessuna domanda a riguardo. Sembrò stranamente intuire il
disagio di Charles, ma per la prima volta fu lui stesso a desiderare che quell’argomento non cadesse nel vuoto.
“Avrebbe dovuto essere con il padre di Howie al Senato. Ma non ci è mai arrivato.”
Erik si girò ancora verso di lui. La sua curiosità ebbe la meglio. “Cos’è successo?”
“Non è poi così importante” disse Charles sospirando. La voglia di affrontare l’argomento gli era già passata.
Gli venne un vago giramento di testa e si sentì spingere in avanti. In realtà stava solo barcollando.
O era inciampato? Cozzò solo contro Erik e il suo soprabito scuro. Tenendolo per il gomito, Erik lo rimise dritto.
Charles cercò di guardarlo negli occhi, ma quelli di Erik si erano già spostati altrove.
Charles provava qualcosa di molto simile al soffocare. Forse aveva perso l’uso della parola, perché la sua mente
era nel panico. I ricordi della serata si sovrapponevano in modo confuso e c’era solo Erik, solo Erik come punto
comune. E per qualche ragione ricordò il soffitto della stanza in cui aveva portato Sheila. Ma c’era Erik.
Doveva essere così lampante nei suoi occhi che era impossibile non accorgersene. Era qualcosa di molto simile
all’elettricità, al pizzicare di infiniti spilli sulla pelle, ma non pioveva più. Tutto era sempre più chiaro.
Adesso che gli era così vicino.
Poi Erik riprese a camminare.
“Fa’ più attenzione.”
“Che hai sulla manica?”
“Cosa?” Erik si bloccò, guardandosi distrattamente il braccio, fasciato dalla stoffa scura.
“Non lì. Sul polso.”
Charles gli indicò il polsino della camicia bianca. Era vero. C’era un piccolo arco scuro irregolare, quasi
uno schizzo. Erik lo lasciò andare e si mise le mani in tasca, cautamente sulla difensiva.
“Probabilmente quando il tuo amico ha rovesciato il vassoio.”
Charles sorrise involontariamente, mordendosi appena il labbro inferiore. “Erik.”
Erik allora lo guardò, sfoderando il suo miglior sorriso da squalo.
“Sapevo che si sarebbe rotto la giacca” esclamò. O almeno, quello che disse somigliò vagamente ad un’
esclamazione controllata. Parlò giusto a voce un poco più alta del normale; il genere di esclamazione
che sembrava appropriata per Erik. Charles rise, eccessivamente forse, dandogli una spallata, fingendo
di barcollare ancora. Erik non sembrò infastidirsi; era troppo soddisfatto di sé stesso.
“Avevo pensato anche al lampadario” disse, guardandosi le mani. “O al suo fermacravatta.”
“Mio dio, Erik. Che gli avresti fatto con un fermacravatta?”
Charles appoggiò la fronte alla sua spalla, soffocando le risate che lo facevano sussultare contro di lui.
Si allontanò in fretta però, nonostante Erik non gli desse alcun segno di fastidio, anzi. Era stranamente
esaltato, mentre raccontava tutto quello che aveva pensato di far pagare a Howie, descrivendogli quanto
avesse trovato insopportabili le facce di Wade, e Helder, e Gibson e gli altri… Chiese a Charles se le scuole
private americane educassero in quel modo le persone, seriamente preoccupato, scusandosi con Charles
più volte. Chiese se aveva altre case oltre che nel Rhode Island. Charles gli spiegò che sì, era così.
Spesso ci era andato in vacanza. Al freddo? Sì, al freddo. Anche dettagli. Cosmopolitan, Francis, Bruges.
Chiese che cosa Charles aveva fatto a Rose e Howie, e perché Howie sembrava detestarlo così tanto.
Faceva domande dirette e precise, spesso sconnesse, non collegate tra loro e forse, fu proprio questo a
spingere Charles a rispondere.  
L’alcool gli rendeva la testa leggera e gli mostrava ogni risposta giusta rapidamente, nella forma migliore,
facendola praticamente galleggiare davanti. Non doveva nemmeno scegliere le parole.
Gli raccontò ogni cosa. Spiegò che con Howie tutto si riduceva sempre ai soldi, alle ragazze e al prestigio,
alla competitività. Come lui aveva convinto Rose a scappare ad Aspen, a lasciarlo. Era davvero così bella.
Che sì, aveva anche una casa più al Nord, vicino al mare, ed era la sua preferita, perché era più piccola e
sembrava quasi una villa dell’Europa Settentrionale. Spiegò che aveva sempre detestato le scuole private.
L’unico motivo che l’aveva spinto a continuare gli studi ed ottenere la laurea era il voler scoprire cos’era,
cos‘era quella dote che gli permetteva di essere sempre un passo avanti agli altri. Essere il migliore di tutti.
Erik a quelle parole si fermò e gli sorrise. Per uno spaventoso attimo, Charles si rese conto di cosa era successo.
Sentì la propria voce come una cantilena, ripetere ogni cosa, dire ogni cosa ad Erik. Temeva di impazzire;
era stato così avventato, aveva detto qualcosa di sbagliato? Poi però, arrivò subito il sollievo.
Aveva fatto bene. Era quello che Erik voleva, fin dal principio: voleva sapere solo qualcosa di lui.
Voleva solo che gli parlasse, niente di più semplice…
Era stato così terrorizzante? No.
Erik non gli parlava mai. Preferiva lo facesse lui.  A Charles non sembrava più così sbagliato. Solo un po’ strano,
solo un po‘ troppo altruista. Egoista.
Lo confondeva.
Ma Erik sorrideva. Andava tutto bene. Sorrise a sua volta.
“E perché te ne sei andato?” domandò ancora Erik, abbassando appena le palpebre, come se lo stesse studiando.
“Prima, intendo.”
“Non me ne sono andato” replicò Charles sollevando le sopracciglia, sorpreso. “Dove?”
Lo fissò in silenzio per un lungo momento, smettendo di camminare. Charles si bloccò a sua volta, sostenendo
il suo sguardo. Poteva farla semplice; poteva leggergli nella testa e vedere cosa sapeva e cosa voleva sapere Erik,
e decidere di conseguenza. O mentirgli. Ma non erano le soluzioni giuste.
“Potrei fare la stessa domanda a te.”
Erik inclinò il capo. “Giusto.”
Il viso di Erik fu appena attraversato da un’ombra. Charles fece finta di non vederla, preferendo il silenzio.
 Ricominciò a camminare, vacillando appena. La nebbia, quella vera, non quella che gli offuscava i sensi,
si era diradata. Camminava dentro un sogno distorto quasi, ma riconosceva la zona, il viale più ampio,
scintillante di luci. L’obelisco a Washington che tagliava il cielo scuro, lontano, ma non poi così tanto…
Il Four Season era vicino.
Proseguì. Ora Erik a seguire lui.

 

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Charles aveva di nuovo cambiato umore, spingendo la grande porta girevole dell’hotel. Non guardò nei
numerosispecchi della grande hall, temendo di incontrare il suo orribile aspetto; preferì far scricchiolare
le suole sul pavimento lucido. Era agitato e non aveva affatto sonno. Era euforico. Sarebbe stato pronto ad
uscire di nuovo e bere ancora, se Erik glielo avesse chiesto. Tornare al Lincoln Memorial, pensò. Tornare
al Memorial e bere Cointreau aspettando il sorgere del sole.
L’idea lo fulminò. Era la migliore che avesse mai avuto.
Era anche una sciocchezza improponibile, e qualcosa dentro di lui lottava per farglielo capire, ma era più
semplice ignorare quella considerazione. Per una sera poteva fare quello che voleva. Cominciò a strattonarlo,
indicandogli di nuovo l’ingresso forsennatamente ma senza parlare. Come se fosse un segreto, una cosa che
dovevano sapere e fare solo loro due. Quando glielo suggerì nella mente, Erik lo guardò con divertito
compatimento, scuotendo la testa. Mentre si avvicinavano alla reception, diede un altro spintone ad Erik.
Questa volta, sperò, abbastanza evidente. Aveva solo voglia di farlo.
Non voleva cercare nessun perché.
Mentre l’umano alla reception -cominciava a capire come ragionasse Erik, pensò Charles sogghignando-
cercava le loro chiavi alla parete, Erik gli restituì la spinta. Troppo forte, pensò. Charles barcollò vistosamente,
tentando una finta e cercando contemporaneamente di farlo cadere.
Ridendo silenziosamente, Erik cercò di prenderlo per il collo e lo mollò solo perché il concierge si era finalmente
voltato verso di loro, allungando le chiavi sul bancone lucido, in silenzio. Erik le afferrò con un rapido grazie.
Charles rimase educatamente concentrato a fissare l’affresco finto rinascimentale sul soffitto.
Solo quando arrivarono nel corridoio che portava agli ascensori, provò di nuovo a farlo cadere, a colpirlo,
cercando il modo migliore per assalirlo, come se fosse uno scontro vero, trattenendo le risate, cercando di
bloccargli le braccia. Dopo una breve occhiata attorno, Erik chinandosi lo caricò e lo buttò su una delle file
di poltrone, arretrando e ridendo ancora.
“Adorabile, Charles.”
Se lo lasciò sfuggire senza allarmarsi, continuando a sorridergli. Scosse appena la testa.
“Cosa?” chiese Charles, mettendosi seduto compostamente e ricacciando indietro i capelli con noncuranza.
“Il tuo essere adulto.”
Charles tirò un po’ indietro la testa come aveva visto fare a Sheila e socchiuse gli occhi, ridendo sommessamente,
gli occhi lucidi. Come faceva Erik a non capirlo? A dire cose del genere e fare finta di niente? Adorabile.
Nessuno parla così, non davvero. Giusto? Chiedeva ancora, quella parte così ubriaca e sicura di lui che continuava
a prendere il posto della sua coscienza razionale. Quella parte di lui che gli diceva come sarebbe finita,
se avesse continuato a comportarsi così, rendendola una prospettiva disperatamente allettante.
Erik si avvicinò, facendo tintinnare le due chiavi. Charles, guardandolo seriamente adesso, finse di vedere
qualcosa alle sue spalle. Erik fece per girarsi e Charles allungò una mano, sfilandogliele entrambe dalle dita.
Erik alzò gli occhi al cielo. “Charles.”
“Dimmi.”
Si lasciò scivolare scompostamente sulla poltrona, giocherellando con le chiavi e sorridendogli beffardo,
inclinando un po‘ la testa, sentendosi stupido, fuori luogo, diverso da sé stesso. Non si comportava così,
era qualcosa di troppo difficile. Non ci era abituato. Sospirò e poi rise ancora, passandosi la lingua sulle
labbra. L’ambiguità aveva lo stesso sapore del whiskey mischiato al gin e a qualcosa di dolce.
Non era così cattivo.
Fingendosi immancabilmente frustrato, gli occhi di Erik tornarono di nuovo su di lui. Charles non credeva
lo fosse per davvero. Erik si preoccupava e si dispiaceva. Erano dettagli di cui poteva approfittare, per un po‘.
Ne ricambiò il suo sguardo, sorridendo finché lui non fu costretto a fare altrettanto.
Erik si sentì costretto. Gli occhi azzurri troppo azzurri per sembrare veri. Eppure lo erano.
Non c’era alcun dubbio. Azzurri. Potevano far pensare al cielo, all’acqua… ma l’azzurro degli occhi di Charles
non era né frutto della rifrazione, né di un liquido che di logica era trasparente.
Vividi, come il riflesso di uno specchio. Non c’erano regole genetiche per spiegare dettagli del genere.
Charles sorrideva, mordendosi il labbro inferiore. Agitò appena le chiavi, poi se le infilò svelto in tasca.
“Le posso riprendere quando voglio.”
“Non ne dubito” rispose Charles, alzandosi lentamente.
Erik non si spostò subito. Vide che Charles si stava mordendo la lingua e lo fissava di nuovo, come se non
aspettasse altro che dirgli qualcosa. Qualche sciocchezza, senza dubbio, era ubriaco.
Aspettava solo il momento di sorprenderlo ancora.
“Andiamo?” chiese, indicando con un cenno della testa il fondo del corridoio.
Charles sembrò riscuotersi solo dopo un lungo momento, la mano destra in tasca, come se temesse sul serio
che Erik gli avrebbe sottratto le sue chiavi, così, impunemente.
“Andiamo.”
Non parlarono per tutto il breve tragitto. Charles era di nuovo scivolato nel silenzio apatico e negli sguardi
sfuggenti al pavimento. Nel silenzio, Erik si rese conto di essere molto stanco, così tanto che persino
addormentarsi gli sarebbe costato fatica. Che peccato. Ultimamente, credeva che tutti i suoi problemi
di sonno si fossero risolti.
Non voleva riprendere a sprecare le ore guardando i soffitti, cercando le forme delle ombre.
Arrivarono al nono piano, seguendo la ormai familiare strada che portava alle camere 200-239.
Erik preferiva prendere le camere vicine di numero, per comodità, aveva spiegato a Charles.
Non aveva specificato quali fossero queste comodità. Charles non gliele aveva chieste. Effettivamente,
nemmeno lui sapeva quali fossero. Era una banalità come un’altra da dire.
Anche se questa volta non gli era andata benissimo. Avevano più di dieci numeri di distanza.
Passarono davanti alla 203, la camera di Erik, e lui continuò a camminare.
Charles lo guardò appena, smarrito.
“Ti accompagno” disse Erik a voce bassa, rallentando il passo. Charles abbassò un poco le palpebre,
rassegnato. Arrivarono quasi davanti alla 221, quando Erik gli chiese se stava meglio.
“Sì e no” replicò Charles stancamente, fermandosi.  Guardò in direzione della sua porta,
poi ancora Erik. Aveva cercato di non pensarci, cominciò a dirsi, sentendo la pelle formicolare e farsi rossa.
Si era impegnato, non è vero? Lo aveva fatto, era stato bravo.
Non era così? Ci aveva provato a non immaginarlo più.
E sembrava essere tornato tutto normale, ma man mano che si erano avvicinati al Four Season,
tutto ciò che Charles aveva realizzato nel corso della serata, aveva ripreso a comporsi davanti ai
suoi occhi, fino a smarrirlo.
Adesso era in un limbo così incerto che riusciva solo a vedere il colore sanguigno e pulsante della
moquette. Cosa doveva dire? Cosa doveva fare?
Che importava, se ora era come se non avesse metabolizzato niente?
Era colpa di Sheila. Se fosse stata più brava, se fosse stata più seducente. Meno drammatica, meno teatrale.
Più vera. Era la verità che cercava Charles, la risposta. Le cose chiare, certe, giuste. Normali.
Quello che realizzava invece, mentre i suoi passi su quel percorso color sangue diventavano solo più lenti,
non lo era. Era lontano dalla sincerità, dalle cose corrette che andavano fatte.
Era una considerazione troppo abbagliante, non riusciva a vederla bene. Poteva essere falsa e ingannarlo.
Amico mio.
La soluzione era semplice. Dargli le sue chiavi, salutarlo e andare a dormire.
Ma non era quello che voleva fare. C’era un’altra possibilità che a cui riusciva
pensare senza riflettere. Quella che lo faceva comportare così. Non voleva conviverci di nascosto,
non voleva ritrovarsi nella posizione di mentirgli, di fingere.
Era così che cominciava? Non poteva essere vero. Teneva gli occhi sbarrati e si sentiva la faccia più scarlatta
della moquette. E continuava a pensarci.
Lui non era così. Era solo perché Erik era attraente eppure gli somigliava e perché era ubriaco, no?
Era così. Doveva esserlo. Charles non era così.
E tuttavia non sarebbe riuscito a far finta di niente. Tanto più ora che Erik era al suo fianco.
E ci aveva pensato metà della sera, arrabbiato, furioso, annoiato e tutto il resto. Aveva sempre voluto passare
il tempo con lui.
Era spaventoso perché era tutto vero e avrebbe solo voluto toccarlo. Era così facile, così spontaneo da credere.
Non sapeva solo bene come fare. L’alcool gli forniva un’indefinita serie di possibilità. Lo affascinavano.
Chiamalo, diceva quel liquido confidente che gli scorreva in corpo. Aveva la voce uguale alla sua, pensò Charles
sorridendo, solo più dolce e rassicurante. Seducente. La voce della ragione che non si nascondeva, dietro porte
o giustificazioni. Era piacevole da sentire. Lo faceva sentire disponibile, estroverso, sicuro di sé.
Non gli faceva vedere che male c’era a provarci; nascondeva e sfumava le conseguenze.
Era la voce che gli aveva detto di comportarsi in quel modo nella hall, di guardare in quel modo Erik, con le
palpebre abbassate e gli occhi fissi su di lui.
Parlava sotto forma di pensieri istantanei. Veloci, quasi veritieri.
Amico mio. Anche Erik sa che è solo un lieve eufemismo, lo è diventato. Fai scivolare la mano nella sua, non è difficile.
Lui capirà. Lo sa. Prendigli il polso, fingi di porgergli le chiavi. E’ quello che vuole anche lui. Fingi.
La bellezza cerca bellezza, ma quando chiude gli occhi vede te. Vede me. Ne dubiti? Prova a immaginarlo.
E’ qualcosa che vorresti fare. Lo vuole anche lui. Chi c’era al posto di Sheila fra le tue gambe? Non devi leggergli nella
mente, puoi fare una cosa così facile anche da umano. Provaci.
Perché credi sia così gentile? Con te, proprio con te?
Perché credi che abbia quell’espressione, quel modo di parlare… Adorabile.  Nessuno lo dice così spesso.
E lo dice solo a te. Solo a me.

Non essere ansioso. Charles non lo era più. Ascoltare quello che gli diceva l’istinto non poteva essere così
sbagliato per una volta…
Bastava prendergli la mano, stringerla nella sua intrecciando le dita e lasciar scivolare quel tempo alcolico
così lento, così a mezz’aria. Non doveva controllarlo. Non doveva pensare. Guardò la mano di Erik, chiara
contro la stoffa nera, come se dovesse metterla a fuoco. Riusciva a visualizzare perfettamente il movimento…
“Com’era la ragazza?” gli chiese Erik all’improvviso.
Charles sbarrò gli occhi, bloccandosi.  “Come?”
Erik si toccò il colletto con due dita. “Hai del rosso. Qui.”
Charles non controllò. Lo fissò, sentendo la pelle accaldata farsi lentamente fredda. Sapeva cosa aveva fatto lui.
La voce alcolica tacque. Quindi prima Erik gli aveva mentito, rifletté, contraendo appena le dita con cui avrebbe
voluto stringere la mano di Erik e…. Rabbrividì impercettibilmente. Era una fortuna che Erik non potesse
leggergli nella mente. Avrebbe visto cosa pensava. Avrebbe saputo cosa stava pensando mentre lo faceva con
Sheila. Avrebbe visto sé stesso. Ora sembrava di nuovo qualcosa di disturbante.
“Non era proprio la sua ragazza” spiegò, lentamente.
Erik rise. “Certo. Com’era?”
“Carina” replicò Charles, sfregandosi il naso con la manica. “Perché? Piaceva anche a te?” gli domandò, cercando
di ignorare i bagliori ondeggianti delle applique alle pareti. E la rabbia che cominciava a riaffiorare.
Perché Erik non gliel’aveva detto subito? Perché ancora insisteva con quei giochetti?
E perché lui era stato zitto? Avrebbe dovuto dirglielo, subito. Dirgli che sì, era stato con Sheila, la ragazza di Howie.
Sbatterglielo in faccia, che Sheila era incredibile. Una delle serate migliori della sua vita, una delle ragazze, una
delle scopate migliori della sua vita. Tra le tante, naturalmente.
Perché sì, lui, Charles era proprio fatto così. Ragazze, Sheila. Ne era proprio valsa la pena. E gli era così piaciuto.
Tanto. Anche a lei.
Quando invece aveva chiuso gli occhi e pensato a tutt’altro.
“Solo curiosità” spiegò Erik alzando le spalle.
Charles l‘osservò, ma Erik era di nuovo il solito, controllato, distante. Avrebbe voluto chiedergli perché, ma i
fiori della tappezzeria del corridoio, alle spalle di Erik, si contorcevano tanto da distrarlo, in volute e spire,
verdi e rosa. Come un’allucinazione. Abbassò gli occhi, cercando di scacciare il fastidio e appena lo fece,
si sentì vacillare di nuovo.
“Charles?”
Erik lo afferrò per il braccio, come per trattenerlo. Ma Charles non stava cadendo; si scostò dalla sua presa
e fece un passo all’indietro, guardandolo con gli occhi spalancati.  Era come se tutto  fosse tornato alla
giusta velocità. Chiaro, comprensibile e lineare nella sua mente dopo la confusione. Era da Oxford che
non provava quella sensazione, associata al bere. Era confortante. L’alcool ingannava, vero, mai poi
tutto tornava limpido e lui, libero.
Immaginava Erik con lui. Ma quell’Erik nella sua testa era diverso da quello che era lì, adesso. O no?
Era tutto un inganno, una distorsione, sì?
Erik lo stava osservando. Aveva di nuovo quella faccia inespressiva, quella che Charles non capiva. Sentiva
di odiarla, non era umana.
Come faceva ad essere  così controllato? Sapeva che Erik poteva arrabbiarsi, offendersi e divertirsi, non c‘era
più bisogno che non facesse trasparire nulla mentre era con lui. Aveva smesso da giorni. Doveva smetterla,
poteva fidarsi di lui.
Poteva essere serio e gentile, santo cielo. Forse caustico, ma piacevole. Inebriante fino a soffocare,
Charles lo sapeva. Probabilmente, provava tutto quello che provavano le persone normali, come Charles.
Nonostante fosse sempre pronto a negarlo.
Si era arrabbiato e divertito con lui quella sera. Aveva colpito Howie quando era stato esasperato dall’
ennesimo attacco a Charles. E non avrebbe negato perchè. Non per sé stesso. Per Charles.
Charles l’aveva capito senza che Erik glielo dicesse, non ce n’era stato bisogno. Era così percepibile.
Quello che provava Erik, riusciva ad attraversarlo, come se fosse un‘estensione di lui.
Forse sì, era solo un poco più addolorato e rabbioso della media ma ora, ai sensi offuscati di Charles, questa
appariva come una scusa insufficiente. Voleva solo stare con lui, vedere com’era. E voleva mettere almeno
tre porte tra lui e quell’ammissione. Erano due possibilità e coesistevano, insieme. Le cose opposte a volte
non si eliminavano, coesistevano, semplicemente. Però… Però…
Rischiava d’impazzire, di marcirgli dentro, se non riusciva a dirglielo… Ma Erik rendeva le cose così difficili.
Non poteva essere così controllato. Se erano tanto simili come Erik gli aveva detto, se era davvero come lui,
avrebbe dovuto bere e divertirsi, con lui.
Avrebbe dovuto trovarsi una ragazza con cui finire la serata; anche se, agli occhi lucidi di Charles, continuava
a sembrare tanto sbagliato.
Avrebbe dovuto fare la persona normale. Come lui.
Ma ormai lo sapeva. Non l’avrebbe mai fatto, non ce lo vedeva Erik a provarci con la ragazza di Howie perché
lo trovava odioso. Era più drastico, era troppo, troppo... Era una maledetta differenza d’aspetto, di carattere,
no? Anche se Erik, con Sheila, non avrebbe nemmeno dovuto provarci, casomai avesse voluto...
Charles era riuscito a trattarla così anche perché vedeva Erik nei pensieri di lei. Ed era comunque e sempre
nei suoi. Era come essere perseguitato.
Avrebbe dovuto capire quello che voleva Charles. Doveva averlo capito da tempo. Forse lo sapeva meglio di lui.
Forse era proprio quello che voleva. Charles si fissò sulle spirali di edera e rose. Se l’avesse guardato negli occhi
avrebbe capito tutto e non serviva certo leggere nella mente. Perché si era ridotto così?
Erano amici. Poteva avere tutti i problemi del mondo, ma Erik era solo suo amico. Charles lo considerava così,
era quello che intendeva con amico mio.
Non poteva essere falso. A Charles non piaceva mentire.
“Charles, per favore. Non è mia intenzione…”
Le sue parole scemarono nel nulla. Erik non comprendeva perché Charles si fosse bloccato così, in mezzo al corridoio.
Non lo stava nemmeno più guardando direttamente; appariva solo stralunato e fuori dal mondo.
Nonostante lui stesso si sentisse stanco e un po’ intontito, sapeva che lo avrebbe accompagnato fino in camera,
perché non sembrava affatto stare bene. Non era più così divertente.
Si avvicinò di nuovo e Charles alzò il braccio, come se volesse colpirlo. Erik lo parò e vide che stava ridendo.
Forse stava sbagliando, pensò. Charles era ubriaco ma stava bene. Era di nuovo allegro. Mutevole, cambiava
umore troppo velocemente, forse presto anche lui si sarebbe stancato.
“Non riuscirò mai a coglierti di sorpresa?” chiese Charles, scrutandolo.
Erik non capì le ultime parole distintamente. Suonava come un vago mormorio che lo fece sorridere.
Charles abbassò un poco le palpebre, guardandolo carico di diffidenza. “Stai ridendo di me?”
“Je ne voudrais pas, jamais” disse Erik d’istinto.
Charles socchiuse le labbra. Aveva ancora quell’espressione sospettosa, che poi sparì , sostituita da un sorriso
più mite. Chinò il capo e fece un passo verso di lui.
“Touché” disse Charles, ma prima che Erik potesse ridere del suo magro francese, mormorò: 
“Ne pensez pas que je n'oublierai ce sourire. Il n'est pas approprié venant de vous, mon ami.”
 Charles batté le palpebre, azzardando una smorfia soddisfatta. Anche un po’ perfida, non da lui.
Sorpreso, Erik scoprì i denti in un sorriso, forse, agli occhi ubriachi di Charles, il migliore avesse visto in
tutta la serata.
“Dove hai..?”
“Scuole costose” sbottò Charles, riportando lo spettro di Howie e dei compagni della Beauvouir nella conversazione.
Però Erik non sembrò prendersela, anzi. “Soldi ben spesi, immagino” disse e fece per tirargli una pacca sul braccio.
Charles provò a bloccarlo, all’altezza della spalla, sbilanciandosi però all’indietro. Erik allora lo bloccò per il polso,
sicuro che questa volta sarebbe caduto. Lanciò un’occhiata rapida lungo il corridoio.
Non c’era nessuno e pregò che nessuno fosse particolarmente attento, dietro le file di porte bianche.
Un ubriaco molesto era scusabile, due adulti che fingevano di picchiarsi solo perché gli andava, era un’altra
questione. Ma non lo lasciò andare.
“Basta, , basta…” mugolò Charles, ridendo, sentendo la stretta di Erik sui polsi. Però rideva ed Erik anche,
perché Charles con gli occhi lucidi e quell’espressione vaga sulla faccia era qualcosa che non aveva mai visto.
“Basta, dai” disse ancora Charles. Erik lo lasciò andare, sorridendogli amichevolmente.
“Avresti dovuto portarti quella ragazza.”
“No, non è vero.”
“Charles” disse, lanciandogli un’occhiata abbastanza significativa che lo fece quasi arrabbiare:
“Je sais que c'est vrai.”
“Non lo è, Erik” disse Charles incupito. Lasciò che il sorriso di Erik sparisse. Se Erik avesse potuto, avrebbe capito
anche perché. Se Erik avesse potuto, avrebbe capito perché Charles stava così.
Eppure Erik doveva saperlo. Come  faceva ad ignorarlo? Era colpa delle sue azioni se Charles si era trovato a
reagire, se ora aveva in testa certe cose.
Forse Erik era … contagioso?
Sicuro. Proprio come una malattia. Alcuni dicevano che era una malattia. Il suo patrigno pensava che lo fosse,
certo. Una schifosa malattia da deviati. Charles era così? Non si sentiva così? Un deviato.
Ignaro dei pensieri di Charles, Erik sospirò, mettendosi le mani in tasca e inclinando il capo. Era dispiaciuto per
Charles, di nuovo, ma considerava la conversazione conclusa.
“Va’ a dormire.”
Charles s‘infilò le mani in tasca. Strinse le chiavi nel palmo, quasi conficcandosele nella pelle, ma non gliele porse.
Non le tirò nemmeno fuori. Si limitò a fissarlo. Lo fissava sempre, guardava sempre e solo Erik. Lo prese per il braccio,
come se volesse fermarlo. Anche se Erik non se ne stava andando affatto.
“Erik.“
“Charles?”
“Non sono come loro.”
Sperava capisse a cosa si riferiva. Non era come Howie e i suoi amici, ecco. Erik annuì. Avrebbe voluto esserlo però.
Così avrebbe pensato alla ragazza mentre era con lei. Ad annoiarsi e a divertirsi in cose normali.
Non al disegno degli zigomi di Erik. Non al modo in cui lo guardava quando parlavano. Al modo in cui sorrideva.
Davvero Erik non se ne rendeva conto? O faceva solo finta di ignorarlo? Pensava le stesse cose, su di lui?
Se lo considerava alla sua altezza, doveva essere così. Charles lo desiderava disperatamente. Scacciava persino
la paura del non essere normale, dell’essere un deviato. Non importava più.
Solo… Essere come lui. Uguale a lui.
Erik gli sorrise, ancora. “Lo so.”
Charles accennò un debole sorriso. Non doveva guardarlo così. Non doveva parlargli così.
Gli amici non si parlavano così, si ripeté, ci doveva essere una differenza.
Perché Erik la voleva rendere così sottile? Solo perché pensava solo a sé stesso, rifletté Charles.
Era il suo pensare solo a sé stesso che lo faceva stare così male. Non vedeva a che conseguenze portava?
“E non perché loro sono umani.”
Questa volta lo fece ridere davvero, di nuovo. Charles fu soddisfatto, guardandolo abbassare un po’ la testa e poi
rialzare gli occhi, sinceramente divertiti, su di lui. Era un’espressione che Erik assumeva spesso.
Charles la conosceva, l‘aveva già vista. Solo con lui, solo da quando erano partiti.
E perché aveva sempre il suo viso sempre in mente. Gli piaceva contemplarlo.
Le persone attraenti cercavano sempre le persone attraenti. Le persone normali si limitavano a guardarle.
E tuttavia, quando deglutì e la mano aggrappata a Erik sembrò pesare tantissimo, si stupì, quasi avesse fatto
un gesto irrispettoso; Charles non era affatto a suo agio, anche se era stato lui a richiamare la sua attenzione così.
Nella sua immaginazione era molto più sciolto, sospettosamente naturale. Solo per Erik sembrava esserlo.
Forse, l’essere salvato in mare da lui lo rendeva immune dal vago fastidio che Charles, invece, provava
ad essere toccato da persone con cui aveva scarsa confidenza, anche se di loro poteva conoscere i pensieri
più reconditi. Anche se ora, era stato lui a cercarlo.
Non capì perché Erik fosse più tranquillo di lui, come se fosse normale, come se fossero vecchi amici.
Ne era invidioso. Eppure era giusto, era così, no?
Amico mio. Era così che lo chiamava. E non aveva cominciato Erik a farlo. Erik l’aveva accettato e ne
sembrava felice. Amico mio. Il tempo forse non contava.
Non così. Solo per una sera.
Perché Erik era suo amico. Il modo di parlare, di guardare, di pensare… era solo lui. Lo affascinava perché
era così e questo non portava necessariamente a quello che Charles credeva di volere adesso.
Anche se adesso quella parola, amico, sembrava troppo riduttiva per quello che cercava di dire ad Erik
con gli occhi, vergognandosi sempre di più. Amico mio sembrava il prologo di una menzogna.
Se Erik avesse salvato lui, -e qui ebbe la conferma di essere pesantemente ubriaco-, se Erik avesse salvato lui,
tutto sarebbe andato a posto, e non importava che quei suoi pensieri non avessero senso.
Charles fece per abbassare il braccio, ma aveva appena deciso di farlo, che ci ripensò. Cosa c’era di diverso?
Non era stato affatto un problema bere, cercare di divertirsi, infilarsi tra le gambe di Sheila e lasciarsi toccare
da lei. Non sarebbe stato un problema nemmeno per Erik; però Erik non l’aveva fatto.
Era quello a confonderlo, doveva essere quello.
L’aveva fatto lui, desiderando di fare tutt‘altro. Se le cose avessero seguito un corso normale, pensava Charles,
avrebbe fatto sesso con lei, lasciando perdere Erik e i suoi stessi impegni, le sue promesse, la CIA, e Moira e tutto
il resto, per un po’… Lasciando perdere Erik.
E continuava a rifiutarsi di leggergli nella mente, perché Charles non voleva rovinare tutto.
Era una verità troppo intricata per risolverla così, renderla spiegabile e semplice.
“Ti stavi annoiando?” gli domandò in fretta.
“Come?”
Charles si avvicinò, flettendo le dita sulla stoffa scura della manica.
“Quando ero con la ragazza di Howie…”
“Allora era davvero la sua ragazza” replicò Erik, accennando un mezzo sorriso.
“Non cambiare argomento” continuò Charles, serio, distogliendo appena lo sguardo da lui. La tappezzeria ad
edera e fiori poteva anche fondersi, non era quello che a Charles interessava. “Perché non mi hai cercato?”
Il sorriso di Erik si restrinse e poi sparì del tutto. Aggrottò appena la fronte, guardandolo interrogativo.
“Come?”
“Perché…?”
Charles sapeva qual era la risposta. La immaginava. Perché la temeva.
Perché non avevo bisogno di te, avrebbe detto Erik. Charles aveva bisogno che lo dicesse.
Erik si prese la fronte tra le dita. Stava sorridendo di nuovo, come se non capisse. Faceva finta, pensò Charles,
faceva certamente finta, Erik era più intelligente di così.
“Perché sapevo dov‘eri, Charles.”
“No.”
“Ma te lo sto dicendo adesso.”
“No,” Charles scosse la testa, indicandosi il colletto.
“Tu non lo sapevi. L’hai capito solo adesso, Erik, solo quando hai visto…”
“Abbassa la voce, Charles.”
“No” ripeté bisbigliando piano adesso, rischiando di sembrare un pazzo, con lo sguardo fisso. “Non è vero.”
“Charles, non essere..” mise la mano sulla sua, forse solo per allontanarlo. “Va’ a dormire.”
“Perché non mi hai cercato?” chiese, in un tono che voleva essere ragionevole. Sembrava che la vergogna
e il senso di ciò che era opportuno non contassero più nulla. Charles voleva sapere. Sembrava così importante.
Erik si passò una mano sul viso, vagamente esasperato. “Charles, non costringermi a dover…”
Si liberò dalla sua stretta. Poi la sua espressione divenne stranamente fredda.
“Ho visto che tu andavi con lei. Perché avrei dovuto cercarti?” Erik sfoderò il suo sorriso affilato. “E comunque,
non ha alcuna importanza.”
Charles fu attraversato da un fremito, quasi riscuotendosi, gli occhi fissi in quelli di Erik. Era la cosa più
ragionevole del mondo. Eppure sembrava così sbagliata. Perché Erik avrebbe dovuto impedirglielo.
Charles non voleva lasciarlo da solo e poi... E poi era Erik ad essere sparito, era Erik che non era più tornato
al tavolo. Era Erik che l’aveva lasciato da solo, anche se gli aveva detto che gli spiaceva. Giusto?
Charles l’aveva aspettato ed Erik non era più tornato… non era andata così? I suoi ricordi erano tanto confusi.
Erik si era alzato. Lui aveva continuato a bere … Lui lo aspettava, non era andata così. Erik si sbagliava.
Avrebbe voluto essere ancora seduto a quel tavolo per dimostrarglielo.
Forse Erik non l’avrebbe guardato così, adesso.
“Perché non mi hai fermato?” mormorò. La voce gli uscì così bassa che pensò che presto non avrebbe avuta più.
E avrebbe tanto voluto urlare di rabbia quando Erik si mise a ridergli in faccia, abbassando appena la testa.
Smise subito però, quando si accorse dell’espressione mortificata di Charles.
“Charles, che…” Erik fletté appena le dita, corrugando un poco la fronte. “Che stai dicendo?”
“Però…” Charles inspirò. Poi chiese, indifferente alle parole di Erik: “L’avresti baciata?”
“Cosa? Charles…”
“Quello che ti ho chiesto, Erik.”
Erik sembrava spazientito. “Charles. Non voglio parlare con te, non così. Che importanza…”
Charles lo afferrò per le spalle, gentilmente, scuotendolo appena. Cercando di sottrarsi alla sua stretta, Erik fece
un verso divertito, quasi sprezzante e distolse lo sguardo. “Non ha senso, perché chiedi…”
“L’avresti baciata? Se fossi stato al mio posto, l‘avresti baciata?” insistette Charles.
“Charles.” Ora Erik sembrava davvero irritato. “Che differenza fa’?”
Charles sorrise. Cercava di essere disinvolto, di formulare una scusa sensata per una domanda che alle orecchie di
Erik non lo era. Aveva visto Erik cambiare espressione più di una volta, in quei pochi minuti.
Era cambiato qualcosa in Erik, e Charles non aveva nemmeno dovuto leggergli nella mente. Doveva solo dargli
fastidio, come se dovesse stuzzicarlo, ancora. Sempre. Non aveva nemmeno paura che si arrabbiasse con lui,
lo avrebbe sopportato. Era tutto vero.
Non serviva leggere nella mente.
“Cosa te ne importa?” chiese ancora Erik, ancora senza guardarlo. Ma la sua voce era cambiata; era divertito,
era gentile. Accondiscendente, perché quelli per lui erano solo vaneggiamenti. Per Erik, Charles era solo ubriaco
e abbastanza confuso da qualcosa che non capiva davvero. Perché non gli interessava, perché non doveva
coinvolgere Charles. Doveva starne fuori.
E allora Charles lo cinse con le braccia. Chiuse gli occhi, mordendosi le labbra, cercando di cancellare il suo
stesso sorriso furbo. Si vergognò di sé stesso, perché se  fosse stato sobrio ci sarebbe stata solo una parola per
etichettare quello che stava facendo.
Lo sentì dire qualcosa, forse ridere. Ma non era un problema, Erik sapeva che era ubriaco.
Però era vero. Ora il fastidio era scomparso e c‘era solo Erik contro di lui. Immaginò di chiedergli di
abbracciarlo a sua volta, ma sapeva che non ci sarebbe riuscito, nemmeno dopo un altro paio di bicchieri,
anche se riusciva immaginarsi inginocchiato davanti a lui, o il contrario e un infinito numero di scenari
che l‘avevano turbato e appagato mentre era con Sheila. Gli sembrava ancora strano, dopotutto,
se non era nella sua testa.
La verità era che presto il fastidio, il capire che stava sbagliando…
Sarebbe arrivato, lo stava quasi aspettando. Doveva succedere.
Se non altro -e si concentrò su quello- adesso sapeva che Erik aveva addosso persino un profumo,
perché non capiva cos’altro potesse essere quell’odore fresco, quasi marino, vagamente dolce.
Non l’aveva mai sentito. Solo adesso mentre gli era così vicino, quasi gli lacrimavano gli occhi.
Lo strinse ancora di più, come se dovesse aggrapparsi. Voleva che Erik facesse qualcosa.
Che si imbarazzasse, che non fosse sempre così composto ed impassibile. Ma fu Charles a sussultare,
non Erik. Era praticamente contro di lui, la testa sulla sua spalla.
“Charles?”
Che pensasse pure che era ubriaco e molesto, non importava. Era una scusa validissima, anche se falsa
e non vera per quello che stava facendo adesso.
Si scostò giusto un po’ quando Erik piegò il capo verso di lui, quanto bastava per guardarlo.
Charles cercò di imitare l’espressione imperturbabile che ad Erik riusciva così bene, senza rispondergli.
“Charles. Che stai…”
Deviato, fu tutto ciò che gli venne in mente, posando in risposta il capo sulla spalla di Erik, ancora.
Doveva allontanarsi da lui, aveva combinato già abbastanza. Era colpa di Erik, se era stato costretto
a concludere la serata. E per quanto poteva saperne, magari adesso era nel giusto, anche se il cuore
stava battendo come un cronometro implacabile.
Era quello che anche Erik voleva. Ce l’aveva negli occhi, a Charles bastava solo pensarci. Sentiva le
mani di Erik sulla schiena, ma anche che non cercava di allontanarlo. Lo stringeva e basta e gli diceva
solo di smetterla e di allontanarsi, e non rideva più e non si scostava. Solo se per una sera… pensò Charles.
Era come il verso di una canzone. Sembrava essere dentro un brutto copione. Ma Erik e lui erano veri e
non recitavano, non come Sheila.
Erano migliori di lei, migliori di Howie, migliori di ognuno di loro.
Era una fortuna sorprendente avere Erik. Con lui non doveva voler somigliare a nessuno. Non doveva
adeguarsi.  Non doveva far finta di essere al livello di nessuno. Per una volta, poteva  solo essere il migliore.
Ciò che era.
C’erano davvero momenti in cui la realtà coincideva con l’immaginazione.
Se solo Erik avesse messo una di quelle sue maglie scure a collo alto, pensò Charles inspirando.
Avrebbe voluto bere ancora. Non era stato affatto difficile abbassargli il colletto di quella camicia,
di quel maledetto e funereo completo elegante che lo rendeva così diverso da lui, - così attraente ripensò
Charles. Avrebbe dovuto farsi curare, era troppo.. -, come se già non ci fossero delle ovvie differenze.
Le mani di Erik si contrassero sulle sue scapole, ma ancora non lo allontanava, e Charles era solo leggero e
soddisfatto. Era così semplice, per niente sbagliato.
Era quello che voleva Erik. Lo faceva per lui.
Quando Erik chiudeva gli occhi pensava a lui. Non era così? Sembrava proprio così.
“Charles. Smettila …”
Deviato, continuò a pensare Charles senza sentirsi davvero colpevole, mentre sfregava la bocca contro la
pelle del collo di Erik, inspirando piano, socchiudendo le labbra. E non capiva se quel pensiero era dentro di
lui o dentro la testa di Erik, perché quando cominciò a baciargli il collo, gli occhi chiusi, perché non avrebbe
mai avuto il coraggio di vedere quello che stava facendo, tutto sembrava solo molto semplice e lontano.
Non voleva conoscerne più il perché, e nemmeno perché ora avessero indietreggiato contro la parete e le
mani di Erik fossero ancora strette a lui, come se lo assecondasse - lo stava davvero assecondando, realizzò,
sicuro, perché non dovrebbe? -, e stesse respirando in quel modo roco, ascoltando sé stesso e non sentendo
nient‘altro, lottando contro la sensazione famelica che lo spingeva a mordere piano la sua pelle, a sfregare
le labbra sulla sua gola.
Erik voleva solo qualcuno come lui, ecco. Qualcuno come Charles, giusto?
E Charles  era convinto che non ci fosse nulla di strano, ora. Voleva solo dargli fastidio. Voleva solo che reagisse,
perché non era possibile che Erik non si sentisse vivo in niente. Perché non poteva non capirlo?
Lui, Charles, lo vedeva così chiaramente. Non era quello che Erik voleva?
“Che stai facendo?”
Ignorandolo, ignorando le sue mani strette ora sulle sue spalle, Erik provò svogliatamente ad allontanarlo.
Charles però si schiacciò ancora contro di lui, le mani appoggiate alla parete, come se stesse -illuso- cercando
di bloccarlo.
Quella serata non gli aveva dato nessuna soddisfazione. Odiava Howie, odiava conoscere tutte le meschinità
che c’erano nella sua testa. Odiava dover essere sempre cordiale anche con gente simile, sempre corretto sempre
giusto, anche se era il ruolo migliore, quello che più gli si addiceva. Odiava Carter e Wade, e odiava quello che
era lui stesso, perché si erano dichiarati suoi amici. Charles non ne aveva mai avuti, ma come dirlo ad Erik?
Si dispiaceva che avessero dovuto incontrarli, perché Charles non voleva essere associato a loro.
Esistevano persone migliori, Charles era migliore di loro. E trascinato da quell’astio, aveva odiato anche la
ragazza. Perché era come se non fosse affatto cresciuto e, a ben guardare, sembrava proprio così.
Se solo, fin dal principio, avesse cercato Erik. Non sembrava così strano, con i sensi così offuscati.
Sembrava un desiderio così innocuo, così normale. Avrebbe voluto riderne, ma riusciva solo a pensare che
forse era questo il modo migliore per ripagarlo. Avrebbe sempre potuto cancellarglielo dalla mente, dopo.
Voleva solo provare. Non poteva essere pericoloso. Non poteva essere così terribile.
Avrebbe voluto convincere Erik che il mondo non era poi un posto insignificante e marcio, che c’erano cose
più grandi, vicine a ideali nobili e realizzabili. Avrebbe voluto capire perché Erik era tutto quello che lui non era,
avrebbe voluto incontrarlo prima.
Si rese conto che gli stava piacendo e si sentì così colpevole e sporco che  immaginò  le lacrime salirgli agli occhi,
cominciando a farneticare delle scuse. Ma ora tutto era lontano e semplice e lui era tranquillo e andava bene.
Avrebbe voluto dirgli tutto questo, ma riusciva solo a baciarlo, le labbra sulla sua gola, e a dire il suo nome,
come se lo stesse chiamando sottovoce, come per dirgli un segreto.
Avrebbe tanto desiderato sapere perché pensare tutto questo, sembrava fornire una motivazione a quello
che stava facendo, quando la mano di Erik lo prese saldamente per la nuca, facendolo trasalire.
Charles realizzò che -non riusciva a capacitarsene ma era così- l’avrebbe baciato sulla bocca, in quello stesso
momento. E non perché per un perverso istante, volesse capire cosa si provava a baciare qualcuno che non
era una donna, ma solo baciare Erik. Era qualcosa che non andava, qualcosa di incomprensibile a mente lucida,
ma per una volta Charles non voleva capire. Non sarebbe stato difficile.
Bastava sollevare un po’ il viso e guardarlo, cercando in lui una spiegazione. E così fece.
“Charles?”
Terribile, Erik sembrava quasi… Divertito. E la stretta sulle spalle ancora così poco decisa, come se trovasse
interessante l’idea di vedere fin dove Charles si sarebbe spinto. Allora tornò quasi lucido, si allontanò
appena e lo guardò negli occhi. Respirava così forte che era sorpreso che il petto non gli facesse male.
Si accorse di stare di nuovo stringendo la stoffa sulla schiena di Erik, allora distese le dita.
Anche se era ancora così, ancora troppo vicino a lui.
Forse avrebbe vomitato.
Gli occhi di Erik erano freddi come una stilettata di ghiaccio. Ancora.
L’occasione di baciarlo morì, se di occasione si era trattata. Charles comprese di essere finito.
L’improvvisa euforia si dissolse. Quell' ottenebrante tensione fatta di attesa e infinito piacere, come se
stesse per gettarsi nel vuoto, o fosse in attesa di qualcosa, scomparve. Eppure, sentiva ancora quell’odore
di aria gelida e dolce nelle narici e in gola, come se avesse rischiato di soffocare, respirandolo.
Era stordito dall’alcool, e cose così irrilevanti rimanevano impresse. Solitamente, non faceva mai caso a
certi dettagli, ma ora gli era rimasto solo quello.
Ed Erik, davanti a lui.
Sì, anche Charles era sorpreso da sé stesso, sì, prima o poi si sarebbe vergognato, e sì, presto avrebbe sentito
l’imbarazzo assalirlo. Ma ora tutto era immobile; giusto per qualche secondo, ancora un attimo, pregò Charles.
Se fosse rimasto tutto così fermo, non ci sarebbero state conseguenze. Lui sarebbe sopravvissuto, perché non
avrebbe dovuto affrontarlo. Cancellarglielo, cancellarglielo dalla mente…
Voleva, aveva voluto baciarlo. Sarebbe stato un gesto tanto facile e tanto assurdo insieme…
Non dovevo, non l‘avrei mai fatto davvero, pensò tuttavia Charles, vergognandosi di sé stesso, il respiro
ancora accelerato. Eppure accennò un sorriso, perché non sembrava poi tanto importante, non doveva
nessuna spiegazione ad Erik. Era stato lui a dargli l’occasione, no? Sapeva che gli era venuto in mente di
fare una cosa del genere -  E che quello che aveva fatto Charles equivaleva sia ad aggredirlo, accusarlo,
stare con lui, toccarlo, immaginarlo con una donna, perché sarebbe stato tutto uguale-,
mentre era con la ragazza di Howie. Forse ci pensava da tempo, troppo. Sempre.
Era colpa sua, di Erik; era troppo attraente.
Sapeva che erano settimane che avrebbe voluto sapere cosa si provava ad essere Erik.
Sapeva anche che quelle erano tutte scuse.
Solo un momento in più e sarebbe scivolato nel ridicolo. Ancora di più. Non c’era stato niente di veramente
prestabilito, però. Era durato tutto poco meno di trenta secondi e Charles sapeva che doveva solo esserne felice.
Ora le conseguenze sembravano pesare tantissimo.
Erano in un corridoio del Four Season, nono piano. Ed Erik era suo amico, il suo unico amico.
Non avrebbe più bevuto niente in vita sua però -non era vero, lo sapeva, ma ora sembrava la
promessa più concreta che potesse fare a sé stesso-, non avrebbe più considerato Erik più di quanto
meritasse e non si sarebbe certo fatto aiutare da lui. Non se questo era il risultato; provare impulsi
del genere era più che anormale e decisamente insano. Cose che non solo lo rendevano incosciente
ed inspiegabilmente felice, ma lo facevano apparire così diverso da sé stesso da potersi spaventare.
Desiderava sparire, perché quello non era lui. Sparire o supplicarlo, perché non voleva che finisse.
Aveva solo voluto metterlo in difficoltà e ora aveva compromesso tutto. Però, adesso…
Non aveva giustificazioni, pensò Charles ancora, con le tempie dolorosamente martellanti.
Eppure lo stava ancora guardando negli occhi. L’avrebbe volentieri ucciso. Sembrava proprio il tipo
di cosa per cui Erik poteva decidere di ucciderlo. O almeno provarci.
Charles avrebbe voluto ricordarsi come ci si scusava, ma sentiva di non aver più voce e il respiro era
ancora troppo affannoso.Ci avrebbe pensato tutta la notte, e non sarebbe bastato.
Avrebbe solo voluto bloccare il tempo. Avrebbe voluto controllare sé stesso. Avrebbe voluto controllare tutto.
Non gli era sembrava nulla di terribile, per ora. Lo era, sì. Ma per ora era solo importante.
Forse poteva evitarlo di cancellarglielo; solo provare a passarci sopra.
E solo quando sarebbe arrivata la mattina… arrivata mattina avrebbe potuto solo vergognarsi davvero,
sentirsi davvero colpevole, deviato o fare finta di niente.
Avrebbe dovuto fare quello che voleva Erik, andare al cinema. Perché così i suoi sogni sarebbero stati popolati
solo di angeli sterminatori, o di paurosi promontori frequentati da assassini senza scrupoli. Non di Erik.
Non del suo completo elegante, non della sensazione che si provava a sfregare le sue labbra sul suo collo e
di quell‘inspiegabile voglia di averne ancora.
Non del fatto che gli veniva da vomitare.
Domani non sarebbe stato più ubriaco, avrebbe potuto solo vergognarsi senza sentirsi compiaciuto ed esaltato.
Avrebbe dovuto calmare la sua di mente, la sua mente da vigliacco, perché sapeva, sapeva che aveva superato
un limite e d’ora in avanti ci avrebbe solo pensato imbarazzandosi, e odiando sé stesso.
Ma ora non ci riusciva. Non ora.
Cosa si provava a baciare qualcuno come te? Era un piacere perverso. Si chiese che cosa avrebbero detto il suo
patrigno, sua madre, Raven, chiunque.
Non era normale, ma nemmeno lui lo era davvero.
Era confuso. Non capiva come fosse successo, l‘aveva solo desiderato. Era un’altra parte di sé.
“Va’ a dormire” disse Erik, lanciando un’ occhiata veloce lungo il corridoio e tornando implacabilmente a guardarlo,
fisso.
Charles gli restituì uno sguardo vacuo. Lo invidiava. Nella sua di testa c’era troppa confusione e troppi desideri.
Dentro Erik solo cose definite, l’oblio, la conferma sicura della rabbia cieca. Charles non era così, però avrebbe
voluto esserlo. Deviato, si disse. Schifoso deviato. Lo pensava, ma non ci credeva, non riusciva a pentirsi,
a dispiacersi.  Avrebbe dovuto concludere con la ragazza, rifletté, sostenendo lo sguardo fermo di Erik.
Portarsela in camera e fare quello che faceva un uomo con una donna. Non lasciarsi andare ad un impulso
famelico, alle fantasie, alimentate dal bere e dal fastidio e da tutto quello che lui, Charles, non era.
Invece si era preoccupato di Erik. Santo cielo, Erik era un suo amico. Gli amici non facevano quelle cose a cui
Charles pensava adesso. Non credeva nemmeno di riuscire a pensarle certe cose. Ebbe la certezza che non sarebbe
mai più riuscito ad addormentarsi.
Di Erik sapeva tutto e niente. Dell’Erik non legato alla vendetta, la parte basica di Erik, Charles conosceva
molto poco.  E quel conoscerlo così poco era la risposta del perché ora Erik non gli diceva niente, e si limitava
a guardarlo fisso, come se a sua volta potesse indovinarne i pensieri. Meglio di no. Avrebbe distrutto Erik.
Charles comprese anche di sapere molto poco anche di sé stesso.
L’avrebbe baciato, e non perché quel gesto avesse un significato particolare.  Avrebbe potuto, allo stesso modo,
entrargli nella mente e capire tutto quello che voleva, distruggere ogni suo ricordo e renderlo innocuo;
uguale a tutti gli altri. Sarebbe stato solo giusto, sentiva che sarebbe stata la cosa migliore per lui.
Ma non sarebbe mai riuscito a tentare qualcosa del genere su Erik.
Nemmeno ora che le conseguenze apparivano lontane, ma sentiva ancora le mani di Erik tenerlo per le spalle,
indeciso tra l’allontanarlo e il tenerlo fermo e Charles, Charles non riusciva a dispiacersi davvero.
Aveva  le labbra arrossate e le membra formicolanti non per la stanchezza, non per il bere, non per la rabbia.
Non era stato così sbagliato, anche se gli occhi di Erik erano così freddi e seri. Non se la sentiva di dispiacersi.
Voleva solo provare, si disse, solo provare, proprio così.
Charles si morse le labbra. Sapeva di avere gli occhi lucidi, di essere accaldato e con l’imbarazzo più profondo
sul viso. E di non essere in grado di dire niente. Staccò le braccia da Erik e provò a distogliere lo sguardo da
quello fermo e implacabile di lui, e allora Erik lo afferrò, per la nuca e per i fianchi e lo tirò contro di sé,
lasciandosi andare contro la parete, soffocando un gemito. Charles sbarrò gli occhi. Dapprima non capì.
Poi, Erik cominciò a baciarlo. Lo baciò sulle tempie, sulla fronte, sugli occhi, indugiando. Sulle guance e sulla gola,
come se avesse fretta, il fruscio della camicia contro la stoffa del suo completo, del suo soprabito.
Erik gli disse di smetterla, che aveva tirato troppo la corda, che lo sapeva, che lo voleva, che non era come gli
altri. Lo supplicò di andarsene, perché non era la cosa giusta, eppure continuò a stringerlo per i vestiti,
come se fosse arrabbiato e volesse solo strattonarlo fino a farlo cadere e calpestarlo. O trattenerlo, solo più vicino,
pregandolo. Che non era corretto, ma non poteva farne a meno, non ne poteva più. Lo pregò di rimanere con lui,
gli disse che andava bene, come se dovesse rassicurarlo. Qualsiasi cosa. Solo per una sera, solo per una sera…
Sei così.. Seì così..
Erano solo frasi spezzate e Charles, stretto contro di lui, lentamente si rese conto che non avrebbe voluto
mai saperle. Non voleva sentirle da Erik, per quanto queste lo affascinassero, facendogli contrarre lo stomaco.
Era schiacciato dalla sorpresa, la sorpresa era solo un metallico sapore in gola che gli impediva di parlare.
Lui era solo uno stupido che aveva sbagliato tutto. Si comportava come se le persone fossero sagome da
muovere a piacimento. Era terribile. L’aveva fatto anche con Erik. Erik non poteva essere così.
Erik non era così.
Erik gli infilò le mani tra i capelli e cercò i suoi occhi; gli disse che l’aveva immaginato. Immaginato cosa?
Pensò Charles allarmato, improvvisamente riscuotendosi, comprendendo e odiando sé stesso, stretto ad Erik,
provando stancamente a divincolarsi e rimanendo inevitabilmente incastrato a lui.
Cosa aveva fatto? Era una trappola troppo ben congegnata e ora voleva solo scappare. Aveva confuso gentilezza
e amicizia, non era forse così? Uno sbaglio.
Immaginare come avrebbe reagito, e immaginare come lui stesso si sarebbe comportato…
Non era poi così divertente, anche se parte di lui pensava a lasciarsi andare. Per Charles, era stato come giocare
ad un gioco alterato e distorto, ma Erik, Erik era serio. Così serio che lo accarezzava con gentilezza.
Deviato? Era così che succedeva? Ma era uguale, sempre uguale, c’era solo quell’odiosa urgenza, quel sentirsi
sporco e sbagliato.
Tutto si riduceva a quello, eppure le mani di Erik sui fianchi non erano così spiacevoli, nemmeno le sue labbra
sulla pelle. Era come avere la febbre, di colpo. Erik aveva provato lo stesso, quando l’aveva fatto lui? Santo cielo,
era lui che gli aveva fatto questo? Era Erik eppure non lo era più, pensò Charles, gemendo piano.
Era come se si fosse trasformato in qualcos’altro, qualcosa di sconosciuto, ancora. Era inafferrabile, sorprendente.
E la sua voce non era più così fredda. E lo affascinava e lo confondeva e avrebbe voluto lasciarlo annegare e
salvarlo infinite volte.
Non credeva fosse possibile. Doveva calmarsi, era ancora ubriaco.
Aveva voluto sentire Erik dire il suo nome; ora ne aveva piena la testa.
Un esorcismo, ecco, ecco di cosa aveva bisogno. Entrambi.
Era lui che aveva fatto questo, pensò incrociando gli occhi di Erik. Se non avesse mai…
Forse era meglio non sapere. Distogliendo lo sguardo, Charles chinò la testa, sentendo poi le sue labbra sul
suo orecchio, baciarlo dolcemente, facendolo sospirare. Stavano sbagliando. Stava sbagliando.
Tutto portava a questo, sì?
Gli mise una mano sul viso, voleva allontanarlo e accarezzarlo, per favore Erik. Ne aveva abbastanza,
non ne avrebbe mai avuto abbastanza, ma erano andati troppo oltre.
E non riusciva nemmeno a pensare Smettila. Che ipocrita.
Erik tenne la sua testa contro la sua, attaccate per la fronte quasi, e ne cercò lo sguardo, ancora.
Quello di Erik era così piacevolmente, orrendamente simile a quello che aveva immaginato mentre
era con Sheila, realizzò Charles, abbassando gli occhi, dicendogli lentamente di lasciarlo andare. Di finirla.
Ora stava male veramente. Come se la febbre gli fosse salita e tutto fosse solo confuso e piacevole e ingiusto;
insopportabile.
Era debole e fiacco, e il sentire nuovamente il suo respiro, ora mischiato a quello altrettanto agitato e
rauco di Erik, fastidioso. Aveva le gambe così fragili che temeva potessero spezzarglisi da un momento
all’altro, sotto il peso di quello che stava accadendo. Non era possibile. Non poteva averlo voluto. Non davvero.
Cercò di convincersi che era così, più della stretta convincente di Erik. Appoggiò le mani contro la parete e
cercò di allontanarsi, con scarsa convinzione. Poi Erik disse ancora una volta il suo nome e lo baciò all’angolo
della bocca e allora Charles distolse il viso, indietreggiando un poco sulle gambe malferme.
“Io sono ubriaco” mormorò piano, guardando fisso il corridoio. “Tu che scusa hai?”
Lo sentì irrigidirsi a quelle parole. Erik lo lasciò andare.
Erano in un corridoio in piena notte, ricordò Charles. Al Four Season. Washington. Perché non c’era Moira?
Perché non era a provarci, perché non era a letto con lei? Perché, ancora meglio, non era ancora ad Oxford?
Niente Erik. Come se non esistesse. Quello era giusto.
E perché non stava bevendo? La nebbia alcolica se ne stava andando; non voleva che accadesse.
Avrebbe dovuto guardare Erik con onestà e non se la sentiva. Era solo un ipocrita. Ci era andato così vicino,
solo per voler schiacciare Erik, vedere cosa voleva davvero... E ora voleva ancora le sue mani strette al viso.
Che altra spiegazione c’era? L’aveva provocato lui, Charles, ma non doveva succedere niente.
Ci aveva solo sperato, e ora stava malissimo. Aveva di sicuro qualche problema, un problema che né Raven,
né coloro che di solito gli stavano vicino avevano notato. Si scopriva solo con Erik e ora lui aveva scoperto Erik.
E ne era spaventato, perché voleva solo dire una cosa.
Ciò che Charles immaginava, Erik lo pensava. Non sapeva se esserne felice.
Quanto valeva Erik ai suoi occhi? Era colpa dell’ascendente che aveva su di lui. Lo condizionava.
Se solo Erik non fosse stato così. Se fosse riuscito ad essere suo amico e non come qualcuno a cui voleva
disperatamente piacere per una volta, solo perché sembravano tanto simili.
Amico mio. Per Erik valeva tantissimo. Per Charles, spaventosamente troppo.
Non poteva rinunciare a quello che era. A quello che era giusto fare.
Erik si allontanò un poco da lui. Charles alzò gli occhi, ma li riabbassò subito a terra, nell’universo vermiglio
della moquette. Avvertì un giramento di testa, più forte degli altri e avanzò verso la parete e le sue spirali
vegetali che roteavano infide, appogiandovisi. Avrebbe voluto fondersi con la tappezzeria, dissolvere
l’imbarazzo tra le spine e i gambi e i fiori ricurvi che diventavano artigli e uncini.
Però, desiderare di sapere che cosa sarebbe successo se non si fosse allontanato, non era un desiderio del tutto
malsano adesso. Era troppo volubile, rifletté. Troppo infantile, capriccioso e stupido.
“Charles?”
 Voltandosi, il braccio ancora teso per sorreggersi alla parete, Charles alzò gli occhi, scuotendo un poco la testa.
Era tanto umiliato, divertito e fuori di sé che non si sentiva nemmeno imbarazzato.
Avrebbe tanto voluto ridergli in faccia, se solo non si fosse sentito così poco sicuro di sé adesso.
Cosa aveva fatto? Era Erik quello che doveva stare male. Era Erik che la confondeva.
“Sono ubriaco” rispose Charles con semplicità, fissandolo di sottecchi.
Ad un paio di passi da lui, Erik lo guardò, imperscrutabile. Il colletto appena storto e la cravatta allentata;
con le mani in tasca, era l’immagine stessa della calma. Dell’indifferenza. Era lo stesso Erik che lo aveva
stretto convulsamente e gli aveva detto che capiva, che gli dispiaceva e che tuttavia non riusciva a non
pensarci? Quello non era Erik.
“Perché?” chiese solo, stancamente.
“No” Charles scosse il capo, prima di voltarsi e appoggiandosi con tutto il corpo alla parete, come prima
si era appoggiato ad Erik. “Certo che no. Non so cosa…”
Il silenzio scivolò inesorabile fra di loro. Charles si toccò la gola e si accorse che parte dei bottoni della
camicia erano slacciati. Arrossì violentemente che fu costretto a girare la faccia per non farsi vedere
da Erik, finché non lo sentì dire:
“Mi dispiace.”
“Non è colpa tua.”
Se non mi fossi permesso, guarda che cosa ho fatto, rifletté Charles. Ma non glielo disse.
Nemmeno nella mente.
Erik fece uno sospiro rassegnato. Passandosi una mano sul volto, replicò stancamente:
“Mi dispiace lo stesso, Charles.”
Charles chiuse gli occhi e dondolando il capo contro la parete, respirò profondamente. Aveva un acuto
principio di mal di testa. Voleva solo che Erik se ne andasse, adesso. Non sarebbe venuto a dormire con lui,
non gli avrebbe più detto che erano simili. Lui non gli avrebbe più detto amico mio. Mai più.
Forse se ne sarebbe andato via e basta.
“Mi viene da vomitare” disse Charles piano, aprendo gli occhi e guardandolo come se non fosse lì.
Sembrava quasi, per qualche inspiegabile ragione, che Erik stesse sorridendo. Batté le palpebre.
Il sorriso di Erik era sparito, le sue labbra una linea decisa.
“Non giocare con me” chiese piano, gli occhi fissi, oltre lui. “Te ne sarei grato.”
Charles annuì stancamente. Qualunque cosa, qualunque cosa, voleva solo che finisse.
In silenzio, Erik gli si avvicinò, poi, come se ci avesse ripensato, sfilò una mano dalle tasche e gli lanciò
le sue chiavi. Con fin troppa fortuna, Charles riuscì a prenderle al volo, sbilanciandosi appena in avanti.
Charles immaginò che gli avrebbe detto altro. Doveva dirgli qualcos’altro.
Ci credette anche quando lo vide allontanarsi per il corridoio, dopo avergli fatto un breve cenno.
E l’unica cosa a cui pensò Charles, era che le sue chiavi erano sempre state nella sua tasca.


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Contro ogni previsione, quella notte Charles non si sentì male. Dormì bene, come non gli accadeva da giorni. 
Anche se si svegliò sudato e insofferente per il caldo, attribuì la colpa solo ai grandi riquadri di sole che
illuminavano la stanza. E non sognò nulla. Nulla che sarebbe riuscito a ricordare volontariamente.
Per un momento pensò di essersi svegliato nel corpo di qualcun altro, in una stanza che non era la 221 del
Four Season di Washington D.C. C’era troppo sole fuori per rendere quel risveglio nella capitale credibile.
Il mattino era troppo tranquillo. Mancava solo un pezzo di Roy Orbison e le tapparelle un po’ abbassate.
Forse era in California. Sarebbe stato bello crederlo. Umano e in California, in vacanza con una ragazza come Sheila.
Bionda, rossetto ciliegia, come i bordi del costume bianco. Con un cocktail ghiacciato color arancio.
Assolutamente perfetto. Una ragazza proprio come Sheila. Era anche ammirevole credere di star pensando
davvero a Sheila, al sole e ad un’ipotetica spiaggia della West Coast quando invece riusciva solo a guardare
la lucida porta bianca come se dovesse entrare qualcuno. Lo spioncino scuro sembrava un foro di proiettile.
Si tirò su a sedere, poi si lasciò di nuovo ricadere tra le lenzuola, combattuto.
Non aveva mal di testa. Lo stomaco sembrava a posto. Non si sentiva stanco; aveva persino una leggera fame.
Il mondo non girava, ogni cosa era fissa e al suo posto. I suoni al di là dei vetri del giusto volume, attutiti dalla
distanza e dalla mancanza d’attenzione.
Poteva fissare il soffitto immacolato senza sentirsi oppresso e tutto scivolava via tranquillo e senza peso.
Non c’era molto a cui pensare, in verità. Credeva di svegliarsi confuso e dolorante, con un mal di testa e afflitto
dai sensi di colpa. A come avrebbe dovuto affrontare Erik, Erik che l‘aveva stretto e baciato e guardato in
quel modo. Che gli parlava come se fosse importante, che era stanco e non ne poteva più. Erik.
Doveva affrontarlo. Sempre che non se ne fosse andato nel cuore della notte, rifletté, rabbuiandosi.
Lui, Charles, l’avrebbe fatto.
Ma forse Erik era ancora nella sua stanza, un paio di mura più in là.
Scappare era l’ultima cosa che avrebbe potuto fare. Erik sapeva che avrebbe potuto ritrovarlo,
ovunque fosse fuggito; sapeva che non poteva fare niente, assolutamente niente. Charles sorrise.
Non era stato male. Era solo.. Felice. Non c’era ancora spazio per rimorsi o dubbi, solo cose semplici,
solo adesso, un po’ di pace, si era appena svegliato. Non c’era di mezzo una guerra. Solo un paio di
questioni minori, controllabili, risolvibili forse.
Non capiva perché lo avesse allontanato, adesso. Dove aveva trovato la forza?
Solo perché si era spaventato? Solo perché aveva avuto la conferma di quello che voleva?
Era così ridicolo adesso.
C’era più verità nel modo tormentato e combattuto con cui Erik l’aveva stretto e baciato sul viso che
Charles poteva solo credere che il dover affrontare quell’incerta e interminabile serata, fosse stato solo
un calvario necessario, solo per scoprirlo. Non c’era bisogno di fuggire da una cosa del genere.
Sorrise, socchiuse gli occhi. Non si sentiva in imbarazzo se era da solo; poi pensò alle chiavi.
Aveva seriamente rischiato di svegliarsi con Erik a fianco.
E non era una cosa che faceva ridere. Solo.. Una morsa allo stomaco, pensò un poco sbigottito. Però faceva
anche ridere davvero, si disse Charles fissando l’altro lato del letto, dove le lenzuola erano ancora tese.
Ma solo se ci pensava seriamente.
Quindi, a conti fatti… Non era successo niente di così grave. Niente Erik. Se si sentiva così, così rilassato
e tranquillo, era perché non era accaduto niente.
Niente di particolarmente importante. Non era così?
A pensarci, faceva più che abbastanza ridere. Non doveva aver paura di affrontarlo, lui non aveva fatto proprio nulla.
Era Erik, pensò tirandosi su dal letto, era sempre stato Erik.
Da qualche parte lo sapeva, Charles aveva solo voluto provare, gli aveva dato un‘occasione.
Non era poi così freddo e controllato, vero? Non era poi così legato solo alla vendetta, all’ignorare
tutto il resto, rifletté Charles sogghignando al suo riflesso nello specchio.
Sentiva già che cominciava a confondersi, a dispiacersi. Perché sì, ammise, studiando la piega
disordinata dei suoi capelli, non gli era dispiaciuto provarci. Sapeva che presto avrebbe dovuto
cominciare a convivere con questa consapevolezza. Non gli era dispiaciuto dire e fare e pensare,
nemmeno adesso.
Ogni volta che si era scusato con Erik aveva mentito. Perché non doveva averlo fatto anche lui?
Poteva essere spaventato. Spaventato all’idea di sedersi allo stesso tavolo di Erik e cercare di
risolvere e discutere e spiegare. Divertente. Oppure poteva sedersi al tavolo e comportarsi normalmente,
perché niente era successo. Oppure…
Charles comprendeva che sapeva qualcosa in più di Erik e vagamente, qualcosa in più su sé stesso.
Qualcosa che voleva capire davvero, ma per farlo.. Gli occorreva del tempo. Giusto un po’, quel tanto
che bastava. Perché adesso si sentiva sicuro, sì… Ma poi? Non potevano tornare a Richmond, non così,
non subito. Era troppo importante, è troppo importante amico mio. Tempo, solo dell’altro tempo.
Il suo riflesso gli sorrise. Trova il tempo.
Non giocare con me. Erik l’aveva pregato di non giocare con lui. Ma Charles non stava affatto giocando,
era tutto maledettamente serio. Serio e interessante, troppo perché venisse liquidato con una discussione.
Se erano tanto simili, erano migliori e deboli nello stesso modo. Se erano simili, qualsiasi cosa avrebbe deciso
Charles sarebbe andata bene per entrambi.
Non era andata così, la sera prima? Era Charles che aveva scelto, solo per provare certo, ma Erik…
Charles si ritrovò a sorridere ancora e si passò una mano sul viso. C’era da impazzire, da mettersi a correre.
Da infilarsi sotto la doccia e cercare di annegare o fare infiniti cerchi nella sabbia, pensando. Progettare. Però…
Però non era difficile. Bastava solo andare avanti, guadagnare del tempo, crearlo, aspettare.
Bastava fingere. Erik non se ne sarebbe accorto, avrebbe fatto finta di niente. Era Charles che decideva.
Se gli avesse dato l’opportunità di scegliere, potevano andare avanti assieme. Se lo volevano entrambi.
E ora sapeva che era proprio così. Un po’ faceva paura per davvero.
Guardò l’orologio, accanto alle chiavi della stanza. Era già tardi. Erik poteva essere a far colazione o
sul primo aereo per l’Europa, destinazione ignota. Charles strinse le chiavi.
Doveva decidersi alla svelta, perché presto avrebbe cominciato a pentirsi.
Tornò in stanza e si vesti lentamente, guardando il sole, la luce abbagliante. Poi si sedette sul bordo del
letto sfatto. Chiuse gli occhi e sospirò. Pensò al primo stato che gli venne in mente, alla prima scusa da sfoggiare.
Decise.
Erik avrebbe voluto seguirlo, lo avrebbe assecondato. Presto Charles avrebbe ricominciato a pensare,
a convincersi che era stato sbagliato. Che basarsi sull’attrazione non era qualcosa di normale, di naturale.
Presto avrebbe voluto tirarsi indietro e cancellare ogni cosa, fare finta che niente era accaduto.
Ma per una volta doveva lottare, non risolvere, non aggiustare. Doveva andare avanti, se voleva andare oltre.
Oltre a quelle difficoltà, oltre ai dubbi che cominciavano ad affastellarsi nella sua testa.
Sentiva le mani di Erik strette ancora intorno alla sua testa, e se chiudeva gli occhi vedeva i suoi e
non c’era nient’altro.
Se gli avesse detto che c’era ancora tempo, che il viaggio non era finito, prima che lui, Charles,
avesse avuto il tempo di cominciare a riflettere razionalmente, forse avrebbero avuto una possibilità.
Amico mio. Non era una menzogna, comprese Charles aprendo la porta, incamminandosi per il corridoio.
Non lo era mai stata. Era solo… Era colpa delle maledette parole. Erano sempre così riduttive, ambigue.
C’erano cose così importanti che dette a parole diventavano insignificanti.
Occorreva solo del tempo per farlo accettare ad Erik, e a sé stesso. Non sarebbe stato difficile trovarlo.

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Westchester, New York, 1962

Come il picchiettio della grandine, le pastiglie cozzarono sulla porcellana, rimbalzando. Quando le ultime
sparirono nell’acqua e l’ultima scatola di Fenobarbital fu schiacciata e lanciata nel cestino, Charles
intrecciò le mani dietro la schiena e tornò in camera. Guardò attentamente ogni oggetto, mobile, superficie.
Ordine. Calma.
Prese i libri sul comodino, la pila traballante accumulata da Erik nei giorni, e li impilò nello spazio liberato dai
farmaci sulla mensola. Molto meglio. Sospirò.
Forse Erik era ancora nel salone, a raccogliere gli scacchi. A farsi un altro bicchiere di champagne.
Forse lo stava aspettando e Charles poteva ancora tornare indietro. Non riusciva a stargli lontano.
Era così egoista. Tutte quelle paranoie, sui discorsi sul volersi allontanare, sul giusto, su cosa era errato…
Sciocchezze.
Forse accadeva perché non era abbastanza innamorato di Erik? Se ne fosse stato più innamorato sarebbe
riuscito a passarci sopra. Come dimostrarglielo?
E poi… E poi, perché Erik voleva il suo permesso per uccidere Shaw? Era davvero così importante…?
No, certo che no. Lo farà comunque. Indipendentemente da me.
Shaw era sì un prezzo debole, e giustificabile. Nessuno si sarebbe davvero lamentato se fosse stato tolto
di mezzo. Ma non era questione di come andassero o meno risolte le cose. Né del dolore che spingeva Erik ad agire.
O del fatto che la scelta rendeva Erik una brava o una  cattiva persona. Sciocchezze.
Niente del genere. La verità era sempre quella; Charles non contava niente. Si era solo illuso di scegliere,
di controllare, di risolvere. Ma era impotente, del tutto impotente con Erik. Non poteva prevederlo.
Era troppo lontano da lui ed Erik non se ne rendeva nemmeno conto. A cosa serviva essere migliori,
ripensò Charles, se non si riusciva a tenere vicino la parte migliore di sé? Valeva per lui, certo.
E valeva allo stesso modo per Erik.
Cosa poteva fare quindi? Solo.. Aspettare e aspettare ancora. Evitare che Erik si facesse trascinare.
Dovevano solo arrivare alla fine del giorno dopo. Doveva lasciare che le cose facessero il loro corso,
era giusto così. Ma era terribile dover aspettare da solo. Erik lo sapeva almeno quanto lui.
Erik. Erik aveva già deciso quello che avrebbe voluto da Charles. Senza dirgli niente.
Charles si era sempre adeguato a lui, aveva fatto tutto ciò che voleva. Solo perché Erik, altrimenti,
non si sarebbe mai scoperto. E… Fondamentalmente…
Che importava? Erik lo conosceva anche se non gli leggeva nella mente. Non giocava con lui, era solo onesto.
Quindi, quindi non importava niente, si disse Charles. Per una volta, poteva adeguarsi.
Solo tenersi quello che voleva. Solo se per una sera... Solo per una sera.
Era l’ultima notte a Westchester, no? Basta rovinarsi. Poteva fare finta che non ci fosse niente.
Che tutto fosse a posto.
In ordine.
Si portò una mano alla tempia, voleva quasi chiamare Erik, dirgli che voleva solo che tornasse.
Poi la riabbassò lentamente, sorridendo. Non subito, pensò. Sarebbe sceso prima in cucina,
avrebbe bevuto qualcosa, avrebbe pensato a cosa dirgli. Con calma, lentamente, con ordine.
Era giusto, era giusto così.


Continua.....


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Angolo delle Notizie a Casaccio


Con immenso ritardo ecco il quarto capitolo! Allora due o tre note. L'Angelo Sterminatore e Il Promontorio della paura
sono entrambi film del '62, abbastanza famosi, spero li abbiate visti entrambi.
In particolare, Il promontorio della Paura fu in parte girato a Savannah. Volevo fare un contorto giro di
pensiero per spiegare perchè dal film, a Savannah e la Georgia etc... Cazzate. Cioè, alla fine, chi se ne frega.
Quello che è importante è che 5 capitoli sono meglio di quattro e prima o poi finirò. Devo dire che questa è la
parte secondo me più slash dell'intera FF su C&E che ho scritto.  Ancora prima di Savannah, spiegare
perchè Charles è confuso etc. Tanto per chiudere il cerchio e ultimare il finale.
Al solito, spero vi sia piaciuta, spero abbiate voglia di farmelo sapere, spero di aver rispettato il Canon che
ogni fan di C&E si costruisce giorno per giorno etc. Credo che per la prima volta ho dovuto ricorrere a più di
un personaggio originale. Spero fossero credibili.
Le donne fanno sempre una brutta figura, in storie del genere. E... Mentirei se dicessi che gente come Howie e
Sheila non sono ispirati a persone vere però così è.
Concludo. Ringrazio naturalmente Bloody Very senza cui questo capitolo non esisterebbe e non sarebbe così com'è,
per il supporto e per l'aiuto a risolvere alcuni miei dubbi su 'Cosa accadrebbe se...'
Grazie anche, come sempre, a coloro che seguono la storia, me, che recensiscono, che mi scrivono o che capitano in
questa pagina per caso.

Exelle



Ps: Ehi, Tonie, apprezzalo XD Fa' finta che sia un regalo di esame non passato
       e come ringraziamento per il pranzo
.








 

  
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