1- Genjo Sanzo Hoshi
-Che ci fai tu qui?-
-Ho bisogno di una boccata d’aria.
Penso di aver bevuto un bicchierino di troppo.-
-…-
Il ragazzo biondo
stava appoggiato alla ringhiera del balcone da almeno mezz’ora, fumando una
sigaretta dietro l’altra.
L’altro si abbandonò accanto a lui, le braccia sul
corrimano e sopra la testa.
-Ma guardati… studi medicina e fumi come una
ciminiera. Potresti almeno offrirmene una.-
-Te la faccio ingoiare accesa e
vediamo se prendi fuoco?-
-… Non mi solletica tanto.-
-E allora
zitto.-
A quelle parole sulla bocca dell’altro comparve un mezzo sorriso,
nascosto dai lunghi capelli. Il solito caratteraccio... in fondo, si conoscevano
da una vita.
-Ma è così noiosa questa festa?-
Un ragazzo dai capelli
bruni si era affacciato dalla porta finestra dietro di loro.
Ora che i vetri
erano aperti il fracasso di musica e grida invadeva la notte tranquilla della
città.
Le luci colorate che si intravedevano attraverso le tende bianche
uscivano a fasci nel buio.
-Ma no, con tutte quelle belle fanciulle?- Il
ragazzo alzò la testa e la girò verso l’altro. Si creavano strani riflessi sui
suoi lunghi capelli rossi.
-E allora perché siete qui fuori?-
Il bruno li
raggiunse e chiuse i festeggiamenti oltre la porta.
-Un Cuba Libre di
troppo.-
-Ma se non ti piace!-
-Alla ragazza con cui stavo parlando
sì.-
-Ah.- Sorrise.
-Di un po’, se li dentro ci si diverte tanto, che ci
fai qui?- Li interruppe il biondo.
-Effettivamente, mi stavo
annoiando!-
-Se lo dici così sembri felice.-
-Be’…- rivolse il suo sguardo
al cielo, sereno ma senza astri a causa della luce, del colore del vino.-Con
questo tempo, a casa mia si riusciranno a vedere le
stelle.-
All’Hoshi Manor, ore 7.36 a.m., il giorno
dopo.
Ma perché ci doveva essere uno specchio proprio lì?
Ogni volta
che usciva dalla sua stanza vedeva la sua immagine riflessa in quel maledetto
pezzo di vetro.
Si squadrò con aria critica.
I capelli, biondissimi ed un
poco lunghi, legati in un corto codino, con qualche ciuffo in fronte.
La
pelle chiara, un’unica ruga d’irritazione in mezzo agli occhi, per il resto
perfetta.
I lineamenti leggermente femminei, il collo lungo, il petto e le
braccia dalla muscolatura sottile e quasi senza peli, i fianchi stretti e le
gambe piuttosto esili.
Indossava un paio di jeans neri a vita bassissima,
tanto che quando si sedeva gli si scopriva un pezzo di sedere ed una camicia
bianca con sottili righe azzurre, completamente slacciata ed aperta, ed anche
leggermente stropicciata.
Aveva un libro in mano, dalle dita lunghe e
femminili, ed era scalzo.
In bilico sul naso, un paio di occhiali senza
montatura e le lenti piccole e sottili, coprivano due magnifici, magnetici occhi
viola, dal taglio all’ingiù. Ed erano parecchio scocciati.
Dello stesso
colore intenso era un tatuaggio che s’intravedeva dietro un lembo di camicia,
sul petto a sinistra, poco sopra il cuore.
Una rosa, dai petali stilizzati e
spigolosi, viola e blu verso l'esterno.
Il suo sguardo, come al solito, si
posò lì, incupendosi di dolore.
Quello stupido disegno se l'era fatto fare,
un giorno che era particolarmente ubriaco, per coprire una cicatrice, che ancora
s'intravedeva.
Piccola, rotonda, leggermente rientrante, come se qualcosa
avesse penetrato la carne.
Qualcosa come un proiettile.
-Al diavolo i
ricordi.- mormorò fra se.
Sei un Sanzo
Hoshi, Genjo.
Non avere nulla, non avere legami.
Non essere schiavo di
niente e nessuno.
Vivi semplicemente per la tua vita.
Questo è l'unico
insegnamento che ti posso dare.
Per il resto, il tuo spirito ed il tuo corpo
sono forti abbastanza per farti il mio erede.
E poi, le domande che
sempre gli giravano in mente assieme alla voce del suo vecchio.
‘Anche se non
sono vostro figlio, padre? Anche se siete morto a causa mia? Voi eravate allora
un bugiardo, od un ipocrita, perché mi amavate?’
Appoggiò la fronte alla
superficie fredda, chiudendo un attimo gli occhi e respirando profondamente per
recuperare un po' di autocontrollo.
Erano anni che non gli succedeva di
lasciarsi andare così.
Erano...sì, ormai già cinque lunghi anni, da quando
era successo.
Da quando suo "padre" era morto.
Una maledettissima notte,
che a lui aveva lasciato solo quel minimo segno ormai coperto da quell'icona del
suo cuore, duro, spigoloso e freddo.
Perché quella notte gli era stato
portato via la cosa più importante che avesse mai avuto, l'affetto per cui il
suo cuore batteva ed era caldo.
L'orologio a pendolo batté le
tre.
Genjo si riscosse dai suoi pensieri.
Gli occhi erano i soliti petali
sempre arrabbiati e taglienti.
Nessuna emozione nuova ombreggiava il suo
viso.
Eppure gli fu più difficile del solito riprendere la lettura del suo
testo, una volta accomodatosi su una
poltrona.
^_^
Alé, un AU!!
Che cosa carina,
vero ?
Ma tu guarda, mi faccio i complimenti da sola! ^_^
Allora!
(Palanmelen si strofina le mani): che ve ne pare di quest’inizio? Non si capisce
niente, vero? ^_^
ç_ç non è carina, vero…?
Mi lascereste un
commentuccio?
=KISSHU!!= a tutti!
Mele