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Autore: Giuly_Zomb    28/11/2011    2 recensioni
Questa storia, parla di due ragazzi che hanno dei sospetti sulla loro insegnante...
Questo porta uno di loro ha commettere un errore che non doveva succedere...
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Aveva occhi di ghiaccio, la maestra Paola. Chiarissimi, quasi del colore di un lago gelato. In mezzo ai suoi capelli corvini spiccava una ciocca argentea. “Come il pelo di un cane Husky, o di un lupo bianco” pensava André.
Nascosti dietro le lenti degli occhiali, gli occhi di André seguivano i movimenti argilli e armoniosi con cui la maestra si spostava lungo la grande lavagna. A volte, se il gessetto le sfuggiva di mano, le unghie graffiavano la lavagna. Quando guardava le mani della maestra, André non mancava mai di notare che il medio e l’indice erano lunghi uguali.
A volte gli occhi della signorina Paola incrociavano i suoi, e allora sul volto le veniva un lieve sorriso, come per un’intesa segreta. O almeno così amava immaginare André. Senza osare di confessarlo apertamente, André era un pochino innamorato di lei. Dalle sue sopracciglia leggermente arcuate come piccole mezzelune, quasi unite sopra la radice del naso. E della sua bella dentatura dai denti bianchi e forti.

In quella piccola scuola non accadeva mai nulla di eccitante, e se non fosse stato per la signorina Paola, André si sarebbe annoiato da morire. Almeno fino a quando, un mese prima, non era accaduto qualcosa che aveva gettato lo sgomento in tutta la scuola.
Fu quando il maestro Franco era stato trovato morto sul bordo di un sentiero di un bosco. Aveva la gola squarciata ed era ridotto da far paura.
Tutti sapevano che il signor Franco era il quasi-fidanzato della maestra. Era stato uccido, si disse, dei morsi di un cane, perché alcuni passanti, appena dopo il fatto, avevano visto un cane fuggire dal luogo dove giaceva il cadavere. Un cane piuttosto grosso, bianco come la neve.
Il giorno seguente il direttore era passato in tutte le classi a dare la triste notizia. Era un uomo barbuto, alto, grosso, con le mani pelose. Il direttore aveva un portamento imponente e sicuro, ma quel giorno sembrava affranto. “Mi dispiace, ragazzi, il signore Franco è stato ucciso a morsi di cane”.
Tutti rimasero molto scossi. André scrutò il viso della maestra. L’espressione della signorina Paola era indecifrabile. Naturalmente sapeva già tutto, per questo non mostrava nessun segno di sorpresa, e nei suoi occhi non c’era nessun luccichio di lacrime. Strano. Eppure il signor Franco era il suo quasi-fidanzato. Appena uscito il direttore, Martin aveva esclamato all’improvviso: “Non ci credo! I cani non uccidono le persone. I cani sono bravi animali. Noi ne abbiamo due, e non hanno mai morso nessuno”. Era veramente furioso. La maestra aveva guardato a lungo Martin coi suoi occhi da Polo Nord. “Allora chi pensi che sia stato, Martin?”
“Un lupo mannaro”
Gli occhi della maestra diventarono due fessure. “Un che cosa?”
“Un lupo mannaro, signorina”
André studiò l’espressione della signorina Paola e gli sembrò di vedervi passare un pallido sorriso.
“Come ti è venuto in mente, Martin?”
“Così, Perché ieri era il plenilunio. E col plenilunio certi individui si mutano in lupi mannari e vanno in giro ad uccidere. Proprio come il mese scorso. Anche allora un uomo è stato ucciso a morsi. C’era sul giornale”. Dalla classe si levò un mormorio di incredulità. Un lupo mannaro! Che idea! Come se non si sapesse che i lupi mannari esistono solo nei film e nelle fiabe!
Solo André rimase in silenzio a guardare la maestra. La signorina Paola non sorrideva più, e passandosi tra i capelli le unghie rosse, fissava Martin come se volesse gelarlo con gli occhi. In qualsiasi momento, pensò André, quegli occhi potevano sparare ghiaccioli.
“Ora basta, Martin. È abbastanza triste che il maestro Franco sia morto. Come osi scherzarci su con le tue storie di licantropi?”
‘Anche arrabbiata, la maestra è bellissima!’ pensò André con un sospiro.
“Non scherzavo” mormorò offeso Martin, seduto nel banco dietro al suo. “Quello che ho detto è vero”.
Ma la maestra aveva orecchie più fini di quanto Martin pensasse.
“Fa il compito di aritmetica” disse, “mentre io leggo ad alta voce ai tuoi compagni”.

All’uscita da scuola, André rincorse Martin che camminava a gran passi, le mani sprofondate nelle tasche. “Aspettami, Martin” gridò.
“Cosa vuoi? Ridere un altro po’ di me?” chiese Martin continuando a marciare imperterrito.
André gli si mise al fianco. “Non rido di te, Martin. Io ti credo”.
Martin si fermò e lo guardò fra stupito e diffidente. “Rallegramenti, sei l’unico. Così la classe potrà ridere anche di te”.
Ripresero a camminare. “Ascolta” disse André, “anch’io, forse, credo ai licantropi, ma non sono così scemo da strombazzarlo in classe!”
Martin sospirò, calciando un sassolino. “Hai ragione, sono stato un cretino. Ora tutti mi credono un fissato”
“Boh, se ne scorderanno presto” disse André battendogli una mano sulla spalla. “Ma dimmi, piuttosto: perché credi che l’assassino sia un licantropo?”
“È proprio come ho detto” disse Martin con un’alzata di spalle. “Il mese scorso, al plenilunio, c’è stato un caso molto simile”. Poi, voltandosi a scrutare a destra e a sinistra, sussurrò: “E ti dirò dell’altro: penso di sapere chi è il lupo mannaro!”
“Ah sì?” disse André, impassibile. “E chi sarebbe?”
“La maestra!”
“La maestra?
La nostra maestra?" Martin annuì. “Hai mai notato le sue orecchie appuntite? È un segno tipico delle persone che si trasformano in lupi mannari”
“Ma…” cominciò a dire André.
“E poi ha l’indice e il medio uguali” proseguì Martin. “Anche questo è un segno tipico. E le sue unghie! Lunghe e affilate come artigli”
“Com’è che sai tutte queste cose?” gli chiese André.
“Le ho lette” disse Martin.
André scosse il capo. “Ci sono tante persone con le unghie lunghe. Non saranno mica tutte lupi mannari!”
“Ha le sopracciglia quasi unite” seguitò imperterrito Martin. “Altra caratteristica dei lupi mannari. E poi quella ciocca bianca. È noto fin dal Medioevo che le persone con una ciocca bianca sono figli di streghe o di licantropi”.
“Dici sul serio?”
“Si. Secondo me, quel grosso cane bianco che hanno visto non era un cane, ma la maestra”.
“In conclusione, secondo te è stata lei a far fuori il maestro Franco? Ma se era il suo ragazzo!”
Martin annuì di nuovo. “E con ciò? Forse avevano litigato”
André lo guardò pensieroso. Martin sembrava così sicuro del fatto suo.
“E ora? Cosa pensi di fare?”
“Boh!” disse Martin. “Non saprei. È difficile affrontarla e dire: ‘Secondo me, lei è un lupo mannaro!’ Devo sfidarla al prossimo plenilunio. Ho in mente un piano”.

Era già trascorso quasi un mese, e Martin non aveva più parlato di licantropi. ‘Se ne sarà dimenticato’ pensava André. Chino sui quaderni di scuola, di tanto in tanto sbirciava la maestra che scriveva sulla lavagna. Tutti erano intenti a scrivere, anche Martin. La maestra prese la borsa che aveva posato sulla cattedra e l’aprì per prendere qualcosa.
André la vide sgranare gli occhi, poi udì un urlo agghiacciante. Tutte le teste si alzarono di scatto. La maestra, in piedi dietro la cattedra, teneva in mano un pezzo di carne: era carne cruda, della grandezza di un pugno, con sopra attaccato il disegno di un lupo dal muso grondante di sangue. Per qualche secondo la maestra fissò inorridita l’orribile cosa, poi la sbatté sulla cattedra e uscì a precipizio dall’aula.
Dopo un silenzio di tomba, gli scolari presero a parlare tutti insieme.
“Era nella sua borsa quella roba?”
“Ma cos’è?”
“Pareva un cuore, di quelli che si comprano dai macellai. Ai gatti piacciono”
“Ma non alla maestra, mi sa”
“Com’è arrivato nella sua borsa?”
André si voltò a guardare Martin. Lo vide sorridere.
“Era proprio necessario?” bisbigliò André con ira repressa, sentendosi ghiacciare le dita nelle scarpe.
“Volevo solo vedere la sua reazione” disse Martin con un’alzata di spalle. “Farle sapere che qualcuno l’ha smascherata. Ai lupi mannari piace la carne cruda, no? Visto come c’è rimasta?”
André sbuffò. “Si, naturale. Non ci si spaventerebbe, trovando un affare del genere nella propria borsa! Ma questo non dimostra un bel niente!”
Il direttore era entrato a passa minaccioso. Senza aprir bocca andò alla cattedra, guardò stupito la cosa, poi la prese e la gettò nel cestino dei rifiuti. I suoi occhi mandavano lampi sotto le spesse sopracciglia.
“E ora, ditemi tutto. Chi è stato?” chiese con voce tremante di collera. Nessuno fiatò.
“La vostra maestra è ancora sotto choc e per tutto il resto della giornata non potrà fare lezione. Per cui torno a chiedere: Chi è l’autore di questo scherzo cretino? Chi è lo screanzato” seguitò il direttore battendo un pugno sulla cattedra “che durante l’intervallo ha infilato quella schifezza nella borsa della signorina Paola? Parlate!”
Tutti tremavano. Non si era mai visto il direttore così indignato. Ma nessuno fiatò. Soprattutto perché nessuno, all’infuori di André, sapeva chi fosse il colpevole.
Il direttore, sempre più congestionato, guardò quel muro di facce mute.
“Ah, è così! Benissimo. Allora prendete la vostra grammatica e mettetevi a copiarla. Rimarrete in classe finché il colpevole non si sarà fatto vivo”.
Qualcuno degli scolari gemette.
“Zitti!” ordinò il direttore. “Cominciate a scrivere. Io posso star qui fino a mezzanotte”. Sedette sulla sedia della maestra, prese una matita e si mise a rigirarla tra le dita.
Le grammatiche comparvero sui banchi e tutta la classe si mise a scrivere. I minuti passavano lenti. André guardò con aria feroce Martin, la cui penna vergava scricchiolando le parole sulla carta. Pensando alla maestra, e com’era rimasta sconvolta, provava un’infinita compassione per lei e un gran desiderio di consolarla. Quel Martin, con le sue idee pazzesche! Una collera rovente ardeva nelle vene di André.
Nessuno doveva permettersi di far soffrire la signorina Paola. Nessuno. Neppure quel signor Franco! A dire il vero, ad André non dispiaceva che il signor Franco fosse morto, sapendo com’era violento con la sua cara maestra. L’aveva visto coi suoi occhi, un giorno che era uscito tardi da scuola. La maestra, in piedi accanto alla Jeep blu, discuteva con il signor Franco, quando lui aveva alzato improvvisamente una mano e l’aveva schiaffeggiata brutalmente. La signorina Paola era salita in macchina piangendo ed era partita in quarta. Quella sera, a letto, anche ad André era venuto da piangere. E la mattina seguente, in classe, aveva notato i segni rossi sulla guancia della maestra, malgrado l’abbondante strato di fondotinta. André non aveva mai raccontato a nessuno quell’episodio, ma neanche l’aveva dimenticato. Ora il signor Franco aveva avuto quel che si meritava, e André, per lui, non aveva versato una lacrima.
Ma Martin aveva dato un altro dolore all’amata maestra. Che infamia! Ma lui gliel’avrebbe detto: “Chi fa soffrire la mia maestra non è più mio amico”.
André abbassò la testa, riscuotendosi dalle sue fantasticherie. La mano gli si era mossa automaticamente sul quaderno, ma la pagina era del tutto piena di scarabocchi, e a un certo punto la penna aveva addirittura forato il foglio. Gli altri continuavano a scrivere e il direttore fissava con aria assente la parete dietro le spalle della scolaresca, mordicchiando la matita.
Martin non sembrava affatto disposto a confessare, per cui la faccenda prometteva di durare a lungo.
Alle cinque e mezzo il direttore si arrese. La classe aveva il crampo dello scrittore, e lui stesso era stremato.
“Bene” disse alzandosi in piedi, senza smettere di tormentare la matita fra le grosse mani. “Riordinate la vostra roba e andate a casa. Ma non è finita qui. Scoprirò sicuramente chi ha giocato questo tiro alla signorina Paola. E quando l’avrò trovato, guai a lui… o a lei” aggiunse girando uno sguardo di fuoco sulla classe da sotto le folte sopracciglia. “M’incaricherò personalmente di…”
Crac! La matita gli si spezzò fra le due dita, ma lui non sembrò farci caso. “… di cacciarlo a pedate dalla scuola. E ora, andate pure!”

Fuori era ormai buio, i lampioni erano già accesi. La gelida aria invernale investì André, che si rialzò il bavero del giubbotto e levò gli occhi al cielo punteggiato di stelle. La luna piena saliva dietro i rami nudi di un ippocastano. Voltandosi per un attimo a guardare la finestra della sua aula, André vide, dietro i vetri, l’alta figura del direttore che lo fissava. Distolse in fretta lo sguardo e si mise a correre per raggiungere Martin, che l’aveva già preceduto di un buon tratto.

“Animale!” esclamò André afferrando Martin per una spalla. Martin si fermò per un istante, poi riprese a camminare. “Smettila di agitarti in quel modo” disse con asprezza. “Comunque” aggiunse un po’ più amichevolmente, “grazie per non avermi tradito”.
André continuava a tallonarlo.
“Come ti è venuto in mente! L’hai fatta sporca, Martin. La mia maestra, la mia maestra si è…”
“Pff, secondo me è stata tutta una commedia” disse Martin alzando le spalle. “Scommetto che ne ha viste di peggio. I lupi mannari non sono così schizzinosi”.
André sentì un’enorme collera turbinargli dentro come un nero vortice. Stavano percorrendo un viale solitario fiancheggiato da un doppio filare di ippocastani. Dietro i rami spogli, la luna, una grande palla tonda, sembrava procedere silenziosamente con loro.
“Come fai a essere tanto sicuro che è un lupo mannaro?” protestò André.
“Te l’ho già detto. Ha l’indice e il medio della stessa lunghezza, e…”
“Balle!” l’interruppe André. “Non ci credo neanche un po’”.
“Che ne sai tu sui lupi mannari?” disse.
La luna, davanti ai suoi occhi, si tingeva poco a poco di rosso sangue. Ora, ovunque guardasse, André vedeva rosso. Gli alberi, le strade, le case. E Martin.
“Non mi hai mai guardato bene, Martin” disse André con una voce improvvisamente rauca. “Anch’io ho l’indice e il medio della stessa lunghezza” proseguì allargando le dita a ventaglio sotto il naso dell’amico.
Martin spalancò la bocca. Le dita di André stavano allungandosi, le unghie crescevano a vista d’occhio. Sul dorso apparivano lunghi peli. Bianchi.
“Anche le mie orecchie sono discretamente appuntite, Martin” ringhiò André scostandosi i capelli con una mano deformata. “Non l’avevi mai notato, vero, pezzo d’idiota?”
Martin indietreggiò fissando inorridito le sopracciglia di André che stavano crescendo e infoltendo. Tra i capelli erano spuntate due orecchie aguzze, che si allungavano velocemente. Martin si sentì mancare il fiato. “Tu!” balbettò. “Sei tu!”
“Hai commesso un errore, Martin” ringhiò André. “Nessuno doveva far soffrire la mia maestra! Né il signor Franco, né tu!”
La voce non era quasi più umana e gli occhi si stavano accendendo di rosso.
Martin si sentì svenire vedendo la faccia di André mutarsi in un muso di lupo coperto fitto di pelame. Ora André si strappava di dosso giubbotto e maglione lasciando apparire uno stretto torace villoso. Allora Martin se la diede a gambe. Corse, come se avesse un razzo acceso nel fondo dei calzoni, filando lungo alberi e case che sembravano correre in direzione opposta, col vento che gli fischiava nelle orecchie mentre la luna, alta sopra l’intreccio dei rami, galoppava con lui nel cielo.
All’improvviso risuonò alle spalle un ululato. Nel disfarsi dagli abiti, André era rimasto impigliato nelle gambe dei calzoni. Li stracciò con un’unghiata e scalciò via le scarpe.
Ancora in posizione eretta, un lupo dal pelame candido levò la testa al cielo e ululò alla luna. Poi si lasciò cadere a quattro zampe e riprese l’inseguimento.
Martin, ormai quasi giunto in fondo alla strada, seguitò a correre freneticamente, ma André gli si avvicinava a grandi balzi, senza fretta, proiettando la sua lunga ombra sulla strada bagnata di luce lunare. Sapeva che Martin era spacciato.
Al centro della carreggiata, Martin galoppava ansimando, le tempie rigate da rivoli di sudore freddo. Ormai era sfinito, si sentiva le gambe sempre più molli.
Capì di non avere più scampo.
All’improvviso una Jeep blu sbucò da una strada secondaria e frenò di colpo con un forte stridore di pneumatici, descrisse un mezzo giro e si fermò a un palmo da Martin.
E Martin non esitò neppure un istante: spalancò la portiera, saltò dentro, e sbatté con violenza lo sportello.
“Riparta! La prego!” gridò alla persona al volante. “Presto!”. Nello specchietto retrovisore, Martin vedeva una sagoma bianca avvicinarsi a rapidi balzi.
“Martin! In che stato sei! Hai il diavolo alle calcagna?”
Martin voltò allibito la testa. Era la signorina Paola.
La Jeep ripartì sgommando. Nello specchietto retrovisore Martin vide finalmente aumentare la distanza tra lui e André. Allora, con un sospiro di sollievo, si lasciò andare contro la spalliera del sedile.
“Tremi tutto, Martin. Si può sapere cosa ti è capitato, e chi è che ti insegue?”
“André” rispose Martin. “È un lupo mannaro”.
“Cosa mi dici!”
“Proprio così, un lupo mannaro. All’inizio ho pensato fosse lei, signorina Paola. Mi dispiace tanto di quello scherzo. E invece il lupo mannaro è André. È lui che ha ucciso il maestro! E ora vuole uccidere anche me!”
La Jeep infilò una strada sterrata, senza illuminazione. Martin gettò un’ultima occhiata allo specchietto retrovisore. Del lupo mannaro non c’era più traccia. André, grazie al cielo, si era finalmente arreso.
“André? Anche lui un lupo mannaro?” esclamò la signorina Paola. Nella sua voce non c’era sgomento, ma piuttosto sorpresa, come se avesse sospettato la cosa da sempre, senza però esserne mai stata certa.
“Mi chiedevo come aveva fatto ad aggredire il maestro Franco”.
Martin guardava fuori, nella notte buia. La strada si faceva sempre più accidentata, senza case o lampioni in vista. La Jeep aveva lasciato la città e stava inoltrandosi in aperta campagna. Ma dov’era diretta, la signorina Paola?
Solo a quel punto le parole di lei gli attraversarono la mente come un folgore: “… Anche lui un lupo mannaro?...”. Si voltò a guardarla. La maestra rideva, fissandolo con occhi rossi come carboni accesi. I suoi denti, in quei pochi istanti, erano diventati lunghi e appuntiti.
La signorina Paola gettò il capo all’indietro e Martin le vide anche le orecchie. Erano aguzze e pelose.
“Avevi ragione, Martin” ringhiò la maestra. “Purtroppo per te!”. Con gli artigli stretti al volante, premette l’acceleratore. La Jeep fu inghiottita dal buio dei campi deserti su cui la luna piena ghignava, vogliosa di sangue. 
  
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