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Autore: CosmopolitanGirl    30/11/2011    1 recensioni
Questa è la mia primissima FF su questo fandom, e dopo attenta valutazione ho deciso di farmi coraggio e pubblicarla. Una breve peregrinazione mentale del nostro Patrick Jane, che rievoca il ricordo della sua adorata moglie,mentre a fargli compagnia ci sono sempre i suoi abituali demoni interiori.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Patrick Jane
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Forgiveness
 

Questa notte il tempo è cambiato.
Un vento da nord spira portando con sé nubi cariche di pioggia. In mano sorreggo un piattino in porcellana azzurro con poggiato sopra una tazza delle stesse fattezze. Con gesto lento e meccanico continuo a immergere la mia bustina di tè, su e giù, su e giù.
L’acqua bollente, dapprima trasparente, inizia a colorarsi di un arancio sbiadito, e un’essenza di mango* si sprigiona pian piano nella stanza.
Fisso la mia bevanda che, ormai, ha raggiunto il colore tipico, ma non la vedo realmente, mi perdo nei miei pensieri, avanzo lentamente nel vuoto che ho dentro, come un equilibrista sul filo.
Il picchiettare delle gocce di pioggia, sulla grande vetrata della mia stanza, mi riporta alla realtà. Il suono è lieve, ritmico quasi ipnotizzante. Le seguo rincorrersi velocemente lungo il vetro, ingaggiando una tacita gara a chi tra loro sparirà per prima sul bordo della finestra.
Le luci dei palazzi che si stagliano all’orizzonte sembrano agghindare i grattacieli come alberi di Natale, e mentre li osservo, immagino chi c’è al loro interno.
Sorseggio il tè, e un calore fruttato scende al mio interno riscaldando quell’anima che ho congelato. Anestetizzata per così tanto tempo che alle volte mi sorprendo a domandarmi se ancora ne ho una.
Il senso di colpa che da anni attanaglia il mio cuore è diventato una costante del mio essere, è diventato… “normale”. Non ricordo neanche più come ci si senta in pace con se stessi, come sia possibile sentirsi felici. Alle volte mi piacerebbe tanto poter lasciare libero il mio cuore. Libero di vagare senza meta per godere anche delle cose più piccole, ma non ci riesco.
In realtà io non voglio più sentirmi felice, voglio crogiolarmi fino ad annegare nella mia infelicità, nel mio sentirmi perennemente in colpa. Da quando lei non c’è più, ho ingaggiato una estenuate lotta con il mio cuore e l’ho sconfitto, vinto, battuto. Non posso essere felice, non voglio esserlo.
La gioia che provavo ad averla accanto, a guardare il suo sorriso illuminarle il volto, è scomparsa insieme a lei.
Indosso ogni giorno una maschera che protegge gli altri dalla mia tristezza, ma che in realtà metto su per proteggere me stesso.
Spesso mi guardo allo specchio e ciò che vedo è solo un fantasma di ciò che ero.
Un’immagine sbiadita di un uomo che cerca una vendetta che forse non arriverà mai, un uomo trasfigurato dal senso di colpa e di sconfitta.
Sentirsi sconfitti, ormai inermi, è un senso difficile da ammettere, ma ancor più difficile è accettarlo.
Una volta lessi che i morti pesano sul nostro cuore non per la loro assenza quanto per tutte le parole rimaste in sospeso.
Nelle mie lunghe notti insonne, tante volte, ho immaginato di poterle parlare ancora, di poterla tenere di nuovo stretta tra le mie braccia e sussurrarle tutto ciò che non le ho detto quando potevo, quando era con me. E’ proprio questo il mio rimpianto più grande.
Se l’avessi di nuovo qui, le direi quanto la amo, non gliel’ho detto mai abbastanza. Le nostre anime erano fatte della stessa sostanza, lei era me stesso più di quanto lo sia io*.
Cercherei di farla ridere, sono sempre riuscito a strapparle un sorriso, adoravo sentire la sua risata, calda, rassicurante, riecheggiare per tutta casa.
Metteva allegria.
Se potessi scendere a patti con Dio, e averla qui solo per qualche minuto, quello che farei è chiederle perdono.
Ho bisogno di essere perdonato.
Ho necessità di sapere che lei non mi considera colpevole di quanto accaduto, di non essere arrivato prima a casa, di essere stato la causa della sua morte.
Vorrei che lei mi desse quella pace che mi costringo a non avere.
Vorrei che sollevasse la mia anima dalla zavorra che ho voluto accumulare in tutti questi anni.
Vorrei potermi sentire leggero, di nuovo, e volare al suo fianco, ormai scevro da tutti quei tormenti che hanno indurito il mio cuore.
Non sono cambiato, continuo a essere egoista, a pensare a me stesso. Io sono ancora qui, respiro, cammino, posso vedere il sole albeggiare e tramontare, lei…il mio amore non c’è più ed io…io penso a come mi sentirei meglio se sapessi che mi ha perdonato.
Mi risveglio dai miei pensieri e mi scopro a fissare una tazza ormai vuota e fredda, stessi aggettivi che userei per descrivere la mia anima.
La pioggia continua a picchiettare sul vetro, la notte si è fatta ancora più nera.
Spengo la luce e inondo la stanza di oscurità, la stessa che alberga nel mio cuore e rido di me stesso, di un derelitto destinato, per sempre, a convivere col suo dolore.

 
 
Note :
* In varie interviste Simon Baker ha dichiarato di bere davvero il tè sul set, che è la sua bevanda preferita, e che adora il mango in tutte le sue forme e degustazioni.
* Cime Tempestose.

Spazio dell’autrice:
Per dovere di cronaca e per non essere tacciata di plagio informo tutte le lettrici (lettori??) che questo componimento è stato, da me, pubblicato tempo fa in un blog per scrittori.
Detto ciò…Ho sempre trovato il dolore di Patrick molto affascinate, così come l’amore e la dedizione che continua a mostrare nei confronti della, ormai defunta, moglie. Sembra che l’abbia amata davvero tanto e confesso che mi piacerebbe un giorno poter essere amata come lui ha amato lei. Con questo non voglio dire che lo voglio vedere sempre solo soletto, anzi…sono una fan Jisbon quindi mi auguro che un giorno…
Grazie, anticipatamente, a tutte coloro che si fermeranno a leggerlo e a tutte quelle che troveranno il tempo per una recensione. Un grazie specialissimo va a Soarez senza la quale non avrei trovato la giusta motivazione per pubblicare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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