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Autore: Dreamsworth    02/12/2011    0 recensioni
Geremia sorrise.
Il residuo malandato di uno stuzzicadenti gli pendeva dalle labbra. Adorava giocherellarci. Una mania, un vizio, forse una droga. Non era convinto di poterne più fare r a meno. Con un sospiro lo rigirò sulla lingua per un’ultima volta, poi lo afferrò con due dita e lo poggiò sul pianoforte. Esattamente davanti a sé.
Si accomodò meglio, con attenzione, lasciando che il suo corpo si modellasse con la panca. Cercando di far sì che diventassero un tutt’uno. Una cosa sola.
Roteò le dita, sgranchendosele sovrappensiero.
C’era il nulla intorno a Geremia.
Genere: Comico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La sinfonia delle stelle

 

 

Geremia sorrise.

Respirando piano prese posto, l’espressione distesa.

Il residuo malandato di uno stuzzicadenti gli pendeva dalle labbra. Adorava giocherellarci. Una mania, un vizio, forse una droga. Non era convinto di poterne più fare a meno. Con un sospiro lo rigirò sulla lingua per un’ultima volta, poi lo afferrò con due dita e lo poggiò sul pianoforte. Esattamente davanti a sé.

Si accomodò meglio, con attenzione, lasciando che il suo corpo si modellasse con la panca. Cercando di far sì che diventassero un tutt’uno. Una cosa sola.

Amava quel pianoforte, Geremia.

Roteò le dita, sgranchendosele sovrappensiero. Si guardò attorno, osservando il niente.

C’era il nulla intorno a Geremia.

I suoi occhi penetravano e scavavano nelle tenebre: nel buio e nell’oscurità totali. Non si vedeva alcunché, semplicemente perché non c’era alcuna cosa da vedere.

Sorrise ancora, Geremia, conscio di dover creare lui quel qualcosa. Prese un bel respiro e chiuse gli occhi. La vista, adesso, non serviva.

Carezzò la fila di tasti con i polpastrelli, prendendo subito familiarità.

Restò immobile per qualche istante, le dita ferme a pochi centimetri dalla tastiera bianconera. Aspettava il momento giusto, attendeva di sentire la musica adatta: quella che gli sarebbe partita dal cuore. La sola in grado di attraversarlo e fargli ribollire il sangue gelido. Liberò la mente, inclinò il capo… ed eccola.

La sinfonia che tanto bramava.

Poggiò le dita sui tasti e cominciò. Le prime erano poche note, semplici accordi, quasi banali.

Geremia lo sapeva: era solo l’inizio.

La musica s’interruppe per un secondo, un’eco pallido che vibrava nell’aria, per poi riprendere, decisa. Aveva una marcia nuova, questa volta. Come se stesse lentamente acquisendo coraggio. Le agili dita si spostavano con noncuranza, percorrendo e sfiorando tutti i tasti. E fu di lì a poco che successe.

Dalla cassa armonica, timidi, cominciarono ad uscire. Sprazzi di colore: guizzi, zampilli appena accennati. Sembravano seguire la musica, andando a tempo con essa.

Guidati dalle dita di Geremia.

Gli occhi serrati, aumentò la velocità.

E i colori ubbidirono, formando una, due, tre cascate che si riversarono nel nero che li avvolgeva.

Scherzavano, si rincorrevano, scontrandosi ed amalgamandosi. E al loro passaggio, lasciavano sfumature, accenni di ciò che avrebbe potuto essere. Schizzi di ciò che sarebbe stato. Lui sapeva cosa faceva, o meglio, non ne era ancora del tutto sicuro ma un’idea vaga ce l’aveva. Approssimativa, ecco. Andava limata.

Piegò la testa di lato e si concentrò, lasciando che le immagini fluissero dentro di lui.

Erano gli occhi della mente, quelli che Geremia stava usando.

Un artista, ecco cos’era. Pronto a colorare l’immensa tavola nera che aveva a disposizione.

Le dita? I suoi pennelli.

I tasti… le tinte a sua disposizione. Infinite. Inesauribili.

Senza confini e senza limiti. L’imbarazzo era solamente nel dove cominciare.

Geremia spostò entrambe le mani alla sua destra e iniziò una rapida discesa verso sinistra: una scala celere, fluente e sbarazzina. Il preludio di quello che sarebbe stato un oceano immenso.

Le tre cascate si unirono in una sola, fluendo sicure e perforando le tenebre. Calme, si riversarono con grazia, riempiendo parte dello spazio che avevano davanti. Un mare, diverso da tutti gli altri. Non blu, non azzurro. Era acqua, quella che Geremia stava creando, eppure differente. Una tinta rosata, tendente al viola nelle zone più profonde. Ipnotizzante, avvolgente… affascinante. C’erano riflessi rossi, fucsia e magenta. Sfumature che andavano dal lavanda all’indaco in un tripudio di onde e correnti.

La musica cambiò impercettibilmente e una parte della cascata principale si allontanò, deviando il flusso. Si sparse al confine del mare, cadendo sotto forma di tanti piccoli granelli di sabbia. Un numero indefinito che divenne presto smisurato. Sabbia grigia, con tonalità di arancione, gradazioni di ambra e corallo… sabbia sottilissima, quasi impossibile a stringersi fra le dita. Geremia la lasciò cadere, libera di formare la spiaggia.

Dal fiume di granelli ne fece però allontanare un minuscolo affluente: lo fece spostare, guidandolo più in là, lì dove ci sarebbero state le scogliere. Nere, bianche, imponenti. Scogli su scogli, pareti di roccia, a prima vista insormontabili. Allungò la barriera fino a farla riavvicinare al mare. Attese che i flussi ametista la toccassero e vi si infrangessero contro. Solo in quel momento, quando gli spruzzi di acqua avevano iniziato a sollevarsi, modificò ancora la litania. Non seguiva uno spartito, non sarebbe servito.

Sentì quali erano le note giuste nelle dita, sotto le unghie, e semplicemente eseguì.

Una nuova sorgente prese forma, superando con maestria il confine roccioso e distanziandosi in fretta. E come pioggia il verde si abbatté fragoroso. Inondò il nero, sommergendolo impietosamente. Radure, steppe, campi, colline e brughiere. Gocce di rugiada cadevano senza sosta. Riempiendo ogni singola puntina nera, coprendola e nascondendola. Trifoglio, smeraldo, oliva e mirto. Fronde su fronde, steli variopinti.

Non si diede tregua, intensificando invece la melodia: ci stava prendendo gusto.

Incrociò le mani, scambiandole di posto senza incertezze. E i flussi si alternarono alle cascate.

Collaboravano, adesso. Aiutandosi e completandosi a vicenda. Fiumi nelle radure, fiori rari sulle scogliere. Geremia giocava, sbizzarrendosi senza mai eccedere.

Serrò gli occhi con forza, calcando maggiormente sui tasti. Una piccola ruga al centro della fronte, fece nascere gli alberi. Spuntavano dalla terra, ovunque, anche in riva al mare. Perfetti, tutti diversi. Rami corti, fronde lunghissime. Fiori minuziosi, curati nei minimi particolari. Di tutti i colori, impossibili da ignorare.

Si sarebbe potuta avere una sensazione di oppressione, ma non era così.

Non c’era niente di forzato, in ciò che Geremia stava facendo: ogni cosa sembrava andare al suo posto con naturalezza, come se fosse stata lì da sempre. Laghetti, gole, strade e grotte… tutto si collocava senza problemi, dando l’impressione di star semplicemente mettendo insieme le tessere di un puzzle.

Una foresta, due, anche tre. Lontane, blu e rosse. Poi anche una nera, con alberi ricoperti di spine velenose.

Geremia annuì, muovendo il capo a tempo di musica. Cos’è che mancava?

Sentiva l’imponenza del nero al di sopra di sé e capì: il cielo. Come lo avrebbe fatto? La domanda, in realtà, era puramente retorica. Non lo avrebbe toccato. Nero era perfetto. Si sorprese lui stesso di ciò che aveva appena pensato, eppure non era il falso. La volta doveva restare nera. Scura, malinconica, in contrasto con tutto il resto. Geremia ticchettò con le dita sui tasti e distese il volto: ad ogni tocco si accendevano centinaia di stelle. Bianche, gialle, luminose. Oro, zafferano e mandarino: rilucevano, numerose.

Quelle erano stelle perenni: non si sarebbero mai mosse.

Per un po’ l’armonia non cambiò, tentennante. Sentiva qualcosa, Geremia. Non gli dava pace.

Dondolò il capo, lasciando che fosse la musica a guidarlo. E così fu: si sentì chiamare dalla foresta nera, quella più cupa e lontana. Non era finita. Non era nemmeno cominciata, a dire la verità. Percorse l’intera tastiera con fluidità, riappropriandosi di uno dei flutti colorati. Lo diresse verso gli alberi altissimi e fece sì che si creasse un minuscolo passaggio: una stradina piccolissima, un vialetto quasi invisibile. Accessibile solo a chi lo avesse realmente desiderato con tutto se stesso.

Continuò per quella via, inoltrandosi nella selva.

Un groviglio di rami, spazzati via dai colori… dalla musica di Geremia.

Non si fermò fino a che non ebbe raggiunto il cuore del bosco: lì attese, rallentando la frenesia delle dita. Respirò, riacquistando padronanza sui tasti, e quindi riprese: con veemenza, eccitazione e un pizzico di inquietudine. Quasi spasmodico si tuffò nuovamente nella sinfonia, una nuova marcia a guidarlo. Scavò, eliminando gli alberi per qualche centinaio di metri. Nello spazio vuoto che aveva creato fece sprofondare il flusso cristallino. Perforò la terra, bucandola senza fine. Un lago, con tanto di pendio scosceso.

Dalla china, sorridente, fece scorrere l’acqua. Dolce, brillante, limpida.

Riempì il bacino, dando forma reale al bacino immaginato da Geremia. Quello che gli incurvava le labbra era un sorriso teso, pensieroso. Il sorriso di chi ancora non è soddisfatto: si sentiva un impressionista, e non aveva alcuna intenzione di mettere via il pennello. Si dedicò con maggiore minuzia alle note: ogni suono era un nuovo particolare. Le ninfee galleggianti, i muti pesciolini, i salici e le pietre. Fu poi la volta delle conchiglie, del vento e delle foglie cascanti. Geremia storse il naso, dando vita anche alle lucciole: non potevano mancare. La smorfia, tuttavia, non lasciò il viso del pianista. Perché…?

La musica si andava affievolendo oramai, memore di aver quasi raggiunto l’atto finale.

Stava per arrendersi, deciso a non dar peso a quel fardello che lo affliggeva insensato, quando l’impulso giunse inatteso: e le dita fecero tutto. Ripercorsero lo spartito al contrario, ripetendo le note appena suonate alla rovescia. La cascata, ecco cosa non andava. Scorreva nel verso sbagliato.

L’acqua non doveva scendere dall’alto verso il basso, non doveva tuffarsi ed affogare nel lago ai suoi piedi: ma bensì salire, correndo dallo specchio piano su per lo scosceso pendio. Contro ogni legge.

Illegale? Forse… eppure solo quando la gravità venne sconfitta, il senso di sconforto passò, abbandonando Geremia. L’acqua ora sembrava star cercando di raggiungere le stelle.

Un sospiro sfuggì dalle labbra dell’artista, soddisfatto.

Un’ultima cosa ancora non era stata creata: la vita.

E il pianista non ci mise più di tanto a provvedere a tale mancanza: modellò l’uomo, affatto dimentico di ciò che aveva deciso. Fece sì, infatti, che possedessero una particolare caratteristica. Qualcosa di molto simile all’empatia, eppure ancora più forte. Conferì loro una determinata capacità: la possibilità di venire a conoscenza di tutti i sentimenti e le emozioni degli altri tramite un semplice tocco.

Non gli sembrava una cattiva idea, anzi. Come succedeva a lui con i tasti del pianoforte…

Era tutta una questione di tocco.

Geremia interruppe la musica, esausto.

Si sentiva soddisfatto, come ogni volta. Intrecciò le dita, sgranchendole nuovamente. E, finalmente, con un sospiro, aprì gli occhi. Si guardò attorno, esattamente come aveva fatto la prima volta. Osservò ogni cosa, un sorriso mesto sulle labbra. Annuì fra sé e sé, afferrando lo stuzzicadenti poco distante. Lo rigirò fra le dita e se lo sistemò fra le labbra, svuotato. Aveva fatto ciò che andava fatto.

Si sdraiò, Geremia, sulla panca del pianoforte. La stessa con cui aveva cercato, in parte riuscendoci, a diventare un tutt’uno. Vi si sdraiò, sistemandoci per bene. Le braccia piegate dietro la testa, chi meglio di lui? Non mancava niente a Geremia. Niente, a parte un po’ di riposo… e se lo sarebbe preso.

Chiuse gli occhi, lasciando che i pensieri e i rumori fluissero lontano da lui.

Chiuse gli occhi, permettendo al sonno di impadronirsi di lui.

Chiuse gli occhi, mentre il respiro lentamente rallentava.

Chiuse gli occhi, e dormì.

 

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