La sinfonia delle stelle
Geremia sorrise.
Respirando piano prese posto,
l’espressione distesa.
Il residuo malandato di
uno stuzzicadenti gli pendeva dalle labbra. Adorava giocherellarci. Una mania, un
vizio, forse una droga. Non era convinto di poterne più fare a meno. Con un
sospiro lo rigirò sulla lingua per un’ultima volta, poi lo afferrò con
due dita e lo poggiò sul pianoforte. Esattamente davanti a sé.
Si accomodò meglio, con
attenzione, lasciando che il suo corpo si modellasse con la panca. Cercando di
far sì che diventassero un tutt’uno. Una cosa sola.
Amava quel pianoforte,
Geremia.
Roteò le dita,
sgranchendosele sovrappensiero. Si guardò attorno, osservando il niente.
C’era il nulla intorno
a Geremia.
I suoi occhi penetravano
e scavavano nelle tenebre: nel buio e nell’oscurità totali. Non si vedeva
alcunché, semplicemente perché non c’era alcuna cosa da vedere.
Sorrise ancora, Geremia,
conscio di dover creare lui quel qualcosa. Prese un bel respiro e chiuse gli
occhi. La vista, adesso, non serviva.
Carezzò la fila di tasti
con i polpastrelli, prendendo subito familiarità.
Restò immobile per
qualche istante, le dita ferme a pochi centimetri dalla tastiera bianconera.
Aspettava il momento giusto, attendeva di sentire la musica adatta: quella che
gli sarebbe partita dal cuore. La sola in grado di attraversarlo e fargli
ribollire il sangue gelido. Liberò la mente, inclinò il capo… ed eccola.
La sinfonia che tanto
bramava.
Poggiò le dita sui tasti
e cominciò. Le prime erano poche note, semplici accordi, quasi banali.
Geremia lo sapeva: era
solo l’inizio.
La musica
s’interruppe per un secondo, un’eco pallido
che vibrava nell’aria, per poi riprendere, decisa. Aveva una marcia
nuova, questa volta. Come se stesse lentamente acquisendo coraggio. Le agili
dita si spostavano con noncuranza, percorrendo e sfiorando tutti i tasti. E fu
di lì a poco che successe.
Dalla cassa armonica,
timidi, cominciarono ad uscire. Sprazzi di colore: guizzi, zampilli appena
accennati. Sembravano seguire la musica, andando a tempo con essa.
Guidati dalle dita di
Geremia.
Gli occhi serrati,
aumentò la velocità.
E i colori ubbidirono,
formando una, due, tre cascate che si riversarono nel
nero che li avvolgeva.
Scherzavano, si
rincorrevano, scontrandosi ed amalgamandosi. E al loro passaggio, lasciavano
sfumature, accenni di ciò che avrebbe potuto essere. Schizzi di ciò che sarebbe
stato. Lui sapeva cosa faceva, o meglio, non ne era ancora del tutto sicuro ma
un’idea vaga ce l’aveva. Approssimativa, ecco. Andava limata.
Piegò la testa di lato e
si concentrò, lasciando che le immagini fluissero dentro di lui.
Erano gli occhi della
mente, quelli che Geremia stava usando.
Un artista, ecco
cos’era. Pronto a colorare l’immensa tavola nera che aveva a
disposizione.
Le dita? I suoi pennelli.
I tasti… le tinte a
sua disposizione. Infinite. Inesauribili.
Senza confini e senza
limiti. L’imbarazzo era solamente nel dove cominciare.
Geremia spostò entrambe
le mani alla sua destra e iniziò una rapida discesa verso
sinistra: una scala celere, fluente e sbarazzina. Il preludio di quello
che sarebbe stato un oceano immenso.
Le tre cascate si unirono
in una sola, fluendo sicure e perforando le tenebre. Calme, si riversarono con grazia,
riempiendo parte dello spazio che avevano davanti. Un mare, diverso da tutti
gli altri. Non blu, non azzurro. Era acqua, quella che Geremia stava creando,
eppure differente. Una tinta rosata, tendente al viola nelle zone più profonde.
Ipnotizzante, avvolgente… affascinante. C’erano riflessi rossi,
fucsia e magenta. Sfumature che andavano dal lavanda
all’indaco in un tripudio di onde e correnti.
La musica cambiò
impercettibilmente e una parte della cascata principale si allontanò, deviando
il flusso. Si sparse al confine del mare, cadendo sotto forma di tanti piccoli
granelli di sabbia. Un numero indefinito che divenne presto smisurato. Sabbia
grigia, con tonalità di arancione, gradazioni di ambra e corallo… sabbia
sottilissima, quasi impossibile a stringersi fra le dita. Geremia la lasciò
cadere, libera di formare la spiaggia.
Dal fiume di granelli ne
fece però allontanare un minuscolo affluente: lo fece spostare, guidandolo più
in là, lì dove ci sarebbero state le scogliere. Nere, bianche, imponenti.
Scogli su scogli, pareti di roccia, a prima vista insormontabili. Allungò la
barriera fino a farla riavvicinare al mare. Attese che i flussi ametista la
toccassero e vi si infrangessero contro. Solo in quel momento, quando gli
spruzzi di acqua avevano iniziato a sollevarsi, modificò ancora la litania. Non
seguiva uno spartito, non sarebbe servito.
Sentì quali erano le note
giuste nelle dita, sotto le unghie, e semplicemente eseguì.
Una nuova sorgente prese
forma, superando con maestria il confine roccioso e distanziandosi in fretta. E
come pioggia il verde si abbatté fragoroso. Inondò il nero, sommergendolo
impietosamente. Radure, steppe, campi, colline e brughiere. Gocce di rugiada
cadevano senza sosta. Riempiendo ogni singola puntina nera, coprendola e
nascondendola. Trifoglio, smeraldo, oliva e mirto. Fronde su fronde, steli
variopinti.
Non si diede tregua,
intensificando invece la melodia: ci stava prendendo gusto.
Incrociò le mani,
scambiandole di posto senza incertezze. E i flussi si alternarono alle cascate.
Collaboravano, adesso.
Aiutandosi e completandosi a vicenda. Fiumi nelle radure, fiori rari sulle
scogliere. Geremia giocava, sbizzarrendosi senza mai eccedere.
Serrò gli occhi con
forza, calcando maggiormente sui tasti. Una piccola ruga al centro della fronte, fece nascere gli alberi. Spuntavano dalla terra,
ovunque, anche in riva al mare. Perfetti, tutti diversi. Rami corti, fronde
lunghissime. Fiori minuziosi, curati nei minimi particolari. Di tutti i colori,
impossibili da ignorare.
Si sarebbe potuta avere
una sensazione di oppressione, ma non era così.
Non c’era niente di
forzato, in ciò che Geremia stava facendo: ogni cosa sembrava andare al suo
posto con naturalezza, come se fosse stata lì da sempre. Laghetti, gole, strade
e grotte… tutto si collocava senza problemi, dando l’impressione di
star semplicemente mettendo insieme le tessere di un puzzle.
Una foresta, due, anche tre. Lontane, blu e rosse. Poi anche una nera, con alberi
ricoperti di spine velenose.
Geremia annuì, muovendo il
capo a tempo di musica. Cos’è che mancava?
Sentiva l’imponenza
del nero al di sopra di sé e capì: il cielo. Come lo avrebbe fatto? La domanda,
in realtà, era puramente retorica. Non lo avrebbe toccato. Nero era perfetto.
Si sorprese lui stesso di ciò che aveva appena pensato, eppure non era il
falso. La volta doveva restare nera. Scura, malinconica, in contrasto con tutto
il resto. Geremia ticchettò con le dita sui tasti e distese il volto: ad ogni
tocco si accendevano centinaia di stelle. Bianche, gialle, luminose. Oro,
zafferano e mandarino: rilucevano, numerose.
Quelle erano stelle
perenni: non si sarebbero mai mosse.
Per un po’
l’armonia non cambiò, tentennante. Sentiva qualcosa, Geremia. Non gli
dava pace.
Dondolò il capo,
lasciando che fosse la musica a guidarlo. E così fu: si sentì chiamare dalla
foresta nera, quella più cupa e lontana. Non era finita. Non era nemmeno
cominciata, a dire la verità. Percorse l’intera tastiera con fluidità,
riappropriandosi di uno dei flutti colorati. Lo diresse verso gli alberi
altissimi e fece sì che si creasse un minuscolo passaggio: una stradina
piccolissima, un vialetto quasi invisibile. Accessibile solo a chi lo avesse
realmente desiderato con tutto se stesso.
Continuò per quella via,
inoltrandosi nella selva.
Un groviglio di rami,
spazzati via dai colori… dalla musica di Geremia.
Non si fermò fino a che
non ebbe raggiunto il cuore del bosco: lì attese, rallentando la frenesia delle
dita. Respirò, riacquistando padronanza sui tasti, e quindi riprese: con veemenza,
eccitazione e un pizzico di inquietudine. Quasi spasmodico si tuffò nuovamente
nella sinfonia, una nuova marcia a guidarlo. Scavò, eliminando gli alberi per
qualche centinaio di metri. Nello spazio vuoto che aveva creato fece
sprofondare il flusso cristallino. Perforò la terra, bucandola senza fine. Un
lago, con tanto di pendio scosceso.
Dalla china, sorridente,
fece scorrere l’acqua. Dolce, brillante, limpida.
Riempì il bacino, dando
forma reale al bacino immaginato da Geremia. Quello che gli incurvava le labbra
era un sorriso teso, pensieroso. Il sorriso di chi ancora non è soddisfatto: si
sentiva un impressionista, e non aveva alcuna intenzione di mettere via il
pennello. Si dedicò con maggiore minuzia alle note: ogni suono era un nuovo
particolare. Le ninfee galleggianti, i muti pesciolini, i salici e le pietre.
Fu poi la volta delle conchiglie, del vento e delle foglie cascanti. Geremia
storse il naso, dando vita anche alle lucciole: non potevano mancare. La
smorfia, tuttavia, non lasciò il viso del pianista. Perché…?
La musica si andava
affievolendo oramai, memore di aver quasi raggiunto l’atto finale.
Stava per arrendersi,
deciso a non dar peso a quel fardello che lo affliggeva insensato, quando
l’impulso giunse inatteso: e le dita fecero tutto. Ripercorsero lo
spartito al contrario, ripetendo le note appena suonate alla rovescia. La
cascata, ecco cosa non andava. Scorreva nel verso sbagliato.
L’acqua non doveva
scendere dall’alto verso il basso, non doveva tuffarsi ed affogare nel
lago ai suoi piedi: ma bensì salire, correndo dallo specchio piano su per lo
scosceso pendio. Contro ogni legge.
Illegale? Forse…
eppure solo quando la gravità venne sconfitta, il senso di sconforto passò,
abbandonando Geremia. L’acqua ora sembrava star cercando di raggiungere
le stelle.
Un sospiro sfuggì dalle
labbra dell’artista, soddisfatto.
Un’ultima cosa
ancora non era stata creata: la vita.
E il pianista non ci mise
più di tanto a provvedere a tale mancanza: modellò l’uomo, affatto dimentico
di ciò che aveva deciso. Fece sì, infatti, che possedessero una particolare
caratteristica. Qualcosa di molto simile all’empatia, eppure ancora più
forte. Conferì loro una determinata capacità: la possibilità di venire a
conoscenza di tutti i sentimenti e le emozioni degli altri tramite un semplice
tocco.
Non gli sembrava una
cattiva idea, anzi. Come succedeva a lui con i tasti del pianoforte…
Era tutta una questione
di tocco.
Geremia interruppe la
musica, esausto.
Si sentiva soddisfatto,
come ogni volta. Intrecciò le dita, sgranchendole nuovamente. E, finalmente,
con un sospiro, aprì gli occhi. Si guardò attorno, esattamente come aveva fatto
la prima volta. Osservò ogni cosa, un sorriso mesto sulle labbra. Annuì fra sé
e sé, afferrando lo stuzzicadenti poco distante. Lo rigirò fra le dita e se lo
sistemò fra le labbra, svuotato. Aveva fatto ciò che andava fatto.
Si sdraiò,
Geremia, sulla panca del pianoforte. La stessa con cui aveva cercato, in parte
riuscendoci, a diventare un tutt’uno. Vi si sdraiò, sistemandoci per
bene. Le braccia piegate dietro la testa, chi meglio di lui? Non mancava niente
a Geremia. Niente, a parte un po’ di riposo… e se lo sarebbe preso.
Chiuse gli occhi,
lasciando che i pensieri e i rumori fluissero lontano da lui.
Chiuse gli occhi,
permettendo al sonno di impadronirsi di lui.
Chiuse gli occhi, mentre
il respiro lentamente rallentava.
Chiuse gli occhi, e
dormì.
§