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Autore: Una Certa Ragazza    03/12/2011    3 recensioni
Com'era Riza agli occhi del padre e come lui decise di passarle i segreti della sua alchimia... al di là di tutto, Berthold Hawkeye è un personaggio spesso ignorato (visto? Non è nemmeno tra i personaggi...perciò devo inserire solo Riza, anche se il vero protagonista è lui XD) o caricato di tutti i mali di questa terra, perciò ho scritto questa storia per raccontare che, se non è giustificabile, è umano anche lui. Ed è un padre, per quanto degenere. La canzone, che dà il titolo alla storia, è "Figlia" di Vecchioni.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Riza Hawkeye
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ok, so che sono vent'anni che non mi faccio più vedere e che prima di tutto avrei dovuto pubblicare un altro capitolo di "Pull the Trigger", ma era davvero da molto tempo che volevo scrivere questa fanfiction e appena ho avuto un po'di tempo non ho resistito.
Si tratta di una song fiction per cui ho utilizzato "Figlia" di Vecchioni, una canzone che adoro. Mentre andavo avanti con Fullmetal Alchemist mi sono resa conto con sommo stupore che sembrava fatta per descrivere il rapporto di Riza col padre, almeno per come la vedo io (ve ne accorgerete strada facendo, ma ci sono dei riferimenti così azzeccati che sono rimasta basita e in preda a un delirio tremens del tipo "prendi in mano la penna e scrivi!").
Se state cercando una fanfiction in cui Berthold Hawkeye sia un mostro avete sbagliato storia. Penso che il signor Hawkeye voglia bene a sua figlia. A modo suo, ovvero in un modo inconcepibile per la maggior parte degli esseri umani "normali", ma le vuole bene e forse non è riuscito a dirglielo come avrebbe voluto. Io mi sono imbarcata nell'ambizioso progetto di raccontare quest'uomo e di cercare di comprenderlo un po'meglio. Con questo, come ho detto nel sommario, non lo giustifico, ma ho fatto del mio meglio per capire questo personaggio e rendere su carta quello che pensava.
Spero che sia venuto fuori qualcosa di accettabile, ma non ci giurerei perche per un qualche misterioso motivo i concetti che volevo esprimere mi sembravano taaanto belli, peccato solo che appena messi nero su bianco diventavano uno schifio... che ci volete fare, ho ancora una lunga strada davanti a me! Spero che mi darete dei buoni consigli, soprattutto riguardo l'aspetto psicologico del personaggio. Grazie per essere su questa pagina!

 


 Figlia
 
“Sapeva tutta la verità
Il vecchio che vendeva carte e numeri
Però tua madre è stata dura da raggiungere
Lo so che senza me non c’era differenza
Saresti comunque nata
Ti avrebbe comunque avuta”
 
Non riusciva a sostenere a lungo lo sguardo di sua figlia, Berthold Hawkeye.
C’era troppo di lei nello sguardo di Riza, e man mano che gli anni passavano c’era stato anche nel suo comportamento, nei suoi gesti, nel suo modo di stare nel mondo, addirittura. In punta di piedi, ma senza dubbi, con fermezza.
C’era un muto rimprovero, in quegli occhi, che Riza portava con sé inconsapevolmente ma che lui sentiva forte e preciso, come un urlo. Ci ritrovava dentro la sua colpa e la sua paura, il rancore di sua moglie perché non era stato degno di lei quando era in vita e perché non era stato capace di andare avanti quando era morta.
Come avesse fatto Riza a diventare tanto simile alla madre non lo sapeva. Aveva fatto di tutto perché non accadesse: di lei in casa sua non si parlava.
A volte si scopriva a guardare Riza con la bocca semiaperta e le parole incatenate alla lingua, intenzionate a non lasciarla. Eppure voleva dirle, perché certe volte sentiva il bisogno che il loro amore e quello che erano stati venisse ricordato almeno dalla loro unica figlia, ma tutte le volte il dolore era troppo e lui, per farlo smettere, perdeva i suoi occhi nel vuoto e se ne andava, rintanadosi nel suo studio.
Ed eccola lì, sua figlia: un essere umano che non portava addosso nulla di lui e tutto della donna che aveva amato, a riprova del fatto che non l’aveva mai meritata e per questo non aveva nessun diritto di vedere un po’di sé stesso nella loro bambina.
 
“[...] Però penso di avere fatto del mio meglio
Così a volte guardo se ti rassomiglio
Lo so, lo so che non è giusto,
Però mi serve pure questo.”
 
Eppure ogni tanto, quando ci riusciva senza che gli venisse voglia di tornarsene nel suo studio, si ritrovava a spiarla disperatamente, sperando di cogliere in lei il suo stesso cipiglio di quando si concentrava, o di vederla assumere la stessa piega della bocca che aveva lui quando veniva colpita da una realizzazione improvvisa.
Così quando la vedeva prendere un libro e accoccolarsi su una delle poltrone tarmate della biblioteca – anche se sembrava fuori luogo chiamare quella stanza decadente con un nome che pareva stare bene solo nelle ville dei ricchi – con quei grandi occhi che assorbivano le parole e ne erano assorbiti, come faceva lui quando era ragazzo, sorrideva e chiudeva la porta.
E continuava a sorridere a lungo, con una strana voglia di piangere e buttare giù tutto il mondo per poterlo rifare da capo.
 
“Poi ti diranno che avevi un nonno Generale
E che tuo padre era al contrario un po’anormale [...]”
 
Chissà se Riza avrebbe mai saputo chi era suo nonno, e di conseguenza avesse capito chi era suo padre.
Lui, quello che aveva sposato la figlia del Generale e che all’esercito non credeva. Lui, il fallito, lo stravagante.
Se Riza lo avesse saputo lo avrebbe disprezzato anche lei? Forse sarebbe stata lei la prima a dire ad alta voce quello che pensavano tutti: “Mia madre, povera donna: nata da un uomo così illustre, gallonato, e finita con quell’inadatto alla vita di mio padre.”
Forse sarebbe andata a una parata militare, accesa di grida e di patriottismo, come tutti.
Forse avrebbe subito anche lei il fascino dell’uniforme. Forse avrebbe sposato un soldato, un altro Generale, magari. Era bella abbastanza.
Si sarebbe guadagnata il suo posto sicuro in quella stessa società che lui disprezzava, avrebbe avuto i piedi ben piantati per terra, le mani pronte ad applaudire il Fuhrer e qualche bel vestito di seta che lui non aveva potuto darle, così come non era riuscito a darle tante cose senza neppure essere in grado di spiegarle perché non fossero quelle le più importanti.
Berthold Hawkeye non era soltanto una persona anormale, era soprattutto un padre anormale, senza la forza e la capacità di occuparsi di sua figlia. Lui, per sua natura, non poteva insegnarle a vivere, e ormai era troppo morto per poterle insegnare la vita.
 
“E i sogni, i sogni
I sogni vengono dal mare
Per tutti quelli che han sempre scelto di sbagliare
Perché, perché vincere significa accettare:
«Se arrivo vuol dire che a qualcuno può servire»
E questo, lo dovessi mai fare,
Tu questo non me lo perdonare.”
 
Aveva fatto una scelta, non appena era stato in grado di capire ciò che lo circondava: quella di non vendersi. Non peccava di falsa modestia, sapeva benissimo a che livello fossero le sue capacità e di valere più di tutti quei giullari messi assieme, eppure non si muoveva dal suo studio.
“Mettere le proprie abilità al servizio dello stato.” Bella roba, e poi? A chi avrebbe giovato? Come se non lo sapesse...
Il suo sogno era morto il giorno in cui era morta sua moglie. Lui stesso aveva smesso di vivere ed era diventato la sua ricerca.
A volte, di notte, lo vedeva: il mondo che bruciava in una festa gloriosa e rinasceva dalle sue stesse ceneri.
Ma quello non era più un sogno per lui, non era lui a doverlo realizzare: ormai non poteva più.
Lo avrebbe regalato a qualcun altro, a Riza, magari.
 
“E figlia, figlia
Non voglio che tu sia felice
Ma sempre contro
Finchè ti lasciano la voce
Vorranno la foto col sorriso deficiente
Diranno: «Non ti agitare che non serve a niente.»
E invece tu grida forte
La vita contro la morte.”
 
E improvvisamente, con la più grande, terribile e soprattutto bella intuizione della sua vita si rese conto che la cosa più importante che Riza aveva ereditato da loro era l’incapacità cronica di rinunciare a sognare.
Era lampante, c’era da sempre in quello sguardo da cui scappava: il marchio di quelli che guardano in faccia il fango del mondo, fanno un sorriso consapevole e dicono “no”.
Lui era rimasto fermo, non era più riuscito a staccarsi dai suoi lutti, dai suoi pensieri astratti così inconciliabili con la realtà come tessere di un vecchio puzzle a cui mancano i pezzi, ma lei ce l’avrebbe fatta.
Bisogna sempre lasciare una speranza in eredità ai propri figli.
Quella creatura essenziale, irremovibile e gentile avrebbe fatto la differenza, ora sì, ora vedeva che il mondo che non aveva potuto vedere lui sarebbe stato di sua figlia.
 
“E figlia, figlia
Figlia sei bella come il sole
Come la terra
Come la rabbia, come il pane
E so che ti innamorerai senza pensare
E scusa, scusa se ci vedremo poco e male...”
 
Per la prima volta da molto, troppo tempo, Berthold Hawkeye sollevò lo sguardo oltre la finestra dello studio, guardò fuori verso il giardino che non era neppure più un giardino.
Lì, in mezzo all’erba alta, c’erano Riza e Roy.
Lei seduta composta a gambe incrociate, lui sdraiato a terra con un libro di alchimia davanti, ma senza studiare.
Chissà di cosa stavano parlando. Avrebbe voluto saperlo, e tuttavia si rendeva conto che quello era un territorio in cui lui non poteva entrare.
Ad un tratto il ragazzo si alzò e si diresse verso il melo poco oltre il cancello.
Riza gli gridò qualcosa mentre lui iniziava ad arrampicarcisi, e per tutta risposta Roy le fece un sorriso allegro, beffardo.
Lei raccolse un sasso da terra e lo scagliò con precisione sull’albero. Una mela cadde dritta in testa al suo amico.
Rise, sua figlia, e anche se c’era il vetro a dividerli Berthold fu certo di poter sentire risuonare quella risata nello studio, come una ventata, come la primavera.
Riza, sentendosi osservata, si voltò verso la casa, e aveva già la delusione pronta sul viso, ma quando vide il riflesso del padre alla finestra il suo volto si aprì in un sorriso. Un sorriso assolutamente universale. Quando era stata l’ultima volta che aveva fatto davvero caso al suo sorriso raro e aperto?
Berthold barcollò, si allontanò dalla finestra e afferrò una penna alla cieca.
Non c’era tempo da perdere, doveva mettersi subito al lavoro, sintetizzare e codificare la sua arte in maniera accettabile il prima possibile. Quanto tempo gli restava? Due anni, tre? Ma non importava, perché da quel momento la sua vita aveva uno scopo e dunque quanto sarebbe durata non era più un problema.
Doveva lasciare a sua figlia la sua unica eredità: un sogno.
 
“Lontano mi porta il sogno
Ho un fiore qui dentro al pugno.”

   
 
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