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Autore: Uricchan    04/12/2011    6 recensioni
[5986 - Gokudera x Haru]
La routine quotidiana che ci costruiamo ogni mattina, ogni giorno, ogni sera, è frutto di una faticosa costanza che ci permette di mantenere ben oliato quel meccanismo necessario a sopravvivere nella realtà che viviamo. La quale, non è sempre la stessa per tutti.
Una fanfiction che cercava di essere fluff, ma è sprofondata nuovamente nell'angst. Se anticipassi altro, avrei scritto per niente.
Genere: Angst, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Hayato Gokudera, Kyoko Sasagawa, Tsunayoshi Sawada
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Yo! E’ un po’ che non pubblicavo e indovina un po’ cosa ho scritto (in questo triste settembre senza interunetto)? Ma senza dubbio una 5986. LOL la mia salvezza e la mia disgrazia =A=
E… niente, comincio col dire che il titolo non è mio, ma è ovviamente un adattamento del magnifico Ungaretti, che in realtà ha scritto questo verso “Cara, lontano come in uno specchio” – per chi volesse leggerla, la poesia è “Canto” del 1932. Il fatto di aver scelto come titolo una citazione dal poeta che adoro, ha fatto sì che mi cimentassi in giorni di “studio matto e disperatissimo” per rendere questa inutile fanfiction un testo, per lo meno, apprezzabile. Studio che non ha dato i frutti sperati e mo’ vi beccate questa half-assed FF.
Ah! Ve lo dico, c’è un cambio POV “nel mezzo del cammin di” vostra lettura. Just sayin’.
E bon, ci sono forse altre due cose che vorrei dire, ma le rimando alla fine, per ovvi motivi. Buona (LOL, eufemismo) lettura! 

 


*   *   *   *   *   *


Caro, lontano come in uno specchio

 





Un bagliore disturba il mio sonno. Sbadiglio.
Anche questa mattina sono stata svegliata dalla luce accecante del sole, che sbirciando nella stanza attraverso la grande porta-finestra, si riflette in ogni angolo della camera. Le pareti completamente intonacate, le tende, il mobilio, persino le mie lenzuola, tutto di un bianco splendente, fanno sì che io mi risvegli ogni mattina immersa in questo immacolato candore. Mentre con una mano mi stropiccio gli occhi, che faticano ad aprirsi, con l’altra mi aiuto a mettermi a sedere; contemplando, ancora in quel particolare stato di dormiveglia onirico della mattina, come la luce, entrando con tanta violenza, diventi un tutt’uno con il niveo colore di questa stanza.

“Hm, Haru?”

I suoi capelli riflettono quella stessa luce, forse, più di qualunque altra cosa in questa stanza. E come quel bagliore la sua voce è calda e suadente, come quel fulgore invadente scivola sulle poche sillabe che pronuncia, con quel tono indescrivibile e singolare che suona così naturalmente familiare; ed ha la dolcezza di un segreto tra due amanti.

Anche questa mattina sono stata svegliata dall’uomo che amo, seduto poco lontano da me, ma abbastanza distante da potermi far gustare il languore del momento in cui la mia mano si allunga, i movimenti ancora lenti, per raggiungere la sua, già pronta a stringerla. Mentre le mie dita s’intrecciano alle sue, come se per esse non ci fosse stato mai posto più perfetto e naturale che quello, con l’altra mano raggiungo la candida tazza posata sul comodino. Persa nella delicatezza di quel gesto non sento nemmeno il caldo liquido nero scorrermi lungo la gola.  Qualche sorso è sufficiente, non ne ho davvero bisogno, è solo un’abitudine. Mentre ripongo con cura la tazza, mi sovviene un pensiero.

“Hayato, non pensi dovremmo ridipingere questa stanza? E’ tutto così… bianco. Solo bianco.”

Schiocca la lingua, ma il suo tono è pacato: “Sai che non possiamo. Cosa importa, poi. Un colore vale l’altro.” Gira il viso e una lieve scia di fumo prende vita dalle sue labbra, per scomparire poco lontano. Per un momento il suo viso ritorna quello di un tempo; di tredici anni fa, quando litigavamo molto più spesso di quanto ci salutassimo e cose come queste, erano per lui null’altro che una perdita di tempo. Sorrido e soffoco una piccola risata, abbassando lo sguardo: in fondo, non è mai cambiato. Sento i suoi occhi smeraldini, inquisitori puntati su di me, ma si addolciscono presto, e mentre nuovamente volta la testa, scorgo un sorriso che avevo già indovinato.

Si alza, camminando verso l’altro lato della camera, piuttosto vasta; aggiunge un appunto, facendomi notare che mi sbaglio a proposito di tutto quel bianco, che pare invadere completamente la stanza, e sembra inghiottire anche lui: mentre si allontana, la sua figura mi appare quasi evanescente. I suoi passi risuonano come in un vuoto: anche chiudendo gli occhi, posso sentire distintamente dove si dirigono.
Si ferma, dove avevo immaginato si sarebbe fermato.

Riaprendo gli occhi, lo vedo sedersi con lentezza nostalgica sullo sgabello e sollevare il coperchio di abete finemente dipinto in nero. I tasti d’ebano e avorio gli si schiudono davanti agli occhi, e in quel momento so che guarda a un futuro mai esistito; le sue dita scorrono su quelle infinite scale con la stessa delicatezza delle sue carezze sul mio corpo.  Saggia un tasto, poi un altro: una melodia effimera come un sospiro e, al contempo, intensa come solo la storia di una vita può essere, si stende sulla stanza e, accordo dopo accordo, la invade. Sotto le sue mani abili ed esperte il Notturno numero nove di Chopin prende corpo, risuona con il suo sentimento e sgorga dalla profondità del suo animo. Ed io ne bevo come ad una fonte.

Tanto ne bevo, e tanto avidamente, che mi intossica. Un brivido, una vertigine, l’aria inizia a mancare, mentre il mio corpo e la mia mente si allontanano inesorabilmente uno dall’altro. La mia vista è sfuocata, a tratti manca completamente e la stanza sembra perdersi nel suo stesso bianco.
Vedo il rosso sbocciare come un fiore e macchiare la nivea visione.
Tutto porta a un cieco buio e rimpiango il mio tradito candore.


Una voce. La voce. E tutto finisce.
Una carezza; inconfondibile. Un sussurro, che tocca il mio orecchio; inconfondibile. Un bacio: sulla mia mano, che a tentoni lo cercava, sulla mia fronte e sulle mie labbra dischiuse. Inconfondibile è il suo profumo. Quando apro gli occhi, la confusione è dimenticata e la scena che mi si apre davanti è la stessa da non ricordo più quanto tempo. Forse da sempre.

“Io vado.” Solo questo. Poi si allontana.

“Torna presto. Torna... ” Ma non risponde. Non mi ha mai risposto, solo ondeggia la mano mentre esce. Come sempre. Un giorno come un altro.
Per caso, noto sul tavolo le sue chiavi, mentre mi alzo di tutta fretta per portargliele, bussa alla porta. “Deve essersene accorto”, sorrido. Ma quando apro l’uscio il sorriso scompare per un attimo: non è lui. Due visi, frammisti di felicità e imbarazzo, mi accolgono.

“Kyoko-chan, Tsuna! Hayato è appena uscito. Ha dimenticato le chiavi, gliele porto e sono da voi. Non vorrei che tornasse mentre io non ci sono e rimanesse fuori di casa. Imprecherebbe come un pazzo.”
Quei visi, quei visi si tinsero di uno sconforto, che sebbene mi fosse vagamente familiare, stentavo a comprendere.







Finalmente oggi ci hanno permesso di andare a visitare Haru, di nuovo. Sono passati ormai mesi dall’ultima volta che abbiamo potuto vederci: dopo tutto il tempo che abbiamo trascorso insieme in questi anni, ogni giorno di lontananza è stato come incidere una ferita già dolorosamente aperta. Adesso, forse, quella ferita potrà rimarginarsi e riunirci ancora una volta.
Pare che ultimamente  sia rimasta molto tranquilla, o così ci hanno riferito i medici. Secondo le loro diagnosi, questo potrebbe essere un importante miglioramento. Io… non posso far altro che sperare.
 
Haru-chan, non ti preoccupare, presto saremo ancora insieme. Come ai vecchi tempi, come negli ultimi undici anni. Finalmente potrai tornare con tutti noi, e insieme andremo avanti. Insieme ce l’abbiamo sempre fatta, vedrai, tornerà tutto come prima.

O quasi.


Tsu-kun, mi ha accompagnato: so che sente sulle spalle un senso di colpa, che posso solo in parte aiutare a sollevare. So che si sente responsabile, sebbene nessuno di quei due si sarebbe mai anche solo sognato un pensiero simile. Vedo il suo sguardo preoccupato ed è come un libro aperto per me; ma lo leggo in silenzio, senza far notare che capisco ogni cosa che ogni suo piccolo movimento scrive; e con un sorriso sempre pronto, perché non si debba preoccupare anche per me. Prima di bussare, però, lo guardo, cercando, forse, qualcosa: mi accorgo che i miei occhi pieni di speranza si riflettono nei suoi. E’ tutto quello di cui ho bisogno.

Haru apre quasi all’istante, ma il suo sorriso scompare per un attimo quando ci riconosce. E’ una frazione di secondo prima che il suo viso si illumini di nuovo, ma quel fantasma di delusione nella sua espressione non mi sfugge. Forse anche i suoi occhi erano ricolmi di speranze, di altre speranze.
“Kyoko-chan, Tsuna-san! Hayato è appena uscito ed ha dimenticato le chiavi, gliele porto e sono da voi. Non vorrei che tornasse mentre io non ci sono e rimanesse fuori di casa. Imprecherebbe come un pazzo.”



Quel senso di totale impotenza che mi aveva accompagnato, un poco ogni giorno, in tutti questi mesi, mi travolge con tanta irruenza da lasciarmi paralizzata. Tutte le mie speranze si infrangono all’istante, crollano come cocci di un vetro, e si spezzano in schegge sempre più piccole e irrecuperabili. L’unica certezza che rimane ora, è che il mio compagno condivide le mie paure.
“Haru-chan…” cerco di formulare una frase, una domanda: vorrei chiederle di dirmi che sia tutto una finta, una farsa e che la mia amica stia di nuovo bene, così che possa tornare con me e insieme superare tutto. Ma balbetto, incredula, e posso solo stringermi a Tsuna, che ha sulle labbra quelle parole che fanno male a tutti e a lei più di chiunque altro. Il medico, sopraggiunto dietro di noi, ha sentito tutto e lo incoraggia a dirlo, a darle di nuovo questa sofferenza. Noi, che eravamo venuti per vederla stare bene.

“Haru… Haru, Gokudera-kun… non tornerà. Non tornerà più. Gokudera-kun è…” Ogni sua esitazione si tramuta in un mio brivido, vedo le labbra che tremano e si ribellano, perché non vogliono dire. Non vogliono dire quello, non a lei. Gli occhi di nocciola già lucidi, abbassa il capo, i pugni stretti e una lacrima si schianta senza pietà al suolo.
Neanche Tsuna riesce ancora a contenere le lacrime e lascia che gli righino il viso a mostrare il dolore, senza vergogna. Come in uno specchio, che ripete le azioni, ma non ne conosce la ragione, gli occhi di Haru si bagnano della stessa sofferenza, ma velati da uno strato d’ingenuità, riflettono la sua mente, che ancora non sa nulla. E non vuole ammettere nulla. Dopo due anni, non vuole ancora ammettere nulla.

“… Gokudera-kun è morto.”




Nel frattempo, la vedo: la tazzina bianca che mi aveva supplicato di portarle. Lì poggiata sul comodino, bianca, immacolata, mai usata. L’ultimo suo regalo; senza significato, comprata meramente per sostituirne un’altra che le aveva rotto. Apparentemente vuota, inutile, insignificante, ma comunque l’ultimo suo regalo.
Si erge lì, come un cimelio, una piccola lapide del loro amore a cui lei si ostina ad aggrapparsi, incurante del mondo che continua a scorrerle intorno. Anche ora, gli occhi straripanti di lacrime, lei la guarda, come se in quei pochi centimetri di porcellana potessero d’improvviso sgorgare tutte le risposte che ha perso. Poi, proprio come se le avesse trovate, si volta, con una lentezza straziante e con qualche passo incerto si mi si avvicina, mi tocca una mano e lascio che la prenda tra le sue. Stringo la sua mano calda, come se potesse aiutare a svegliarla da questo sonno inconscio. Il nostro sguardo si incontra e si scambia quelle parole che le labbra non sanno pronunciare. A un tratto riappare, il sorriso che avevo dimenticato e che mi dice “Kyoko, sto bene.”

Ora ho capito. Solo ora capisco quanto sia presuntuoso ed egoista desiderare che lei torni come prima, torni nel mondo tormentato da una tempesta che non è la sua. In quello sguardo perso in chissà quali altre allucinazioni, già dimentiche delle tristi parole e delle lacrime, vedo la fatica e la costanza con cui ha costruito una realtà in cui possa essere nuovamente felice. E posso esserlo anche io, sapendo che lei ci sarà, ci sarà sempre, in questo universo bianco, sorseggiando vuoto dalla sua tazzina bianca.








E la crudele solitudine
Che in sé ciascuno scopre, se ama,
ora tomba infinita,
da te mi divide per sempre.

Cara, lontano come in uno specchio.


 





Mi autoproclamo Gokudericida. Seriamente, perché non posso scrivere una normale, fluffosissima fic? Perché? TTATT
Qualcuno mi starà già odiando perché fondamentalmente scrivo sempre la stessa fic e sempre lo stesso pairing. La verità è che non sono capace: nè di fare questo, né tantomeno di provare altro. Scusate, me ne dolgo. orz
   
 
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