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Autore: margheritanikolaevna    05/12/2011    3 recensioni
Questa stravagante fanfiction natalizia nasce dallo scellerato incontro tra due dei miei amori: la letteratura e...Mac Taylor. Cosa può mai accomunare il serissimo tenente della scientifica di NY all'avaro Ebenezer Scrooge? e Charles Dickens si divertirebbe o si rivolterebbe nella tomba? Se vi va, leggetela e fatemi sapere la risposta. Ah, dimenticavo...tanti, tanti auguri di buon Natale!
Prima classificata al contest "A Christmas Carol", indetto da Nekhel su efp
Questo è il link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10441623
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mac Taylor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L'avvertimento "spoiler" riguarda l'episodio della settima stagione di CSI NY, ancora inedito in Italia, in cui compare il personaggio di Bill Hunt. Chi conosce il racconto di Dickens noterà che ho cercato di rispettare l'originale il più possibile, sia nella struttura che nelle parole scelte dal grande autore, per accentuare l'effetto "strano" dell'incontro tra due mondi solo in apparenza molto lontani tra loro. Grazie a tutti coloro che leggeranno e lasceranno un commento. Ah, dimenticavo, questi personaggi non appartengono a me, bensì alla CBS Broadcasting Inc., che ne detiene tutti i diritti. Gli elementi non presenti in CSI, invece, di mia invenzione appartengono solo a me (e capirai...). Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 





CSI NY: A Christmas Carol

ovvero

Storia di fantasmi per Natale


 



Prima Strofa

Il fantasma di Hunt


 



William “Bill” Hunt era morto. Tanto per cominciare. Su questo non c’è alcun dubbio. Il certificato era stato firmato dal medico legale, Mac Taylor aveva firmato il rapporto di polizia sulla sua morte. E presso la Scientifica di New York il nome di Mac Taylor godeva gran credito, qualsiasi cosa decidesse di fare.

Bill Hunt “il selvaggio”, primo partner nonché istruttore del tenente Taylor era morto come un chiodo piantato in una porta.

Attenzione! Non intendo dire di sapere, per conoscenza personale, che cosa mai ci sia di particolarmente morto in un chiodo piantato in una porta. Per quanto mi riguarda, sarei stata propensa a credere che sia un chiodo piantato in una bara l’articolo di ferramenta più morto sul mercato. Ma la saggezza dei nostri antenati sta nella similitudine e le mie mani profane non debbono turbarla, o sarebbe la rovina del Paese. Mi permetterete, dunque, di ripetere con enfasi che Bill Hunt era morto come un chiodo piantato in una porta.

Mac Taylor sapeva che era morto? Certo che si. Come poteva essere altrimenti? Diciassette anni prima, quando lui era ancora un agente inesperto, avevano arrestato insieme Raymond Harris per possesso di droga ed armi; il borsone contenente il denaro di Harris aveva fatto gola ad Hunt, che ne aveva rubato ben 200.000 dollari, lasciando che poi fosse lo stesso Mac a sottoscrivere il rapporto di consegna della borsa e facendolo, in tal modo, figurare come capro espiatorio in caso di problemi. Appena scarcerato, Harris aveva cercato i due poliziotti e, al termine di un inseguimento in auto, aveva ucciso Hunt, colpevole di essersi a sua volta macchiato dell’omicidio di Miranda, amatissima fidanzata del galeotto.

Insomma, Mac aveva assistito personalmente alla morte di Bill Hunt ed era stato tra i pochissimi a partecipare al suo funerale.

L’accenno al funerale di Hunt mi riporta al punto da dove ho cominciato. Bisogna che ciò sia perfettamente chiaro, o dalla storia che vado a raccontare non nascerà nulla di meraviglioso. Se non fossimo del tutto convinti che il padre di Amleto era già morto prima dell’inizio del dramma, non ci sarebbe niente di strano nel suo passeggiare nella notte, sotto un vento levantino, sui bastioni del suo castello, non più di quanto ve ne sarebbe in un qualsiasi altro gentiluomo di mezz’età che uscisse all’improvviso, di notte, in un luogo battuto dal vento, al preciso scopo di sconvolgere la debole mente del figlio.

Senza dubbio Mac Taylor non era stato così terribilmente sconvolto dal triste evento da non celebrarlo, da vero stakanovista qual era, con una dura giornata di lavoro il giorno stesso del funerale.

Oh, certo che Mac Taylor era uno che aveva la mano pesante sul lavoro: un ruvido, distaccato, implacabile vecchio segugio! Duro e acuminato come la selce, da cui nessun genere di acciaio aveva mai fatto sprizzare scintille affettuose; misterioso, introverso, solitario come un’ostrica. Il freddo che aveva dentro gli gelava i lineamenti, rendeva lo sguardo tagliente e le labbra severe, gli irrigidiva il passo e se ne usciva pungente nella voce roca, bassa, a tratti aspra. Una brina gelata gli copriva il capo, le sopracciglia e il mento. Si portava sempre appresso questa temperatura polare, gelava l’ufficio nei giorni di canicola e non lo intiepidiva di un grado a Natale.

Caldo e freddo esterni avevano poca influenza su Mac Taylor. Nessun tepore lo poteva scaldare, nessun clima invernale lo faceva rabbrividire. Nessun vento di bufera era più gelato di lui, nessuna tempesta di neve più accanita nel suo scopo, nessuna pioggia battente meno disposta ad ascoltare una supplica. Non c’era maltempo che potesse batterlo. Le più tremende piogge, nevicate o grandinate potevano vantare un solo punto di vantaggio su di lui: certe volte erano una manna, mentre Mac Taylor non lo era mai.

Mai nessuno lo fermava per strada e gli chiedeva con fare amichevole: “Mio caro, come va? quando verrai a farmi visita?”. Nessun mendicante implorava da lui un obolo, nessun ragazzino gli domandava che ora fosse, nessun uomo o donna gli aveva mai chiesto, in vita sua, un’indicazione per raggiungere questo o quel luogo. Perfino i cani dei ciechi parevano riconoscerlo; e quando lo vedevano arrivare, trascinavano i loro proprietari lontano, e poi scodinzolavano per dire: “Meglio non avere occhi che avere il malocchio, mio cieco padrone!”.

Ma Mac se ne infischiava! Era proprio ciò che più lo dilettava. Farsi largo a spintoni nelle affollate strade della vita, allontanando da sé ogni umana simpatia.

Una volta - di tutti i bei giorni dell’anno, proprio quello della vigilia di Natale - il tenente Taylor sedeva indaffarato nel suo ufficio. Fuori c’era un tempo freddo, tetro, pungente, e per di più nebbioso; era come se si potesse sentire la gente che in strada andava sbuffando su e giù, battendo le braccia sul petto e i piedi sull’asfalto della via nel tentativo di scaldarsi. Gli orologi della città avevano appena battuto le tre, ma era già abbastanza buio (per tutto il giorno il sole non si era fatto vedere) e le luci negli uffici vicini affioravano tremule, simili a macchie rossastre sulla palpabile aria scura. La nebbia s’intrufolava da ogni fessura e fuori era tanto densa che, nonostante il palazzo di fronte fosse a poche decine di metri di distanza, le sue finestre illuminate non erano più che dei fantasmi.

Mac Taylor aveva convocato nel suo ufficio Danny Messer per comunicargli ciò che aveva deciso sulla sua richiesta di avere il giorno dopo, il giorno di Natale, libero dal lavoro.

“Mi dispiace, Danny” gli aveva detto, con aria nemmeno troppo contrita “sai che il nostro lavoro non si ferma mai, la gente commette delitti e si uccide anche a Natale ed io non posso lasciare scoperto un turno del genere”.

“Ma…” aveva azzardato l’altro, che stava cominciando a scaldarsi “è il primo Natale di Lucy…volevo rimanere a casa con lei e Lindsay!”.

“Appunto” rispose Mac “ho già dato il giorno libero a lei e tu, invece, mi servi qui in ufficio. Sai che un anno fa ti ho lasciato libero perché lei era incinta. Quest’anno proprio non posso, molti sono in malattia ed altri hanno già lavorato il giorno di Natale l’anno scorso”.

“E poi” aggiunse con un sorriso che non alzò la temperatura della stanza neppure di un mezzo grado “Lucy è ancora piccola, non si sarebbe comunque ricordata di nulla!”.

Danny rimase in silenzio, deluso e triste, ben sapendo quanto ci sarebbe rimasta male Lindsay. Per non parlare di lui stesso, del resto: dopo tutto quello che avevano passato nei mesi precedenti - il suo ferimento, il periodo passato sulla sedia a rotelle quando temeva che non sarebbe più riuscito a camminare, il serial killer Shane Casey che li aveva seguiti in viaggio e si era introdotto a casa loro, prendendo in ostaggio la bambina - questa festa gli appariva un modo per ringraziare il Signore che tutto fosse andato bene e che lui e Lindsay fossero ancora insieme, con un piccolo angelo a far loro compagnia. Tuttavia, sapeva che il suo capo era un vero osso duro e che, una volta che aveva deciso, le speranze di fargli cambiare idea - anche a Natale - erano praticamente inesistenti.

Borbottò qualcosa che Mac non capì, ma che certo non era una dichiarazione di eterna amicizia.

“Dai” gli disse per congedarlo, come se la cosa potesse in qualche modo tirargli su il morale anziché peggiorarlo definitivamente “domani sarò anche io al lavoro!”.

“Bella forza!” avrebbe voluto esclamare a quel punto il giovane agente “tu non hai nessuno con cui trascorrere il Natale, per te è un giorno come un altro!”.

“Buon Natale a tutti! Dio vi protegga!” trillò all’improvviso una voce gioiosa. Era quella dell’anatomopatologo Sid Hammerback, piombato nell’ufficio di Mac così di soprassalto che queste parole furono il primo segno del suo arrivo.

“Bah” disse Mac “fesserie!”.

Si era tanto scaldato camminando veloce nella nebbia gelata, il buon medico, che ora splendeva tutto; aveva una bella faccia tutta rossa, gli occhi gli brillavano e l’alito ancora gli fumava.

“Natale una fesseria!” esclamò “Non volevi dire una cosa simile, vero?”.

“Certo che sì” disse Mac “Felice Natale! Che diritto abbiamo di essere felici? Per quale ragione dovremmo essere felici? Il male non si ferma certo per le feste, la gente mente, ruba, uccide, odia anche a Natale, anzi a volte persino di più a Natale che non nei giorni lavorativi!”

“Non essere di cattivo umore!” ribatté Sid, sconsolato.

“E di che altro umore dovrei essere” rispose il tenente “dal momento che vivo in un mondo di pazzi! Buon Natale! Tutti a dire “buon Natale”! Che cos’è in fondo il Natale se non un giorno come gli altri, un tempo in cui ti ritrovi più vecchio di un anno, ma non più ricco di un’ora? Se potessi fare di testa mia” proseguì indignato “ogni idiota che se ne va in giro col “Buon Natale” in bocca dovrebbe fare un giretto sul tuo tavolo autoptico, Sid, e poi essere sepolto con un paletto di agrifoglio conficcato nel cuore!”.

“Mac!” implorò Sid Hammerback.

“Sid” replicò irremovibile l’altro “festeggia il Natale alla tua maniera e lasciamelo festeggiare come voglio io!”.

“Festeggiare!” ripeté il patologo “ma tu non lo festeggi!”.

“Permettimi di non farlo, allora” disse Mac “e che buon pro ti faccia, come ti ha sempre fatto!”.

“Ci sono molte cose dalle quali avrei potuto trarre un utile, direi, ma non ne ho mai approfittato” fece Sid “e fra queste il Natale. Ma sono sicuro di avere pensato sempre al periodo natalizio come ad un momento felice, un periodo piacevole di bontà, perdono e carità; l’unico periodo, che io sappia, fra tutti i mesi dell’anno, in cui gli uomini e le donne sembrano dischiudere liberamente e di comune accordo i loro cuori induriti, e pensare davvero alle persone loro inferiori come compagni di viaggio sulla terra, e non come a un’altra razza di creature che seguono cammini differenti. Perciò, credo che il Natale mi abbia fatto del bene, e che continuerà a farmene; e, quindi, che Dio lo benedica!”.

Involontariamente Danny, che era rimasto nell’ufficio, scoppiò in un applauso. Rendendosi immediatamente conto dell’inopportunità del gesto, incrociò le braccia e mise le mani sotto le ascelle, tentando di rimpicciolire fino a scomparire.

“Fatemi sentire solo un altro rumore” disse Mac Taylor “ e festeggerete entrambi il Natale perdendo il posto di lavoro!”.

“Non essere arrabbiato, Mac, andiamo. Vieni a mangiare da noi, domani” replicò Sid.

Mac disse che l’avrebbero visto…sì, proprio così, ma finì la frase aggiungendo che l’avrebbero visto morto, piuttosto.

“Mi dispiace veramente di cuore…ma sono venuto da te nello spirito del Natale e manterrò il mio umore natalizio fino alla fine” concluse Sid Hammerback “quindi, Buon Natale, Mac!”

“Buon lavoro!” disse Mac.

“E felice anno nuovo!”

“Buon lavoro!” disse Mac.

Ciononostante il medico lasciò l’ufficio, seguito a ruota da Danny Messer, senza la benché minima parola di disappunto.

Mac Taylor tornò al lavoro con una più alta opinione di sé e un umore migliore del solito.

Intanto la nebbia e l’oscurità si erano talmente infittite che per strada, nonostante le luci dei lampioni, a stento si vedeva davanti a sé. Il campanile di una chiesa vicina divenne invisibile e suonò le ore e i quarti nelle nuvole, facendole seguire da tremule vibrazioni, come se lassù il gelo gli facesse battere i denti. Un idrante danneggiato era stato abbandonato in solitudine e il getto d’acqua che ne sgorgava si era astiosamente indurito, trasformandosi in un misantropo pezzo di ghiaccio. Lo splendore dei negozi, dove rami e bacche di agrifoglio scricchiolavano sotto il calore delle lampade delle vetrine, arrossava le facce di chi vi passava davanti. Il commercio divenne un magnifico carosello: una processione talmente grandiosa che era quasi impossibile collegarla con principi così ottusi come la compravendita e lo scambio.

Il sindaco di New York, fra le spesse mura del palazzo comunale, dava istruzioni ai cinquanta cuochi e maggiordomi per festeggiare il Natale come si addice alla famiglia di un sindaco che si rispetti; e persino il giovane muratore, a cui un agente il lunedì precedente aveva fatto la multa per ubriachezza molesta, finiva di preparare l’albero di Natale nella sua misera casa, mentre la moglie e il bambino erano usciti a comperare l’occorrente per la cena.

Ancora più nebbia, e più freddo. Un freddo acuto, pungente, penetrante.

Alla fine giunse per Mac il momento di andare a casa. Di mala voglia si alzò dalla scrivania e uscì nella neve: appena in strada, un ragazzo si fermò davanti a lui per fargli dono di un canto natalizio, ma alle prime strofe di



“We wish you a merry Christmas/ we wish you a merry Christmas/ we wish you a merry Christmas and Happy New Year!”



Mac gli lanciò un’occhiata talmente torva che il cantore fuggì terrorizzato, scomparendo nella nebbia e nel gelo che gli erano congeniali.

Consumò la sua malinconica cena nella solita malinconica tavola calda e, dopo aver letto i giornali, soffermandosi in particolare sulla cronaca nera, e ingannato il resto della serata con la tv, tornò a casa per coricarsi.

Viveva in uno dei tanti anonimi palazzoni newyorkesi, rifinito all’esterno in mattoni rossi, non particolarmente brutto e nemmeno, in verità, particolarmente bello: a tutte le finestre, tuttavia, quella sera splendevano luci colorate, stelle comete luccicanti, festoni e dietro i vetri, dove s’intuiva la quieta intimità domestica, facevano capolino alti abeti addobbati per il Natale. A tutte le finestre tranne, ovviamente, a quelle del detective Mac Taylor.

L’illuminazione era saltata e il cortile era così buio che il poliziotto, il quale pure ne conosceva ogni singolo metro, fu costretto ad avanzare a tentoni. Nebbia e gelo incombevano talmente cupi sul portone nero e sul cortile interno, che pareva ci fosse il Genio del Tempo seduto sulla soglia del caseggiato, immerso in qualche lugubre pensiero.

Ora, è un dato di fatto che lo specchio nell’androne del palazzo non avesse nulla di particolare, tranne che era un po’ sporco e appannato. Che Mac Taylor l’avesse visto mattino e sera da quando abitava lì, è un altro dato di fatto.

Bisogna anche dire che il detective possedeva quella dote chiamata fantasia nella stessa minima misura in cui la possiede un qualunque cittadino di New York, compresi (il che è tutto dire) consiglieri comunali, funzionari municipali e membri della polizia.

Teniamo anche a mente che Mac Taylor non aveva rivolto un solo pensiero da tempo al suo ex collega Bill Hunt “il selvaggio”.

Detto questo, qualcuno mi spieghi, se è possibile, come capitò che Mac Taylor nell’attraversare l’androne vedesse riflesso nello specchio non già se stesso, bensì il volto di William Hunt, detto “il selvaggio”. Il volto di Bill Hunt, non avvolto da un’ombra impenetrabile, ma circonfuso di una luce sinistra, come un’aragosta putrefatta in una cantina buia. Non appariva arrabbiato o inferocito, si limitava a guardare il suo ex compagno di pattuglia come aveva fatto in vita: con i suoi occhi fantasma splendenti sulla sua faccia fantasma. I capelli erano curiosamente arruffati, come da un soffio o da una folata di aria calda e, sebbene gli occhi fossero spalancati, erano perfettamente immobili. Questo, e il colorito livido, rendevano la visione orribile; ma l’orrore non sembrava essere, a prescindere dalla faccia e al di là della sua volontà, altro che un mero effetto dell’espressione.

Mentre Mac fissava il prodigio, il riflesso svanì e nello specchio rimase solo la sua solita immagine.

Dire che non ebbe neppure un sussulto, o che non gli rimescolasse il sangue un’inquietudine mai più provata dopo l’infanzia, sarebbe una bugia. Ma prese l’ascensore e, giunto al suo piano, percorse il corridoio coperto di moquette marrone fino alla porta d’ingresso di casa sua. Infilò la chiave nella serratura, la girò con decisione, entrò e accese la luce.

“Bah!” disse e chiuse la porta con un tonfo. Il rumore risuonò nell’appartamento come un tuono. Tutte le camere sembravano possedere un’eco propria. Ma Mac non era uomo da spaventarsi per un’eco. Serrò la porta, attraversò l’ingresso, perfino con calma, e fece un giro dell’appartamento per sincerarsi che tutto fosse a posto. Si ricordava troppo bene del volto per non farlo.

Salotto, camera da letto, studio, cucina, bagno: tutto era come doveva essere. Nessuno sotto il tavolo, nessuno sotto il divano, sulla scrivania la solita pila di fascicoli di casi irrisolti che si era portati dall’ufficio. Nessuno sotto il letto, nessuno nell’armadio, nessuno nella sua vestaglia, che se ne stava appesa al muro con un’espressione sospettosa.

Piuttosto soddisfatto, andò in camera da letto, chiuse la porta e girò la chiave. Si chiuse dentro a doppia mandata, cosa che non era nelle sue abitudini. Sentendosi in questo modo difeso da eventuali sorprese, si levò la giacca e indossò vestaglia e ciabatte, sedendosi poi in poltrona con un manuale sulle impronte digitali. Sfogliava le pagine, che conosceva alla perfezione, eppure quel volto di Bill Hunt, morto da tempo, arrivava come la verga di quell’antico profeta e inghiottiva ogni cosa. Se ogni figura fosse stata una superficie neutra, con la proprietà di prendere forma e colore dai frammenti disordinati dei pensieri di Mac Taylor, in ognuna ci sarebbe stata una copia della testa del vecchio Hunt.

“Fesserie!” disse Mac e si alzò di scatto. Dopo avere girato intorno più volte, tornò alla sua poltrona. Si era appena seduto che, con grande stupore e con uno strano ed inspiegabile sgomento, udì il campanello d’ingresso, il citofono, la sveglia, il timer del forno e tutti gli altri campanelli della casa suonare insieme, all’improvviso. Durò forse mezzo minuto, o un minuto, ma sembrò un’ora. I campanelli si fermarono poi così come avevano incominciato, all’unisono. Li seguì un rumore cigolante, che veniva da sotto, come se qualcuno stesse trascinando una pesante catena. Allora Mac si ricordò d’avere sentito dire che i fantasmi, nelle case infestate, si trascinano dietro una catena.

Il portone d’ingresso si spalancò con fracasso, poi il detective sentì ancor più distintamente il rumore sul pavimento dell’androne, mentre saliva su per le scale; poi mentre si dirigeva verso la sua porta.

“Sono tutte fesserie!” disse “Non ci credo!”.

Eppure il suo volto cambiò colore quando, senza fermarsi, qualcosa attraversò la porta di casa ed entrò nella stanza davanti ai suoi occhi. In quel preciso istante, tutte le lampadine dell’appartamento ebbero un unico guizzo, come dicessero; “Lo conosciamo, E’ il fantasma di William Hunt!” e poi si spensero, lasciando il poliziotto nelle tenebre più fitte.

Lo stesso viso, proprio lo stesso. Bill Hunt, lo stesso che aveva seppellito qualche tempo prima. Trascinava una pesante catena, che si attorcigliava alla vita; era lunga e se la portava dietro come una coda. Aveva il corpo trasparente: Mac Taylor aveva spesso sentito dire che il suo ex istruttore era un uomo senza viscere, ma non ci aveva mai creduto, fino a quel momento.

E neppure ora ci credeva. Anche se aveva guardato e riguardato attraverso lo spettro, e lo vedeva in piedi di fronte a sé; anche se sentiva l’influsso gelido di quegli occhi freddi come la morte. Era uno scienziato, un uomo razionale e, incredulo, combatteva contro i suoi stessi sensi.

“Allora!” disse il detective, freddo come sempre “Che cosa vuoi da me?”.

“Molto!” era la voce di Hunt, senza alcun dubbio.

“Chi sei?”

“Domanda piuttosto chi ero”.

“Chi eri allora?” disse Mac, alzando la voce “Sei pignolo per essere un’ombra”. Stava per dire “sei di una pignoleria infernale”, ma sostituì questa frase con quella, che gli sembrò più appropriata.

“Da vivo ero il tuo ex collega William Hunt”.

“Puoi…puoi sederti?” gli domandò Mac, che lo osservava dubbioso.

“Certo”.

“Fallo, allora”.

Il fantasma si sedette nella poltrona accanto a quella dove ancora si trovava il poliziotto, come se per lui fosse cosa di tutti i giorni.

“Tu non credi in me” osservò il fantasma.

“No” disse Mac.

“Quale miglior prova della mia esistenza vorresti, oltre a quella dei tuoi sensi?”

“Non lo so” rispose Mac.

“Perché dubiti dei tuoi sensi?”.

“Perché” replicò il detective “un’inezia li può influenzare. Un piccolo disturbo di stomaco li fa confondere: potresti essere un pezzetto di carne mal digerito, un cucchiaino di senape, un boccone di formaggio, un frammento di patata poco cotta. Qualsiasi cosa tu sia, vieni più da una casseruola che da una cassa”.

Mac Taylor non era assolutamente solito fare giochi di parole, né si sentiva ora, in cuor suo, dell’umore giusto per scherzare. La verità era che stava tentando di essere brillante per scuotersi e soffocare l’orrore che avvertiva, poiché la voce dello spettro lo disturbava fin nel midollo delle ossa.

Sentiva che se fosse rimasto anche un solo momento seduto in silenzio a fissare quegli occhi vitrei e immobili, avrebbe rischiato d’impazzire. C’era qualcosa di orribile pure nel fatto che lo spettro fosse avvolto in una sua propria atmosfera infernale: Mac non poteva percepirla chiaramente, ma era sicuro che fosse così. Infatti, benché il fantasma sedesse in totale immobilità, i suoi capelli, il colletto della camicia e le falde della giacca con cui era stato sepolto fluttuavano ancora a quello che si sarebbe detto il vapore caldo di un forno.

“Vedi questo stuzzicadenti?” tornò alla carica il poliziotto per il motivo appena spiegato: anche se solo per un attimo, sperava di sottrarsi allo sguardo impassibile dell’apparizione.

“Lo vedo” replicò il fantasma.

“Non lo stai guardando” disse Mac.

“Eppure” disse lo spettro “lo vedo”.

“Bene” rispose Mac “basta che lo inghiotta per essere perseguitato per il resto dell’esistenza da un esercito di fantasmi creati dalla mia fantasia. Fesserie, te lo dico io! Fesserie!”.

A queste parole lo spirito lanciò un grido terrificante e scosse la catena con un fracasso talmente orribile che Mac dovette aggrapparsi ai braccioli della poltrona per non cadere svenuto. Ma quanto più grande fu il suo orrore quando il fantasma spalancò la bocca, facendo cadere la mascella inferiore sul petto, e contemporaneamente si aprì la camicia, mostrando i fori dei proiettili che lo avevano crivellato per mano di Raymond Harris.

Mac si gettò in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani.

“Pietà!” disse “tremenda apparizione, perché mi perseguiti?”

“Uomo dai pensieri terreni” replicò il fantasma “credi in me o no?”

“Ci credo” disse Mac “devo crederti, ma per quale motivo gli spiriti camminano su questa terra, e perché vengono da me?”.

“E’ richiesto a ogni essere umano” rispose il fantasma “che lo spirito che c’è in lui cammini tra i suoi simili viaggiando in lungo e in largo, e se non lo fa durante la vita terrena, è costretto a farlo dopo la morte. E’ condannato a vagare nel mondo - oh misero me! - e ad assistere a cose cui non può partecipare ma a cui avrebbe potuto partecipare da vivo, trasformandole in eventi felici!”.

Ancora una volta, lo spettro emise un lamento, scosse la catena e si torse le mani fantasma.

“Sei incatenato” disse Mac, tremante “dimmi, per quale motivo?”.

“Porto la catena che ho forgiato in vita” rispose il fantasma “l’ho costruita anello per anello, metro per metro; me ne sono cinto di mia spontanea volontà, di mia spontanea volontà l’ho indossata. La mia catena l’ho forgiata con l’avidità, la violenza e l’egoismo…”.

Mac tremava sempre di più.

“Ma anche tu” proseguì lo spettro di William Hunt “stai forgiando la tua, con l’aridità, l’indifferenza nei confronti del prossimo, l’assenza di sentimenti affettuosi, la solitudine”.

Mac si sgomentò a sentire parlare il fantasma a quel modo e non riuscì a controbattere nulla. Poi, si fece coraggio.

“Ma tu sei un ladro, un assassino! Io invece dedico la mia vita a combattere quelli come te…” esclamò.

“E chi sei tu per giudicare cosa è il bene e cosa, invece, è il male? Pensi forse di essere al di sopra delle leggi di Dio? Credi di essere immune dall’errore? Stai consumando la tua vita nella solitudine, schivando ogni umana simpatia, trascurando la tua anima e dedicandoti esclusivamente al lavoro!”.

“Ascoltami!” gemette lo spettro “il tempo a mia disposizione è quasi terminato”.

“Ti ascolto” disse Mac.

“Come io possa apparirti in una forma che tu puoi percepire, non so dirlo. Sono stato al tuo fianco per molti e molti giorni, ma non potevi vedermi”.

L’idea non era certo piacevole; il poliziotto avvertì un brivido e si asciugò il sudore dalla fronte.

“Questo non alleggerisce la mia pena” continuò il fantasma “Sono qui stanotte perché sono in debito con te: diciassette anni fa ti ho messo in mezzo; poi, quando Harris è stato scarcerato, per colpa mia hai rischiato di essere ucciso anche tu… così, voglio avvertirti che tu hai ancora una possibilità di salvarti. Una possibilità, una speranza, che ti ho procurato io, Mac!”.

“Sarai visitato” proseguì il fantasma “da tre spiriti”.

Il morale di Mac Taylor si abbatté quasi quanto quello dello spirito.

“E’ questa la possibilità di cui parlavi, Bill?” domandò con voce rotta.

“Questa”.

“Io…io penso che preferirei rinunciare” disse Mac.

”Senza la loro visita” disse il fantasma “la tua sorte sarà segnata, sarai condannato alla solitudine ed al dolore. Aspetta il primo domani, quando la campana suonerà l’una”.

“Non potrei incontrarli tutti insieme e farla finita subito, Bill?” suggerì il detective.

“Attendi il secondo la notte successiva alla stessa ora. Il terzo la notte ancora seguente, quando cesserà di vibrare l’ultimo colpo delle dodici. Fa in modo di non rivedermi mai più e ricorda, per il tuo bene, quello che ci siamo detti stanotte!”.

Dopo avere pronunciato queste parole, lo spettro richiuse i lembi della camicia e si allontanò da lui camminando all’indietro e ad ogni passo che faceva la finestra si alzava un poco, di modo che quando la raggiunse era spalancata. Quando furono a due passi l’uno dall’altro, il fantasma di Bill Hunt alzò una mano, intimando a Mac di fermarsi. E lui si fermò.

Non tanto per obbedienza, quanto per sorpresa e paura: infatti, nel momento in cui la mano s’era alzata, lui s’era accorto di rumori confusi nell’aria, suoni incoerenti di cordoglio e rammarico, gemiti pieni di una tristezza e di un rimorso inesprimibili.

Lo spettro, dopo averli ascoltati un momento, si unì al loro lamento funereo e volò via nella notte scura e desolata.

Mac Taylor lo seguì alla finestra con una curiosità tremenda. Guardò fuori: l’aria era piena di fantasmi che andavano in ogni direzione, irrequieti e frettolosi, e si lamentavano cammin facendo. Avevano tutti addosso delle catene come quella del fantasma di Bill Hunt; alcuni erano legati tra loro, nessuno era libero.

Se le creature svanirono nella nebbia o fu la nebbia ad avvolgerle, non poteva dirlo. Sta di fatto che loro e le loro voci spettrali sparirono insieme e la notte tornò ad essere la stessa in cui era tornato a casa.

Mac chiuse la finestra ed esaminò la porta da cui era entrato il fantasma. Era serrata a doppia mandata come lui stesso l’aveva chiusa e il chiavistello non era stato manomesso. Provò a dire: “Fesserie!”, ma si fermò alla prima sillaba.

Siccome poi, per le forti emozioni subite, o per le fatiche della giornata, o per l’occhiata che aveva dato al mondo dell’invisibile, o per la cupa conversazione con il fantasma, o per l’ora tarda…si sentiva veramente molto stanco, si coricò immediatamente senza neppure spogliarsi e si addormentò all’istante.


  
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