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Autore: Keiko    09/12/2011    1 recensioni
Prima o poi dirò a Mikey di Rachel, che l’ho vista io per l’ultima volta e che se n’è andata inseguendo una tempesta che aveva i colori di un’alba nuova e sinistramente sanguigna.
Rachel l’ho voluta ricordare sempre così, al seguito di una tempesta che ti toglie il respiro, il centro saldo di un ciclone sino a quando non si è trasformata lei stessa in un tornado. Ed è ritornata qui per travolgermi e condannarmi una seconda volta.
[Sequel di "Like a shooting star"]
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gerard Way, Mikey Way
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Sweet Revenge © [10/04/2009]
Disclaimer: I My chemical Romance (Mikey Way, Gerard Way, Frank Anthony Iero, Bob Bryar e Ray Toro nella loro ultima formazione), Jamia Nestor, Alicia Simmons e Lyn-Z (bassista dei Mindless Self Indulgence) sono persone realmente esistenti. I personaggi originali non sono ovviamente persone realmente esistenti, ma semplice frutto della mia immaginazione. La storia è frutto di una narrazione di PURA FANTASIA che mescola la mia visione di fan a eventi storicamente accaduti e rumors spulciati in rete, destinata al diletto e all'intrattenimento di altri fans. Non si persegue alcun intento diffamatorio o finalità lucrativa. Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene dunque intesa.


Preach all you want, but who's gonna save me?
(“Thank you for the Venom”, My chemical romance)

Ci sono persone che credi di non rivedere mai più nella tua vita, alcune che speri invece di non incontrare nuovamente sul tuo cammino perché sfocerebbe tutto in uno scontro violento e altre che vorresti rivedere solo per sapere come sarebbe ritrovarsi a distanza di anni dalla separazione.
Se alla prima categoria appartengono gli amici di vecchia data e alla seconda gli stronzi, alla terza appartengono sicuramente quelle persone che hai lasciato – o ti hanno lasciato – con rimpianto.
Sono quelle che vorresti rivedere, prima o poi, e per le quali ti chiedi se possano essere rimaste inalterate rispetto ai tuoi ricordi – e in genere te lo auguri sempre- o invece stenteresti a riconoscere.
Se Matt faceva parte degli stronzi, Rachel di certo faceva parte della terza categoria: di quelli che se ne sono andati lasciandosi dietro troppi ricordi, un errore madornale e mille domande. Ogni tanto mi sono chiesto dove fosse sparita, perché piombasse a casa nostra nel cuore della notte in preda al terrore più puro, perché aveva scelto me e non Mikey prima di sparire inghiottita da una notte senza stelle in cui il temporale aveva sovvertito l'ordine delle cose e restituito a noi una vita totalmente differente.
Mikey si è fatto una ragione della scomparsa di Rachel con l'andare del tempo, in modo lento e pacato come solo lui saprebbe fare: ha preso atto della cosa senza porre troppe domande, lasciando che fosse il silenzio a lenire le ferite del cuore. Probabilmente è stato troppo frastornante svegliarsi una mattina e rendersi conto che chi amavi si è volatilizzato nel nulla, al punto che ti sorge persino il sospetto che non sia mai esistita: un'opzione facile per raccontarsi una bugia che addolcisca l'amarezza della vita.
Non sono mai riuscito a dire a Mikey che con ogni probabilità ero stato io l’ultima persona che Rachel aveva voluto vedere - e avere - e questo è un peso che un giorno o l’altro mi costringerà a ripiegarmi su me stesso e supplicare in ginocchio Mikey di perdonarmi.
Forse se non ci fosse stata quella notte di tempesta, Rachel non se ne sarebbe andata, perduta nella brezza che profumava del metallico odore dell’asfalto bagnato alle prime luci dell’alba.
Forse invece quello era stato il suo modo di dirmi addio, il gesto pietoso di una cara amica.
Forse era stata la realizzazione di un sentimento che si era trasformato senza che se ne rendesse conto, segnato dal susseguirsi delle stagioni.
Ma se sei felice, felice davvero per la prima volta nella tua vita, sei davvero disposto a lasciartela alle spalle poi, questa felicità?
Forse, molto semplicemente, Rachel non è stata sincera con nessuno: né con me, né con Mikey, né con sé stessa.
Non sono nemmeno ora l’essere desiderabile per eccellenza nonostante sia un cantante di successo: ma non mi importa l’avventura squallida di una notte, io ho bisogno di qualcosa che sappia stridere sul cuore e graffiare sulla pelle.
Qualcosa che mi faccia sentire fottutamente vivo.
Come Katmandu, per esempio.
Lei è tutto quello che fa per me, quello che mi regala con un bacio che odora di Jack Daniel's e anfetamine.
E’ un sapore strano, un mix chimico che ti lascia euforico disteso sui divanetti sporchi di qualche locale, con i capelli fradici appiccicati al viso e un sorriso ebete dipinto in volto, quel genere di sorrisi che hai solo quando non stai vivendo sul serio – e che in un giorno qualunque col cazzo che ti coglierebbero - e sei perso su di un altro pianeta: perché la vita, tendenzialmente, è una merda.
Anche a essere il cantante dei My Chemical Romance non mi sento né più felice, né tanto meno una rockstar del cazzo.
Immagino sia una questione di punti di vista, comunque, ma essere sotto i riflettori ti permette solo di scorgere lo schifo in ritardo rispetto al resto del mondo, e quando lo fai ci rimani doppiamente di merda.
Questo perché ti credi più protetto e fortunato rispetto agli altri grazie alla posizione che ricopri, e questo ti fotte nove volte su dieci.
Prima o poi dirò a Mikey di Rachel, che l’ho vista io per l’ultima volta e che se n’è andata inseguendo una tempesta che aveva i colori di un’alba nuova e sinistramente sanguigna.
Rachel l’ho voluta ricordare sempre così, al seguito di una tempesta che ti toglie il respiro, il centro saldo di un ciclone in cui tutto ti ruota freneticamente attorno ma ne rimani comunque intoccato sino a quando non si è trasformata lei stessa in un tornado.
Ed è ritornata qui per travolgermi e condannarmi una seconda volta.

Sarebbe stato troppo semplice dimenticare di essermi scopato la fidanzata storica di mio fratello e fare la vita del tossicodipendente alcolizzato con Katmandu, uno scomodo letto a una piazza da dividere sempre in due, pasticche sparse sul comodino prima di addormentarci e scambiarci un bacio che ti scioglie dentro.
Non dimentichi mai un tradimento di queste dimensioni, e per come sono fatto io, posso anche imbottirmi di farmaci sino a scoppiare, e bere sino a far circolare nelle vene alcool al posto del sangue ma continuerò a chiedermi se sia il caso di parlare a Mikey e chiudere definitivamente i conti con il passato.
Il sabato mattina è una zona off limits della settimana, una di quelle che puoi concederti il lusso di passare disteso a letto con la convinzione sia notte inoltrata alle undici del mattino: è il bello di essere crollato strafatto tra le braccia di Morfeo quasi all'alba.
Non ho ovviamente sentito il trillo fastidioso del campanello della rimessa, ma in compenso l’ha sentito Katmandu che si è rigirata nel letto cercando di spingermi giù per andare ad aprire.
“Gee, ma Mikey non ha ancora capito che non deve svegliarci sino a quando non ci alziamo da soli?”
“E’ stato troppo clemente per essere stato lui a suonare.”
Ho la voce impastata e tutto quello che riesco a fare è cacciare il viso nel cuscino, rimarcando il concetto che per me potrebbero anche demolire casa mia in questo momento e non sarei proprio in grado di muovere un muscolo.
“Che palle.”
Katmandu scivola fuori dal letto scavalcandomi, concedendosi anche il divertimento di darmi un pizzicotto su una chiappa, dirigendosi barcollando verso la porta della stanza con i lunghi capelli corvini a coprirle anche il sedere, stretto un paio di culotte di spugna rosa su cui ha mantenuto la canottiera bianca che indossava ieri sera.
Non mi serve guardarla per capire che si sta arruffando, infastidita, i capelli con la mano destra, mentre con la sinistra cerca di appoggiarsi all’armadio per non cadere a terra come un sacco vuoto.
La conosco troppo bene, ogni centimetro di corpo e anima: dividiamo tutto, dividiamo ogni secondo libero e ogni dopo concerto, dividiamo le notti come questa e un letto troppo piccolo per due, che mi fa sentire ancora l'adolescente che si convince ogni notte che i propri sogni resteranno chiusi nel proprio cassetto per l'eternità, ma Katmandu è questo: la conoscenza totale e assoluta di chi hai accanto.
Una che può sembrare impenetrabile ma che invece diventa prevedibile grazie all’abitudine della quotidianità.
Katmandu non mi fa paura perché sono perfettamente in grado di contenerla in quella forma perfetta che è il suo corpo, senza temere che possa valicare gli argini e sfuggirmi di mano senza che me ne renda conto.
“Ehi, Gee, cercano te ovviamente.”
La sento mormorare anche un mezzo “coglione” a bassa voce, ma sono davvero troppo stanco per muovermi da qui.
“Falli tornare un’altra volta… sto uno schifo.”
“Non c’è problema, Mikey è in casa? Posso sempre parlare con lui, non è indispensabile che…”
“Ci hai svegliati, non so se Way Jr. sia in casa o a fare una passeggiata.”
“Mi dispiace, è primo pomeriggio e non credevo di disturbare. Scusate.”
Sento Katmandu restare ancora un po’ sulla porta e poi richiuderla, lasciando cadere un foglio sul comodino prima di tornare a coricarsi accanto a me, superandomi nuovamente per incastrarsi tra il mio corpo e la parete della stanza.
“Era una ragazza… carina, sai? Non come quelle che ti girano attorno con gli occhi dal trucco sbavato di kajal e le gonne corte da far spavento.”
“Come te?”
“Esatto. Era una che con te non ha proprio un cazzo a che fare. Ti ho messo il suo numero di telefono sul comodino se ti interessa.”
“Non sei gelosa neanche un po’?”
“Non credo sia il genere di persone di cui ami circondarti. Era… pulita. Era una di quelle persone che ricordano Mikey o Frank: limpida.”
“Ti fai prendere dal sentimentalismo anche tu ogni tanto?”
“No. Dico le cose come stanno. Tu ami precipitare e farti condurre in una discesa dolce e ovattata fatta di profumi violenti e colori acidi. Tu puoi amare solo le persone che ti fanno male Gee, perché è così che puoi sentirti fottutamente vivo. Non saranno né la musica né il disegno a farti sentire vivo, ma quel cazzo di dolore che ti porti dentro e cerchi di cancellare aggrappandoti agli altri. Non puoi farlo, Gerard. E’ l’unico mezzo che hai per sentirti vivere in qualche modo. Magari non ti senti vivo, ma ti avverti in mezzo al mondo. Capito quello che voglio dirti?”
“Che farai la stronza?”
Gli passo un braccio attorno alla vita voltandomi a guardarla, con i resti del kajal che le si sono annidiati sul viso regalandole un’aria da triste Pierrot.
“Io resto con te finché ce ne sarà il tempo. Tu sei famoso, io spaccio farmaci di contrabbando. Non credo sia una di quelle storie d’amore da happy end. Ma per ora, ti amo.”
Si rannicchia di nuovo accanto a me, perfettamente incastonata nell'incavo del mio abbraccio: è così che devono essere due corpi, incontrarsi in una forma perfetta.
Katmandu ha ancora addosso l'odore del fumo del locale che le ha impregnato i capelli e le labbra, ha questo profumo di vissuto addosso che sembra la vita le sia passata attraverso. Anche io ho lo stesso odore sulla pelle? Ho il profumo dell'alcool, ho quel sapore dolciastro a impastarmi ancora la bocca, ho il puzzo del sudore di tutti quelli che erano al locale a sballarsi, ho tutta la vita altrui su di me.
E dentro di me, che vita possiedo?
La mia, quella che gli altri vogliono farmi credere sia mia, o quella di tutti quelli che incontro nell'arco di una sola esistenza?
Ho voglia di farmi una doccia, ma non voglio svegliare Katmandu che si è riaddormentata per qualche altra ora: è un sabato pomeriggio come ogni altro, sballiamo il venerdì sera, passiamo la giornata successiva a cercare di alzarci dal letto senza vomitare sul tappeto e poi usciamo di nuovo quando è già buio, come due vampiri sfigati che non sanno vivere altro che di notte.
Ogni tanto penso che la vita non dovrebbe essere fatta di queste cose, penso che dovrebbe girare indirizzandosi in un senso e proseguire dritta per quella strada, invece capita troppo spesso che ti perda per un nonnulla.
E sei fottuto.

Katmandu se n'è andata verso metà pomeriggio, doveva passare al locale e andare a fare rifornimenti per stasera. Avrò bisogno di una dose di anfetamine doppia, se voglio reggere in piedi un'altra serata a fare bisboccia con gli altri. Non sono nemmeno dell'umore adatto, ogni volta che finisce l'effetto mi ritrovo a essere più solo, sporco e intrattabile di prima. E' l'effetto post-sballo, lo so bene, ma loro sono così facili da ingerire e semplici nel modo in cui ti dicono che ti faranno felice, che ti lasci assecondare molto facilmente.
Mentre mi sfrego i capelli fradici con un asciugamano ripescato dall'armadio di Mikey, l'occhio mi cade sul foglietto che ha posato Katmandu sul comodino qualche ora fa.
Me ne ero completamente dimenticato, totalmente rincoglionito dal sonno, dal post-sbronza e da Katmandu. Non credo di essere mai stato tanto assorbito da una ragazza come ora: lei è sincera, diretta, è fottutamente menefreghista e folle, è una di quelle persone che non si fanno troppi problemi e vivono quello che ogni giorno ha da offrire senza rimuginare troppo.
E' un po' come Frank, solo decisamente più deviata verso una direzione distruttiva, più propensa a ricercare la felicità in qualche pillola chimica, in qualche eccesso, in qualche cazzo di rissa o vomitata sul ciglio dell'autostrada che non in quella spontaneità ordinaria che Frank adora.
Amo Katmandu proprio per questo motivo, è dannatamente simile a me, una trapezista che cammina bendata sull'orlo del precipizio tenendo in una mano un sacchetto di caramelle colorate e nell'altra una bottiglia vuota di Jack Daniel's.
Cammina e cammina e cammina, fa solo quello, senza cercare di non cadere: in fondo, la caduta può trasformarsi in un volo fantastico che sfiora la terra e rilancia verso il cielo.
Basta sapere come fare, la formula magica la conosciamo entrambi molto bene: è lì, dentro una caramella dai colori assurdi e in un'ambrosia d'oro liquido purissimo.
Non ho particolarmente voglia di sapere chi ci ha svegliato stamattina, ma già che ci sono tanto vale legga quello che aveva da dire.
Quando apro il biglietto – piegato malamente in due come i bigliettini che ci passavamo sotto banco al liceo, di mano in mano, fila dopo fila – quello che mi colpisce è l'immutabilità delle cose. Perché seppur più frettolosa e meno tondeggiante e infantile, quella calligrafia la riconoscerei tra un milione, perché non tutti mettono sulle “i” piccoli pallini tondi né chiudono una lettera con un ghirigoro ottocentesco. Deglutisco, ma mi sento comunque la gola arida come se stessi camminando nel deserto del Sahara in mezzo a una tempesta di sabbia.
Devo bere, ma tutto quello che mi ha lasciato Katmandu è una bottiglia d'acqua da mezzo litro posata ai piedi del letto.
Ne scolo un sorso che si porta via metà del suo contenuto, poi torno a fissare il biglietto come inebetito, devastato mentalmente come se mi fosse scoppiata in testa una bomba atomica che ha resettato gli ultimi quattro anni della mia vita e ha riportato in superficie una notte di tempesta, una ragazzina che si è persa dentro ad essa, due adolescenti troppo innamorati di sé stessi, un sorriso sincero e dita sottili che stringevano quelle di Mikey in ogni istante.
Non le mie, le sue.
Però, per qualche cazzo di motivo, quelle dita avevano scelto me per un addio amaro e crudele, per mettere la parola fine a un qualcosa che aveva avuto un nome solo nell'arco di una notte, e poi l'aveva di nuovo perduto.
C'è Rachel, in queto cazzo di biglietto.
Ci sono lei e tutto quello che ho taciuto per quattro anni, tutto quello che ho finto di non vedere né sentire.
E Rachel è di nuovo in città, a chiedermi di dividere un pomeriggio con lei prima della sua partenza.
Che sia io o fosse Mikey immagino abbia poca importanza, però il biglietto è stato indirizzato a me come se continuassi a essere il fortunato vincitore di una sadica lotteria.
Voglio davvero rispolverare il passato per un pomeriggio di presente che mi trascinerò appresso per altri anni?
Ho bisogno di farmi del male per sentirmi vivo, soffrire per sentire che esisto, sfiorare soltanto la felicità per poterla inseguire sempre: quando la possiedi, diventi un involucro vuoto che non punta a nulla, e io non sarò mai un lobotomizzato cittadino medio americano.

E' seduta al tavolino di un bar, due tazze di frappè dinnanzi a sé mentre parla sommessamente da sola.
Quando solleva lo sguardo e mi vede avvicinarmi nascosto dietro i Ray ban scuri, mi fa un cenno con la mano per farsi notare e torna a parlare ancora tra sé, come se stesse interagendo con un amico immaginario.
“E' parecchio che non ci vediamo, vero? Non sei cambiato affatto, sei proprio come nelle interviste in televisione... un po' meno cicciottello, ma credo sia dovuto al trucco bianco. Ti trovo in forma, Gee.”
Mi sorride in modo sincero, niente di artefatto o finto, ma distaccata come se quattro anni abbiano messo tra noi una barriera.
Un oceano in tempesta, anche.
“Tu sei dimagrita, invece. Hai le dita sottilissime.”
Mi incanto a fissare quelle dita lunghe e affusolate su cui vedo distintamente la suddivisione delle falangi mentre gioca con la cannuccia del frappè.
“Dopo la gravidanza ho perso parecchio peso e non l'ho più recuperato. Sono caduta in depressione post-parto e... bé, non è stato semplice. Arthur vuoi uscire di lì?”
Sbatto un paio di volte le palpebre e c’è qualcosa che non riesco a cogliere nell’arco dell’intera frase, quel “gravidanza” e quel “parto” che giocano a rincorrersi in una lampante verità che il mio cervello non riesce a cogliere nella loro assoluta semplicità, sino a quando da dietro uno dei cespugli che adornano la recinzione alle spalle di Rachel spunta un bambino dai capelli castano chiaro e gli occhi di un colore indefinito tra il grigio e il verde.
“Si mamy, arrivo! Guarda cos’ho trovato!”
Rachel attende che il bambino le si avvicini, mentre le porge le mani sporche di terriccio su cui ha sistemato una piccola chiocciola che è fuggita a rintanarsi nel suo guscio, depositando il suo tesoro sul tavolo per poi cercare di arrampicarsi sulla sedia accanto a quella di Rachel puntellandosi con le mani paffute sul sedile.
“Questo è Arthur James, Gerard.”
Il bambino sorseggia il suo frappè – era ovvio che non fossero entrambi di Rachel, no? – tenendo con entrambe le mani il bicchiere formato gigante, al di sopra del quale mi fissa senza abbassare lo sguardo.
“Ciao. Mamma mi ha parlato tanto di te, sai? Dice che sei davvero eccezionale come sembri in tv.”
Continuo a fissare il bambino senza riuscire a parlare, perché è assurdo il nome che gli ha rifilato Rachel, assolutamente fuori di testa e… e assolutamente sintomatico, credo.
“Arthur puoi andare a prendere un frappè al cappuccino per Gerard?”
Il bambino annuisce e scende di nuovo dalla sedia, lanciandomi un’occhiata obliqua da fottuto delinquente mentre trotterella verso l’interno di Starbucks.
“Perché mi hai fatto venire sino qui? Che bisogno c’era di…”
“Arthur è un bambino molto intelligente. Parla poco, ma i medici dicono che sicuramente sarà precoce nell’apprendimento. Sta già imparando a scrivere, sai?”
“Quanti anni ha?”
“Quattro. Mi dispiace esserti capitata tra capo e collo questa mattina, non volevo disturbarvi ma ero di passaggio qui a Newark e ho pensato di passare a trovarvi.”
“Hai visto Mikey?”
“No, non ho voluto disturbare anche tua madre per una visita di mezza giornata. Non mi sembrava il caso dopo quello che è accaduto.”
“Rachel sinceramente mi sfugge il significato di quello che mi stai cercando di dire, lo sai?”
“A te sfugge sempre l’ovvio, ma sei bravissimo a comprendere i sottintesi. Sembri quasi non umano, lo sai? Sei sempre troppo al di fuori delle logiche del mondo tu, vivi in un limbo tutto tuo in cui vorresti stare con una persona che sappia prenderti e trascinarti fuori da lì non appena l’aria inizi a mancare. Quanti esseri umani potrebbero esserci disposti a seguirti passo passo, ovunque tu ti muova?”
Mi tolgo gli occhiali, mentre vedo il figlio di Rachel affacciarsi alla porta e rientrare all’interno di Starbucks come se attendesse che sparissi per ritornare qui da sua madre con il mio frappuccino.
“Chi è il padre di Arthur?”
Rachel mi fissa un istante, poi distoglie lo sguardo fissando la Fifth Avenue brulicare di auto e frettolosi newyorkesi alle prese con le compere del sabato pomeriggio.
C’è un istante, quando le porgo la domanda, in cui vorrei mi dicesse che sono io, che nessun uomo l’ha toccata dopo di me e che quello non è altro che il figlio della tempesta. L’altra parte, invece, quella che in questo istante sta pensando a come raccontare a Katmandu una decente bugia sul mio ritardo, spera che non sia figlio mio ma di qualsiasi altro uomo possibile.
Io non voglio diventare padre, cazzo.
Essere padre significa crescere un figlio, accudirlo, inculcargli in testa dei valori ed educarlo secondo una certa logica: ho ventisette anni, sono il cantante di una fottuta band che inizia a ingranare e ho Katmandu che pensa alla mia felicità in pillole.
Un figlio, ora, non saprei dove metterlo. Non so nemmeno badare a me stesso, potrei davvero crescere un moccioso con il cipiglio serio del figlio di Rachel?
“Non lo so.”
Qualcosa si spezza, qualcosa che non riesco a comprendere se sia il sospiro con cui esala la risposta Rachel o il mio cuore che si arresta bruscamente come se volesse implodere da un momento all'altro.
“Quanti cazzo di uomini hai avuto?”
“Dopo di te? Nessuno.”
“E prima?”
“Mikey. Non sono quella che pensi, Gerard.”
“Quindi non sei qui per avere un po’ di notorietà con un figlio senza padre ma di certo Way? E chi mi assicura sia davvero uno che ha il nostro stesso sangue?”
“L’hai visto, puoi evitare di fare domande idiote. La vita ti ha reso più stronzo, a quel che vedo. Comunque volevo solo presentartelo. Arthur non sa chi sia suo padre, ma per ora gli basto io.”
“Da quando in qua fai la donna con i contro cazzi?”
“Da quando cresco un figlio da sola da quando avevo vent’anni, Gerard. E da quando convivo con tanti di quei problemi che le tue seghe mentali non sono altro che immani stronzate.”
Rachel si solleva di scatto dalla sedia afferrando la borsa da terra, barcolla come se stesse per cadere da un momento all’altro ma si appoggia al tavolo per non cadere e mi fissa seria.
“Sono venuta qui per salutarti. Volevo davvero solo ringraziarti per avermi amata. Ringraziare te e Mikey per avermi fatta sentire la persona più speciale e unica dell’universo. A me non importa chi sia il padre di Arthur, lui mi ricorda quanto siate stati importanti voi due per me. Allo stesso modo in cui mi avete amata, io amo lui.”
“Rachel stai parlando come se stessi fuggendo per la seconda volta e cercassi di salutarmi almeno ora come Dio comanda.”
“Me ne vado, infatti. Te l’ho detto che ero solo di passaggio. Sto portando Arthur a casa di mia madre, per questo siamo qui a Newark.”
“Tua madre abita ancora qui?”
Lei mi fissa senza rispondermi, lanciando solo un’occhiata all’interno del locale per vedere dove sia finito il suo piccolo surrogato d'uomo.
“Dove sei sparita dopo quella notte?”
“Ho traslocato. Mio padre aveva comprato una casa alla periferia di New York, non troppo lontana da Newark ma abbastanza distante da voi da non farmi correre a casa vostra nel cuore della notte in lacrime. Non era educato, Gerard, correre a piangere da te o da Mikey quando papà rientrava a casa ubriaco e picchiava mamma o pretendeva da lei che gli facesse qualsiasi servizietto gli passasse per la testa. Non era nemmeno giusto io piangessi soffocandomi nel sonno mentre sentivo mamma implorare papà di smetterla perché era stanca. Non era nemmeno corretto io parlassi, perché avevo quattordici, sedici, diciott'anni ed ero una ragazzina che poteva essere carne da macello un giorno. Una che però si faceva fottere dai figli tossici di Donna Way, Gee, e a papà questo non andava a genio. Io a Newark avevo il destino segnato. Dove sei ora? Tu hai spiccato il volo e ti sei portato via Mikey, io sarei rimasta invece lì, a fissare il cielo sopra la città e pregare che un giorno ti ricordassi di tornare a prendermi dalla fogna.”
Io sono ancora un cazzo di tossico: senza le pastiglie non vado da nessuna parte, senza essere ubriaco nemmeno mi reggo in piedi e soprattutto, senza qualcuno che mi tenga per mano non so nemmeno dove sbattere la testa. Mikey spacciava, è vero, ma era poca roba dopo tutto.
E Mikey sarebbe un padre fantastico, non come me.
“Siamo stati noi a rovinarti la vita?”
“Non ho detto questo, in un certo senso mi avete salvata. Papà è morto un paio di anni dopo che ci siamo trasferiti a New York e mamma è tornata a vivere qui a Newark. Io avevo Arthur, così ho preso un appartamento in affitto con un paio di ragazze che lavoravano con me e abbiamo cercato di vivere al meglio. Ed ecco qui il risultato.”
“Hai sofferto più per Mikey o per me?”
“Quando spacchi in due il tuo cuore e a te non ne rimane nemmeno una metà, come puoi dire quale sia il dolore più grande?”
“Davvero è solo questo? Un addio?”
“Non ti ho salutato quando me ne sono andata quattro anni fa, dovevo saldare un debito lasciato aperto. In bocca al lupo per tutto, Gee. Sono certa spaccherete il mondo.”
Arthur trotterella verso di noi stringendo la mano di Rachel nella propria come se fosse l’ultimatum di un uomo che aspetta la propria moglie per ore fuori da un negozio all’ultimo grido.
“Proteggi la tua mamma, Arthur?”
Lui mi fissa senza parlare, nascondendosi dietro la gonna svasata di Rachel che gli arruffa i capelli sulla nuca per rassicurarlo.
“Sei l’uomo della mia vita, vero Arthur? Andiamo dalla nonna ora, o ci darà per dispersi lungo la Highway. E la nonna è molto apprensiva.”
Lui mi fissa senza parlare e Rachel mi concede un ultimo sorriso mentre stringe nella propria la mano minuta di suo figlio, la metà perfetta che per nove mesi è stata protetta amorevolmente dal corpo che io ho posseduto quattro anni fa.
L’amore tra madre e figlio è una cosa bellissima: c’è quella complicità violenta e dolcissima di totale appartenenza che non può replicare nessun altro legame umano.
“Grazie di cuore, Gee. Puoi dire a Mikey che mi dispiace? Sono sincera, Gee. Mi spiace.”
Mentre si allontanano sento le ultime parole di Arthur, crudelmente sincere come solo quelle di un bambino possono essere.
“Mamma perché ringrazi chi ti fa piangere?”
“Perché si piange anche per la felicità.”
“Ma tu piangi quando lo vedi cantare in tv! E quando ci sono le sue interviste cambi canale, e Franziska si arrabbia perché non riesce mai a sentire nulla su di loro!”
Lo vedo anche da qui il sorriso rassicurante di Rachel, quello che spariva ogni notte e che sbocciava ogni mattina, ora unicamente pronto a fiorire per suo figlio.
“Si può semplicemente ringraziare per ciò che di bello ci è stato concesso, senza necessariamente odiare per il male che ci è stato fatto. Devi ricordatelo, questo, Arthur. E’ una cosa molto importante.”
I sentimenti quanto possono ferire una persona?
Stille di sangue nero che sgorgano da ferite invisibili che non smettono di sanguinare, ferite in suppurazione che non si rimargineranno mai.
Non esistono cure per il male di vivere.

Parlare a Mikey non è stato facile.
Vuotare il sacco, dire che una notte di quattro anni fa mi sono scopato la sua fidanzata prima che sparisse per sempre dalle nostre vite senza alcuna spiegazione è stato un po' come rivelarmi a lui nell'intera completezza del mio essere un grandissimo fallimento umano su tutta la linea.
Rachel è sparita, scomparsa nel nulla inghiottita dalle tenebre per poi riapparire e scomparire di nuovo in un pomeriggio assolato.
Mikey mi ha guardato e mi ha risposto con quella sua placidità fastidiosa, quella sua compostezza tipica che non lascia trapelare nulla all’esterno mentre dentro lentamente si sfalda tutto quanto, tutto va in merda e lui non te lo dice, non ti racconta mai che sta da schifo anche quando poi gli manca il respiro per la paura.
“E’ acqua passata, Gee.”
“Per una volta puoi dirmi cosa ti passa per la testa davvero?”
“Non mi sembra il caso di parlarne proprio ora, ti pare?”
“E quando?”
“Non ora che non c’è più, cazzo. Non mi sembra il caso di parlare ora di quando te la sei portata a letto, Gee. E’ capitato, fine. Non parlarmene proprio adesso perché non è in quelle condizioni che voglio ricordarla.”
“Mi dispiace.”
“Lo so. Non ti avrei perdonato quattro anni, non ti avrei nemmeno più voluto vedere. L’ho amata davvero, più di qualsiasi altra cosa al mondo. Persino più di te, Gee. Ma le cose cambiano, la vita non si ferma e noi ci ritroviamo qui in giacca e cravatta per andare al suo funerale. Strana la vita, vero?”
Abbraccio Mikey, lo stringo all’altezza delle spalle nonostante sia più alto di me, ma è così che deve essere l'appoggio fraterno, no?
“Ora mi perdoni semplicemente perché non la ami più?”
“Perché sono passati quattro anni e lei è sparita dalla mia vita quella stessa notte, come se in un certo senso avesse voluto evitare il protrarsi del tradimento. Dici che non aveva il coraggio di affrontarmi?”
Cosa posso dire a Mikey, ora? Che io Rachel l'ho rivista con un figlio che potrebbe essere mio quanto suo, un ragazzino di quattro anni che ora è orfano e che rivedrò tra poco?
Dovrei accollarmi l'onere di un figlio che potrebbe non essere mio? Sputare il rospo e smazzare la merda con Mikey e trovare una soluzione con lui, costringendolo praticamente ad accudire un moccioso che potrebbe invece essere mio?
“Andiamo? Ormai è ora, Mikey. E' sempre una cazzo di merda assurda la vita, la morte e tutto quello che ti costringe a ricordare una fottuta scatola di legno.”
Costringere a ricordare anche il più inutile dettaglio, oppure svuotarti totalmente la testa e lasciarti lì a cercare di ricordare qualsiasi cosa senza che nulla ti torni alla memoria.
I funerali sono così, rischiano sempre di portarti da una parte o dall'altra in questo senso.
Dovrò affrontare lo sguardo smarrito di Arthur, del figlio che potrei non avere mai più e che mi sto giocando proprio ora contro il tempo e la mia voglia di fuggire da tutto e tutti.
Perché ricevere il telegramma della madre di Rachel che ci invitava al funerale di sua figlia è stato un po' come rivederla con un figlio e scoprirmi teso come una corda di violino, cercando un pretesto qualsiasi per mancare all'appuntamento.
Passo il braccio attorno alle spalle di Mikey e insieme ci dirigiamo verso la chiesa, ognuno assorto nei propri pensieri diretti in due direzioni del tutto opposte, due viaggi in due età del passato differenti: l'una indietro, all'adolescenza, e l'altra diretta verso gli anni di New York in cui Newark era stata la sua infanzia e quello il suo presente amaro,
La immagino con il pancione durante la gravidanza, circondata dall'amore di sua madre e sola a piangere la notte cercando il conforto e l'amore di chi avrebbe dovuto condividere quella felicità che si trasformava lentamente in peso e timori.
Una donna di ventiquattro anni non può morire così, dall'oggi al domani senza un perché. Dov'è la giustizia divina in tutto questo?
Dove?

Quando mi avvicino alla madre di Rachel, accanto a lei Arthur fissa tutto quello che lo circonda con attenzione, sforzandosi di non piangere nonostante le labbra stiano tremando in modo marcato.
“Mi dispiace Carol.”
“Grazie caro, Rachel sarebbe felice di vedere che tu e Mikey siete venuti qui per lei nonostante i vostri impegni. Arthur ringrazia Gerard, coraggio.”
“La mamma... la mamma ha detto di perdonare le persone per cui ha pianto.”
Lo dice stringendo i pugni, mentre le lacrime gli scendono violente lungo il viso minuto.
Identico a quello di Mikey, nella forma e nelle labbra serie serrate l'una sull'altra.
Identico a quello di Rachel, in quegli occhi da cerbiatto incorniciati da ciglia foltissime e dal colore che varia dal grigio al verde, in quelle tonalità indefinite che spaziano lo spettro da quello degli occhi di Rachel a quelli di mio fratello.
Tutto quello che posso fare è comportarmi come il padre che non sarò mai per lui perché non è mio il sangue che gli scorre nelle vene se non per la metà di proprietà dei Way.
Tutti questi adulti che si stringono la mano e stanno attorno a Carol, tutti questi adulti che parlano e dicono quanto Rachel fosse bella e forte, quanto Rachel fosse speciale senza nemmeno comprendere nulla di quella sua unicità.
Parole vuote, non un gesto d'affetto per un bambino che non avrà mai una madre e non conoscerà mai suo padre.
Mi inginocchio di fronte a lui e lo abbraccio, e lui mi lascia fare come se fosse una bambola nelle mani di un bullo che vuole solo distruggerla.
“La tua mamma era davvero speciale. L'ho amata molto, lo sai? La porterò sempre nel cuore, sempre qui come una medaglia da mostrare in modo fiero al mondo. Lo farai anche tu?”
Lui annuisce scuotendo il capo con un vigore che mi sorprende, mentre gli accarezzo in modo impacciato la nuca su cui si trova una zazzera spettinata ad arte.
Non sono abituato a capire quello di cui hanno bisogno i bambini, non ho mai voluto immischiarmi in qualcosa che non fosse strettamente legato al mio mondo: di cosa ha bisogno Arthur, oltre che di sua madre?
Di suo padre?
Osservo Mikey abbracciare Carol, che con lui sembra lasciarsi andare a un pianto liberatorio, dettato dal fatto che anche il piccolo ora sta piangendo qui, qualche decina di centimetri più in basso rispetto a lei.
Helena... l'ho scritta pensando a tua madre.”
“Lei lo sapeva. Per quello non voleva mai ascoltarla anche se a me piaceva tanto.”
Il meccanismo cerebrale ora potrebbe distruggersi, sgretolarsi per sempre.
Ho pregato che fosse morta, ho desiderato con tutto me stesso che non fosse più toccata da alcun uomo e Qualcuno ha davvero esaudito la mia preghiera.
Perché mi ha ascoltato in quel maledetto momento e non quando avevo chiesto di restituirmela?
Perché?
“L'ultima cosa che ha detto è stata vi amo.”
Le parole di Carol escono lente dalle sue labbra mentre si stacca dall'abbraccio di Mikey, studiate attentamente come se tirarle fuori in questo momento in cui Mikey, Arthur ed io siamo uniti sia di vitale importanza.
Rachel era speciale, unica.
Perché solo una come Rachel poteva farsi accompagnare ovunque dalla tempesta.
Lontano da me e lontano dalla vita con la stessa disperata passione di un travolgente temporale estivo.





Note dell'autrice.

La storia si colloca temporalmente quattro anni dopo le vicende narrate in “Like a shooting star”, poco dopo l'uscita dell'album di Three Cheers For A Sweet Revenge. Katmandu è la prima delle “ex-ragazze” storiche di Gerard. Pare effettivamente che fosse lei a procurargli sottobanco (e nel frattempo spacciare), anfetamine e farmaci di vario genere. Si dice che Mikey Way spacciasse droga o, quanto meno, fosse stato scambiato per uno spacciatore.
   
 
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