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Autore: viandante90    11/12/2011    0 recensioni
Salve, questa è la prima storia che ho scritto, e ho il piacere di condividerla con voi. E' la storia di Emma, una giovane giornalista e Leonard, frontman di una rockband di successo. Il destino li farà incontrare nell'assolata ma inaspettatamente piovosa L.A. Toccherà però ad Emma decidere se continuare a crogiolarsi in un'amara delusione, o sfruttare l'opportunità che le si presenterà. E' una storia d'amore, non melensa e a tratti anche drammatica. Vi lascio un frammento della storia e intanto a chi si appresta a leggere auguro una buona lettura!
"Quella notte in cui diventammo un’unica cosa, io lo conobbi realmente, e riconobbi me, nei suoi abbracci, nei suoi respiri affannati, nelle nostre fronti madide di sudore. Mi riconobbi e mi sentii bella, desiderabile, anche da chi credevo irraggiungibile. Mi riconobbi e senza inciampare, trovai il mio posto nel mondo."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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POV EMMA




Faceva freddo. Non bastava quel piumone che mi aveva tenuto compagnia nei miei giorni più gelidi. Quello era il mio gelo. Un gelo diverso, un temporale che tardava ad andar via, e un vento che faceva scricchiolare le mie fondamenta.
Ascoltavo quella che era diventata la mia canzone, di quel gruppo che anni addietro aveva perdutamente catturato la mia attenzione. Lo ricordavo ancora quel viaggio, in balia di mille melodie che danzavano nella mia mente, e migliaia di note che pompavano sangue nelle mie flebili vene. Ero tutta loro ormai, e sinceramente non mi dispiaceva. Avrei voluto toccare con mano il mio sogno, alzarmi da quel letto e agganciarmi con tutte le forze, che mi rimanevano in corpo, al mio desiderio. Vivere ingenua e sperduta in quella realtà onirica, mi era tornato utile, quando tutto il mondo sembrava mi si fosse rivoltato contro, quando pensavo non ci fosse più posto per me in questo pianeta, chiamato Terra. Avevo trovato rifugio in quella mia dimensione, tra le sue viscere. 
Le luci filtravano da quelle tende che stavano lì, da tanto, troppo tempo. E forse anche io stavo lì da tanto, troppo tempo. Avrei voluto dire al mio cuore che era arrivato il momento di riprendere a battere seguendo un ritmo normale. Avrei voluto ordinare alle mie gambe, di toccare terra e andare avanti, consigliare alle mie labbra di sposare il sorriso migliore, ma non avevo più la forza, né la voglia.
Era la solita mattina, del solito giorno, della solita vita. Cercai di farmi spazio tra i miei pensieri, ignorando il suono della pioggia che batteva contro le imposte. Riecheggiava nell’aria la mia canzone preferita, mentre mi apprestavo lentamente a tornare alla realtà. Era uno scontro titanico: da una parte il sogno, dall’altra la mia vita. Un sogno animato da ombre che si allungavano per scaraventarmi ancora una volta nel mio buio, e una vita che sembrava non appartenermi più. Guardai da lontano quello specchio e tra le lacrime scorsi l’immagine di una me bambina che giocava con le bambole, con tutta la sua fretta di esser grande. La realtà invece, era un vero e proprio disastro: il trucco sbavato sugli occhi, le braccia e le gambe indolenzite per essere stata troppo tempo in quella posizione, i capelli arruffati, non era proprio così che volevo diventare. Volevo tornare indietro, proprio quando non potevo più.
Un suono improvviso ma familiare scostò la mia mente da quella matassa di pensieri. Cominciai a cercare disperatamente il cellulare. Inutile, il disordine ed io non avremmo mai smesso di andare d’accordo. Io, l’allampanata e timida ragazza, non ero poi così cambiata diventando grande. Inciampavo nei miei stessi piedi, e a volte anche nella mia stessa vita. Distratta dimenticavo i particolari, e col mio scarso equilibrio era perfino diventato difficile sopravvivere. E in più ero disordinata, tremendamente ingarbugliata nei miei grovigli, paralizzata in quel labirinto che io stessa avevo costruito. Conoscevo l’entrata ma non avevo mai visto l’uscita. E Dedalo, che io stessa avevo sbeffeggiato, a sua volta si prendeva gioco di me. Il cellulare continuò a squillare. Sperai che colui o colei che stava cercando invano una mia risposta non riattaccasse. Se mi conosceva non avrebbe messo giù la cornetta. Il telefono continuò imperterrito col suo richiamo. Mi inginocchiai sul letto, alzai il cuscino e trovai lì il minuscolo aggeggio.
 << Pronto>>, risposi quasi senza fiato. Sentii un sospiro.
 << Emma, dove diavolo sei?>>.
 “Dannazione, Anita!”, pensai. La sua voce era quasi un ruggito. Rimasi in silenzio. Che reazione stupida e insensata, avrei potuto, anzi avrei dovuto cercare una scusa.
<< Avevamo un appuntamento noi due, l’hai dimenticato?>>, mi ammonì con voce severa. Ripresi fiato, concedendomi del tempo per trovare le parole giuste. Una bugia mal confezionata avrebbe gettato benzina nel suo braciere già ardente. Lasciai perdere.
<< Scusa …>> riuscii a mormorare in preda allo sconforto. Sarei voluta sprofondare. Non servivano a nulla le mie scuse. Chissà quante volte si era ripetuta quella conversazione. Lei che mi chiamava per ricordarmi qualcosa, io che rispondevo e le davo prova di averlo dimenticato.
Con mia sorpresa, la sua voce si ammorbidì. << Emma … ho detto che stai male, e non mi pare sia una bugia…>>. Riuscii a immaginare la sua smorfia. 
<< Ma questo loro non lo sanno>> continuò << Ascoltami, quello che ti sto per dire è importante, siediti >>.
Sbuffai, fingendo indifferenza. << Anita…>>
<< Lasciami parlare >>, m’incalzò lei. << Domani partirai per Los Angeles, alle otto del mattino. Mi raccomando, puntuale, non ritardare. Mi raccomando! >>.
Continuò a travolgermi col flusso delle sue parole, senza lasciarmi il tempo di capire ciò che stava cercando di dirmi. << Frena,frena, frena! >>, quasi urlai.
<< Si, scusami. Mi sono lasciata prendere dall’entusiasmo. Ma è la tua occasione e voglio che tutto sia perfetto.>>
<< La mia cosa?? >>
<< La tua occasione!>> ripeté entusiasta.
Cosa mi ero persa? Indifferente com’ero alla vita, non avevo avvertito neanche il minimo spiraglio d’aria.
<< Emma, tu intervisterai i Free Fallen >>, annunciò la mia amica scandendo per bene le parole. Tremai.
<< I Free … I Free Fallen?>>, balbettai.
<< Si, non c’è tempo da perdere, prepara la valigia! >>.
<< Anita, io… >> dissi esitando.
<< Il capo ha già deciso, Emma! >> affermò tra i denti << Ci sarà uno speciale su di loro nel prossimo numero, e ovviamente, in quanto critica musicale, sarai tu ad occupartene!>>.
Il cuore martellava contro il mio petto. Le orecchie mi fischiavano e le gambe erano così molli, che se non fossi stata sdraiata avrei già battuto la testa per terra. Ma non volevo arrivare alle soglie del mio sogno così impreparata, così malconcia, e soprattutto inetta.
<< Io non me la sento … >> confessai sincera, ma le mie parole fecero infuriare ulteriormente la mia collega.
<< Emma … alzati da quel letto, e prepara le valigie!>>.
Mi sforzai di sorridere. << Vieni con me? >>.
Seguì un lungo attimo di silenzio. << Non so se posso …>>.
<< Ti prego … >>, la implorai. Se non ci fosse stata lei al mio fianco, avrei fatto dietrofront ancora prima di prendere quell’aereo. Il mio tono basso e supplichevole sembrò convincerla.
<< Verrò con te …>>, promise e la sua voce tremò.
<< Grazie Anita, non saprei come fare …>>, farfugliai. Avrei voluto continuare quella frase ma lei mi interruppe, imbarazzata.
<< Non mi ringraziare, domani sarà un inferno! Aerei, coincidenze, nodi alla gola, interviste! >>.
Io sorrisi. Avrei vissuto volentieri in quell’inferno pur di sfuggire all’inferno che io stessa mi ero regalata.
 
Riattaccai il telefono che ero ancora in trance. Stiracchiai le braccia e fu difficile accertarsi di non aver sognato tutto. Negli ultimi mesi avevo sviluppato un’immaginazione così vivida, da distogliermi dalla mia vita, e farmi credere che il mondo onirico fosse la realtà. Tante volte avrei preferito fosse così. Anche se gli incubi peggiori, venivano a bussare alla mia porta, ogniqualvolta chiudevo gli occhi. Mi svegliavo di soprassalto, con le mani tremanti e la fronte imperlata di sudore, e correvo, fuggivo da non so cosa. I miei sogni erano bui. Non c’era nulla, così come nella mia vita. Ma quella mattina ero sveglia e avevo ricevuto una buona notizia. Quella mattina ero sveglia e non avrei voluto dormire più.
Riuscii finalmente ad alzarmi da quel letto che ormai da mesi, era diventato la mia seconda casa. Mi trascinai a passi lenti in cucina, nel tentativo di cercare qualcosa di commestibile da mettere sotto i denti. Mi accorsi che avevo lasciato il frigo aperto. Stavo davvero cadendo a pezzi. Sarei voluta tornare in quella stanza, poggiare la testa su quel cuscino, che aveva già accolto la mia disperazione, scaturita dalla consapevolezza di aver regalato la mia vita a chi non la meritava. Mi ero resa conto che quello era stato il mio sbaglio più grande, solo quando, forse, era troppo tardi. Quando lontana dalla mia famiglia, non mi era rimasto più nulla.  Ma ero stata forte un tempo, e avrei potuto tornare ad esserlo. Bastava volerlo, riporre i ricordi in uno di quegli scatoloni che avrebbero preso polvere in soffitta, e ricominciare.
“ Se non sbatti la testa contro il muro, non ti darai mai pace!”. Mia madre, mi ripeteva sempre queste parole, quando entrava nella mia stanza e mi ritrovava con gli occhi gonfi di lacrime. Sbattevo la testa, e solo in quel momento mi rendevo conto di quanto fossi ostinata a perseguire battaglie più grandi di me. M’imbarcavo in zattere traballanti e pretendevo chissà che cosa. Dimenticando forse, che vivere a volte, è più difficile di remare contro il mare in tempesta.
 
Quella notte non dormii, le realtà era meglio di qualsiasi altro mio incubo.

 
  
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