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Autore: SHUN DI ANDROMEDA    11/12/2011    2 recensioni
Questa storia è semplice.
Non parla né di eroi né di leggendari scontri all’ultimo sangue e non vuole nemmeno essere una semplice e fredda cronaca di avvenimenti  annotati alla rinfusa in un diario.
Niente di tutto questo.
Non c’è una vera ragione per cui si è deciso, di comune accordo tra noi sette e gli altri nostri carissimi amici, di mettere per iscritto ciò che è successo ormai un anno fa; eppure, così di punto in bianco, è saltata fuori l’idea ed è stata abbracciata con entusiasmo.
E ancora non so come, è stato deciso pure che io dovrei essere quella che “dà fuoco alle polveri” come ha sottolineato quella testa matta di Fabien: e così, eccomi qui, davanti a questo computer senza sapere neppure da che diavolo di parte incominciare! E senza neppure averne granché voglia…
Ma forse, è meglio andare con ordine, i nomi messi alla rinfusa non sono mai troppo comprensibili...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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BARCELLONA

 

§§§

Fandom: Originale
Rating: Per tutti
Tipologia: OneShot
Avvertimenti: Family Fluff, FemSlash, Slash
Genere: Romantico, Introspettivo, Malinconico

§§§

Questa storia è semplice.

Non parla né di eroi né di leggendari scontri all’ultimo sangue e non vuole nemmeno essere una semplice e fredda cronaca di avvenimenti  annotati alla rinfusa in un diario.

Niente di tutto questo.

Non c’è una vera ragione per cui si è deciso, di comune accordo tra noi sette e gli altri nostri carissimi amici, di mettere per iscritto ciò che è successo ormai un anno fa; eppure, così di punto in bianco, è saltata fuori l’idea ed è stata abbracciata con entusiasmo.

E ancora non so come, è stato deciso pure che io dovrei essere quella che “dà fuoco alle polveri” come ha sottolineato quella testa matta di Fabien: e così, eccomi qui, davanti a questo computer senza sapere neppure da che diavolo di parte incominciare! E senza neppure averne granché voglia…

Ma forse, è meglio andare con ordine, i nomi messi alla rinfusa non sono mai troppo comprensibili.

Questo è un racconto, se sia verosimile o meno sta a voi deciderlo, io semplicemente do voce a  quello che mi si cela nel cuore, alle emozioni e ai ricordi che mi affollano alla mente, cercando il più possibile di essere precisa; purtroppo, non sono molto brava con la penna e sicuramente Marco o mio fratello potrebbero narrare queste vicende in modo molto più dettagliato e accurato.

Ma alla fine ho acconsentito, anche perché è qualcosa che mi riguarda personalmente e io ora sono qui per raccontarvi di noi e dell’appartamento dove abbiamo vissuto tutti assieme, sulla Rambla de Catalunya, nel centro di Barcellona, e delle nostre vite in quei frenetici giorni che hanno cambiato tutto in me.

Se siete pronti, possiamo cominciare.

Dal fondo? No, direi di no… Non sono un gambero che va all’indietro!

Al diavolo, incomincio dall’inizio, che forse è meglio!

 

§§§

 

La luce del sole al tramonto mi accecava mentre un paio di labbra sottili si avvicinavano lentamente a me, riuscivo a distinguere solo quelle mentre sentivo il cuore battermi all’impazzata nelle orecchie, assordandomi, e non c’era un singolo muscolo che mi obbedisse: ero totalmente paralizzata.

Il vento che mi scompigliava dolcemente i capelli aveva il profumo della salsedine e la pesante stoffa che sentivo ricoprirmi il corpo era quasi un impiccio per respirare: ma cosa avevo addosso?

Non riuscivo a capire nulla, ero totalmente in balia di una girandola di emozioni incredibili, tali da farmi quasi scoppiare in lacrime come una bambina.

Cosa che feci non appena percepii la sua bocca sulla mia…

L’ultima cosa che vidi con la coda dell’occhio, prima che la mia mente si spegnesse del tutto, fu una torre che si stagliava in lontananza…

 

“Diana!”

La voce di Fabien mi fece svegliare di soprassalto con un mezzo urlo, non troppo forte ma abbastanza perché un paio di teste si voltassero verso di noi.

Ansimavo ed ero zuppa di sudore, tanto che a fatica riuscii a realizzare che mi trovavo ancora sull’aereo e che ciò che avevo visto pochi istanti prima era stato solo un sogno.

“Tutto bene?” mi chiese il mio vicino di poltrona, passandomi un bicchierino di plastica pieno d’acqua fino all’orlo; lo presi con mano tremante e me lo portai alla bocca, ingollando in un solo sorso ogni singola goccia.

Mi sentivo ancora frastornata, ma cominciavo, pur se lentamente, a riprendermi.

“Più o meno…” bofonchiai, poggiando il bicchiere sul tavolino incasinato, tra il lettore mp3 e la mail che mio fratello mi aveva mandato prima della mia partenza da Roma.

“Senti, la hostess ha detto che siamo in fase di atterraggio, ti conviene sgombrare tutto e allacciare la cintura.” disse lui, aiutandomi a raccogliere le mie carabattole e a ficcarle di nuovo nella borsa alla rinfusa: meccanicamente, cercai di fare a mia volta qualcosa, ma dopo aver quasi rischiato di rovesciare tutta la bottiglietta dell’acqua per terra, decisi di lasciarlo fare.

Meglio evitare ulteriori disastri.

L’unica cosa che rimase fuori fu la lettera, che rilessi e rilessi tanto più ci abbassavamo, non udii quasi la voce entusiasta del mio compagno di volo mentre dal finestrino si scorgeva ormai gran parte della città.

Ero totalmente assorbita dalle sue parole, come era nello stile di Roberto, chiare e senza troppi fronzoli.

Diceva che mi sarebbe venuto a prendere all’aeroporto e che sarei stata a vivere con lui fino a quando i nostri genitori non fossero tornati dal loro viaggio di lavoro.

“Abbiamo già fatto portare qui i mobili della tua camera, assieme alle tue cose, dovrai solo sistemarle,”mi aveva scritto: “E la nonna mi ha detto che la ditta di traslochi con i tuoi vestiti e i tuoi libri arriverà tra oggi e domani.”.

E così, la prima persona che avrei rivisto una volta ritornata a casa sarebbe stata mio fratello…

Certo che cinque anni erano tanti…

Avevo lasciato la mia città che ero ancora una bambina, nei comportamenti e nel cervello, e c’ero ritornata non proprio donna ma quantomeno abbastanza adulta da poter vivere da sola, senza i miei attorno e con un diploma in tasca, pronta per scegliere cosa fare della mia vita da quel momento in avanti.

E non ero certa che il mio carattere, assolutamente fancazzista e pigro all’ennesima potenza, mi avrebbe aiutato a superare gli ostacoli che mi si sarebbero posti dinanzi, anzi, forse mi sarebbe stato anche d’impiccio. Come già era successo in passato.

Frequentare le scuole superiori in Italia era sempre stato il mio sogno, un sogno che ero riuscita finalmente a realizzare, trasferendomi da mia nonna, che ancora abitava a Trastevere: a differenza di tutta la famiglia, lei non aveva voluto lasciare Roma e l’Italia, malgrado i nostri genitori avessero più volte insistito per convincerla; lei era stata irremovibile e, fin da piccola, non ero mai riuscita a vederla spesso, tranne che alle feste o durante le vacanze estive, che trascorrevo immancabilmente con lei.

Tuttavia, durante l’infanzia, non ero mai stata veramente da sola: da sempre impegnati in lunghi viaggi di lavoro, mamma e papà raramente erano a casa e di me si era sempre occupato mio fratello ma anche se era difficile tirarmi fuori di casa, avevo avuto anche io il mio piccolo gruppetto di amici, ragazzi e ragazze come me, con Roberto in testa, che mi spingeva a fare amicizia con le altre persone a suon di improbabili minacce e ricatti ancora più strampalati.

Ed ecco di nuovo la mia dannatissima pigrizia cronica e voglia di fare pari a zero a far danni!

Di loro non ricordavo moltissimo, al tempo, anche perché il periodo trascorso fuori mi aveva assorbito quasi del tutto: per fare un esempio di quanto… Se Roberto mi avesse mollato nel mezzo di Plaça de La Catlunya da sola, con le valigie, e mi avesse detto di raggiungere il Teatro del Liceo, molto probabilmente mi sarei persa lungo la strada.

Ma ciò che, mi resi conto, forse avevo sbagliato maggiormente, non era stato inseguire i miei sogni, ma pur promettendo a tutti di farmi sentire al più presto, non l’avevo mai fatto.

Avevo mandato al diavolo la mia infanzia.

Non era stato per cattiveria, però già lo studio mi imponeva un tot di ore passate sui libri, che trascorrevo facendo una sorta di violenza a me stessa: non sono una persona ignorante e mi è sempre piaciuto studiare, non ho mai avuto problemi a scuola, ma è che proprio per me non è semplice impormi di fare qualcosa, figuriamoci farla!

Forse, se avessi veramente voluto, mi sarei ritagliata anche solo cinque minuti per scrivere loro due righe, un messaggio sul cellulare, anche una dannatissima mail o una mezza parola su una qualunque delle loro bacheche di Facebook (Roberto mi aveva mandato i loro contatti).

Ma non lo avevo fatto.

La mano di Fabien sulla mia spalla mi fece sobbalzare: lo fissai con espressione probabilmente scioccata, visto che mi chiese se stessi bene, ma non stavo bene per nulla!

Ora che ero tornata a casa, ero terrorizzata.

“Cosa ti prende?” domandò, mentre finalmente l’aereo atterrava con parecchi scossoni e un fragore assordante.

Io scossi la testa, cercando di nascondere la lettera.

Ma fu tutto inutile.

Lui la prese in mano e, per un attimo, sembrò totalmente assorto dalla lettura, anche quando venne dato finalmente il segnale del slacciare le cinture, lui restò immobile, con una sorta di sogghigno dipinto sul viso abbronzato.

Ora, personalmente, che qualcuno s’impicci nei miei affari non mi è mai andato a genio, eppure, nel suo caso, malgrado ci fossimo incontrati per caso in aeroporto prima di scoprire che avremmo dovuto prendere lo stesso volo, non lo sentivo come un estraneo.

Ci eravamo presentati, avevamo scambiato due parole e, i casi della vita, avevamo scoperto di avere i posti vicini.

Non sapevo come interpretare la sensazione di familiarità che provavo a chiacchierare con lui, a ridere…

Però era piacevole.

Dopo un tempo che mi sembrò infinito, finalmente me la restituì mentre attorno a noi l’aereo si era totalmente svuotato e la hostess ci fissava preoccupata.

Senza dire nulla, presi la mia borsa e sgusciai fuori dal sedile, avviandomi verso la scaletta, sempre seguita a distanza ravvicinata da lui.

Sulla pista di atterraggio, sotto il Sole cocente, non c’era più nessuno.

“Andiamo a prendere subito le valigie prima che Roberto ci lasci qui.” disse lui, spingendomi verso il terminal.

 

§§§

 

Malgrado le sue parole mi avessero del tutto scioccato, non ebbi modo di chiedergli subito spiegazioni: prima le valigie che erano già arrivate, poi il controllo dei documenti e infine la calca della Sala Arrivi; se già era difficile tirarsi dietro il trolley strapieno, figuriamoci riuscire a parlare e star contemporaneamente dietro a lui, che sembrava saltellare dovunque come un grillo iperattivo.

E poi, dovevo cercare mio fratello.

Distratta com’ero dal caleidoscopio di voci, suoni, annunci all’interfono e colori, non mi ero accorta che si era fermato in mezzo alla stanza fino a quando non gli finii poco gentilmente addosso, incespicando nei miei piedi e nella sua valigia.

Mi sentii cadere in avanti e lanciai un mezzo grido, già mi vedevo a terra quando un paio di braccia familiari mi afferrarono al volo, impedendomi di dare una poco elegante nasata sul pavimento.

“Diana, è mai possibile che tu sia sempre così imbranata?”

Sbattei più volte le palpebre, poi distinsi sopra di me il viso sogghignante e sorridente di Roberto.

Alle sue spalle, vidi Fabien sghignazzare.

Aiutandomi con le sue spalle, riuscii a mettermi perlomeno seduta.

“Non sono imbranata…” borbottai, senza alzare lo sguardo, ero avvampata, il mio viso sembrava stesse andando a fuoco!

Un momento dopo, mi aveva abbracciato con forza.

Colta di sorpresa, non riuscii quasi a respirare, però risentire quella stretta cingermi la vita era così bello… Non mi ero mai resa conto quanto mi fosse mancato…

“Bentornata, sorellina…” mi sussurrò all’orecchio.

“Roooby!!! Torniamo a casa?!?!”

L’inopportuna voce lamentosa di Fabien ci fece sobbalzare e staccare di scatto, mentre il mio strambo compagno di viaggio, appollaiato sulla sua valigia, ci fissava.

Ero confusa, dovevo ammetterlo.

Come mai tutta quella familiarità tra loro?

Gentilmente, Roberto mi aiutò a rimettermi in piedi e prese in custodia il mio trolley, prima di voltarsi verso di lui: sotto il mio sguardo stupefatto, si abbracciarono con affetto.

Poi, quel tornado dai capelli scuri si gettò su di me, prendendomi in spalla senza alcuna difficoltà: mi fece roteare come una bambolina e a nulla servì divincolarmi o strillare, neppure aggrapparmi alla sua testa era servito allo scopo.

Quando mi rimise giù, eravamo tutti e due spettinati e ansanti, ma lui sorrideva come un bambino la mattina di Natale.

“Scommetto che non ti ricordi di me, piccoletta!” esclamò lui, raccogliendo il mio cappello e restituendomelo con un gran sogghigno.

Io scossi la testa, ancora troppo sconvolta.

“Ammetto che subito non ti avevo riconosciuto neanch’io, ma quando eravamo bambini avevi due fondi di bottiglia sul naso! E i capelli tutti scompigliati! L’ultima volta che ti ho visto sembravi un pulcinotto sperduto! Adesso sei anche cresciuta!” affermò con soddisfazione.

Roberto mi arrivò alle spalle: “Non ti ricordi di Fabio?” mormorò al mio orecchio.

Fabio…?

QUEL Fabio!?

“Roby ci ha tenuto informati su ciò che combinavi in Italia! Sappiamo ogni cosa.” aggiunse lui con finta serietà: “Io ti avevo detto che sarebbe tornata oggi,” lo rimbeccò mio fratello, “Non ricordavo fosse questo il volo.” si giustificò con una linguaccia, “Sai, ho avuto anche un pochettino da fare, devo ricordarti perché sono andato a Parigi?”.

Quello strano scambio di battute mi aveva lasciato sorpresa.

Prima scopro di aver parlato per tutto il tempo con un mio vecchio amico d’infanzia, che non sono mai riuscita a chiamare col suo nome senza impappinarmi e che ho ribattezzato fin quasi a scordarmi come si chiamasse realmente, il tutto senza averlo riconosciuto; poi, dopo essermi fatta paranoie per tutto il tempo dell’atterraggio, scopro che mio fratello li ha tenuti informati al mio riguardo e che quel francese ipercinetico è partito per Parigi per una qualche ragione a me sconosciuta, quando ricordo perfettamente che i suoi genitori sono sempre vissuti qui in città come i miei, anzi, che si erano trasferiti assieme in giovanissima età.

Probabilmente la mia espressione doveva esser stata particolarmente ebete, a causa di tutte quelle domande, perché me li vidi piombare addosso, visibilmente incuriositi.

“Roby, non glielo hai detto?!” borbottò Fabien, cingendomi le spalle con il braccio: “Che fratello cattivo che ho!”.

“Volevo che fosse una sorpresa, dopotutto è brutto dire una cosa del genere via mail. Parlare vis-à-vis trovo che sia molto meglio.”.

Io li fissai ancora più confusa.

“Chèrie, il qui presente Fabien Fournier convolerà a giustissime, e desideratissime, nozze tra tre giorni, più o meno!”.

“EH!?!?!?!”

 

§§§

 

Non parlammo moltissimo durante il viaggio, io ero stanca e parecchio più interessata a osservare come fosse cambiata Barça mentre ero via, mentre Roberto e Fabien, seduti davanti, erano impegnati in una fitta discussione di cui non afferravo il senso.

Credo però, a un certo punto, di essermi di nuovo addormentata, perché mi ritrovai in braccio a Fabien, su un ascensore, senza ricordare assolutamente come ci fossi finita!

Senza dire nulla, solo con un sorriso affettuoso, lui mi poggiò a terra nell’esatto momento in cui le porte scorrevoli si furono aperte e, davanti a noi, comparvero un gruppo di ragazzi, dai lineamenti a me familiari.

“BENTORNATA A CASA, DIANA!” esclamò un marcantonio, alto almeno un metro e 80 contro il mio metro e 50 scarso, prima di trascinarmi in mezzo a loro, dove venni praticamente stritolata da tutti, nessuno escluso.

Una volta riuscita a liberarmi, li fissai per parecchi istanti negli occhi, che sentivo si stavano riempiendo di lacrime mentre, alla memoria, riaffioravano i loro volti: anche se me li ricordavo come bambini, non erano cambiati poi tanto.

“Sebastian… Marco….” mormorai, rivolgendomi ai due gemelli che mi stavano rispettivamente a destra e a sinistra.

Loro sorrisero: “Ricordi ancora come fare a distinguerci?” mi chiesero con noncuranza.

Io annuì: “Foulard rosso, Sebastian, foulard giallo, Marco.” replicai semplicemente, indicando i due pezzi di stoffa colorata avvolti attorno ai loro polsi.

 Il loro sguardo soddisfatto mi fece capire che ci avevo azzeccato.

Dietro di loro, c’era un altro ragazzo, con spessi occhiali da vista sul naso e i capelli scuri, pieno di lentiggini sul naso e sulle guance: “Sono contento che tu sia tornata in tempo, Diana. Non sarebbe stato lo stesso senza di te.” mi disse, prima di tendermi la mano per stringerla.

Per tutta risposta, lo abbracciai: “Grazie, Marcelo…” sussurrai, senza comprendere completamente quello che mi aveva detto, ma intuii che avesse a che fare con la news del matrimonio datami poco prima.

Non avrei mai immaginato neppure quanto.

“Ehi, piccoletta, attenta a dove metti le manine. Fernandez è proprietà privata!”

Le parole di Fabien fecero scoppiare a ridere tutti, ma sembrava che solo io fossi l’unica a non averle del tutto capite…

Marcelo non si staccò del tutto da me, mantenne saldo il contatto con le mie spalle mentre lo fronteggiava con aria insolitamente spavalda: “Fournier, attento a come parli. Fino a prova contraria, ancora non è accaduto nulla, potrei tranquillamente ripensarci di qui a una settimana.” gli disse, ammiccando scherzosamente nella mia direzione.

Fabien mise su quel broncio che avevo cominciato a ricordare dei tempi dell’infanzia: quando qualcosa non gli andava bene, era quello il suo comportamento abituale.

A quel punto, afferrai il vero senso delle loro parole

“Dovete sposarvi voi due?!” chiesi sorpresa, non me lo aspettavo proprio!

“C’est vrai!” esclamò Fabien, gettandosi a pesce su Marcelo per baciarlo appassionatamente.

“Ehi, voi due. Piantatela di dare spettacolo sul pianerottolo! Dobbiamo preparare la festa!”.

Ma le parole di Roberto non ebbero alcuna risposta mentre nel mio cuore cominciava a serpeggiare una sorta di disagio e tristezza: era a quello che i miei sogni, o meglio, capricci, mi avevano portato?

Non ero stata lì quando si erano scoperti innamorati, non mi ero mai nemmeno quasi interessata di loro…

E non solo mi avevano invitato al loro matrimonio ma per loro sembrava non fosse accaduto nulla, che fossi semplicemente tornata dopo aver trascorso il fine-settimana fuori, e non dopo cinque anni.

In quel momento, odiai me stessa per aver buttato al vento tutto quello.

 

§§§

 

Quando mi risvegliai, il mattino dopo, a fatica realizzai subito di non trovarmi più a Roma ma di essere nella nuova camera che i ragazzi avevano preparato per me.

Ero veramente rincoglionita, e come poteva non essere?

La sera prima, c’era stata una festa per festeggiare il mio ritorno, a cui avevano partecipato tutti i miei vecchi amici che, avevo scoperto, avevano preso ad abitare tutti assieme in questo appartamento.

Erano stati tutti gentilissimi e simpaticissimi e, malgrado il mio senso di colpa continuasse a pungolarmi ogni istante, avevo trascorso una serata, o meglio nottata, molto divertente e piacevole.

La Luce del Sole mi colpì in pieno viso, facendomi mugolare di fastidio, tanto da costringermi ad affossare il viso nel cuscino, ma ormai era inutile tentare: una volta svegliata, difficilmente riuscivo a riaddormentarmi, anche dopo a malapena… quattro ore di sonno, come la sveglia mi comunicava.

Ricordavo di essere crollata solo attorno alle 4 e il LED rosso segnava le 8.15.

Buongiorno mondo.

Tutta scarmigliata, con gli occhi cisposi, l’aria decisamente spaventosa e i pantaloni del pigiama che mi facevano da calzini, mi misi seduta, cercando di distinguere qualcosa sul comodino.

Accidenti, dove avevo messo gli occhiali?

Che li avessi lasciati in salotto?

Sospirando e sbadigliando, mi alzai, allungando in avanti le mani per evitare qualunque possibile ostacolo, colonne portanti o porte, dritto sul naso: senza i miei fondi di bottiglia, sono totalmente cecata.

Misi il naso fuori nel corridoio, totalmente deserto, da cui riuscivo a sentire senza problemi il russare di qualcuno degli altri inquilini, e non potei evitare di sorridere: l’idea di non essere sola mi rendeva stranamente felice.

Ma prima di qualunque possibile, sentimentalismo, gli occhiali erano al primo posto delle mie priorità.

Scivolai verso il salotto, totalmente illuminato dalla luce del Sole e mi distrassi un attimo a scrutare i tavolini: furono pochi istanti, però quei pochi istanti mi avrebbero cambiato la vita in maniera radicale.

Perché, un attimo dopo, ero cascata vergognosamente a terra, dopo aver cozzato contro qualcosa di morbido e caldo, ma comunque incredibilmente saldo.

Con un lamento, mi massaggiai la fronte nel punto in cui avevo sbattuto.

Perfetto, in cosa ero mai incappata?

Una mano gentile mi posò sul naso qualcosa e, come per incanto, ripresi a vedere il mondo con i suoi contorni e non come una brutta parodia di un quadrò di Dalì e Picasso messi assieme.

“Stavi cercando questi, non è vero?”

Alzato lo sguardo, mi trovai davanti Rojas.

Rojas Fernandez, la sorellina di Marcelo nonché mia compagna di altalene quando entrambe eravamo alte non più di mezzo metro ciascuna e seguivamo i nostri fratelli maggiori con degli orrendi pagliaccetti colorati addosso e le zampette saldamente attaccate ai loro pantaloni.

Gentilmente, lei mi tese una mano per aiutarmi a rialzarmi, e io arrossii come una quattordicenne alla sua prima cotta: che vergogna!

Perdipiù, lei sembrava già pronta e pettinata per uscire, mentre io, essendo appena uscita dal mio protettivo bozzolo di lenzuola, ero l’essenza della sfigaggine: cioè, come si può definire altrimenti una diciannovenne coi capelli martoriati dal cuscino, l’espressione di chi è ancora per metà intento a cavalcare unicorni e con un pigiama rosso fuoco addosso, sulla cui casacca c’è scritto “FANCULO IL PRINCIPE AZZURRO, VOGLIO DORMIRE!”?

“Uhm, vediamo… Addormentata?”

La sua voce divertita mi fece alzare di scatto la testa e spalancare gli occhi, che diventarono molto simili a dei fanali fendinebbia: “Ti si legge tutto in faccia, Diana.” ridacchiò lei, , “Ti faccio un caffè, tu intanto preparati. Se ti va, puoi accompagnarmi a far la spesa.”.

Io restai basita.

Nei miei ricordi, Rojas era totalmente diversa, un cosino piagnucoloso, terrorizzato per ogni cosa: quando mai era cambiata a quel modo?

Meccanicamente, le dissi che non mi piaceva il caffè poi mi rinfilai in camera mia, afferrai le prime cose pulite che trovai in valigia, e mi rintanai in bagno.

Per prima cosa, mi sciacquai abbondantemente la faccia, chiedendomi in che razza di mondo parallelo fossi finita poi, una volta cambiatami, senza neppure prestare attenzione e ciò che mi fossi messa addosso, mi affacciai alla finestra, che dava su un cavedio interno da cui riuscivo anche a vedere un lembo di cielo azzurrissimo.

Era una calda giornata di Luglio...

Di sfuggita, diedi uno sguardo alle altre finestre e subito la mia attenzione venne attirata da una in particolare, dritta di fronte a me.

Avvampai: ma era mai possibile che Marcelo e Fabien non sapessero chiudere le veneziane prima di andare a dormire?

Distolsi subito lo sguardo, dirigendomi a tutta velocità fuori dal bagno e, per l’ennesima volta nel giro di dieci minuti, andai a sbattere di nuovo contro Rojas, ma questa volta lei cascò dritta sopra di me.

Cercando di divincolarmi, i nostri visi finirono troppo, decisamente troppo vicini.

“S-Scusa!” riuscii a balbettare, dovevo somigliare a un gambero; lei però sembrava molto più interessata alla mia maglietta, che pareva la divertisse moltissimo, a giudicare dalla sua espressione: “Non ricordavo fossi così simile a mio fratello e a Fabien, quando eravamo più piccole. Da quando ti piace Star Wars?”.

Dalle sue parole, non ero sicura di voler vedere che razza di maglietta avessi riesumato da quella valigia traditrice.

“JOIN THE DARK SIDE, WE GOT COOKIES”

Con un adorabile Darth Vader stampato giusto accanto.

Promemoria: ricordarsi chi diavolo me l’abbia regalata e ucciderlo tra atroci sofferenze.

“Forza, andiamo!” mi disse lei, alzandosi e scuotendosi i vestiti dalla polvere: “Va benissimo anche così, in fondo andiamo a far la spesa, mica alla Fashion Week di Parigi!”.

Sante, sante parole!

Ci chiudemmo la porta di casa dietro le spalle e scendemmo le scale, uscendo infine all’aperto.

Ancora non mi ero resa conto di dove fossimo, dato che, quando eravamo arrivati, io ronfavo beatamente, così mi ci volle qualche istante per orientarmi: “Rambla de La Catalunya, numero 7!” esclamò lei, “E noi siamo in sette. Bello, vero?”.

Una pioggia di numeri 7…

“E forse ancora non lo sai, ma la data che hanno deciso per il matrimonio è tra tre giorni. Fai un po’ tu i calcoli.”.

“Il 7 Luglio?” azzardai, sperando di sbagliarmi, però non era così: il mio orale di maturità era stato il 1 Luglio; tempo di impacchettare le cose e il mio aereo era partito il 3, poco dopo pranzo.

E quel giorno era il 4, per certo.

“Esattamente.”

Senza avere la forza di replicare, la seguii verso Plaça De La Catalunya, assolutamente incasinata e piena di macchine anche alle nove del mattino: non che fosse poi tanto diversa da Roma, zona Eur, o Roma centro.

Anzi, forse era ancora meno confusionaria.

Alzai lo sguardo verso Rojas, che camminava accanto a me, trascinandosi dietro la sporta per metterci dentro gli acquisti: volevo chiederle qualcosa, magari cosa avesse fatto in questi anni, ma c’era come qualcosa che mi bloccava, e non riuscivo a capire cosa. La sera prima non eravamo riuscite granché a scambiarci informazioni, visto che eravamo impegnate a cucinare qualcosa di passabile per sfamare quegli squali dei ragazzi e io, francamente, ero curiosa di sapere.

“Allora, Roby mi ha detto che hai frequentato il Liceo Classico, com’è stato?”

Sobbalzai, non mi aspettavo proprio che fosse lei a cominciare a parlare.

“Interessante…” risposi, dopo parecchi istanti: “Cioè, ci sono stati dei momenti in cui mi sarei volentieri tolta da scuola per andare a far la siesta coi messicani, ma nel complesso è stata una bella esperienza.” spiegai, “Tu invece? Ricordo male oppure, prima che io partissi, avevi la fissa per la fotografia?”.

“No, non ricordi male. Effettivamente, adesso lavoro per uno studio fotografico, specializzato in book e cataloghi per negozi di abbigliamento.” mentre me lo diceva, vidi una strana luce nei suoi occhi, una luce che non sapevo spiegare, “È molto bello. Se ti va, oggi potresti passare, così ti faccio vedere. Ho giusto un book da preparare.”.

Acconsentii, l’idea mi attirava, e anche parecchio.

E poi, stare con Rojas mi era sempre piaciuto, fin da quando eravamo piccole.

Tra una chiacchiera e l’altra, infine, arrivammo a destinazione.

La Boqueria.

Il mercato più bello e colorato di Barcellona.

Di nuovo, altri flash della mia infanzia mi aggredirono: mi rividi piccolina, in braccio a Roberto, mentre piangevo sul mio frullato caduto miseramente per terra e ormai irrecuperabile.

Ricordo anche che Rojas mi si era avvicinata con in mano il suo e me lo aveva regalato: “Io me ne prendo un altro, tanto questo gusto non mi piace!” mi aveva detto, con un sorriso del tutto disarmante per una bambina di appena sette anni.

Eppure sapevo per certo che la fragola fosse il suo gusto preferito: era anche il mio!

E invece, aveva rinunciato al suo per darlo a me, malgrado fosse l’ultimo, nel carretto della signora.

E se n’era preso uno alla vaniglia.

“Ehi, Diana, ti sei incantata?!”

Un deciso scrollone sulla spalla mi riportò alla realtà e mi ritrovai il viso di Rojas a pochissimi centimetri, le nostre fronti si toccavano: “Stavi dormendo d’in piedi?” mi chiese; io scossi la testa, distogliendo lo sguardo, “Stavo pensando…” borbottai, sentendo improvvisamente caldo.

Lei si spostò appena, indicando un punto a poca distanza da noi: “Perché non ce ne prendiamo uno, in ricordo dei vecchi tempi?”.

Con gli occhi che pizzicavano, rividi il carretto e la signora, ritta accanto, col suo ampio vestito colorato a motivi floreali.

Rojas mi prese per il polso e mi trascinò fino a lì.

“Buongiorno ragazze!” ci salutò lei con un sorriso pieno di calore: “Due alla fragola!” ordinò la mia amica, frugando nel portamonete, “Non ci provare!” mi fermò, nel momento in cui cominciai a cercare nel mio marsupio qualche spicciolo, “Faccio io, voglio festeggiare!”.

Un attimo dopo, l’una accanto all’altra come due sorelle, o piuttosto come due casalinghe, eravamo a zonzo, ciascuna col suo bicchiere di plastica, per i colorati banchetti, pieni di verdure freschissime e frutta, con il profumo del pesce appena pescato che si mischiava a quello del pane appena sfornato.

C’era tantissima gente, perlopiù donne intente a fare acquisti, ma vidi di sfuggita anche qualche ragazzo, forse più grande di noi, che vagava con aria sperduta e con la lista della spesa in mano e perfino parecchi uomini chini a esaminare ora i pomodori ora i fiori di zucchine e i prezzi.

Tutto quel caleidoscopio di voci, odori e allegre pennellate di colori mi intontiva ma mi rendeva al tempo stesso euforica.

Cercando di non perdermi, data la mia altezza non propriamente convenzionale, istintivamente, afferrai la mano libera di Rojas, neppure lei era una stanga ma quei cinque centimetri facevano eccome la differenza, e la tenni per tutto il tempo, mentre lei mi coinvolgeva nella scelta di ciò che avremmo dovuto comprare: mi sembrava così naturale che quasi non mi resi conto delle occhiate piene di comprensione delle donne che ci circondavano e ci aiutavano, spesso, a scegliere le cose migliori.

Strano a dirsi, ma credo di aver imparato più cose in quel viaggio al mercato che in tutti i miei cinque anni trascorsi fuori!

Quando lasciammo il mercato, erano a malapena le undici.

“Gli altri, di sicuro, prima di mezzogiorno passato non saranno svegli.” mi disse, trascinandomi verso uno dei tanti dehors all’aperto che popolavano la Rambla: “Tu non hai fatto colazione stamattina, e prima dell’una non si mangia mai. Non voglio che tu mi svenga in mezzo alla strada.”.

Formavamo veramente un’accoppiata stravagante: lei, vestita in modo decoroso, con una bella camicetta bianca e un paio di shorts di jeans, ben pettinata, e io che sembravo l’ultima dei nerd, tirata fuori di casa per i capelli dopo aver trascorso la notte a livellare su WoW, il fatto di conoscere certe cose mi dà molto da pensare… Probabilmente, sotto sotto, lo sono anche.

In ogni caso, l’ora che trascorremmo lì sedute, a osservare l’andirivieni di mezzi e persone, fu forse una delle più belle, parlammo molto dei nostri sogni, del fatto che io, probabilmente, avrei tirato una monetina per scegliere cosa fare della mia vita, non avevo mai avuto grossi sogni, e francamente non avevo mai neppure avuto voglia di pensarci, e della sua intima speranza di riuscire, un giorno o l’altro, di trovare qualcuno “con cui dividere il cuore”, sue testuali parole.

Di trovare qualcuno da amare, tradotto in soldoni.

Seriamente, le sue parole mi stupirono: non ci avevo mai riflettuto su, fino a quel momento.

Però era innegabile che non saremmo mai rimaste per sempre bambine.

Prima o poi, avrei dovuto affrontare quel discorso con me stessa.

Ma quello non era il momento: le parole di Rojas mi stavano interessando molto di più, volevo sapere, se non tutto, almeno qualcosa che mi permettesse di colmare le lacune che avevo nei loro confronti.

E lei mi spiegò tutto, senza che io neppure glielo chiedessi: mi spiegò come Marcelo e Fabien si fossero scoperti innamorati, del periodo in cui sembrava che non si parlassero quasi e non volessero star con loro, scatenando preoccupazioni a cascata, fino a quando non li ebbero scoperti nel garage di casa mia, su di un vecchio divano sfondato, in atteggiamenti decisamente poco casti.

“Non è stato difficile entrare,” Rojas sapeva imitare perfettamente il fratello, nelle movenze e nella voce: “Roberto mi aveva lasciato le chiavi per venire a prendere i vecchi libri di legge di suo padre!”.

E risi ancora di più quando mi raccontò che i gemelli fecero loro una ramanzina lunga due ore sul fatto che erano stati degli stupidi a non dir loro nulla, perché gli avrebbero tranquillamente lasciato casa libera pur di evitargli di farlo in un posto così.

Non avevo mai riso così tanto.

“Sono contenta che mio fratello abbia sempre avuto amici del genere.” disse all’improvviso con tono dolce, poggiando la tazza vuota sul tavolo: “Se adesso può sposarsi con Fabi, è anche merito loro. Sai, i miei non erano molto contenti della cosa. Già avevano approvato a fatica la loro relazione, figuriamoci il matrimonio; così tutti quanti, questo è successo due anni fa, si sono presentati sotto casa. Io stavo studiando ma sapevo che sarebbe successo, li ho aiutati a organizzare tutto in sordina. Armati di stereo, si sono appostati sotto le finestre del salotto, dove i miei stavano prendendo il tè, e hanno srotolato uno striscione tutto colorato.”.

“E cosa c’era scritto?”

“I WAS BORN TO LOVE YOU, Marcelo va pazzo per quella canzone, e Fabien si era procurato una tutina colorata simile a quelle che usava Freddie Mercury. Giuro, è stato esilarante! Tra i gemelli che tenevano sollevato lo striscione perché lo vedessero tutti, Roby che regolava il volume dello stereo e io che scattavo foto peggio di un giapponese in gita… I miei si sono affacciati e le loro facce erano incredibili, mio fratello piangeva e Fabi cantava a squarciagola.”.

Mi sentii triste: e io non c’ero…

“Ci fissavano tutti: i vicini, chi passava, anche gli autobus s’erano fermati per osservare cosa stesse accadendo. Poi, finita la canzone, tutti i presenti hanno applaudito, e c’era tanta gente. Fabi si è gentilmente inchinato poi ha alzato la testa verso Marcelo e gli ha sorriso. Un attimo dopo, ho sentito la porta della sua camera sbattere, le voci dei miei che gli chiedevano spiegazioni, che non poteva dar loro, e a mia volta lo seguii di sotto. Arrivai appena in tempo per vederli baciarsi in mezzo alla strada.”

“E la gente?”

“La gente applaudiva!” Rojas sembrava estremamente soddisfatta di ciò che stava raccontando, la vedevo con gli occhi lucidi ma pieni di gioia: “Qualcuno disse che era la più bella serenata che avesse mai visto, saltò fuori che i miei non volevano farli sposare e ci fu una sorta di ondata popolare per convincerli.”.

“Deve essere stato bello.”.

“Non sai quanto, e poi i miei hanno capito che, se Fabien aveva organizzato tutta quella pantomima, vuol dire che c’è qualcosa di vero nei suoi sentimenti e non era solo una semplice * cotta passeggera * come l’avevano definita.”.

Dopo la fine del racconto, eravamo rimaste in silenzio per parecchi minuti, poi…

“Diana!” “Rojas!”

Ci congelammo sul posto poi scoppiammo a ridere come due deficienti: eravamo riuscite a chiamarci nello stesso momento, come le coppiette nelle telenovelas che passano al pomeriggio!

“Prima tu.” mi invitò lei, reclinando la testa sullo schienale: “Non ho fretta.”.

Sospirai, abbassando lo sguardo: “Mi spiace di non esserci stata…” bisbigliai, “Mi spiace di aver mollato tutti voi per seguire i miei sogni e di non aver mantenuto la promessa di farmi sentire… E non capisco neppure perché vi comportiate tutti così gentilmente con me, dopo quello che ho fatto…” era brutto dire certe cose, ma non potevo più tenermele dentro.

“Diana Danesi, guardami negli occhi.”.

Rojas sembrava davvero arrabbiata, a giudicare dalla voce, tanto che non avevo neppure il coraggio di alzare la testa.

“Vedo che la tartaruga non ha smesso di rintanare la testa…” borbottò lei, la sentii muoversi poi la sua mano si poggiò sulla mia spalla: “Diana, ti sei chiesta perché, pur avendo avuto il permesso due anni fa, Marcelo e Fabien non si sono sposati prima?”

Io scossi la testa, senza però osare guardarla in viso.

“Beh, volevano aspettare te.”

A quel punto, io alzai di scatto gli occhi: i suoi erano troppo vicini ai miei per sfuggirgli.

“Quando avevano ricevuto il permesso, erano già abbastanza grandi entrambi per non avere problemi di sorta da parte di nessuno, né da parte della legge né da chiunque altro. Quella sera, però, quando ci siamo rivisti tutti assieme, subito chiesero a Roby quando saresti tornata.”.

Io non riuscii a dire nulla, avevo la bocca impastata.

 “ << Non si può fare nulla senza la piccoletta! Quando tornerà a casa, lasciando perdere Giulio Cesare e i suoi centurioni? >> Queste sono state le esatte parole di Fabien, Diana.” disse Rojas, sorridendomi con affetto.

“Noi siamo amici tuoi, siamo cresciuti assieme e sappiamo come sei fatta.” riprese lei, dopo qualche istante di silenzio: “Roby ha insistito per mantenere il segreto tutto il tempo e abbiamo pazientato che tu tornassi. Il fatto che tu non ci abbia cercato non ci ha infastidito molto, anche se abbiamo sentito tanto la tua mancanza; ma non siamo stupidi. Abbiamo pensato che avrai avuto molto da fare e, aggiungendoci la tua pigrizia e voglia di fare pari a zero, il nostro piombare nella tua vita sarebbe stato quantomeno inopportuno. E poi, l’importante è essere di nuovo tutti assieme, come avevamo sognato e deciso da bambini.”.

In quel momento, ricordai la promessa che ci eravamo fatti, tanti anni prima, di vivere sempre assieme e di essere sempre amici, e mi sentii ancora peggio.

Cominciai a piangere senza neppure rendermene conto.

Il fazzoletto morbido che mi asciugò il viso si portò via in parte anche i miei dubbi e le mie incertezze.

“Io ho sempre sperato che tu tornassi presto.” Il sorriso che aveva era disarmante, uguale identico a quello che mi aveva regalato quando eravamo piccole: “Perché sei sempre stata la mia migliore amica.”.

Poi si scostò da me, non prima di avermi poggiato un bacio affettuoso sulla fronte, e cominciò a frugare nella borsa, dandomi infine un biglietto da visita: “Prima che ne dimentichi, questo è il numero e l’indirizzo dello studio dove lavoro.”.

 

§§§

 

Ritornammo a casa appena in tempo per sorprendere Marco in cucina, intento a farsi un caffè. Ci accolse con uno sbadiglio assonnato e l’aria confusa e felice, tanto che, probabilmente, non si era neppure accorto di essere uscito dalla camera con solo le mutande addosso.

Io e Rojas ci scambiammo un’occhiata divertita mentre poggiavamo sul tavolo tutti gli acquisti fatti e lui cominciava a ronzarci attorno come un moscone particolarmente grosso: “Ma non hai nulla da fare?” gli chiese lei, allungandosi a prendere il pezzo di pane che lui aveva poco gentilmente strappato dal filone, “E pulisci le briciole che hai lasciato!” aggiunse.

Lamentandosi su quanto fossimo crudeli con un povero affamato, Marco si infilò nello sgabuzzino per recuperare scopa e paletta, e ne uscì nell’esatto momento in cui Sebastian, già vestito da casa, ci aveva raggiunto.

Fissò per un attimo il fratello, poi scosse la testa: “Non mi sembra che mamma ti abbia insegnato a girare per casa quasi totalmente nudo quando ci sono delle ragazze in giro.” affermò lui, aiutandomi a mettere via le verdure nel congelatore.

Il gemello restò basito per pochi istanti, prima di realizzare che, effettivamente, non aveva poi molto addosso.

Balbettando qualche frase di scusa, sparì subito in camera loro.

“Diana, Rojas, mi spiace.” ci disse subito, mentre indossava il grembiule sopra la lunga maglietta tutta stropicciata: “Non importa, e poi l’ho visto talmente tante volte in costume da bagno che non fa molta differenza!”.

Scoppiammo a ridere senza controllo.

“Sbaglio o qui qualcuno si sta divertendo senza di noi?”

Sulla soglia, erano comparsi Marcelo, Fabien e Roberto.

“Stavamo commentando il fatto che voi quattro, e parlo anche di Marco, avete il brutto vizio di presentarvi praticamente nudi in nostra presenza.” specificai io, indicando le loro mise estremamente eleganti e perfette per andare a cena al Ritz.

Ironicamente parlando.

Come già il loro compare, anche mio fratello e gli altri sparirono in un battito di ciglia.

“La piccoletta ci sa fare.” esclamò Seb, mentre io mi chinavo a prendere la tovaglia dal cassetto; mi diede una pacca gentile sulla schiena prima di tornare a occuparsi dei fornelli: “Fidati, vivere con un fratello ti insegna tante cose.” mi spalleggiò Rojas.

“I fratelli in questione possono ardire umilmente di richiedere il permesso di accedere alla cucina?”

Un poco più decorosamente conciati, i ragazzi avevano fatto la loro ricomparsa.

“Solo a patto che vi occupiate voi della tavola!”.

Seb era stato irremovibile, così ci ritrovammo coi compiti suddivisi in questo modo: io e Rojas, l’una accanto all’altra, intente a pulire verdure e pesce, Seb ai fornelli con Marco, e gli altri ad arrabattarsi con posate, piatti e bicchieri, uno spettacolo imperdibile.

“No, aspetta Fabi, quelle non sono posate da pesce, lo vedi? Sono per dolci.”

“Ma che differenza c’è?!”

“C’è che sono più piccole e corte, zuccone!”

Quando infine riuscirono a capire cosa mettere in tavola e cosa no, noi avevamo già finito di cucinare la pasta e il sugo era già pronto.

“Ragazzi, siete incredibili.” gemetti io, mentre impiattavo le pietanze: “Non sapete la differenza tra posate da carne, da dolce e da pesce?” chiesi, guadagnandomi un’occhiataccia da parte di Fabi, “Non le ho mai usate, d’accordo!?” esclamò lui con veemenza, mi sbagliavo o era anche arrossito?

Il resto del pranzo trascorse tranquillamente poi, dopo aver sparecchiato e sistemato le cose, tutti quanti sparirono: Marcelo e Fabien dovevano uscire a sistemare alcune cose per il matrimonio imminente, “Posso aiutarvi?!” chiesi io, ma loro mi rassicurarono che ormai era tutto pronto e che, anzi, avrei potuto andarmi a fare un giro dal parrucchiere per dare una sistemata al nido che avevo in testa, “Almeno non rischi che qualche pennuto lo scambi per il suo e ci deponga le uova.”.

Mio fratello si era eclissato in camera sua e pareva aver tutta l’intenzione di ronfare mentre Marco e Seb dovevano andare a ritirare gli smoking per i ragazzi: “Abbiamo deciso che noi tutti saremo i testimoni dei due piccioncini. Sono scoppiate certe faide qui dentro che, se i muri potessero parlare…” aveva detto scherzosamente Foulard Rosso, trascinando il fratello fuori di casa.

In casa, restammo solo io e Rojas.

C’era un bel silenzio in casa, rotto di quando in quando dal ronzio dell’aria condizionata.

“Andiamo a sederci sul divano, ti va?”

Era stata lei a fare questa proposta e, manco il tempo di rispondere, già mi trovavo semi-distesa sul sofà, con la testa poggiata su uno dei cuscini mentre le mie gambe stavano mollemente poggiate sulle sue ginocchia.

Facemmo zapping per un po’, ma alla televisione c’erano solo filmacci strappalacrime o teen-drama per ragazzi e telenovelas, anche i telegiornali erano già finiti; proposi di vedere un dvd ma nessuna delle due aveva voglia di alzarsi per andare a cercare qualche blockbuster nella nutrita videoteca di casa.

Così, sintonizzate su un canale di musica, restammo lì a impigrirci, un po’ ipnotizzate dai video che passavano, un po’ incantate dalle canzoni: poi, viste le poche ore di sonno della notte precedente, cominciai a sentirmi intorpidita e assonnata.

Non capii subito a cosa fosse dovuto quell’improvviso movimento del mio cuscino ma non ci feci eccessivamente caso, ero talmente stanca che anzi, era quasi piacevole quel dondolio, mi sembrava quasi di venir cullata da qualcosa…

O qualcuno.

Era una mano quella che mi sfiorava il viso e mi accarezzava i capelli?

Era una mia impressione oppure una voce mi sussurrava all’orecchio che mi voleva bene e che mi amava?

Era davvero Rojas a coccolarmi in quel modo?

Ed erano sue le labbra che, sul filo dell’incoscienza, si poggiavano le mie?

E le lacrime che picchettavano le mie guance di chi erano?

Mie o sue?

Prima di addormentarmi definitivamente, però, riuscii ad afferrare, non so come la sua mano, e a mugolare qualcosa che, ripensandoci, poteva benissimo suonare come: “Anch’io…”.

 

§§§

 

Nemmeno due ore dopo, ero sfrecciata fuori di casa, disordinata all’inverosimile ma con un unico pensiero in mente.

“CAZZO!” gridai, una volta scesa in strada, col fiatone, stringevo in pugno il borsello con le mie cose e mi guardavo attorno spaesata: “E ora dove diavolo è finita!?!?!” sbottai.

Ignorai gli sguardi che mi lanciavano le persone e cominciai a correre, evitando a malapena la gente che camminava sul marciapiede e gettandomi più volte, per fare più in fretta, in mezzo alla strada.

Se Roberto mi avesse visto, probabilmente, mi avrebbe riempito di scapaccioni per farmi rinsavire, ma non mi importava assolutamente che qualcuno degli altri mi vedesse: per me, tutto ciò che contava in quel momento, era quel foglietto che avevo trovato sotto il cellulare al risveglio e quelle parole che c’erano scritte sopra.

Le tue parole mi hanno dato coraggio a sufficienza per ritenere che non fossero prive di significato. Io aspetto da te una qualche conferma, perché ciò che ti ho detto non è una bugia. E vorrei che ciò che ho da sempre sperato si realizzi con te.

“Accidenti a te, Rojas! Che ti costava svegliarmi e chiedermelo di persona!?!” singhiozzai tra me e me, mentre correvo a tutta velocità verso lo studio fotografico di cui avevo l’indirizzo; vi arrivai che ero totalmente senza fiato, con la milza che mi faceva un male del diavolo e con la testa che mi girava.

Entrai nello studio forse un po’ troppo velocemente e senza prestare attenzione, perché un attimo dopo ero distesa per terra, con la schiena, e la testa, dolorante e un tipo barbuto che mi fissava con preoccupazione: “S-Sto bene…” lo rassicurai, cercando di rimettermi in piedi e, nel frattempo, cercar di raccattare le mie carabattole.

“Signorina, lei non mi sembra che stia bene, sicura di non aver battuto contro il gradino?”

Ecco cos’era!

Scossi la testa, cercando di sembrare il più possibile convincente.

“Sto cercando Rojas Fernandez!” esclamai, aggrappandomi al suo braccio per tirarmi in piedi.

“Ro non è in studio, adesso. Aveva delle foto da fare per il catalogo di un negozio.”.

Le sue parole mi lasciarono del tutto prostrata, ma non mi diedi per vinta.

“Dov’è questo negozio?!” chiesi con enfasi: “Devo saperlo!”.

Lui mi guardò stranamente, poi mi sorrise gentilmente, dandomi un altro biglietto da visita: ma che diavolo! Era una mania!

“Sai dov’è Pronovias?”

Io scossi la testa, cercando di trattenere le lacrime.

“Guarda, è molto vicino, è in Paseo De Gracia, al numero 74. Lei sta facendo degli scatti per la loro nuova collezione, sicuramente la troverai lì. Ora vai, corri!”.

Che avesse capito…?

Non avevo tempo per riflettere sulle sue parole, dovevo volare!

La mia corsa verso questo fantomatico Pronovias mi spompò ancora, e già io non ero mai stata una persona molto atletica…

Raggiunsi Paseo De Gracia che ormai le gambe non mi reggevano più, tanto che caddi miseramente a terra a pochi metri di distanza dall’obiettivo, mi sentivo male, a stento riuscivo a respirare e avevo voglia di piangere, per di più, il caldo del sole cocente mi sfiniva di più.

Non avevo neppure la forza per prendere il cellulare e chiamare qualcuno per fari venire a prendere.

“Ehi, signorina, si sente bene?”

Un capannello di gente mi si formò attorno, potevo sentirli mentre cercavano di sollevarmi, ma io opponevo una strenua resistenza, o almeno tentavo: volevo che fosse Rojas a tirarmi in piedi, era anche per causa sua se mi trovavo in quella situazione.

Ma non ebbi fortuna perché alla fine, qualcuno riuscì a caricarmi in spalla e a portarmi all’interno di un negozio, ebbi la fulgida visione di alcuni, meravigliosi, vestiti da sposa in vetrina, ma mi faceva male anche solo tenere gli occhi aperti.

Perciò li richiusi.

Sentii un po’ di agitazione attorno a me, voci concitate, qualcuno proponeva anche di chiamare un ambulanza ma, all’improvviso, una in particolare, estremamente familiare, raggiunse le mie orecchie: chiamava il mio nome.

“Diana!”

A fatica, sollevai una palpebra e mi ritrovai dinanzi Rojas.

“Che diavolo hai combinato?” mi chiese, avvicinandomi alla bocca una bottiglietta piena d’acqua: “Bevi piano.” mi avvertì, visto che l’avevo svuotata per metà con un sorso, le sue mani sul mio viso e sul mio collo, mentre cercava di tenermi su, erano gentili.

“I-Io volevo risponderti…” balbettai, una volta che anche la vista era ritornata a funzionare normalmente: “Sono corsa allo studio, ma non c’eri, e mi hanno indirizzato qui.”.

Lei mi fissò per un attimo, prima di scoppiare a ridere, senza però per questo mollare la presa sul mio viso: ero ancora poggiata al suo corpo, seduta per terra in un negozio sconosciuto, ma mi sembrava la cosa più naturale del mondo.

“Guarda che potevi anche chiamarmi, ho lasciato il mio numero sul bigliettino.”.

In tutto quel trambusto, avevo ancora in mano quel foglietto: voltatolo, vidi scarabocchiato il numero del suo cellulare; all’improvviso, mi sentii assurdamente idiota e, allo stesso tempo, incredibilmente felice.

La abbracciai con forza, cominciando a singhiozzarle sul petto, mentre lei mi accarezzava gentilmente la schiena.

Poi, senza preavviso, mi spostai e la baciai, cercando il più possibile di farle capire, con quel gesto, tutto quello che provavo, che sentivo per lei e quello che desideravo per il futuro: altro che monetina, una cosa del genere non era possibile deciderla in quel modo!

A poco a poco, vedendo che stavo, probabilmente, meglio di tutti loro messi assieme, quelli che mi avevano soccorso se n’erano andati, qualcuno ci aveva fatto i complimenti e si era raccomandato comunque di andare a fare un giro al pronto soccorso per essere certi che io mi fossi veramente ripresa.

Quando ci staccammo, tutti i commessi e i clienti del negozio ci fissavano, con un misto di divertimento e curiosità sul viso.

Rojas mi guardò, stringendo saldamente la mia mano: “Devo interpretarlo come un si?”.

Poi mi aiutò a rialzarmi in piedi e mi trascinò via.

Solo in quel momento mi accorsi che ero circondata da abiti da sposa, di ogni forma e taglia.

Raggiungemmo un gruppo di modelle, che aspettavano sedute su quelle che erano inconfondibilmente…

“Puoi spiegarmi che accostamento è “abito da sposa” e “bara”?” chiesi curiosa.

Lei non mi rispose ma mi spinse verso una donna, sui trent’anni, che stava vicino alla sua attrezzatura con un bloc-notes in mano: “Agnes, falla cambiare, dalle una sistemata ai capelli e poi portala di nuovo qui. E attenta a dove metti le mani.” le disse con tono scherzoso.

Lei annuì, sistemandosi i lunghi capelli rossicci in una coda di cavallo: “Non ti preoccupare, Ro, arriva subito! Non la riconoscerai neppure!”.

Mezz’ora dopo, ero distesa in una di quelle bare e con un meraviglioso abito da sposa indosso, adagiata su un letto di petali di rosa; tra le mie dita, ne stringevo una bianchissima, che s’intonava con il tulle candido con cui mi ero ritrovata vestita.

Le altre modelle mi aiutarono a muovermi, si vedeva così tanto che non ero abituata a vestire cose del genere? e si posizionarono, ciascuna col proprio fiore, attorno a me, come se fossero state degli angeli custodi.

La mia attenzione, però, era assorbita dalla fotocamera, in particolare da chi si trovava dall’altra parte.

Dopo parecchi scatti, in cui restavo a interpretare sempre e comunque la parte della “sposa zombie”, finalmente venne dato il segnale di fine e tutte le ragazze corsero a cambiarsi, non prima di avermi salutato e ringraziato per averle aiutate.

Io feci per imitarle, ma venni immediatamente bloccata dalle labbra di Ro, che avvilupparono le mie in un bacio: “Parleremo a casa, vai a cambiarti.” mi disse poi, aiutandomi a tirarmi in piedi.

Io annuii ma prima, ricambiai il bacio: “Non si dica mai che io sia un’ingrata.”.

 

§§§

 

Quando rientrammo, venimmo accolte da uno strano odore, come di bruciato.

“Chi c’è?” chiesi, mentre mi levavo le scarpe.

Dalla porta della cucina, sbucò Marcelo, che ci guardò con aria implorante: “Ragazze, dovete aiutarmi!” piagnucolò lui, gettandosi su di noi con ancora indosso il grembiule, “Volevo provare a cucinare qualcosa per cena ma non sono riuscito a combinare nulla e tra poco Fabi e gli altri rientreranno!”.

Noi ci guardammo, incredule per quella reazione da parte sua, ma ridergli in faccia non ci sembrava proprio la cosa migliore da fare.

“Ok, fratellone. Ora calmati, che mi sembri un po’ troppo agitato.” Rojas gli poggiò una mano sulla spalla per tranquillizzarlo: “Ci pensiamo noi vero, Diana? Tu siediti un attimo.”.

“Non so neppure sbattere un uovo…” borbottò incupito: “Come fanno Marco e Seb a cucinare così bene? Sono maschi come me!”.

“Guarda che non è una disgrazia.” lo consolai: “E non credo che Fabi non ti sposi più solo perché non sai cucinare.” scherzai; “È vero, e poi ci siamo sempre noi a disposizione per levarvi le castagne dal fuoco! Se vorrete mai preparare qualche cenetta romantica, noi ci offriamo volontarie per aiutare!”.

L’entusiasmo della mia… fidanzata credo si possa dire, sembrò rincuorare il fratello, che ci rivolse un’occhiata riconoscente mentre si buttava nella spiegazione di ciò che aveva organizzato per la cerimonia, e per la festa dopo.

Fu solo in quel momento che rammentai le parole dei gemelli.

Ne parlai a entrambi: “E non ti hanno detto altro? Solo che sarebbero andati a prendere gli smoking?” Marcelo sembrava seriamente sul punto di esplodere per le risa trattenute, “Sono sempre i soliti, quei due…” gemette rassegnato, tirando fuori dalla tasca un foglietto ripiegato, “Anche tu però, sorellina, potevi dirglielo che Fabien vi ha reclamato come damigelle! Sbaglio o eravate assieme in quel negozio oggi, a dare più spettacolo di noi tutti messi assieme?”.

Io sgranai gli occhi.

“E tu come fai a saperlo?” sembrava che per Rojas, tutto quello fosse solo una sorta di divertimento, per me era quasi uno shock!

“Me l’ha detto Roberto.”.

Come scusa?

“Roby è passato in negozio per vedere se quei due testoni avessero fatto il loro dovere, e vi ha visto baciarvi, dentro la bara. Che accostamento bizzarro, ragazze!”.

Io avvampai.

E così, mio fratello ci aveva visto…

“Attenta, piccoletta. Mia sorella è particolarmente esigente in certe-“

Una provvidenziale mano, gentilmente offerta da Fabi, interruppe lo sproloquio del fidanzato-barra-quasi consorte: “Roby ha chiamato tutti!” annunciò, tirando fuori dal sacchetto che aveva in mano una bottiglia di champagne, “E sono passato nella vecchia cantina di casa a prendere questa!”.

“Tempismo perfetto il tuo!” esclamò Ro, intenta a rimestare il contenuto della pentola: “Grazie, chèrie, ma stavolta siete voi la notizia succulenta del giorno! Raccontatemi tutto!” ribattè lui, sedendosi sulle ginocchia di Marcelo.

E mentre, a poco a poco, tutti e sette ci riunivamo nella cucina, io mi sentivo sempre più felice, in quell’appartamento, in quelle quattro mura, accanto a loro.

Accanto a lei.

 

§§§

 

“Finalmente ti ho trovato!”

Non ebbi neppure bisogno di voltarmi per capire chi fosse la persona che mi stava cercando.

Entrambe con ancora addosso i vestiti da damigelle, stavamo l’una di fronte all’altra mentre anche quella giornata, pur se meravigliosa, stava ormai per giungere al termine.

Era stato un matrimonio memorabile, per noi, per Fabien e Marcelo e per tutti gli invitati: ero scoppiata in lacrime come una bambina nel momento in cui i nostri due piccioncini si erano chinati sul libro del funzionario per firmare, però c’era stata Ro accanto a me; le nostre dita intrecciate mi avevano calmato e in quel momento, mi sentivo totalmente in pace col mondo, e con me stessa.

Il lungo pranzo era finito, anche il dolce era stato spazzolato e ormai, in giro, oltre ai due sposini, restavano solo i familiari e gli amici più cari.

Nella fattispecie, noi cinque.

“Mi stavo chiedendo dove ti fossi rintanata.” aggiunse lei, sedendosi accanto a me e cingendomi le spalle col braccio per farmi poggiare la testa sul suo grembo: “Quale piccoletta privilegiata della famiglia, dovresti quantomeno avvertire quando decidi di andartene a zonzo.”.

Me lo disse con un tono talmente dolce e affettuoso che non potei non sentire il cuore balzarmi in gola.

Da quel giorno, erano trascorse poco meno di 72 ore e la mia vita era del tutto cambiata da allora: eravamo stati tutti molti impegnati coi preparativi della festa e della cerimonia, avevamo dovuto consigliare e calmare parecchio sia Fabien che Marcelo, ma ce l’avevamo fatta, nonostante la difficoltà.

Ero veramente felice.

Eravamo tutti veramente felici.

Con la coda dell’occhio, vidi i gemelli ballare con la madre di Fabi, quella povera donna sembrava proprio in loro balia, intanto che il marito se la rideva, col figlio in piedi accanto a sé.

All’improvviso, Rojas s’alzò, portandomi su con lei, e abbracciandomi forte: “Signorina, mi concede l’onore di questo ballo?”

Restai perplessa per qualche istante, senza comprendere appieno le sue parole, poi annuii e, mentre la musica si tramutava in un bel valzer, io e lei volteggiavamo tra la polvere del belvedere del Parc Guell, da cui si vedeva il mare infuocato.

A un certo punto, mentre la mia compagna mi guidava in un casquè, mi ritrovai senza fiato.

Il panorama alle nostre spalle…

Quella torre longilinea che si stagliava contro il Sole…

Il tramonto…

Non ci avevo più pensato, eppure era accaduto da così poco!

Interruppi il ballo all’improvviso, sciogliendo la presa di Rojas sui miei polsi e corsi verso la balaustra, con gli occhi puntati su quella sagoma nera davanti a me.

Mi sporsi, forse un po’ troppo, ma non avevo il minimo dubbio!

Era la stessa del mio sogno!

“Ehi, Diana, cosa succede?!”

Qualcuno mi tirò indietro e, come se mi fossi appena svegliata, mi resi conto che tutti si erano radunati attorno a me, sbigottiti, Ro sembrava un cadavere, tanto era pallida: “Mi hai spaventato, che ti è preso?!” mi sentii malissimo nell’udire quella voce così roca e quasi terrorizzata.

“S-Scusate…” balbettai, cercando di divincolarmi dalla presa di mio fratello, “Fabi, ti ricordi di quando, sull’aereo, ho fatto quel sogno?” esclamai io, afferrando la sua mano con forza.

Lui annuì: “Quando stavamo per atterrare.” precisò.

“Esatto. Beh, sembra incredibile, ma ho sognato Rojas e questo posto, in questo esatto momento…”.

Le mie parole stupirono tutti, tanto che, per parecchi minuti, nessuno parlò.

“Non volevo fare nulla, nessuna pazzia, ma solo sincerarmi che fosse veramente questo il panorama che ho visto. Mi spiace di avervi spaventato, davvero, non era mia intenzione.”.

Roberto mi guardò con aria severa: “Non farlo mai più.” disse, lasciandomi infine andare prima di allontanarsi.

“Mi sa che Rob si è preso un bel coccolone.” notò Seb, andandogli dietro: “Piccoletta, non fare cazzate. Rojas, te la affidiamo!”.

Un attimo dopo, eravamo rimaste di nuovo da sole.

Non riuscivo a guardarla in viso.

“Ho temuto di aver fatto qualcosa di sbagliato…”.

Le prime parole che lei mi rivolse mi creparono il cuore: quando mi decisi ad alzare lo sguardo, la vidi che piangeva, ed era stata tutta colpa mia… istintivamente, le presi le mani, stringendogliele con forza e baciandole piano, ho il vago sospetto di aver esagerato…

“Mi dispiace… Sono stata una creti-” provai a dire, prima che le sue braccia andassero a stringere la mia vita con urgenza.

Ci baciammo ancora, cercando di ricacciare entrambe indietro le lacrime perché no, non era il momento di piangere.

Era il momento di vivere e stare assieme.

Perché casa mia era tra le sue braccia.

   
 
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