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Autore: Sonea Effe    12/12/2011    3 recensioni
Io ero il padrone e lui il canarino.
Io gli stavo tenendo aperta la porticina della gabbia.
Toccava a lui scegliere.
Ma si sa, che per natura, gli uccelli sono animali che amano poter volare nel cielo.
Io gli stavo solo offrendo la libertà di andarsene.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era la cosa più sbagliata da fare, la peggiore.
Ma allo stesso tempo, la più giusta.
Avrei potuto vincere la battaglia, ma non la guerra. Ormai era chiaro.
Il mio migliore alleato si era coalizzato con il mio peggior nemico.
Era un incubo.
Io non potevo fare altro che tentare l’ultima mossa, prima di arrendermi.
Giocare la mia ultima carta.
Sacrificare i miei uomini migliori.
Sarebbero morti, si.
Ma con onore. Un onore che non sarebbe morto con loro.
 
Afferrai il mio cellulare e composi il numero.
“Avvocato Meyer? Sono Meredith Milton” sospirai raccogliendo le ultime forze che mi restavano e, con loro, il mio coraggio.
“La chiamo per un divorzio. Il mio divorzio”.
 
“Domani, ore 11.00 da Meyer. Devi firmare le carte del divorzio.”
 
Codarda. Ecco cos’ero.
Avevo una famiglia meravigliosa.
Ero una moglie.
Ero una madre.
Non ero perfetta, ma ero sicura di queste due affermazioni.
Avevo una bambina di un anno e mezzo, la mia gioia più grande.
Si chiamava Emma. E avrei fatto di tutto pur di tenerla lontana dalla menzogna, dalla falsità che popola il nostro mondo. A costo di mettere a repentaglio la mia felicità.
Avevo un marito da tre anni. Un marito splendido.
Neanche lui era perfetto. Ma lo era per me.
Era stato tante persone, prima di adottare definitivamente questo appellativo.
Era stato il mio primo amico.
Era stato il mio primo migliore amico.
Era stato il mio primo e unico ragazzo.
Era mio marito.
Ancora per poco.
C’erano persone che ammiravano la nostra relazione. Il nostro essere sempre sulla stessa onda, il nostro intenderci con uno sguardo, la nostra complicità.
C’erano persone che ci invidiavano, che volevano avere una relazione come la nostra con il proprio partner.
C’era anche a chi non gliene importava nulla.
E chi la bramava.
Ed io ero l’unica ad averla.
O almeno, questo era quello che credevo.
 
Mio marito era un attore di teatro.
Non era quello che mi dava fastidio o che mi preoccupava.
Aveva sempre sostenuto che il lavoro e la vita reale fossero due cose completamente separate.
Ma si sbagliava.
Da circa sei mesi, quella netta separazione, aveva preso una tonalità opaca.
Non esisteva più il lavoro e la realtà.
Ogni suo ti amo era un ti illudo.
Ogni sua carezza, una pugnalata dritta nel cuore.
Ogni suo complimento, una derisione.
La sua realtà era diventata la sua finzione.
Una realtà che lentamente andava in frantumi, come un vado di vetro all’impatto con il pavimento.
La realtà come il mia vita, il mio cuore, i miei sogni.
Il mio futuro.
 
Avevo chiamato il mio avvocato per porre fine a quella situazione disastrosa.
Dovevo sciogliere quel legame che mi aveva unito a mio marito da tre anni.
Dovevo, ma non volevo.
Era strettamente necessario.
Dovevo sacrificare la mia felicità per salvaguardare quella di mia figlia. Era quello l’importante.
Non lo accusavo di quella separazione.
Il mio cuore aveva scelto lui. Il suo aveva messo da parte me e aveva scelto lei.
Al cuor non si comanda.
Con il mio, dovevo fare pratica.
Lo amavo ancora? Follemente.
Potevo dimenticarlo? Mai.
Potevo andare avanti e lasciarmi tutto il resto alle spalle? Impossibile.
Ma lui aveva scelto di continuare.
Di dimenticare quello che a fatica avevamo costruito insieme.
Di seguire la novità.
E io non potevo far altro che accettare le sue scelte, senza mostrare il mio dolore.
Dovevo essere forte.
Lo dovevo essere per me e per Emma.
Era inutile cercare di farlo ragionare.
 
Il nuoto era da sempre un modo per distrarmi.
Nell’acqua non pensavo ad altro che a fermarmi prima di sbattere contro il muro.
Ma quella sera, non appena lo vidi aspettarmi fuori dalla piscina, il mondo mi crollò addosso.
“Cosa ci fai qui?” gli chiesi sorpresa.
“A casa non c’eri. Ho telefonato a tua madre e mi ha detto che Emma era da lei perché tu avevi anticipato la tua nuotata settimanale” disse con un sorriso. Il mio sorriso. Quello che serbava solo per me e nessun altro.
“E dunque? Non dovresti essere a teatro?”
“Sono uscito prima. Dobbiamo parlare, da soli.”
“Non abbiamo nulla da dire” commentai diretta.
“Ah, no? Sei sicura?” mi chiese con aria di scherno. “E allora posso sapere che cosa significa il messaggio che mi hai lasciato in segreteria?”
“Quello che ti ho detto. Domani da Meyer. Cerca di essere puntuale”.
“Non avrai la mia firma. Non senza un motivo valido” affermò incrociando le braccia.
“Un motivo? Il fatto che tu mi stia tradendo con una ragazzina, non è un motivo valido?”
“Zoe non è una ragazzina”.
“Ha diciannove anni, Alex” ammisi sconsolata.
“Tu ne avevi quattordici quando ci siamo messi insieme”
“E tu avevi la sua età. Ora hai dieci anni in più di lei. Ti rendi conto?”
“Lo so, ma…”
“Mi conosci da quando avevo sei anni. Sai tutto di me. Non ti ho mai nascosto nulla. Non mi merito questo, Alex. Non mi merito questa bugia. Sono stanca”.
“Lei ha bisogno di aiuto, Dith”
Aveva usato quel nome. Era così che mi chiamava da sempre. Quello era il suo soprannome per me. E nessun altro aveva il permesso di farlo.
Ma in quel momento, mi sembrava così fuori luogo. Così sbagliato.
“Non dirmi che ha bisogno di te! La nostra bambina ha bisogno di te. Io ho bisogno di te. Ma a quanto pare, non conta più nulla per te”.
“Come puoi dire questo? Io ti amo!”
Prima pugnalata.
“…e amo nostra figlia…”
Seconda pugnalata.
“… siete le due persone più importanti della mia vita. Le cose più preziose che ho!”
Terzo e ultimo colpo.
“Ma non siamo abbastanza”.
“Dith, ti prego. Non piangere. Non sopporto vederti in questo stato. Ti prego, torna a casa. Dormiamoci su e domani chiamiamo l’avvocato per disdire”.
“No! Io le voglio firmare, quelle carte! Non voglio avere più nulla a che fare con te!”
E fu proprio in quel momento che capii quanto soffriva. I suoi occhi, quegli occhi azzurri che mi avevano fatto innamorare di lui, vacillarono e si riempirono di una tristezza talmente profonda che mi fece rimpiangere delle mie ultime parole.
Perché io lo amavo ancora. E anche lui.
“Che succede qui?” vidi uno dei ragazzi della piscina avvicinarsi a noi.
“Nulla che ti interessi” rispose Alex serio, trattenendo ancora le mani sulle mie guance e fissandomi intensamente.
Ma Josh, mi sembrava si chiamasse, mi si parò di fronte, come per voler far allontanare Alex.
“Le hai fatto del male?”
“Ehy, Josh” lo chiamai io “È tutto sotto controllo” dissi nonostante le lacrime sul mio viso
“Solo una breve discussione. È mio marito”.
 
È mio marito.
È mio marito.
È mio marito.
Le mie ultime parole di speranza e di illusione.
Io ero il padrone e lui il canarino.
Io gli stavo tenendo aperta la porticina della gabbia.
Toccava a lui scegliere.
Ma si sa, che per natura, gli uccelli sono animali che amano poter volare nel cielo.
Io gli stavo solo offrendo la libertà di andarsene.
  
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