❝
The four seasons❞
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thanatos
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Chapter 1
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primavera ›
Daemon/Giotto
I rami baciati dalla primavera da poco nata, ricolmi di tenere gemme pronte a
sbocciare, s’innalzavano lieti a declamare la libertà del cielo chiaro e
limpido. Quel fresco 14 d’aprile mangiava senza indugi gli ultimi ghiacci, quei
ghiacci dimoranti nei cuori invernali delle persone e quei ghiacci disegnati
sulle ciglia dei poeti.
In quel 14 aprile, quel rigoglioso cuore di ciliegi e stanche rose vanitose, un
cielo si era adornato di un velo nero perpetuo da vedova e aveva lasciato che la
notte lo conducesse in una danza eterna, brinato da costellazioni ormai
onnipresenti.
Alle prime avvisaglie dell’aurora biancastra, il suo sguardo si era posato
un’ultima volta sulla finestra spalancata sul nulla e poi era morto, lasciando
che il nero inchiostro degli incubi gli intrecciasse le iridi. Quel cielo tanto
minuto era diventato notte eterna senza un sorriso sul suo volto, indossando
solo una magrezza d’una depressione prematura e di una maschera frantumata.
Quel sinfonico 14 aprile era morto, compiendo 27 anni, Giotto Primo Vongola.
Aspettando che il freddo tornasse a tormentarlo.
Al di fuori di quell’enorme cattedrale, i ciliegi non smettevano di rubare la
delicatezza e l’invidia delle giovani ragazze passanti. Il tempo non smetteva di
scorrere inesorabilmente, tra le labbra degli ancora fanciulli guardiani,
macchiati di una sostanza più appestante del tradimento stesso: si erano
macchiati della pena di aver lasciato morire il loro, universale, cielo.
All’interno della cattedrale si stagliavano enormi colonne barocche, tanto alte
da sembrare mani destinate a raggiungere qualcosa d’irreale, più fervido della
morte in per sé. Vasti affreschi dimoravano dappertutto, non lasciando un
singolo centimetro vuoto; erano delicate rappresentazioni di ascensioni al cielo
e di putti narranti miracoli lontani anni luce. Il tutto si leggeva come un
libro dettagliato a tal punto da sembrare un libro rilegato da un ambizioso
orefice. Ampie vetrate forgiate con vetri peccaminosi e poi purificati
rappresentavano la parte fondamentale del complesso, in quanto lasciavano
penetrare l’impetuoso sole primaverile. Quest’ultimo era a volte adombrato da
rami maliziosi che allungavano i loro limiti fino alle finestre della
cattedrale, provocando un’ombra parziale anche dentro di essa.
Al centro della sala principale, formata da pannelli di marmo scuri, vigeva un
campo di gigli bianchi. Per metri e metri i pannelli erano stati staccati per
dar aria alla terra affranta, ed essa per ringraziare i suoi benefattori aveva
fatto germogliare miriadi di gigli bianchi, uno più bello dell’altro.
Lentamente, ai rintocchi degli anni passati, questi gigli avevano preso possesso
anche dell’arco in ferro battuto presente in quel piccolo campo, destinato ad un
altro scopo, e l’avevano abbracciato con la loro deliziosa presenza.
Dopo anni dalla loro nascita effettiva, al di sopra della loro fiorente
esibizione, il cadavere del Primo era appoggiato con leggiadria costante, la
leggiadria che da sempre faceva da ombra alla danza del suo possessore. Nessuna
tomba faceva da gabbia a quel corpo oramai privo d’ogni esaltazione vitale,
nessuna tomba faceva pressione su quello scheletro arrugginito dalla speranza di
rivedere la nebbia scomparsa.
Solamente i fiori di quel 14 aprile erano fino a quell’istante gli unici a poter
sfiorare quella bambola e i suoi capelli d’oro, l’unica cosa che sembrava esser
ancora viva di quella carcassa putrefatta da illusioni.
Un tenero giglio appena sbocciato e già morente era appoggiato alla guancia di
Giotto, ancora battezzato dalla rugiada, simboleggiando la sua prematura uscita
di scena da quel teatro di seconda categoria.
In una preghiera silenziosa, sedevano distanti i piangenti guardiani, affogando
la loro tristezza soffocata da una rabbia inspiegabile nei delicati fiori, che
consapevoli accettavano le lacrime amare tra le loro falde.
La primavera fuori imperversava accompagnata da un bambino entusiasta, e permise
all’inverno gelido di spalancare con grazia inaspettata il portone della
cattedrale, avvolta ora da religiosi petali di ciliegio.
Sotto lo smarrito sguardo dei giovani e sotto lo sguardo improvvisamente
infuriato di un G. impazzito, l’inverno in persona si stagliò nell’immenso
funerale, avanzando accompagnato da un passo d’incredulità tremolante.
Daemon Spade aveva indossato il suo cappotto più bello, un funerario mantello
nero dai bordi bianchi che aleggiava come la disperazione più nera.
Quando Daemon Spade arrivò al ciglio della tomba floreale della sua
primavera, tremava come una foglia alla vista del prematuro arrivo d’un uragano.
Teneva le dita alla bocca, contorta in un’espressione di pianto silenzioso e di
non accettazione di quella realtà distorta dalle sue stesse, eteree, mani.
Il tradimento di cui si era macchiato aveva germogliato i suoi fiori del male
nella persona sbagliata; era sicuro che a morire della lontananza fosse stato
lui, e non chi giaceva ora senza un sorriso su quel manto di gigli. Per la prima
volta nella sua vita avvertiva la disperazione di Giotto scorrergli nelle vene
come acqua corrente: riusciva a vedere i suoi ultimi mesi in cui non aveva fatto
altro che piangere e disperarsi, solo perché lui se n’era andato. Lo sentiva,
sotto la pelle, lo sguardo di chi non perde la speranza.
Lo baciava, lo sguardo diretto sempre verso la finestra spalancata, in attesa di
un gelo che non sarebbe tornato.
Daemon Spade era atterrito dalla consapevolezza di esser stato lui a donare la
morte al suo amante, una morte dolorosa dipinta da Thanatos in persona.
Si gettò sul suo corpo, senza però alterare la sua posizione né sfregiarlo con
quei capelli d’assassino. Teneva l’orecchio appoggiato all’altezza del cuore di
Giotto, mentre piangendo aspettava che battesse. I suoi erano singhiozzi pesanti
affiancati da un pianto ghiacciato, che nasceva dalle viscere più profonde del
suo essere. Daemon Spade era una chiazza nera sulla purezza bianca del corpo di
Giotto Primo Vongola.
Era la sua distruzione, la sua spina, era stato la sua morte.
Il pianto continuava, offuscato da qualsiasi spiraglio di luce e moltiplicato
come in una sala di specchi; si accinse a portare una mano tremante al volto
rinsecchito dell’altro, ma non ci riuscì pienamente, perché spaventato dall’idea
di essere ripugnato da sé stesso persino in quel momento.
Il corpo di Daemon era pervaso da un vigneto acido pronto a soffocarlo da un
momento all’altro, in una morsa che non l’avrebbe lasciato andare facilmente.
Con il volto coperto dai capelli inzuppati dalle lacrime, si avvicinò al volto
ormai chiuso sul mondo dei vivi, e lo baciò, per quella che sarebbe stata
l’ultima insulsa volta.
Le labbra di Giotto erano inverosimilmente calde, più simili a quelle che
fiorivano nei suoi ricordi che a quelle che aspettava di trovare. Erano pregne
di ciò che appariva essere il desiderio di reincontrare le sue gemelle, un
desiderio marcito nella depressione che l’aveva portato alla morte.
Questo pensiero gli accentuò il pianto e lo costrinse ad alzarsi dal suo volto,
a fissare ciò che non sarebbe mai più stato.
Le labbra che aveva ora derubato per l’ultima volta erano macchiate di un sangue
non suo, ma che proveniva dalle labbra di Daemon Spade. Fino all’ultimo istante
l’unica cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stato squarciare il suo azzurro e
macchiare le sue nuvole.
Nel silenzio di quel 14 aprile, il cuore della primavera, l’inverno innalzò un
lamento che era un canto di disperazione.
❝Aoku
tsumetai umi no naka utakata no yume wo miru
Wasure
sarareta tsuisou wa yurenagara sabite yuku
Sango ga
nemuru juukai heto rakuen wa otosareta
Tobira wo
mamoru bannin wa ishi no you ni ugokanai
Aitakute...
itoshii hito no na wo
Sakendemo
koe wa todokanai
Tozasareta...
shiro wa shisha no ori
Thanatos wa kare wo nigasanai.
❞
La voce scheggiata dal pianto e dalla disperazione più acuta di Daemon Spade
risuonava ampia in quella cattedrale, una cattedrale vestita della primavera
bruciata da un inverno troppo distante e incapace di amare.
Quel canto accompagnò il viaggio della primavera marcita, fino alla speranza
realizzata di salvarsi, in cima ad una scala d’illusioni infrante. Daemon
permise a Giotto di salvarsi da quell’oscurità in cui era volontariamente caduto
per inseguirlo.
Daemon cantò un requiem nato dall’abisso per innalzare l’anima di Giotto ad un
cielo più alto, ad un cielo più all’altezza del grande amore che solo lui
conosceva.
«Che solo gli angeli possano ora donarti
uno squarcio sull’abisso per vedermi affogare.»