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Autore: Eterocromia    13/12/2011    2 recensioni
Una raccolta di quattro capitoli, di cui due Daemon/Giotto e i restanti 6927, ognuno con attributo una stagione.
❝ Mukuro era l'estate, la primavera, l'inverno e l'autunno. Si diradava all'orizzonte delle mie parole e fioriva al nascere delle mie ferite. ❞
Dal Capitolo 1: (Daemon/Giotto) «Daemon permise a Giotto di salvarsi da quell’oscurità in cui era volontariamente caduto per inseguirlo.»
Dal Capitolo 2: (6927) «Era giunto alla conclusione che preferiva addormentarsi eternamente all’ombra di un albero di cadaveri, piuttosto che vivere senza poterne amare i suoi frutti.»
Dal Capitolo 3: (6927) «Mukuro Rokudo si fissava, incapace di comprendere che la libertà gli era stata cucita addosso, e ancora sanguinava acqua dalle ferite.»
Dal Capitolo 4: (Daemon/Giotto) «Perse tutti quei piccoli cocci di vetro in un solo momento, e questi caddero a terra trasformandosi in astratte gocce di rugiada, scivolando sul marmoreo pavimento come il mattino pallido pronto a sbocciare.»
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daemon Spade, G, Giotto, Mukuro Rokudo, Tsunayoshi Sawada
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The four seasons 



   thanatos


Chapter 1

primavera › 

Daemon/Giotto


I rami baciati dalla primavera da poco nata, ricolmi di tenere gemme pronte a sbocciare, s’innalzavano lieti a declamare la libertà del cielo chiaro e limpido. Quel fresco 14 d’aprile mangiava senza indugi gli ultimi ghiacci, quei ghiacci dimoranti nei cuori invernali delle persone e quei ghiacci disegnati sulle ciglia dei poeti.
In quel 14 aprile, quel rigoglioso cuore di ciliegi e stanche rose vanitose, un cielo si era adornato di un velo nero perpetuo da vedova e aveva lasciato che la notte lo conducesse in una danza eterna, brinato da costellazioni ormai onnipresenti.
Alle prime avvisaglie dell’aurora biancastra, il suo sguardo si era posato un’ultima volta sulla finestra spalancata sul nulla e poi era morto, lasciando che il nero inchiostro degli incubi gli intrecciasse le iridi. Quel cielo tanto minuto era diventato notte eterna senza un sorriso sul suo volto, indossando solo una magrezza d’una depressione prematura e di una maschera frantumata.
Quel sinfonico 14 aprile era morto, compiendo 27 anni, Giotto Primo Vongola.
Aspettando che il freddo tornasse a tormentarlo.




Al di fuori di quell’enorme cattedrale, i ciliegi non smettevano di rubare la delicatezza e l’invidia delle giovani ragazze passanti. Il tempo non smetteva di scorrere inesorabilmente, tra le labbra degli ancora fanciulli guardiani, macchiati di una sostanza più appestante del tradimento stesso: si erano macchiati della pena di aver lasciato morire il loro, universale, cielo.
All’interno della cattedrale si stagliavano enormi colonne barocche, tanto alte da sembrare mani destinate a raggiungere qualcosa d’irreale, più fervido della morte in per sé. Vasti affreschi dimoravano dappertutto, non lasciando un singolo centimetro vuoto; erano delicate rappresentazioni di ascensioni al cielo e di putti narranti miracoli lontani anni luce. Il tutto si leggeva come un libro dettagliato a tal punto da sembrare un libro rilegato da un ambizioso orefice. Ampie vetrate forgiate con vetri peccaminosi e poi purificati rappresentavano la parte fondamentale del complesso, in quanto lasciavano penetrare l’impetuoso sole primaverile. Quest’ultimo era a volte adombrato da rami maliziosi che allungavano i loro limiti fino alle finestre della cattedrale, provocando un’ombra parziale anche dentro di essa.
Al centro della sala principale, formata da pannelli di marmo scuri, vigeva un campo di gigli bianchi. Per metri e metri i pannelli erano stati staccati per dar aria alla terra affranta, ed essa per ringraziare i suoi benefattori aveva fatto germogliare miriadi di gigli bianchi, uno più bello dell’altro.
Lentamente, ai rintocchi degli anni passati, questi gigli avevano preso possesso anche dell’arco in ferro battuto presente in quel piccolo campo, destinato ad un altro scopo, e l’avevano abbracciato con la loro deliziosa presenza.
Dopo anni dalla loro nascita effettiva, al di sopra della loro fiorente esibizione, il cadavere del Primo era appoggiato con leggiadria costante, la leggiadria che da sempre faceva da ombra alla danza del suo possessore. Nessuna tomba faceva da gabbia a quel corpo oramai privo d’ogni esaltazione vitale, nessuna tomba faceva pressione su quello scheletro arrugginito dalla speranza di rivedere la nebbia scomparsa.
Solamente i fiori di quel 14 aprile erano fino a quell’istante gli unici a poter sfiorare quella bambola e i suoi capelli d’oro, l’unica cosa che sembrava esser ancora viva di quella carcassa putrefatta da illusioni.
Un tenero giglio appena sbocciato e già morente era appoggiato alla guancia di Giotto, ancora battezzato dalla rugiada, simboleggiando la sua prematura uscita di scena da quel teatro di seconda categoria.
In una preghiera silenziosa, sedevano distanti i piangenti guardiani, affogando la loro tristezza soffocata da una rabbia inspiegabile nei delicati fiori, che consapevoli accettavano le lacrime amare tra le loro falde.
La primavera fuori imperversava accompagnata da un bambino entusiasta, e permise all’inverno gelido di spalancare con grazia inaspettata il portone della cattedrale, avvolta ora da religiosi petali di ciliegio.
Sotto lo smarrito sguardo dei giovani e sotto lo sguardo improvvisamente infuriato di un G. impazzito, l’inverno in persona si stagliò nell’immenso funerale, avanzando accompagnato da un passo d’incredulità tremolante.
Daemon Spade aveva indossato il suo cappotto più bello, un funerario mantello nero dai bordi bianchi che aleggiava come la disperazione più nera.
Quando Daemon Spade arrivò al ciglio della tomba floreale della sua primavera, tremava come una foglia alla vista del prematuro arrivo d’un uragano. Teneva le dita alla bocca, contorta in un’espressione di pianto silenzioso e di non accettazione di quella realtà distorta dalle sue stesse, eteree, mani.
Il tradimento di cui si era macchiato aveva germogliato i suoi fiori del male nella persona sbagliata; era sicuro che a morire della lontananza fosse stato lui, e non chi giaceva ora senza un sorriso su quel manto di gigli. Per la prima volta nella sua vita avvertiva la disperazione di Giotto scorrergli nelle vene come acqua corrente: riusciva a vedere i suoi ultimi mesi in cui non aveva fatto altro che piangere e disperarsi, solo perché lui se n’era andato. Lo sentiva, sotto la pelle, lo sguardo di chi non perde la speranza.
Lo baciava, lo sguardo diretto sempre verso la finestra spalancata, in attesa di un gelo che non sarebbe tornato.
Daemon Spade era atterrito dalla consapevolezza di esser stato lui a donare la morte al suo amante, una morte dolorosa dipinta da Thanatos in persona.
Si gettò sul suo corpo, senza però alterare la sua posizione né sfregiarlo con quei capelli d’assassino. Teneva l’orecchio appoggiato all’altezza del cuore di Giotto, mentre piangendo aspettava che battesse. I suoi erano singhiozzi pesanti affiancati da un pianto ghiacciato, che nasceva dalle viscere più profonde del suo essere. Daemon Spade era una chiazza nera sulla purezza bianca del corpo di Giotto Primo Vongola.
Era la sua distruzione, la sua spina, era stato la sua morte.
Il pianto continuava, offuscato da qualsiasi spiraglio di luce e moltiplicato come in una sala di specchi; si accinse a portare una mano tremante al volto rinsecchito dell’altro, ma non ci riuscì pienamente, perché spaventato dall’idea di essere ripugnato da sé stesso persino in quel momento.
Il corpo di Daemon era pervaso da un vigneto acido pronto a soffocarlo da un momento all’altro, in una morsa che non l’avrebbe lasciato andare facilmente.
Con il volto coperto dai capelli inzuppati dalle lacrime, si avvicinò al volto ormai chiuso sul mondo dei vivi, e lo baciò, per quella che sarebbe stata l’ultima insulsa volta.
Le labbra di Giotto erano inverosimilmente calde, più simili a quelle che fiorivano nei suoi ricordi che a quelle che aspettava di trovare. Erano pregne di ciò che appariva essere il desiderio di reincontrare le sue gemelle, un desiderio marcito nella depressione che l’aveva portato alla morte.
Questo pensiero gli accentuò il pianto e lo costrinse ad alzarsi dal suo volto, a fissare ciò che non sarebbe mai più stato.
Le labbra che aveva ora derubato per l’ultima volta erano macchiate di un sangue non suo, ma che proveniva dalle labbra di Daemon Spade. Fino all’ultimo istante l’unica cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stato squarciare il suo azzurro e macchiare le sue nuvole.


Nel silenzio di quel 14 aprile, il cuore della primavera, l’inverno innalzò un lamento che era un canto di disperazione.

Aoku tsumetai umi no naka utakata no yume wo miru
Wasure sarareta tsuisou wa yurenagara sabite yuku
Sango ga nemuru juukai heto rakuen wa otosareta
Tobira wo mamoru bannin wa ishi no you ni ugokanai

Aitakute... itoshii hito no na wo
Sakendemo koe wa todokanai
Tozasareta... shiro wa shisha no ori
Thanatos wa kare wo nigasanai.


La voce scheggiata dal pianto e dalla disperazione più acuta di Daemon Spade risuonava ampia in quella cattedrale, una cattedrale vestita della primavera bruciata da un inverno troppo distante e incapace di amare.
Quel canto accompagnò il viaggio della primavera marcita, fino alla speranza realizzata di salvarsi, in cima ad una scala d’illusioni infrante. Daemon permise a Giotto di salvarsi da quell’oscurità in cui era volontariamente caduto per inseguirlo.
Daemon cantò un requiem nato dall’abisso per innalzare l’anima di Giotto ad un cielo più alto, ad un cielo più all’altezza del grande amore che solo lui conosceva.


«Che solo gli angeli possano ora donarti
uno squarcio sull’abisso per vedermi affogare.»

  
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