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Autore: Yees    15/12/2011    1 recensioni
Un ruscello può interrompersi per un breve tratto del suo lungo scorrere. Ma se l'acqua deve riaffiorare, potete star certi che lo farà prima o poi, dove potrà.
Allo stesso modo si comporta l'Amore, quello vero, quello che lotta.
Questa la storia di acqua che scompare per poi riaffiorare, di cuori che si legano e che si slegano. Un viaggio di sola andata verso una felicità dimenticata da troppo tempo. E a fargli da sottofondo, i toni dolci dell'amore unico e sincero che colpisce ognuno di noi una volta soltanto nella vita.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Matthew Bellamy, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1.

La hall dell'hotel era un continuo brulicare di gente di tutti i tipi e le nazionalità.

Mi sentivo perfettamente inserita nel mio ambiente, tra il caos e l'affaccendarsi di mille vite diverse con le quali non avevo nulla a che fare.

Mi rigirai tra le mani il bicchierino di plastica del mio caffè anacquato, all'inglese.

Non avevo la più pallida idea di dove dovessi andare, aspettavo con tutta la calma del mondo che mi arrivasse un segnale ultraterreno per capire quale fosse il mio posto in quel covo di pazzi, così disordinato e rumoroso.

E nel frattempo sorseggiavo tranquilla un caffettino schifoso, prodotto di una macchinetta vecchia e mezza scassata.

Ogni tanto qualche elegante uomo d'affari si soffermava a fissare il mio corpo e il mio viso. Lo notavo immediatamente, per questo mi voltavo e muovevo qualche passo lontano da lì, fingendomi interessata all'arredamento dell'hotel.

- Signorina Thourbourn? - domandò una voce secca.

Mi voltai a fronteggiare una specie di damerino in divisa elegante, che mi fissava con aria impassibile.

- Sì, sono io -

- La domandano alla reception -

- Arrivo subito -

Mi avviai dietro l'uomo, così serio e composto in quel regno scomposto.

Alla reception intravidi il mio personalissimo segnale ultraterreno, anche detto Michael Lust.

Mi sorrise in lontananza e quando fui abbastanza vicina, mi strinse in un grande abbraccio.

- Mia dea! - esclamò col suo vocione allegro.

Gli rivolsi un sorriso luminoso.- Mike! - mi limitai.

Lui fece scorrere le sua manone su e giù per le mie braccia, con fare paterno.

- Come stai, dolcezza? -

- Benone. Tu? -

- Sono a pezzi, ma vado avanti. Il lavoro mi distrugge -

- Con questo non mi invogli a continuare -

Michael scoppiò in una grassa risata, tipica degli uomini come lui. Una risata che, stranamente, aveva un non so che di finto.

Ma io conoscevo bene lui e il suo modo di fare, e sapevo che con me non fingeva affatto.

- Tu sei la mia musa, e non lascerò che molli. Ricorda che siamo sulla stessa barca, io e te - mi redarguì con finto sdegno.

Di nuovo sorrisi.- Lo ricordo, tranquillo -

Mike mi prese sotto braccio e mi trascinò lontano dagli sguardi curiosi del damerino e della sua collega dietro il bancone della hall.

- Oggi sarà una giornata spaventosamente caotica - annunciò Mike.

Risi.- Si capisce: guarda il posto in cui siamo! Sembra che qui tutti abbiano il pepe nel culo -

- Delicata come sempre, noto - mi prese in giro Mike.

Delicatezza, parola sconosciuta nel mio dizionario mentale.

Mi muovevo al fianco del mio ingombrante amico e collega, tra gli sguardi curiosi e indagatori dei presenti.

- Per quanto tempo ne avremo? - domandai a un tratto.

- Contando che le star si fanno sempre attendere a lungo... beh, tutta la giornata! -

Sbuffai la mia disapprovazione senza troppe cerimonie.

Detestavo l'attesa inutile e infruttuosa che ti costringeva a stare troppo a lungo con te stessa nei recessi della tua mente.

E quella giornata sarebbe stata una di quelle occasioni.

- Ma ho anche una buona notizia - aggiunse Mike.

- Sentiamo -

- Sono riuscito ad ottenere un incontro molto ravvicinato con l'autrice -

- Oggi? Non ci posso credere, due piccioni con una fava? -

- No, non oggi. Oggi Stephanie ci sarà, ma non avrà tempo per noi, con tutto il bordello che c'è qui dentro... -

Indicò con gesto spiccio il via vai di gente su per le scalinate dell'Hard Rock Hotel di New York.

Annuii, consapevole che sarebbe stato molto difficile anche solo sperare di avvicinarsi a una qualunque star di Hollywood quel giorno.

Accelerammo il passo, presi da chissà quale fretta.

- Domani -

- Wow, e sei stato tu ad organizzare questa specie di meeting? -

- Non specie, è un meeting vero e proprio. Con tutto il cast dei film. La tua recensione sarà più che perfetta -

Ero senza parole, davvero. Mike mi aveva stupita.

- Mike, sei formidabile. Come ci sei riuscito? - domandai, davvero impressionata.

Salimmo una rampa di scale tirate a lucido da poco. Potevo persino specchiarmici dentro.

Lui si atteggiò per un po' a maestro della situazione, dopodichè cambio espressione e mi rivolse un sorriso che la diceva lunga.

- I contatti giusti -

- Li hai tutti tu! -

- Certo, Rose -

Sorrisi tra me e me, continuando la mia camminata serena al suo fianco. Avevo parecchi nomi, nessuno dei quali quello giusto. L'unico nome che davvero mi descriveva e parlava di me e del mio essere, non apparteneva più a nessuno. Nessuno conosceva il mio vero nome.

Arrivammo davanti a un porta che Mike aprì con molta noncuranza. Al di là c'era una lunga tenda di velluto rosso che separava noi comuni mortali dalla sala delle celebrità, dove queste si preparavano la maschera che le avrebbe accompagnate nelle interminabili interviste lunghe ore e ore.

Un tecnico ci venne incontro, cercando di afferrare Mike per le braccia e spingerlo di nuovo dall'abisso da cui era arrivato.

- No, noi dobbiamo passare... - stava cercando di farsi rispettare il mio collega.

Il tecnico lanciò uno sguardo veloce e neutro a me, al che gli sorrisi con innocenza apparente.

Quello allora tornò a concentrarsi su di me. Altro sorriso.

Mike sembrò percepire la calma apparente che la situazione aveva deciso di adottare in quel breve istante.

E colse l'occasione al volo, come un bravo commerciante saprebbe fare.

Sfilò una banconota che non riuscii a visualizzare precisamente e la infilò con un gesto secco nel taschino della camicia del tecnico.

Questo lo incenerì con uno sguardo pieno di sdegno.

- Solo lei può entrare - fece il tecnico perentorio.

A quel punto toccò a me.

Scoppiai in una breve risatina, falsa come le lacrime che vedi scorrere sui volti dei partecipanti dei reality show rinchiusi in qualche mega villa con tutti i comfort del mondo.

Il tecnico mi guardò, cercando di capire il motivo della mia reazione senza che dovessi per forza spiegarglielo io.

Mike non era affatto sorpreso, sapeva a cosa miravo. Mi conosceva. Bene.

- I soldi non bastano più, ormai... Allora facciamo così: lei ci lascia gentilmente fare il nostro lavoro - esordii, gli occhi innocenti più falsi della mia precedente risata,- e io le darò altro, che non sono dollari -. Mi ero avvicinata pericolosamente, come direbbero in certe descrizioni dal profumo letterario, al suo volto.

Il tecnico non sapeva più che cosa dire e che cosa non dire.

Annuì, i muscoli del viso tesi dal nervosismo.

Mike lo oltrepassò con un cenno di finta cordialità e io invece gli scoccai un ultimo sguardo, rovente.

- Mi chiamo Roxanne, comunque - gli dissi, giusto per non mandare a quel paese la copertura e dargli un'ultima piccola illusione.

Era divertente.

- Ecco perchè ti ho voluta qui con me -

- E' sempre un piacere - confessai scuotendo la testa per scostare i capelli dal volto.

Poi con un gesto teatrale della mano mi tirai all'indietro il ciuffo che solitamente mi ricopriva parte della fronte.

Mike mi sorrise.

- Sei sempre la solita -

- Faccio quello che il lavoro impone. Se il mondo fosse governato da donne, io sarei messa al rogo. Dopotutto sono una strega, nel mio piccolo -

- Una bellissima e abilissima strega, direi -

- Potrebbero cucirmi su misura una parte nel prossimo libro della Meyer, no? -

Mike rise.

Ed eccoli lì, quei vip così indaffarati con le loro piccole vite monotone, fatte di soldi e continua ricerca della provocazione.

Mike al mio fianco fu percorso da un fremito di pura emozione.

- Guarda quello gnocco del... -

Emh, emh.

Ci voltammo all'unisono.

Una tipa con brutti occhialetti di plastica bianca e un naso sproporzionato rispetto al viso minuto ci porse la mano con aria stizzita.

- Miranda Korth, posso esservi utile? Sono l'addetta alle rassegne stampa... -

Prima che Mike potesse rispondere in modo inadeguato, mi feci largo nella conversazione con un sorriso smagliante e una voce leggera e melodiosa, tono che mi usciva spontaneo davanti a chiunque non fosse almeno un mio lontano conoscente o collaboratore.

- Molto piacere, noi siamo inviati del giornale Best Movie England, siamo qui per occuparci dell'uscita mondiale del nuovo film del best seller di Stephanie Meyer... - feci, cordiale, porgendo la mia mano destra come segno di pace.

La tipa mi squadrò con quella vena di invidia che conoscevo bene: ogni donna mi guardava a quel modo appena mi presentavo ai loro occhi.

- E in cosa posso esservi d'aiuto? -

Sorrisi di nuovo.- Credo... nulla. Stiamo aspettando solo l'arrivo dei produttori del film e del cast -

Questa volta la mia voce si era impadronita di una nota solitaria, più dura e fredda.

La donna non replicò, arrendendosi davanti alle mie insistenze. Fece un cenno del capo e ci lasciò passare.

- Sembra di essere entrati in una sede dell'FBI. Guardie ad ogni angolo, domande pressanti... Di che hanno paura? - scherzai sottovoce, rivolta al mio collega.

Mike diede in uno sbuffo d'impazienza.

- Si sono fatti strane idee a proposito dei giornalisti - si limitò a rispondermi.

- Credono che siamo come avvoltoi - aggiunse.

Come dargli torto! In fondo io avevo sempre percepito quella gente come tale, fin da quando avevo cominciato la mia carriera come giornalista per il giornale della mia città, finiti gli studi universitari.

Anche guardando la televisione, tutti quegli avvoltoi armati di microfoni e telecamere, che inseguivano la preda, alla spietata ricerca di informazioni, per sfamare la loro fame ingorda e prepotente, calpestando spesso sentimenti e idee della gente comune. Quello era il mio mondo.

Ma io lavoravo per il cinema, non inseguivo vittime di incidenti o famiglie di gente scomparsa, no. Io mi occupavo delle pellicole cinematografiche, della novità del 3D, delle interviste ai vip del Red Carpet. Il mio era un compito soft, io non facevo parte delle schiere degli avvoltoi veri e propri.

- Noi siamo le persone più tranquille del mondo. Beh, su di te non ne sono così sicuro, però... -

Uno sguardo scocciato.

- Che intendi dire, Mike? - lo stuzzicai, nonostante avessi già capito cosa voleva dire.

Mi faceva sempre piacere sentire parlare di me come di qualcosa di bellissimo, di micidiale, di fuori dal comune.

- Le tue lezioni di Karate e Kung Fu? -

- Ahahah, hai ragione. Non sono poi così tranquilla -

Individuai due sedie di plastica rosse, libere. Lì attorno si stavano già assiepando altri giornalisti, la stragrande maggioranza dei quali mi erano sconosciuti.

- Sediamoci là - indicai a Mike.

- Ehi, hai visto chi c'è? -

- Chi? -

- Ewan Roomster -

Alzai gli occhi al cielo, ma mantenni la mia solita aria calma.

- Vediamo di non incrociarlo, allora - suggerii, fredda.

Presi posto sulla mia sedia, con grazia. Con un gesto della mano scostai i capelli dalle spalle e li lasciai ricadere dolcemente sulla schiena. Erano lunghi quasi fino a metà schiena e si disegnavano in morbidi boccoli perfetti di un colore a metà tra il biondo e il castano scuro. Non sapevo neppure io come descriverli: il mio era un colore particolare, che mi rendeva ancora più interessante agli occhi di chi mi osservava.

Mike si sedette al mio fianco, fedele come un cagnolino.

E pensare che io ero stata assunta come sua collaboratrice e assistente. Ma ora sembrava che fosse lui alle mie dipendenze.

Lui, grande e grosso, al servizio di una neolaureata, una giovane ragazza di appena ventisette anni.

Lui, gay, infinitamente leale con gli amici, dispensatore di ottimi consigli, perfetto confidente, cinico ma anche superbo.

Io, schiva, estremamente bella e sensuale, sleale, ottima nemica, pessima fidanzata, ancora più superba e molto più cattiva.

Eravamo la coppia lavorativa perfetta, una di quelle combinazioni miracolose che non ti aspetteresti mai più di trovare e che sono troppo rare per farne un luogo comune.

Eravamo parti differenti dello stesso oggetto: lavoravamo alla perfezione da soli, ma se messi assieme eravamo formidabili.

Fin da quando avevo scelto di specializzarmi in quel settore avevo capito che avrei avuto bisogno di qualcuno come Mike, e infatti l'avevo trovato. Una delle poche persone in grado di cavare qualche piccola informazione dal mio conto.

L'unico uomo che avesse il permesso di avvicinarmi.

- Ti ha già addocchiata - m'informò Mike.

Ridacchiai, sprezzante.

- Beh, lascia che guardi - intimai al mio amico e collega.

Lui rimase in silenzio, attento allo svolgimento della situazione.

Avrebbe dovuto sapere che io ero tranquillissima e perfettamente a mio agio.

Ma non passò molto prima che Ewan mi si avvicinasse.

Sentì una mano posarsi sulla mia spalla destra e seppi subito identificarne il padrone.

- Roxanne -

Non risposi, ma mi limiati a osservare lo sguardo sospeso di Mike di fianco a me.

Ewan soppesò l'idea di andarsene, forse. Ma poi decise di lanciarsi nell'impresa e si sporse in avanti, facendo capolino col capo tra me e Mike.

- Roxanne, come stai? -

Non volevo che quell'uomo mi si rivolgesse con quel tono.

- Chi ti ha dato il permesso di parlarmi? -

Lui si irrigidì davanti alla mia reazione. Aveva sospettato, probabilmente, che avrei sfoderato la mia corazza difensiva, ma aveva sperato fino all'ultimo il contrario.

- Sempre gentile... -

- Che ti aspettavi? -

- Non esiste un modo per addolcirti un po'? -

Sorrisi, voltandomi per la prima volta a guardarlo.

- Ci speri davvero? Non illuderti più, per favore -

Sorrise anche lui.- Da quando ti interessi a me e a quello che penso? -

- Da mai, era solo un consiglio molto ironico. Sei libero di fare ciò che ti pare, ma sappi che tu per me non esisti -

Ewan annuì. Era deluso, lo leggevo nei suoi occhi e sulle sue labbra tremanti per la rabbia.

- Arriverà, Roxanne. Arriverà anche per te il giorno in cui piangerai per amore. I giorni felici che stai passando finiranno, inizierai a domandarti cosa stia facendo l'uomo che ti ha rubato il cuore, e ti tormenterai anima e corpo, tutto il giorno, tutti i giorni, finchè non avrai ottenuto una bella delusione che ti manderà fuori di testa e allora sì che capirai cosa si prova ad essere trattati come bestie da chi si ama - mi disse Ewan, furioso, mantenendo però una certa dignità.

Io rimasi impassibile.

- Credi ciò che ti pare, e soprattutto fatti una vita - conclusi, tornando a fissare i tecnici davanti a me che si indaffaravano perchè tutto fosse perfetto per la conferenza stampa di quel giorno.

 

- Italia, sei sicura? -

- Certo -

- Io non vedo un gran bel futuro per te -

- Non importa. Sono stufa -

- Forse dovresti davvero solo aspettare di vedere come andranno a finire le cose -

- Sono già finite le cose, dal mio punto di vista -

- Sei troppo precipitosa -

- E tu troppo fiduciosa -

Letizia mi guardò, assorta nelle sue meditazioni.

- Senti, io ti ho aiutata come ho potuto. Ci ho messo tutto l'impegno di cui ero capace per farti venire a capo di questa storia, ma non voglio mandarti incontro a qualcosa di ancora peggiore -

- Cosa c'è peggio di questo? -

Letizia tacque.

Io mi alzai in piedi.

- Il tuo futuro mi pare denso di solitudine -

- Saprò cavarmela -

- Vuoi davvero questo? -

- La solitudine? -

- Sì -

- No, ma penso sia l'unica soluzione -

- No, non lo pensi. Altrimenti non partiresti -

Sorrisi enigmatica.- Sarei partita comunque, soluzione o meno ai miei problemi -

- Non ti aspettano bei tempi, Lia -

- Il futuro non può davvero essere letto come la pagina di un libro. Non credo più a queste cose -

- Dovresti, invece. Sbaglio o ho sempre visto giusto nella tua vita? -

- Quasi -

Letizia, che non si aspettava quella risposta, mi fissò sconcertata. Quando aveva sbagliato?

Sorrisi.- Non mi avevi mai detto che sarebbe stato così difficile -

- Non ti avevo mai neppure detto che era facile! -

- Allora hai sbagliato due volte, anzichè una soltanto -

Letizia sorrise, e vidi spuntare le lacrime nei suoi begli occhi viola, quello scherzo della natura così sorprendente che faticavo ancora a credere in tanta bellezza.

Si alzò e mi raggiunse a grandi falcate. Mi strinse in un abbraccio che sapeva di dolore e rassegnazione, percepii il suo calore e il suo affetto, ma fui anche punta dalla profondità dell'azione che stavo compiendo lasciandola.

- Ci rivedremo, indovina? - le chiesi, commossa.

Lei appoggiò la sua fronte contro la mia, la pelle calda del suo viso contro quella fredda del mio.

- Questo non lo vedrò. Sarà solo il tempo a risponderci. Non voglio soffrire in anticipo -

- Dipende, magari avresti belle notizie sul nostro futuro -

- La paura a volte vince la fiducia. O, come nel tuo caso, vince anche i legami -

- Io ti voglio bene, Letizia -

- Anch'io, Italia -

 

L'appartamento era davvero carino, un po' scomodo da raggiungere, ma comunque grazioso.

Pensavo già di aver trovato il mio habitat naturale all'interno di esso: disordine, scatoloni da gettare, contenenti oggetti ancora più inutili, pareti scolorite, un semplice tavolino di legno bianco, scheggiato peraltro al centro di una stanza persa nell'oblio della metropoli inglese.

Ci stavo perfettamente lì dentro. Ero io e il mio spazio, io e la mia solitudine, io e il mio disordine, io e la mia complessità megalomane.

Perfetto.

Tirai un calcio a uno dei pacchi imballati di vestiti e scarpe. Mi feci male, naturalmente.

Mossi qualche passo allora, per non pensare al dolore fisico. Il parquet scricchiolava sinistro sotto il mio peso. Sentivo l'odore del vecchio, del chiuso che avevano vigilato placidi in quelle quattro stanzette buie per tutto questo tempo, aspettando solo il mio arrivo.

Ed ora eccomi qui, pronta ad accollarmi la responsabilità di mettere pace all'agonia di quegli spazi vuoti e malinconici, liberarli dalla solitudine di quelle pareti, ridare a quel luogo un'apparenza di vitalità, di speranza.

Sì, io e quell'appartamento saremmo rinati alla stessa maniera.

Era un percorso da fare in due, io e la mia nuova casa.

Nessuno si salva da solo, come recitava il titolo di un libro della mia autrice preferita, Margaret Mazzantini.

 

- Questa Meyer è piuttosto lunga - mi lamentai, sbirciando l'ora sul quadrante dell'orologio di Mike.

Lui era d'accordo, ma non voleva ammetterlo: era stato lui a insistere per quella conferenza stampa.

La scrittrice più acclamata degli ultimi anni se ne stava di fronte a me, a pochi metri di distanza, e parlava e parlava del suo libro, dei suoi sforzi, di come ami ciò che ha fatto e continua a fare ecc... con un tono di voce soporifero e micidiale, che stava mettendo a dura prova la mia già scarsa concentrazione e dimostrava un'altra volta che qualche ora di sonno in più non mi avrebbe poi fatto così tanto male.

Attorno a noi tutti si sbracciavano cercando di inserirsi nella lista dei pochi eletti a cui veniva concesso di usare la propria vocetta roca -a causa del tempo passato nel più totale silenzio ascoltando quella miliardaria cagasoldi- per formulare qualche stupida domanda dettata dal disperato bisogno di non sfigurare davanti agli altri giornalisti.

Ma io me ne stavo a braccia conserte, chiusa nel mio personalissimo rifugio silenzioso detto "mente", e lasciavo che le parole attorno a me scivolassero sul mio corpo come acqua e non lasciassero tracce tangibili del loro passaggio.

- Ci sei ancora? -

Era Mike, allarmato dal mio improvviso mutismo.

- Lo sai che non vado pazza per queste cose - dissi.

- Beh, so che normalmente non sei una gran simpaticona sociale e sorridente, ma non credevo che vedere questa donna ti mettesse così di malumore! - mi prese in giro lui.

Mi strappò un sorrisetto, vero.

- Grazie per i complimenti -

- La sincerità, Rose, la sincerità... -

Ero felice che almeno il nostro rapporto si basasse su quella parolina magica, che il mio vocabolario conosceva fin troppo bene.

La Meyer era passata a ringraziare tutti i suoi più stretti collaboratori, presentandoli a uno a uno con un gesto della mano. Questi venivano avanti dalle loro postazioni sedentarie e sorridevano meccanicamente, senza la più pallida idea di che cosa dire per non sfigurare davanti alla stampa crudele.

Riconobbi anche i tre attori principali, a cui sarebbe passata la parola più tardi.

Se la ridevano sotto i baffi, indicando chissà quale aneddoto del loro repertorio di momenti vissuti sul set durante le riprese.

La ragazza, Kirsten Stewart, sembrava godere come una matta a starsene lì attorniata dai due sex symbol delle ragazzine di mezzo mondo.

Scossi il capo, tra me e me, chiedendomi quante volte aveva dovuto dargliela pur di farsi un poco di pubblicità.

I bellocci del film, Robert e Taylor, erano del tutto a loro agio, e mi parve quasi di sentire il profumo di tutti i miliardi che si sarebbero incassati fino alla fine dei loro giorni per quelle stupide parti da vampiri e lupacchiotti fessi.

Sorrisi cinica.

E allora alzai lo sguardo.

La Meyer si era appena buttata a capofitto nelle parole di ringraziamento più emozionanti che avessi sentito finora, e avevo scoperto con sgomento che si stava riferendo non alla famiglia, non ad un'amica particolare, non ai genitori o fratelli, non a Dio -tutti personaggi di rilievo nel cuore di un qualsiasi scrittore o personaggio dello spettacolo- bensì a un semplice gruppo musicale.

- ... la loro musica è stata la mia musa, come recita giustamente il nome - disse la donna, un sorriso sfavillante che le occupava più di metà volto.

Guardai Mike, sconcertata che una persona sana di mente potesse davvero pensare di doversi portar dietro una band solo per buttargli addosso i meriti di ciò che ha compiuto con la sua testa.

Lui però pareva impassibile alla cosa.

Applaudimmo e allora vidi tre strani personaggi venir avanti a passi brevi ma calcolati. Quello che pensai subito fu che i tre erano totalmente fuori luogo lì dentro. Erano qualcosa di bizzarro, di inusuale davanti alla vita che scorre tra i vezzi e le mondanità comuni. Erano strani a partire dalle loro espressioni, proseguendo verso il loro modo di stare impalati lì, davanti alle telecamere, fino ad arrivare al loro modo di rapportarsi a quell'ambiente. Erano sorridenti, ma non erano sorrisi plastici come quelli dei loro predecessori. Sorridevano perchè sapevano di avere avuto una parte fondamentale nell'elaborazione del capolavoro per cui tutta quella gente si era distribuita su quelle sedie rosse troppo scomode.

Io applaudii senza entusiasmo, non li conoscevo neppure quei tre tizi abbagliati dalle luci dei flash e dei neon ronzanti della saletta.

Ma seppi che se mai io avessi cercato spunto per scrivere qualcosa, lo avrei certamente trovato nella musica di quei tre. Lo seppi guardando il bagliore di gratitudine negli occhi della Meyer, che li fissava in completa adorazione estatica.

- Che storia, i Muse - commentò Mike, appoggiato mollemente sul mio braccio come un bambino.

- Mike, mi stai dando fastidio - lo avvertii.

- Scusa, è che mi sto addormentando con tutto questo caldo e questa noia e questi sorrisetti -

- Allora lo ammetti che questa roba fa schifo -

- Se proprio devo... -

Annuii soddisfatta.

- Chi sono quei tre? - chiesi.

- I Muse, te l'ho già detto -

- E sono straordinari? -

- Per certi versi... -

- Quali? -

- Non essere puntigliosa, Rose -

- Voglio sapere perchè li trovi straordinari -

- Sono bravini, ecco tutto -

- Non è la stessa cosa dire "straordinari" e dire "bravini" -

- Che palle, Rose! -

- Un buon giornalista dovrebbe sapere la distinzione tra due parole, non credi? -

- Quindi? Vuoi dire che non sono un buon giornalista? -

- No, voglio dire che dovresti ringraziarmi per averti spiegato la differenza tra queste due parole che tu erroneamente confondevi -

Mike mi squadrò indeciso se picchiarmi o ridere.

- Sei una bastarda -

- Ma mi vuoi bene, vero? -

- Troppo anche solo per contraddirti, mia dea -

Mi stampò un bacio sulla guancia, schioccando le labbra rumorosamente. Sapevo che erano baci innocenti, Mike era gay dichiarato da parecchi anni.

- Mi dicevi che li conosci? - proseguii io, accennando col capo al ragazzetto biondo del gruppo, che stava parlando fitto fitto con la Meyer, alle spalle del suo collega basso coi capelli castano scuro.

Mike fece un fischio di assenso.- Eccome! Erano il gruppo preferito di un mio ex. Mi ricordo che voleva convincermi ad andarli a sentire -

- E siete andati? -

- No, ci siamo mollati prima -

Mike mi aveva raccontato poco delle sue storie d'amore. Erano un tasto dolente, per uno come lui.

- Comunque li conosci sicuramente - cambiò in fretta discorso.

- Questi tre bambinetti? No, mai sentiti prima -

- Non ci credo -

- Non crederci -

- Mai sentita Supermassive Black Hole? -

- Cos'è? Una nuova stella? - ironizzai.

Mike mi guardò scettico. Mi figurai una goccia al lato del suo viso, proprio come accadeva nei cartoni animati che guardavo da piccola, quando un personaggio rimaneva senza parole per la stupidità di qualcun altro.

- Ti devo proprio rispondere? - sbuffò Mike.

Sorrisi. E proprio in quel momento intercettai lo sguardo di uno dei due bellocci del film, suppongo Taylor, quello scuro, come lo definiva Emily, una mia amica pazza per quella saga di vampiri e amori impossibili.

Fu un secondo, ma mi bastò per leggere nello sguardo di lui curiosità e interesse.

Distolsi subito il mio, affatto eccitata per l'accaduto.

Tornai a fissare i miei occhi sulla band che ancora stava parlando davanti allo stormo di giornalisti disinteressati alla loro musica e al loro contributo per quel libro.

Ora parlava il biondino, mentre il tipo più basso dei tre se ne stava leggermente indietro, le mani infilate nelle tasche anteriori dei jeans rossi, i capelli scompigliati, più simili agli aculei di un riccio che a una chioma vera e propria, lo sguardo magnetico perso a fissare oltre le teste dei molti giornalisti, nessun cenno di sorriso sulle labbra fini, sottili come linee di colore appena accennate sotto il contorno degli zigomi e del naso.

Ebbi l'impressione che quell'uomo stesse osservando qualcosa che a noi altri nella sala era sfuggito. Fissava un punto in lontananza con così tanta insistenza e concentrazione che fui indotta a voltarmi per sbirciare. E fu con molta delusione che mi accorsi che in realtà non c'era una benemerita mazza alle nostre spalle, solo la parete imbiancata della sala.

Intravidid Ewan in lontananza prendere appunti freneticamente sul suo stupido taccuino blu con la sua stupida biro azzurra.

Tornai a fronteggiare la Meyer e la band e tutti i collaboratori di quella riccona sfondata che parlava ormai da più di un'ora.

- Io sono abbastanza stufa di tutta questa pomposità - brontolai.

Mi sfilai la giacca beige con un gesto lento e misurato, e mi accorsi di avere addosso l'attenzione di quello scuro. Sempre lì a fissarmi. Sorrisi divertita. Un altro pesciolino incappato nella mia rete.

E Mike me lo fece prontamente notare con aria compiaciuta.

- Hai visto quel bocconcino che fa perdere la testa a tutte le bimbette sotto i tredici anni dove sta guardando? -

- Non mi interessa -

- Chi? Quello lì? -

- Eh -

- Wow, non avevo mai conosciuto una persona col cuore di pietra, ma ora sto seriamente pensando che tu sia una di quelle poche eccezioni -

- Già, può darsi -

- Ti sta guardando... ancora... ancora -

- Puoi smetterla? Non mi importa, potrebbe anche guardarmi il Papa, non farebbe alcuna differenza -

Mike mi mise una mano sulla fronte, in una palese imitazione della madre che misura la febbre alla figlia.

- Eppure non mi sembra che tu sia malata... Allora qual è il tuo problema? Ti fissa ancora, è pazzesco! Con questo otteniamo un'intervista bonus! -

- Ecco, bravo, pensiamo al lavoro -

- Dai, alzati Rose, fai una domanda -

- Non ci penso nemmeno, aspetto che si inizi a parlare del film, non sono qui per il libro di questa cagasoldi -

- Come sei fine! -

- E' il mio punto di forza, la finezza -

- Già, me l'ero scordato. Continua a guardarti -

- E che guardi! Non m'interessa. Puoi smetterla di strattonarmi il braccio?! -

- Solo quando ti alzerai per mostrarti in tutta la tua bellezza -

- Ossia mai -

- Hai decretato la tua morte -

- Lasciami stare! Smettila, Mike! Lasciam... -

Avevamo attirato l'attenzione di tutti i nostri vicini, che si erano voltati a fissarci sconcertati.

Una ragazza sorrise a Mike, e la sua espressione aveva tutta l'aria di una che si è appena fatta l'idea più sbagliata del mondo su di te. La guardai gelida, quasi cercando di intimarle di voltarsi subito.

Scaraventai Mike e il suo peso massiccio lontano da me -per quanto mi fosse possibile allontanarlo, dal momento che eravamo racchiusi in quel mare di sedie rosse e lui mi stava a meno di mezzo metro di distanza- e incrociai le braccia al petto con su stampata in faccia un'aria di pericolo mortale per chiunque avesse voluto avvicinarsi.

Mi accorsi con la coda dell'occhio che il belloccio scuro mi stava ancora fissando.

 

Don't confuse

Baby you're gonna lose

Your own game

Change me

Replace the envying

To forget your love

 

Il pomeriggio tardo sfumava nella sera accompagnandosi a braccetto con un colore rosso sfavillante che mi stava accecando.

Ma ero contenta.

Fumavo la mia terza sigaretta di quel giorno, sbirciando all'ingiù, la strada newyorkese trafficata, brulicante di auto e uomini e donne e obesi usciti dal Mc Donalds, e neri con le casse issate sulle spalle, e bambini con la divisa della loro scuola, e molti altri generi di persone tipiche dell'immaginario americano.

Tirai un soffio di fumo e chiusi gli occhi, percependo il brivido di freddo che saliva su per la mia schiena, infiltrato sotto i vestiti non abbastanza spessi.

Si avvicinava l'inverno.

Ma io per l'inverno sarei stata lontana da lì.

Il mio cellulare diede in un'improvvisa vibrazione che già da se bastava a fungere da suoneria per quanto casino faceva nella mia borsa.

Mike.

- Sì? -

- Dove sei, mia dea? -

- Sulla terrazza dell'hotel -

- E che ci fai lassù? -

- Sto tentando il suicidio... Vuoi unirti a me? -

- Mmh... sì, perchè no? Dammi mezzo secondo che indosso il mio abito più bello e sono lì da te! -

Mike staccò la chiamata e io sorrisi ancora attaccata al mio cellulare di seconda mano, ormai un rottame.

La giornata era trascorsa e io ero ancora viva, ne ero sorpresa.

Mike mi aveva obbligata ad andare a complimentarmi con la Meyer, cosa alquanto ruffiana dal mio punto di vista.

Ma avevo accettato. Sapevo che era tutto mirato a fare colpo sulla scrittrice in vista del nostro meeting di domani.

- Fiuu, per fortuna mi hai aspettato a lanciarti di sotto! Non ti sei tenuta tutto il divertimento per te! -

Mi voltai. Mike si era sbottonato la camicia blu, ora addirittura sfilata dai pantaloni eleganti che si era portato dietro per quella giornata di puro stress.

- Stile selvaggio? - scherzai.

Lui sbuffò avvicinandosi. Guardò di sotto assieme a me. Poi alzò di nuovo lo sguardo e mi fissò.

- Sei bellissima, mia dea. Con la luce del tramonto che si riflette sul contorno del tuo corpo sembri davvero una divinità -

- Ehi, che stai facendo? Stai diventando eterosessuale? -

Mike rise.

- Continuo a chiedermi cosa passi nella tua testa per obbligarti a restare sola come un cane -

Mi aggrappai alla griglia di ferro che mi stava davanti, l'unica vera barriera tra me e il vuoto.

- Mi era stato predetto che sarebbe stato così - confessai in un momento di schiettezza.

Mike non fece una piega.

- Solitudine e tristezza. I miei tempi duri sembrano non avere fine - scherzai.

Mike era serio. Ma mi sorrise dolcemente.

- Sei davvero strana. Ma sei bellissima, lo sai? Perfetta, oserei dire. Cattiva, impassibile, estroversa, ma perfettamente capace di stupire, di ammagliare, di catturare l'attenzione. Come fai? -

Risi.

- Non ho un manuale da seguire. Sarà colpa del mio passato, suppongo -

Mike sembrava morire dalla curiosità, ma sapeva che quello era un luogo della mia persona dove nessuno poteva avventurarsi.

Non chiese nulla.

Sentimmo la porta che portava alla terrazza sbattere violentemente sui cardini.

Mi voltai, ma non ero spaventata.

Subito non lo riconobbi. Pensai fosse un povero sventurato che aveva perso il senso dell'orientamento.

Poi lo vidi accendersi una sigaretta con fare scocciato, come se anche il piacere del fumo potesse essere diventata una routine fastidiosa.

Era il bassetto della band, i Muse.

La sigaretta si accese con parecchi sforzi. Il tipo non sembrava interessato al fatto che due sconosciuti lo stessero osservando mollemente appoggiati a una ringhiera di ferro troppo fragile anche solo per poterla sfiorare.

Poi alzò gli occhi blu e intercettò lo sguardo di Mike.

E poi fu la mia volta. Passò alla rassegna il mio viso, il mio corpo, perfino i miei piedi, mi parve.

- 'sera... - fece Mike, senza scomporsi.

Il tizio sorrise brevemente e prese un tiro della sua sigaretta.

Poi tornò a guardarmi. Questa volta mi studiò bene, ma io non lo stavo più fissando. Sbirciavo il panorama oltre i grattacieli.

- Dovremmo quasi tornare di sotto - mi informò Mike, annoiato. Forse aveva sperato di poter costruire una conversazione con il tizio famoso, quello della band.

Speranze deluse, sembrava piuttosto restio ad aprir bocca.

Come non detto.

- Siete giornalisti? - domandò.

La domanda era rivolta a entrambi, ma lui continuava a guardare me.

Annuii. Gettai la mia sigaretta giù dalla terrazza.

- Da cosa si capisce? - chiese Mike.

- Il totale disinteresse nei miei confronti - rispose prontamente il tipo, sorridendo divertito.

Alzai gli occhi al cielo. Come se lui fosse stato il Messia sceso in terra per salvare l'umanità!

- Io in realtà ti conosco. E mi piace la tua musica - replicò Mike, scocciato di essere stato preso per un volgare ometto senza una più che degna conoscenza del panorama culturale del suo secolo.

Il tipo fece qualcosa, ma io non vidi, davo le spalle a lui e a Mike.

- E lei? E' muta? - chiese il tipo, dopo un po'.

Mike scoppiò a ridere.

- No, è solo un po' scontrosa - rispose al mio posto.

Il tipo ridacchiò. Cos'aveva da ridere?

- Non è l'unica. Conosco un sacco di gente come lei. Basta solo saperle trattare - confessò subito dopo.

Mi voltai. Lo guardai dritto negli occhi.

Lui non distolse lo sguardo. Erano magnetici, quegli occhi. Ti obbligavano a fissarli, ti impedivano di fuggire, erano il collegamento perfetto tra due anime, la mia e la sua, simili e discordanti.

Aggrottai le sopracciglia. Non mi succedeva da un sacco di tempo di trovarmi di fronte a un uomo che non riuscivo a interpretare. Ogni uomo era sempre troppo banale per potermi stupire.

Poi riprese a parlare come se nulla fosse:- Il mio migliore amico, il batterista del gruppo, lui è scontroso e un vero bastardo, ma con me è la persona più bella del mondo -

Mike annuì. Io rimasi impassibile.

- Comunque complimenti per le canzoni. Belle - cambiò discorso Mike.

Il tipo distolse a fatica lo sguardo da me per fissarlo su Mike e sorridergli sincero.

- Grazie - rispose, un limitante grazie sussurrato con voce bassa e lieve.

Poi tornò a guardarmi. Che si aspettava? Che io gli baciassi i piedi perchè era il mio artista preferito?!

Mike intervenne, come a rispondere alla domanda silenziosa e inespressa che il tipo aveva formulato solo con gli occhi:- Lei non conosce neppure una vostra canzone -

Il tipo fece una faccia da "finto sgomento". Poi ridacchiò.

- Allora sarà meglio che ripari al danno - disse, rivolto a me.

- Non posso riparare a tutti i danni che ho fatto. Ci vorrebbe troppo tempo - dissi finalmente, stufa di sentir parlare di me in terza persona come se non fossi stata presente al discorso.

Il tipo s'illuminò, come se avesse sempre e solo aspettato di sentire la mia voce scontrosa.

- In effetti hai ragione. Ma non devi dire che non puoi. Magari non tutti i danni, ma una parte -

- A che cosa mi servirebbe? Lascerei incompiuta l'opera -

- Dipende. Andando avanti nella vita potresti accorgerti che certi danni in realtà altro non sono che fortune ben mascherate -

Lasciai che il peso di quelle parole galleggiasse nello spazio attorno a noi, con estrema leggerezza.

Sembrava che avesse letto una parte di me, come un copione tra le sue mani. Un copione scontato, facile, e lui pareva un attore, che avesse solo aspettato di poter recitare quelle parole. Che su di me ebbero un impatto doloroso.

Fortune mascherate. Aveva saputo del mio passato? Chi era quel tipo?

- Piacere, Michael - si presentò in quel momento il mio amico, facendo irruzione in quella bolla intima che si era formata tra me e lo strano tizio.

Quello gettò via la sigaretta, grato di potersi finalmente rilassare con le normali procedure di ogni discorso normale, ed esclamò:- Matthew -

Poi guardò me. Mi porse la mano.

Rimasi incerta su cosa fare, su cosa dire, se scappare o se restare, se accettare di abbattere le mie difese o se rafforzarle come facevo sempre davanti a certe situazioni in cui il mio panico prendeva il sopravvento.

- Roxanne - dissi alla fine, rinunciando alla mia protezione eretta tanti anni fa davanti al mio passato e stringendo la mano a Matthew.

Lui mi sorrise.

Era magro, mi accorsi. Molto, sembrava fragile, sembrava capitato sulla terra per sbaglio, per uno scherzo, sembrava dovesse scomparire da un momento all'altro, lasciandomi con l'amarezza addosso e la domanda su chi fosse quello strano uomo che cercava di leggere dentro i miei occhi.

- Io devo scappare. E' stato un piacere, Michael, Roxanne - disse calcando bene il mio nome con una sfumatura di simpatia nel tono.

Mike gli rivolse un ultimo cenno della mano, e dopo che lui fu scomparso dietro alla porta prima quasi scardinata, mi fronteggiò con gli occhi fuori dalle orbite per l'emozione.

- Che culo! -

- Cosa? Lui o il fatto di averlo conosciuto? -

Mike rise.- E' un po' troppo magro per i miei gusti, però non male. Affascinante, direi. Comunque intendevo il fatto che abbiamo stretto la mano al cantante dei Muse -

E così era il cantante. L'avevo sospettato, da come sapeva tenere alto lo sguardo, da come sapeva atteggiarsi, sempre allegro sempre energico, dalla voce, profonda alle volte, squillante altre.

- Però è strano - aggiunse Mike.

- A me è sembrato soltanto un esibizionista -

- Per forza! Lo fa di lavoro! -

- No, non hai detto che canta? -

- Tutti i musicisti sono esibizionisti. Ce l'hanno nel sangue -

Annuii senza troppo interesse per quella conversazione. Quello era un mondo che non aveva nulla a che fare col mio.

 

Arrivai in hotel barcollando. I piedi erano gonfi per la giornata stressante che avevo dovuto sopportare. Giurai a me stessa che non avrei mai più indossato un paio di tacchi in vita mia.

Mi levai i vestiti che portavano l'odore di quella giornata, di quelle persone accalcate nella sala a fotografare e a intervistare, di quel palazzo così elegante ed eccentrico.

Mi infilai nel mio pigiama, non avevo programmi per quella sera. E forse neppure per quella dopo.

Non avevo programmi per nulla, ormai. Avevo scelto di non darmi la pena di pianificare la mia vita. Le cose le prendevo così come arrivavano, sul momento, senza aver pensato prima a come reagire o a cosa dire.

Alcuni mi chiamavano spontanea, altri immatura. Erano punti di vista, a me non interessavano. Nulla di quello che dicevano gli altri mi sfiorava. La mia vita aveva la libertà di seguire solo se stessa e il suo destino, nessuno poteva convincermi a sballarla e sconvolgerla per un puro sfizio.

Accesi la televisione e mi accomodai sulla poltrona bordeaux di quel brutto hotel in cui alloggiavo, in mano una coppa di gelato comprata poco prima.

Penso di essere l'unico essere vivente al mondo capace di farsi una coppa di gelato verso fine novembre, mentre tutti i sani di mente escono al bar a prendersi una bella cioccolata calda con tanto di montagna di panna sopra -alla faccia della linea!-

Raschiai il mio cucchiaino nella scatola, golosamente insoddisfatta. Dovevo affogare la noia e l'indifferenza nel cibo, e soprattutto nei dolci. Era un mio piccolo difetto. Per mia fortuna Dio aveva deciso di fornirmi un metabolismo veloce, che mi permetteva di mantenere sempre un bel fisico, curvilineo ma magro. Inoltre frequentavo la palestra sotto casa mia praticamente tutti i giorni.

In tv mi soffermai su un canale dove due donne di colore se le davano di santa ragione.

Da quando avevo cominciato a frequentare gli Stati Uniti per via del lavoro mi trovavo spesso davanti programmi del genere quando accendevo il televisore. E ogni volta trovavo sempre più disgustoso il mondo e le sue stupide regole.

Un suono spaventosamente acuto.

Sobbalzai, piantandomi il cucchiaino nel palato dallo spavento.

Maledissi il campanello e chiunque l'avesse appena suonato per disturbare la mia serata tranquilla.

- Chi è? - sbottai attaccata al ricevitore del citofono, cercando di non dare a vedere lo scazzo che avevo addosso.

- Ehi ehi! - esclamò una voce di bambina che conoscevo troppo bene, e che alle volte arrivavo persino a detestare.

- Emily - dissi, rassegnata alla perdita della mia intimità e solitudine.

- Mi apri? - domandò la mia amica, ignorando -probabilmente- la nota insofferente nella mia voce.

Premetti il tastino e sentì attraverso il ricevitore lo scatto della portina del palazzo che si apriva.

In pochi minuti mi ritrovai una ragazza di media corporatura, altissima e con una bella chioma bionda davanti, tra le mani un computer portatile, e in viso un sorriso indelebile, che non scompariva mai, neppure nelle situazioni più brutte.

Emily aveva quella straordinaria capacità: sapeva sempre come aiutare gli altri a sorridere assieme a lei, non conosceva il significato della parola "tristezza" e questo la rendeva ai miei occhi una delle poche persone con cui riuscissi a rapportarmi.

Da quando ci eravamo conosciute -proprio a New York, dove lei lavorava- non avevo potuto fare a meno di rivolgerle la parola. Era proprio quel suo essere così eccentrica e fuori dal comune che me la faceva apprezzare.

Nonostante certe volte fosse inevitabile uno scontro tra noi due.

Io ero una persona assolutamente introversa, avevo bisogno del mio spazio che non poteva essere violato da nessuno, sentivo l'esigenza di restarmene da sola almeno mezza giornata, detestavo le mode e i luoghi comuni, e avevo una scarsissima fiducia nelle risorse della vita.

Lei era la felicità e la gioia di vivere personificatesi in un unico corpo, doveva assolutamente avere una migliore amica, un bravo fidanzatino, una suocera adorabile, una famigliola serena attorno. La sua vita doveva essere una favola. Vedeva il buono in ogni persona, e spesso in questo modo si cacciava nei guai. Era ingenua e aveva totale fiducia nella vita.

Ovviamente nessuno avrebbe mai pensato che io e lei potessimo andare d'accordo, con due caratteri così diversi.

E invece tutte queste differenze ci riempivano, ci completavano, ci saziavano. Dove lei era troppo ingenua, arrivavo io ad aprirle brutalmente gli occhi sulla realtà. E quando io ero troppo pessimista, ci pensava lei a scoprire anche il lato positivo delle cose alleviandomi il dolore.

Insomma, sembrava che Dio ci avesse messe sulla Terra per farci incontrare un giorno. Ci aveva progettate come un qualcosa di inscindibile. E infatti ogni volta che potevamo ci incontravamo.

Spesso era lei a raggiungermi a Londra. Era una ragazza ricca, proveniva da una famiglia di imprenditori che avevano saputo sfruttare le occasioni favorevoli della vita per arricchirsi, e aveva ereditato una gran bella somma di denaro che le avrebbe permesso di trascorrere il resto della sua vita nel lusso più sfrenato.

Ma Emily non era tipa da battere la fiacca.

Aveva preso in mano la sua vita e ne aveva fatto ciò che aveva sempre desiderato: era diventata caporedattrice del giornale per cui lavoravo, anche se della redazione newyorkese. E anche in questo modo continuava a guadagnare somme vertiginose.

Ma Emily non era la persona snob o taccagna che si potrebbe pensare. Il suo fidanzato sì, lui era a dir poco odioso. Ma lei amava aiutare gli altri e spesso versava buona parte di quei soldi per aiutare gente che in realtà non aveva nulla da patire. Non riusciva davvero a vedere il male nelle cose del mondo, la mia Emily. E qui, dunque, intervenivo io, per evitarle la bancarotta.

- Come stai, bellissima? - esclamò la mia amica.

Entrò senza fare troppe domande, non si guardò attorno, conosceva il mio habitat naturale perfettamente, gettò la giacca rossa contro l'attaccapanni, ma cadde a terra. Glielo tirai su.

- Oh, grazie. Ho una pessima mira - si scusò.

- Emily, perchè hai portato il computer? -

Non rispose, si limitò a porgermi con nonchalance il suo pc. Lo afferrai in tempo, prima che mi scivolasse a terra.

La mia amica iniziò a trafficare con la sua borsa. Si mordicchiò il labbro inferiore, indaffarata.

- Ah-ah! Eccolo! - esclamò sollevando un cavo nero, presumibilmente quello per caricare la batteria del pc.

- Non mi avevi detto che il tuo si era rotto? - proseguì poi Emily guardandomi con una strana espressione come se avesse pensato che ero sciocca a farle certe domande.

- Sì, ma a che ci serve il tuo computer? -

- Voglio farti vedere una cosa -

- Oddio, spero almeno sia bella -

- Tu non ci sei su Facebook, vero? -

- No -

- Ok -

Emily attaccò il pc al cavetto e poi attaccò quello alla presa della stanza principale in cui ci eravamo accomodate.

- Che cosa vuoi farmi vedere su Facebook? - chiesi, spezzando il silenzio.

Emily, stravaccata a terra, si volto verso di me -che stavo comodamente appollaiata sulla mia poltrona bordeaux- e mi fissò seria. Poi scoppiò a ridere, non riusciva a fingere bene.

- Ho il sospetto che Daniel mi tradisca - mi disse, asciugandosi le lacrime agli angoli degli occhi. Lacrime sospette, non sapevo se fossero effetto di quell'eccesso di risate o frutto della notizia del tradimento.

Non avevo mai visto Emily piangere e la cosa mi allarmò. Non sapevo consolarla, non sapevo aiutare le persone che piangevano. Non sapevo neppure consolare me stessa in quei casi. Cos'avrei fatto se fosse scoppiata in lacrime in quell'esatto momento?

Mi scostai un po' da lei, quasi fosse stata contaminata.

Eccola lì, la mia barriera si stava rialzando, chiunque si avvicinasse troppo al mio cuore doveva essere scacciato.

Ma vedere Emily, quella ragazza matura racchiusa nell'anima di un'eterna bambina, andare vicino al pianto, lei che sorrideva sempre, scatenò in me una certa tenerezza. Non volevo cedere ai sentimentalismi, ma non riuscivo a sopportare di vederla soffrire.

- Cosa te lo fa pensare? - domandai, rigidamente composta.

Ecco, Emily vattene, scappa, lasciami affogare nella mia acidità, nella mia cattiveria senza rimedi, vai a cercare un'altra amica che sappia dirti parole di conforto, non perdere il tuo tempo con un'anima senza cuore come la mia!

Emily si calmò. Le lacrime non scendevano, erano ferme nei suoi occhi blu scuro.

- Facebook è un'arma micidiale. Costruisce amicizie, seppure fragili, ma allo stesso tempo distrugge legami duraturi - mi anticipò, come a volermi tenere sulle spine.

Annuii. Segno che poteva proseguire con la storia.

Emily assaporò l'aria di quella stanza prendendo un grosso respiro.

Aveva acceso il computer ed era già entrata su Facebook.

Sapevo come funzionava il social network più famoso del mondo, ma non avevo mai sentito il bisogno di legarmi ad esso. Non volevo che la mia vita fosse oggetto nelle mani di sconosciuti. La mia vita mi apparteneva, e non volevo condividere un bel niente con il mondo virtuale del web. I miei spazi erano inaccessibili, come già spiegato.

- L'altro giorno ha lasciato il suo profilo aperto, dopo essere andato a lavoro. Io non volevo spiare - e qui assunse un'aria contrita, come a scusarsi con Dio per quella bugia così evidente,- ma ho visto una donna che continuava a scrivergli. E non cose innocenti - come se esistessero cose innocenti tra un uomo così stronzo e una qualche puttanella di Facebook, pensai io, - bensì apprezzamenti sulla "serata passata insieme". A quel punto mi è sorto immediato il dubbio. Daniel mi ama, lo so, ma magari potrebbe essersi stufato. Sono sette anni che stiamo insieme, di cui cinque di convivenza. Forse è il caso che io e lui ci schiariamo le idee. No? -

Sospirai, guardando Emily seria.

- Forse ho sbagliato a chiederlo proprio a te - si pentì Emily, mordendosi il labbro come quando era nervosa.

- Emily, non sono fatta di pietra -

- Eppure sembra -

Rimasi colpita dalla sua accusa, neanche troppo velata.

Ero abituata a sentirmi dire cose del genere, ma non da lei. Mai da lei.

- Scusami - si pentì subito dopo. Mi abbracciò, tirandosi su a sedere.

Non risposi.

- Emily, se ti ha davvero tradita devi mandarlo a fanculo - dissi, seria.

Non avevo mai provato una gran simpatia per quello sfrontato idiota ruffiano e viscido del suo fidanzatino, ma ora più che mai provai la voglia di prenderlo a pugni.

Nessun uomo poteva cavarsela dopo aver tradito, questo pensavo. Non c'erano scusanti, neppure quella dell'acol.

Emily sembrò indecisa se schierarsi al mio fianco o meno.

- Vuoi passare per la cornuta tutta la vita? - sbottai, incredula che potesse starsene lì ancora indecisa sul da farsi.

Le strappai il computer dalle mani. Eravamo sul profilo di Daniel.

Aprii la cartella dei messaggi e individuai subito quello di cui mi aveva parlato la mia amica.

Lo lessi attentamente.

- Devo proprio dire cosa ne penso? - soffiai, desolata per la mia amica.

Lei mi guardò, gli occhi acquosi per il pianto che stava per arrivare.

Annuì.

- E' ovvio che Daniel ti ha tradita. "Sei fantastico, sia sotto che sopra", "vorrei rivivere i momenti speciali della scorsa sera" o "non riesco ancora a credere alla fortuna che ho avuto incontrando proprio te" ti sembrano frasi innocenti? Io direi che qui abbiamo la prova lampante del tradimento -

Emily annuì, di nuovo. Silenzio.

Uscii dalla cartella dei messaggi, nauseata e disgustata da quei messaggi e da quello che ci stava dietro.

Emily guardò il pavimento con aria sconfitta.

Sospirò.

- Cosa sta succedendo? -

Provai una fitta di nostalgia, pensando che qualcuno avrebbe potuto darci una risposta, ma quel qualcuno era troppo lontano, kilometri e kilometri di distanze impercorribili tra noi.

- Vorrei sapere davvero cosa fare -

- Devi lasciarlo. Devi andare avanti -

- Lo amo -

- Lo ami e lo amerai ancora, ma non durerà in eterno -

- Lo dici perchè non l'hai mai provato -

- Lo dico perchè siamo bestie, e le bestie sono fatte per variare, cercare sempre nuovi compagni e mai restare fissi con uno soltanto. Ti basti vedere quello stronzo del tuo fidanzato -

Emily tirò su col naso.

Ti prego, Dio, fa che non pianga.

Passarono alcuni minuti di completo silenzio. Solo la mia tv andava avanti a riempire il vuoto della nostra conversazione.

- Vuoi che spenga...? - domandai indicando l'apparecchio vecchio e impolverato.

Emily fece segno di no con la testa, scuotendo i suoi bei capelli lunghi e setosi.

Il computer proiettava una luce innaturale sul mio viso.

- Posso andare un attimo in bagno? - si riprese dopo un po' la mia amica.

Si alzò in piedi.

- Certo, ma promettimi di non farti ritrovare morta suicida sul tappetino -

Sorrise, divertita, anche se io non ero affatto ironica.

La sentii chiudersi la porta alle spalle.

Feci scorrere il dito indice sulla testiera del pc che fungeva da mouse, per chiudere la pagina di Facebook.

Ma i miei occhi furono attirati da una scritta.

Muse in concerto.

Era un'inserzione a lato della pagina di Facebook, una semplice pubblicità.

Sotto, la manina col pollice alzato indicava quanti amici di Daniel avevano "messo mi piace" a quell annuncio.

Erano parecchi, e io pensai con disprezzo a tutti quanti adoravano quel gruppetto rock e non avrebbero mai avuto la possibilità di conoscerli mentre io, completa sconosciuta al mondo della musica, avevo addirittura attirato l'attenzione del cantante.

Io che ero un'asociale, lo scarto di una gioventù uccisa, io avevo avuto fortuna per un certo verso.

Me ne rendevo conto solo in quell'istante, guardando quella manina col pollice alzato, guardando quel numero di "mi piace", guardando quella pubblicità insignificante per alcuni e sensazionale per altri, leggendo quel nome, corto, d'impatto, Muse.

Cliccai sul simbolo della home page di internet e scrissi in tutta fretta sulla barra della ricerca "Muse".

Mi trovò un sacco di fan page, articoli di giornali, siti di ascolti musicali gratuiti. Io aprii la pagina dove elencava i video su youtube.

Ce n'erano un sacco tra cui scegliere.

Ne aprii uno, Supermassive Black Hole, la canzone che aveva citato Mike.

E subito mi tornò in mente una giornata di fine estate, calda, afosa, noiosa. Subito un ricordo mi balenò in testa, mi scosse, mi riportò alla realtà, e vidi quei ragazzi che giocavano sotto il sole, vidi quel sole così luminoso come non lo vedevo da anni, vidi quella ragazzina impacciata che camminava con le mani unite dietro la schiena, vidi quelle coppiette scambiarsi baci all'ombra di quegli alberi maestosi.

Cambiai video. Plug In Baby. Un'altra canzone, questa volta però l'effetto fu diverso. Mi scosse, questa, mi trasmise energia pura, che scorreva nel mio corpo come una scarica elettrica. Mi venne la pelle d'oca. Quella voce era diversa, quella musica era diversa. Era la vera musica. Sembrava fatta apposta per curare quel male interiore che esisteva in me da troppo tempo, radicato nelle mie viscere, restio ad abbandonarmi.

Eppure eccole quelle note, quel basso prepotente che s'insinuava tra i suoni acuti della chitarra per confermare la sua presenza, per dire che anche lui esisteva, per scuotere l'anima, ed eccola quella voce sensuale, calma, profonda, e poi lieve e dolce, eccole quelle parole senza destinatari, eccola quell'emozione che si stacca dagli strumenti e s'infila tra le pareti del cuore, eccoli quei tre uomini così fuori posto nel mondo della realtà ma così perfettamente inseriti nel mondo della musica, dell'irreale, della poesia.

La canzone terminò, e mi parve di risvegliarmi da un sogno. Oppure da una maledizione.

Come poteva una cosa incorporea come la musica distruggere le mie barriere e indurmi a provare certi sentimenti offuscati, certe nebbie piene di ricordi nella testa.

- Roxy, che stai facendo? -

Mi voltai, di scatto, come se fossi stata colta sul luogo del delitto.

Forse era così. Era il delitto, quello. L'uccisione della mia anima.

Emily si sedette al mio fianco, nello spazio stretto della poltrona.

- Che cos'è questa musica? -

Mi domandai come potesse chiamarla semplice "musica" quando a me era parsa la cosa più bella del mondo.

- Muse, Plug In Baby. Da quando ti interessi di rock? - mi chiese, curiosa.

- Da mai. Ho sbagliato video - scacciai via ogni emozione o verità.

Emily annuì, ma non sembrava convinta.

- Hai una faccia strana - m'informò.

Sbuffai, alzandomi e riponendo la mia scatola di gelato nel frigorifero.

- Ti va di andare a prenderci una cioccolata calda al bar? - proposi, scossa.

 

Bury it

I won't let you bury it

I won't let you smother it

I won't let you murder it

And our time is running out

 

Tornai a Londra, e con me tornò anche il maltempo, fu così gentile da informarmi una mia collega con cui avevo avuto da ridire molto tempo prima. A quanto pare, lei non aveva dimenticato e ancora adesso amava punzecchiarmi.

Presi posto al mio computer con la solita energia fredda e distaccata.

Nessuno mi domandò com'era andata la trasferta a New York. Nessuno tranne la mia redattrice, Amanda, che si complimentò per il lavoro svolto, senza sapere che in realtà il più dello sforzo l'aveva fatto il giornalista da cui io e Mike avevamo comprato le informazioni.

Lavoro sporco? Eccoci!

Mike era molto soddisfatto, però, del meeting con la Meyer.

Aveva considerato seriamente l'ipotesi di diventare eterosessuale anche solo per una mezz'oretta in un bagno con lei.

E io avevo detto che, perlomeno, avrebbe potuto sbandierare con orgoglio la cosa davanti a tutti i colleghi che ancora lo discriminavano per i suoi gusti sessuali.

Mike ci aveva riso sopra, ma da quel momento avevo pensato che forse non era stato poi così ironico a proposito di quanto gli piacesse la Meyer.

Ma avevo deciso di non pensarci. Non erano problemi miei.

Al meeting, comunque, avevamo incrociato anche il lupo, Taylor Lautner, e per me era stata una totale tortura.

Mike me l'aveva fatto presentare a tutti i costi e lui non mi si era più scollato di dosso per tutta la durata del pomeriggio.

Era un insaziabile romanticone, come mi aveva detto lui stesso.

E a quel punto io gli avevo detto che l'amore faceva schifo, a mio parere.

Sembrava aver mollato un po' la presa, verso fine giornata.

- Ehi, Roxanne, come siamo meravigliose oggi! - mi omaggiò di questo stupido complimento il mio vicino di scrivania, Omar Lenkayn, uomo sui trenta anni, robusto, faccia da bellimbusto e origini tedesche mai confermate.

Odiavo quel suo modo di rivolgersi alle donne parlando al plurale. E lui lo sapeva bene.

Finsi di non fingere con lui.

- Grazie - dissi, e un iceberg sembrò poter essere meno gelido della mia risposta.

- Senti... questa sera... -

- Ho da fare -

- No, no, si tratta di Christine, vuole organizzare un aperitivo tutti insieme, al pub di suo fratello -

- Allora aspetterò che sia lei a invitarmi -

Con questo il discorso era concluso.

Omar si allontanò, incassando la sconfitta con l'amaro in bocca.

- Sei favolosa - mi disse una voce.

Non fui affatto spaventata da quell'affermazione così improvvisa, soltanto un po' incuriosita.

Mi voltai.

Alle mie spalle stava una donna dai corti capelli sfumati di blu, una camicetta dello stesso colore aperta su una t-shirt con la stampa di un uomo -non riuscii a capire di chi si trattasse-.

Mi sorrideva, era evidente, in adorazione. Sembrava non aver mai visto prima una sua simile.

- Perchè? - domandai.

- Mi è piaciuto troppo come hai risposto a quel tizio - spiegò.

Ah, ok, ecco spiegato il mistero.

Era nuova, quella donna, se rimaneva ancora così sorpresa delle mie mosse anti uomo.

- Ti ho osservata tutta la mattinata. Sei una ragazza strana -

- Una donna, se permetti - la corressi scortese.

- Ops, scusa. Sembri così giovane! -

E in effetti lo ero, ma detestavo sentirmelo dire.

- Fa niente - dissi.

La tizia rimase lì alle mie spalle, lo capivo dal suo fischiettare allegro.

- Allora? Che ci fai qui? Aspetti qualcuno? - le chiesi, moderando un po' il tono.

Lei annuì vigorosamente.

- Aspetto il capo della baracca - disse, indicando con un dito il soffitto dell'enorme ufficio in cui lavoravo.

- E da quanto la aspetti? - dissi, marcando il fatto che il suddetto capo fosse in realtà una lei.

- Da circa... tre orette buone - fece la tipa, senza scomporsi e senza perdere la sua aria allegra.

Schioccò le dita e io rabbrividii a quel suono secco.

- Scusa, ti da fastidio? -

- Molto -

- Scusa -

Di nuovo silenzio.

Almeno poteva togliersi dalle scatole, pensai con nervosismo crescente.

E invece restava lì in piedi dietro di me, spiando i miei appunti e i miei articoli migliori incollati alla parete di fronte alla mia scrivania.

- Da quanto tempo lavori qui? -

- Due anni -

- Pensavo di più -

Silenzio.

- Hai un'aria esperta -

Non aveva senso quello che stava cercando di dirmi.

- Si guadagna bene, qui? -

- Aspetta di essere assunta e lo scoprirai -

- Se sarò assunta - mi corresse, ridacchiando.

Autoironica, pure.

- Non credo che la capa mi apprezzerà con questi capelli blu - confessò.

Era la stessa cosa che avevo pensato io, ma evitai di dirglielo.

- Quanti anni hai? - mi chiese.

- Non si chiede mai a una donna l'età, non lo sai? -

- Io ne ho ventotto. Ora che te l'ho detto, tu puoi fare altrettanto, no? -

- Ventisette. Contenta? -

- Che? Sei più giovane di me? Allora non sei poi così tanto donna come credi! -

La fulminai con uno sguardo.

- Ok, scusa. Sei un po' permalosa, a quanto pare -

- No, sono solo una persona seria che sta facendo il suo lavoro -

- E io ti sto rompendo le palle, suppongo -

Tacqui. Non volevo dirglielo così sfacciatamente, ma mi stava costringendo.

Mi voltai di nuovo.

- E' questo che vuoi sentirti dire? -

Lei sorrise.

- Piacere, mi chiamo Marie - si presentò porgendomi la mano.

- Roxanne - replicai.

- Sono francese, sai? - mi informò.

- Wow, che notizia fondamentale per il buon riuscimento del mio lavoro! -

- Sì, lo so, parlo troppo, e talvolta anche in modo noioso, ma non riesco a frenarmi. Poi tu mi stai simpatica, a prima vista -

Fidati, cambierai idea cento volte.

- Comunque sono venuta a Londra per tentare la fortuna, ma a quanto pare mi sfugge - continuò.

Si sedette sulla mia scrivania.

La incenerii con la sola forza dello sguardo.

- Immagino che per andare d'accordo dovremo fare un po' di pratica, vero? - scherzò.

Non sembrava prendersela per i miei atteggiamenti freddi e cattivelli.

Strano, di solito apparivo antipatica a tutti in quel modo.

Ma volevo davvero apparire antipatica a tutti?

Si rialzò e si piegò sulle ginocchia, abbassandosi al mio livello di altezza.

- E tu? Sei di queste parti? -

- Sì -

- Non sembri inglese -

- Neanche tu sembri francese -

E non era vero, lo dicevo soltanto perchè mi dava sui nervi che una ragazzetta quasi mia coetanea riuscisse a farmi passare per la stupida della situazione. Perchè mi sentivo stupida, davvero.

Inoltre stava per levare il velo della mia identità, e questo non poteva succedere.

- Sembri più una di quelle bellezze mediterranee. Basti guardare i tuoi capelli, e i tuoi lineamenti. Ci credo che hai così tanto successo con questi omaccioni! - e rise divertita.

La squadrai indagatrice.

Lei era una ragazza del tutto anonima nel complesso, con grandi occhi castano chiaro e un bel nasino all'insù, alla francese appunto. Sembrava una di quelle groupies che popolavano i concerti rock e che andavano con tutti i più grandi musicisti. Una groupie, ecco come l'avrei descritta. Anche quei mille piercing che portava infilati sul viso e sui lobi dell'orecchie la facevano somigliare a una sballata, a una rocker, a una trasgressiva stufa di tutto e di tutti, una di quelle che si ubriaca una sera sì e una no, per provare l'ebrezza di condurre una vita spericolata, senza limiti, senza regole.

Chissà se era davvero così, la sua vita.

- Io e te siamo completamente diverse - mi fece notare. Non che non ci fossi già arrivata da sola.

- Tu sei bella, davvero. Dio ha voluto darci un'immagine della perfezione, creandoti - mi disse.

Era diverso dai complimenti che ricevevo di solito.

Era serio, curioso.

- Grazie - mi limitai.

- No, sul serio, mi piace questo tuo stile -

Aggrottai le sopracciglia.

- Quale stile? -

- Beh, sembreresti una perfetta ragazza normale, di buona famiglia, così. Eppure poi sei freddissima, come il ghiaccio, e calcolatrice, e seria, e severa. Eppure guardandoti sei di una bellezza incomparabile, quindi induci le persone a parlarti, ma dopo che ti han parlato vien loro voglia di picchiarti. E' strano. Penso che se ora io mi allontanassi da qua, dimenticherei di colpo tutta la cattiveria che infondi nelle tue risposte e mi verrebbe subito voglia di parlare di nuovo con te. Ma appena ricomincerei a parlarti, mi salirebbe di nuovo la voglia irrefrenabile di darti uno schiaffo e farti abbassare la cresta -

Mi sorrise, sincera.

- Il tuo aspetto non si addice a ciò che sei dentro. E viceversa - sintetizzò.

- Lo so - risposi.

E sorrisi. Per la prima volta sorrisi divertita.

Marie lo prese come un segno positivo, perchè s'installò stabilmente alla mia scrivania per il resto della mattinata.

 

Scoprii pian piano parecchie cose di quella ragazza e del suo universo.

Era una musicista. E questo spiegava molte cose.

Prima di tutte, la mia inesplicabile attrazione verso di lei.

Mi affascinavano i suoi racconti sulla sua gavetta da musicista, sulla sua madrepatria abbandonata anni fa per inseguire i suoi sogni e sulla sua rock band.

All'inizio erano nati come cover band di gruppi quali Green Day, Blink 182, Offspring -che io ovviamente non conoscevo-.

Ma poi avevano trovato l'ispirazione giusta e la loro si era trasformata in una vera band, che si era afferamata a forza di concerti e piccole partecipazioni ad eventi musicali.

Marie veniva dal sud della Francia, Bordeaux più precisamente.

Diceva che quella era la città che l'aveva indotta a cambiare vita, ma non mi aveva spiegato il perchè.

Io sapevo solo che mi piaceva il suo modo di parlare del mondo.

Sembrava che si fosse fatta un'idea precisa di tutto per non arrivare impreparata davanti alla vita, ma avesse voglia di cambiare opinione, posizione. Sembrava che avesse bisogno di sette vite per fare tutto ciò che sognava.

Prima di ogni cosa, sfondare con la sua band.

Si erano chiamati Smash, e quando le avevo chiesto il perchè, aveva detto che era un nome "cazzuto".

Non c'era un reale motivo per il quale lei compiva qualcosa: se un'idea le saltava in mente, l'attuava, senza come e perchè.

Era una specie di segugio da divertimento, era costantemente sulle tracce del festeggiamento e dello sballo.

Proprio come avevo immaginato io vedendola la prima volta.

E così passarono i giorni londinesi, sotto una neve che si faceva sempre più fitta e abbondante.

E proprio quella neve accompagnava il rafforzarsi del legame tra me e Marie.

La sua domanda per il giornale era stata respinta, così l'avevo aiutata a trovare un posto come barista in un pub piuttosto malconcio e squallido, alla periferia della metropoli.

Lei, però, si diceva entusiasta di quell'ambiente.

Mi aveva confessato di aver trovato parecchi spunti musicali in quel pub fetiscente, frequentato da rocker consumati dalle droghe e puttanelle senza una lira in cerca di fortuna.

Non volevo immaginare quali fossero questi spunti artistici.

Le mie giornate scorrevano meno monotone, ora che l'avevo conosciuta.

Marie era entrata nella mia sfera di "amicizie molto libere", nel senso che io conservavo comunque quel mio margine di libertà da tutto e da tutti, ma lei lo accettava con condiscenza.

Non si opponeva se decidevo di mandarla a quel paese perchè ero troppo nervosa. Sapeva che non pensavo davvero nulla di male su di lei.

Mi aveva eletta suo modello di vita, e il bello di tutto questo era che non avevo la più pallida idea del perchè.

Diceva di me un sacco di cose che io ritenevo stronzate, come per esempio che io ero il prototipo di fidanzata perfetta: bella, stronza e con un certo carisma da mandare in tilt qualunque uomo.

Io non la pensavo allo stesso modo. Credo che se un uomo avesse provato a fidanzarsi con me, sarebbe impazzito dopo mezz'ora e mi avrebbe fatta fuori buttandomi giù dal mio appartamento all'ottavo piano della palazzina in centro Londra.

Ma lei restava fissa sulle sue idee, e continuava a dirmi che sarei andata d'accordo con i suoi amici, che dovevo conoscerli e che se avessi saputo impugnare correttamente una chitarra, avrebbe fatto di me una musicista, perchè avevo l'indole adatta.

Ci piaceva sognarci l'una nella vita dell'altra, lontane dalle maschere di cui ci eravamo appropriate a Londra.

Se non ci fosse stata Marie probabilmente non ci sarebbe neppure stata la mia vita.

Ma questo io ancora non potevo immaginarlo.

Ero al telefono con Emily.

La mia Emily che aveva smesso i panni della ragazzina tenera e ingenua per entrare definitivamente nel mondo corruttibile e malsano degli adulti. E aveva mollato Daniel, con tanto di calcio nei coglioni.

-... sono super attiva, lavoro notte e giorno e presto farò il grande passo - mi stava raccontando, una nota di eccitazione nella vocetta acuta.

Ero felice per lei, nonostante il mio cuore di pietra.

- Quale passo? -

- Ho intenzione di mollare tutto e trasferirmi a Londra -

Fu un colpo al cuore. Già, il mio cuore di pietra si crepò.

- Che cosa? Tu sei pazza - commentai.

Non riuscivo a capire se ero felice per la notizia di avere la mia amica tutta per me quaggiù in Europa o se ero amareggiata perchè pregustavo già il disfacimento della sua vita e delle sue certezze e del suo successo. Esattamente com'era successo a me.

- Sì, qua tirano brutti tempi per me. Daniel è onnipresente nella mia routine, ho bisogno di staccare -

Eravamo donne alla ricerca di libertà inesistenti, ecco cos'eravamo. Sognavamo che il mondo altrove fosse diverso, che ci desse le possibilità che qui non ci dava. Eppure ci sbagliavamo di grosso, perchè i tempi duri sono ovunque, ci rincorrono finchè non ci ripescano nell'infinità di mondi in cui siamo andati a ficcarci, ci torturano, perseguitano, non possiamo sfuggire alla morsa dell'infelicità. Ci illudiamo fino alla fine di potercela fare, ma sbagliamo di grosso le nostre previsioni.

E io stessa ero stata come Emily, forse solo un po' più inasprita dal passato. Forse ero stata immersa nell'amarezza del mondo molto prima di lei. Ma questo non cambiava che entrambe stessimo gettando via le nostre radici per cambiare qualcosa del nostro mondo interiore. E anche Marie era come noi. Anche lei una sfollata, una ragazza portata via dalle sue origini da un soffio di vento. E il passato è solo più un miscuglio di colori e suoni indistinti ai nostri sensi.

 

Le stradine di campagna erano assolate e secche, e le ruote delle biciclette raschiavano sul ciottolato, rischiando di sbalzarci dai sellini a ogni curva o discesa.

Gli alberi erano belli più che mai in quel periodo dell'anno, ma quel giorno il mio albero preferito era stato occupato.

Guardai con circospezione attorno a me.

I miei occhi non si erano sbagliati: erano Sandro e Michela.

Mi nascosi dietro un cespuglio, per spiarli.

Sandro era bello come sempre nei miei sogni. La sua mano correva spesso ai suoi capelli, per spettinarseli con fare sensuale.

Lo faceva sempre anche davanti a me.

E Michela pareva assorta, in pace con se stessa di fronte a tutta quella bellezza.

Come darle torto, d'altronde?

Ma mi riscossi.

Perchè diavolo se ne stavano appollaiati a cavalcioni sui rami del mio albero preferito, insieme perlopiù?

Sbucai fuori dal cespuglio e diedi in una finta tosse per attirare la loro attenzione.

Sandro scese con un balzo agile e atterrò a un metro circa di distanza da me.

- Ehi, Italia, tutto bene? - chiese, sinceramente preoccupato per la mia tosse.

Annuii, sentendomi avvampare.

Michela mi sorrise timidamente, alle spalle di Sandro. E quel sorriso mi fece vergognare.

Mi si fece più vicina e mi tese una mano.

- Bisogno d'aiuto? - chiese.

Un bel no secco, ecco, e poi scappa. Fu questo che pensai, subito.

Ma la mia mano reagì d'istinto, e afferrata quella di Michela, mi lasciai tirare su come un peso morto.

- Che ci facevi nel cespuglio? - mi chiese Michela ridacchiando intenerita.

- Catturavo lucertole - inventai.

Che stupida scusa, pensai subito dopo.

Michela aggrottò la fronte, non condividendo l'emozione per quell'attività, ma Sandro rise.

- La femminilità non è il tuo forte, vero? - scherzò.

Sorrisi.

Quanto avrei voluto essere femminile anche solo la metà di quanto lo era Michela.

- Senti, Italia, noi andremmo a casa. Sei sola? - tagliò corto Sandro dopo un attimo di silenzio.

- No, gli altri sono al pozzo -

- Vuoi che ti accompagniamo? - aggiunse Michela.

No, nessuno doveva accompagnarmi.

- No, vado da sola - dissi.

Ci sarebbero state altre occasioni per parlare con Sandro, per guardarlo passarsi la mano tra i capelli neri ricci, per osservarlo ridere di gusto, magari ad una mia battuta particolarmente azzeccata...

Michela si diede in un abbraccio rapido e sincero, che fece tremare la mia anima di sensi di colpa repressi e rimorsi.

- Salutami tua madre - mi sussurrò.

Michela piaceva molto a mia mamma, e viceversa. Si sentivano legate da un destino avverso, quello di aver entrambe perso i rispettivi padri in terribili incidenti.

Mi incamminai dalla perte opposta a quella che presero gli altri due.

Recuperai la mia bici rossa e sfrecciai verso il pozzo, deserto. Gli altri se n'erano andati.

La bicicletta accelerò sotto la mia pressione e in breve fui a casa.

La porta era aperta e mia mamma se ne stava fuori a stendere il telo mare che avevamo usato nel week end.

- Mamma, ti saluta Michela -

- Fai silenzio, tuo papà sta parlando con un collega in cucina -

Finsi di cucirmi la bocca e corsi in casa, nella mia stanza. Accesi il computer, e dopo un'intera giornata all'insegna del divertimento all'aria aperta, mi precipitai in quell'universo virtuale che mi teneva aggiornata su cosa succedeva fuori dal mio piccolo mondo perfetto.

   
 
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