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Autore: Keiko    15/12/2011    3 recensioni
"Le principesse sono tutte felici, mamma?”
“Diventano sempre felici quando trovano il loro principe. Prima sono persone un po’ tristi, a cui manca qualcosa.”
“Come fai a sapere che sei triste, mamma?”
“Quando ti senti male qui – e le aveva indicato il petto, all’altezza del cuore, posandovi un bacio delicato – e hai solo voglia di piangere.”
“E tu mamma sei stata triste?”
“Prima di conoscere tuo padre molte volte, Violet.”
“Io non ho un principe, ma non sono triste. Papà è un principe?”
“Sì, lo è. Sei ancora una bambina, quando crescerai capirai cos’è un principe.”
“Lo so anche adesso cos’è!”
“Ma non ne hai bisogno, ancora.”
Aveva sette anni e mezzo, Violet, quando le avevano raccontato la bugia più grande del mondo.
[Tate Langdon/Violet Harmon]
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Tate, Langdon, Violet, Harmon, Violet, Harmon
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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A Sweet Revenge © [15/12/2011]
Disclaimer: Tutti i personaggi di American Horror Story appartengono ai produttori e agli sceneggiatori, alla casa di produzione e ai distributori internazionali che detengono i diritti sull'opera. Questa storia è stata redatta per mero diletto personale e per quello di chi vorrà leggerla, ma non ha alcun fine lucrativo, né tenta di stravolgere in alcun modo il profilo dei caratteri noti.
Nessun copyright si ritiene leso.


Note dell'autrice.
La storia narra di ipotetici avvenimenti dopo l'episodio 08 della prima serie.

 “You learn to love the pain you feel”
(“Queer”, Garbage)



 
“L’ha fatto per Norah. Per darle il figlio che ha perso quando abitava qui. Ci stiamo chiedendo tutti chi sia stato lo schizzato che gliel’ha riportato a pezzetti, lo sai?”
Hayden sussurrò all’orecchio di Violet la verità scomoda – e inaccettabile – su Tate. Se non poteva essere felice lei, se non poteva avere suo figlio, perché dare agli altri abitanti della casa la possibilità di trovare un po’ di pace?
“Mi stai raccontando un sacco di stronzate,” le rispose la ragazzina senza guardarla negli occhi, il cappello calato sulla nuca e lo sguardo fisso sulle proprie dita dalle unghie mangiate, posate mollemente sulle ginocchia nude, abbandonate già ad una resa emotiva evidente.
“Non ci vuoi credere perché sei innamorata e stupida. Anch’io lo ero e sono finita nel tuo cazzo di giardino con mio figlio, tre metri sotto terra. Anzi, tuo fratello. Ne avresti potuti avere tre e dovrai accontentarti di essere figlia unica. Meglio così, i fratelli sono una noia mortale e una gran rottura di palle.”
“Vattene via.”
“La magia di Tate non funziona con me. Se voglio restare, lo faccio. Cosa fa più male? Sapere che si è scopato tua madre o che l’ha fatto per un’altra donna?” le chiese la giovane scandendo le parole in una cantilena da filastrocca.
“Vattene ti ho detto.”
La voce di Violet suonava priva di inflessione, totalmente atona. Hayden sorrise, di quel sorriso sghembo e malevolo che Moira aveva iniziato ad odiare sin dal primo momento in cui la ragazza si era insidiata all’interno della casa come se ne fosse la padrona incontrastata.
“Perché non chiedi a Tate di raccontarti tutta la verità? Ti ama così tanto che ti dedica poesie sugli uccelli scritte da un tizio che si chiama Koonz (*), o qualcosa del genere…”
“Keats,” la corresse Violet senza enfasi, per poi sollevarsi dal letto dirigendosi a passo spedito verso la porta della propria stanza.
“È nello scantinato, se lo cerchi.”
“Muori, stronza.”
“Già fatto, troietta.”
La risata di Hayden risuonò fastidiosa per Violet come l’eco lontana di quello scherno di cui era stata vittima negli anni, scuola dopo scuola, prima per il modo in cui vestiva, poi per come si muoveva o per come parlava,  a causa di quell’accento che non sapeva di nessuna città in particolare e che ne racchiudeva almeno cinque tutte insieme. A quel sottofondo mostruoso si aggiunsero anche le reminiscenze di quelle poche parole: l’ha fatto per Norah.
Perché doveva averlo fatto proprio per quella donna? Norah avrebbe potuto avere Tate in modo diverso dal suo, totale e perfetto come doveva essere l’amore nel suo immaginario. Il primo, almeno. Non appartenevano a due mondi che si scontravano e che precludevano l’uno l’esistenza dell’altro, senza riuscire mai a sfiorarsi davvero, ma erano due creature appartenenti alla stessa dimensione, e dunque complementari. Come erano riusciti a fare l’amore? Bella domanda. In quella casa accadevano cose talmente assurde che le domande avrebbe dovuto smettere di porsele da un pezzo. Sentiva le lacrime annebbiarle la vista, i singhiozzi scuoterle con forza il petto mentre scendeva di corsa le scale di casa puntando dritta verso l’esterno, l’aria pulita di quel fottuto quartiere residenziale e l’oceano poco lontano. Sarebbe andata lì dopo aver chiesto a Constance di trovare il modo per farla finita con quella cazzo di casa, con Tate e con tutte le cose assurde che si trovavano lì dentro.
L’avrebbe fatta finita una volta per tutte, e in quel momento il dolore era così grande che della verità di Tate non le importava nulla.
 
 
Andare a cercare aiuto da Constance, dove un tempo abitava anche Addiefu una pessima idea. Violet se ne rese conto nell'esatto istante in cui, varcata la soglia della vicina, la donna le apparve dinnanzi  all'improvviso, facendola sussultare. Era come se Constance fosse in grado di spostarsi senza fare il minimo rumore, dotata di qualche potere che le permetteva di attraversare pareti e corridoi passando del tutto inosservata.
Forse qualche potere del cazzo ce l’ha davvero se riesce a vedere suo figlio morto, no?
“Problemi, Violet? Ti vedo scossa. Non avrai litigato con Tate, vero? Avevi promesso...”
“Le vostre sono tutte stronzate. Voglio un modo per chiudere la storia con quella casa del cazzo. Ne arrivano continuamente di nuovi, okay? Cazzo, mi sento una schizzata, una fuori di testa...”
Le mani le tremavano mentre le dita si allungavano alla ricerca dell’accendino con cui dare vita alla propria sigaretta e inspirare un po' di fumo che le donasse una calma temporanea, una tregua dalla vita e dal dolore. La nicotina aveva il dono di distenderti i muscoli, renderti la testa più leggera e darti l'illusione di avere la risposta ad ogni problema. Stringi tra le labbra un filtro morbido dal sapore amaro come quello della vita, eppure sei convinto che ti renda diverso davanti al resto del mondo, più forte e sicuro di te. Violet ne aveva sempre avuto la prova: in ogni corridoio in cui era passata era riuscita a camminare a testa alta solo inspirando il fumo delle sue Lucky Strike. Delle storie sul cancro non gliene fregava molto: sarebbe morta comunque, prima o poi.
“Addie... quella tua amica veggente, ci ha parlato con lei?
Constance l'aveva fissata con quel suo sguardo liquido, carico di lacrime: a Violet ricordava quello di una vacca al macello. Detestabile.
“Perché?”
“Voglio chiederle di Tate. Perché Tate è qui ed Addie no? Cosa c'è di diverso in loro?”
“Nulla. Nulla che ti riguardi. Mi hai giurato di stargli accanto, e lo farai sino alla fine dei tuoi giorni.”
Dunque molto, molto presto.
“Perché Tate non è mai a casa tua, ma sempre da me?”
“Non sono cose che ti riguardano, ragazzina. Mettitelo in testa una volta per tutte: è la casa a richiamare a sé le persone, non il contrario. Non puoi decidere di andartene di tua spontanea volontà. Le appartieni.”
“Anche da morta?”
Constance le aveva offerto un sorriso sghembo, stringendosi nello scialle di lana.
“Vorresti morire? Così da poter restare con Tate per l’eternità? Davvero commovente, Giulietta.”
“Tate sta male.”
Dei bambini, di chi fosse il vero padre dei gemelli, non ne avrebbe fatto parola. Si sarebbe portata tutto nella tomba.
“Tate è solo un adolescente con tanti problemi. Siete soliti crearvene anche quando non esistono, o sbaglio?”
La sigaretta che la donna si era accesa tremava tra le sue labbra sottili, mentre tentava di mantenere una calma che non le apparteneva. Violet era una ragazzina pericolosa e sapeva troppo ma intravedeva qualcosa, nel modo in cui si disinteressava del mondo che la circondava, che le ricordava Tate. Per quel motivo si era innamorato di lei? La casa aveva il potere di ammaliarli e sedurli, di rendere i sogni tangibili come carne, di rendere gli spiriti forti e visibili e annientare le barriere che separano il mondo dei vivi da quello dei morti.
Tate e Violet erano così simili da atterrirla. Suo figlio era cambiato: provava odio e rabbia e frustrazione. La figlia degli Harmon, per di più, rischiava di rendere Tate consapevole della propria morte. Della sua famiglia cosa sarebbe rimasto? A quel pensiero, Constance emise un sibilo sottile, simile al richiamo di un gufo, spezzando il silenzio che era calato tra lei e la ragazzina.
“Non rovinerai la mia famiglia. Hai promesso di restare accanto a Tate, ricordi?”
“È morto. Tate è morto!”
Constance le serrò la mano sul braccio, facendo forza. Violet ingoiò un gemito di dolore, senza abbassare lo sguardo da quello della donna: erano tutti fuori di testa.
“Lasciami andare, stronza! Se non sei riuscita a salvarlo tu, tuo figlio, perché dovrei farlo io al tuo posto?”
La donna l’aveva fissata sorpresa emettendo una risata stridula, mentre Violet correva di nuovo all’aria aperta, lontana da casa e dall’inferno.
“Violet!”
La voce di Tate, inconfondibile, la raggiunse. Non doveva rovinare tutto, non in quel momento, non quando lei aveva deciso che sarebbe morta lontana da tutto prima che qualcosa la bloccasse per l’eternità in quella casa maledetta. Non si voltò a guardarlo, iniziò solo a correre più veloce che poteva, imboccando la statale e poi giù, in direzione della spiaggia.
Non voleva morire, ma quali alternative le restavano?
Vai via. Sparisci per sempre, Tate.
 
 
“Era l’unica che poteva salvarci e tu sei stata la solita stronza.”
“Andiamo, fai mangiare cervella e carne umana a Vivien, chi sarebbe la stronza?”
“Lo faccio per il suo bene e per quello dei bambini,” le rispose la governante interrompendo la pulizia del lavandino, alzando finalmente lo sguardo sulla donna.
“Ti credi migliore della signora solo perché sei giovane, Hayden? Lei è buona, è capace… lei può capirci.”
“Oh, certo Moira! Può capirci come la tua Constance? Siamo fottuti, relegati per sempre in questo cazzo di limbo e tu dici che Vivien può capirci? Non me ne faccio un cazzo della pietà di una donna viva con due figli in grembo, quando io ho perso il mio, la mia vita e l’uomo che amavo!”
Hayden si era staccata dallo stipite della porta, le braccia incrociate al petto, un sorriso crudele a solcarle il viso pulito.
“Lo sai? Ti preferisco nell’altra versione… quando esce? Devo ancora vederla in piena azione, mi incuriosisce.”
“Va’ all’inferno.”
“Se non l’hai capito, ci siamo già, cara.”
“Perché lei hai detto che quel piccolo pazzo è il padre dei gemelli?”
“Che diritto hanno di essere felici? Sono patetici, Moira…”
“Sei solo invidiosa.”
“Tu non lo sei, invece?”
“No, io vorrei solo poter morire in pace. Non chiedo molto.”
Solo la pace e poter riabbracciare mia madre, senza vivere ogni giorno lo stesso teatrino degli orrori, ogni sera la solita pantomima dell’uomo traditore e della donna disposta a perdonare. Quando si spezzerà questo giogo?
La porta di casa aveva sbattuto con forza, interrompendo la loro conversazione. Moira non aveva distolto lo sguardo dal volto della giovane che aveva emesso un fischio acuto, come a volersi prendere gioco della vecchia.
“Tate è preoccupato” si lasciò sfuggire con una finta aria preoccupata ad accompagnare le proprie parole di scherno.
“Cosa gli hai detto?”
“Che Violet ha scoperto tutto.”
“Finirà male, andrà tutto a rotoli e per colpa tua. Perché ti hanno seppellita accanto a me? Perché?”
“Siamo puttane allo stesso modo, ecco perché. Le fedifraghe non meritano nemmeno una degna sepoltura, e sai una cosa, Moira? Preferisco perseguitare Ben sino alla sua morte, piuttosto che essere in qualche paradiso del cazzo. Anzi, sono convinta che il paradiso nemmeno esista.”
 
 
Correre e ingoiare smog e polvere. Correre più forte che poteva, ordinando alle gambe di non cedere e non lasciarla cadere. Correre lontana dagli incubi e dall’orrore, da un amore che non aveva futuro, da un ragazzo troppo sbagliato, da una vita crudele e ingiusta che le aveva fatto perdere la testa per qualcosa che non esisteva più da tempo. Da anni. Tate doveva già essere un adulto, invece la vita aveva deciso di voltargli le spalle e la morte se l’era portato via quando aveva solo sedici anni. Perché era rimasto? Violet sapeva solo che la causa era quella fottutissima casa, lei e quelle sue vetrate in stile liberty del cazzo, con il suo scantinato da film horror, con il suo angolo di serenità lontano dal resto del mondo. La sua camera le piaceva; era stata quella di Tate, in passato. Quante ragazze c’erano state prima di lei? Nessuna, a detta di Tate, ma lei aveva la certezza che ce ne fossero state, invece. Qualcuna pazza quanto lei da perdere la testa per un ragazzino schizzato che compiva stragi nei licei. All’epoca, però, di stragi nemmeno ne aveva ancora compiute, era solo un po’ strano, magari un po’ sopra le righe, forse emarginato e solo. Tate apparteneva a un passato che lei non conosceva, a un’epoca in cui aveva quattro anni e beveva ancora latte dal biberon la sera prima di addormentarsi nel suo lettino dalle lenzuola fresche di bucato, con un carillon acceso che emetteva una ninna nanna triste.
“Le principesse sono tutte felici, mamma?”
“Diventano sempre felici quando trovano il loro principe. Prima sono persone un po’ tristi, a cui manca qualcosa.”
“Come fai a sapere che sei triste, mamma?”
“Quando ti senti male qui – e le aveva indicato il petto, all’altezza del cuore, posandovi un bacio delicato – e hai solo voglia di piangere.”
“E tu mamma sei stata triste?”
“Prima di conoscere tuo padre molte volte, Violet.”
“Io non ho un principe, ma non sono triste. Papà è un principe?”
“Sì, lo è. Sei ancora una bambina, quando crescerai capirai cos’è un principe.”
“Lo so anche adesso cos’è!”
“Ma non ne hai bisogno, ancora.”
Aveva sette anni e mezzo, Violet, quando le avevano raccontato la bugia più grande del mondo. A quattordici anni, ora sapeva che il principe azzurro non esisteva, e se esisteva ti faceva soffrire al pari di tutti gli altri. Suo padre aveva tradito sua madre e avrebbe continuato a farlo; Tate era la persona per cui sarebbe stata disposta a tutto e che, invece, era solo un’illusione creata da un gioco di specchi crudele a cui non avrebbe mai potuto dare spazio nella sua vita. Un’illusione destinata a cadere che le avrebbe tolto tutto ciò che di bello avrebbe potuto offrirle il primo amore. Dov’era la dolcezza dei baci rubati, dei sospiri, delle carezze, se poi – al mattino – si svegliava con il volto rigato di lacrime con la consapevolezza che Tate non sarebbe mai diventato adulto con lei?
 
 
La spiaggia deserta al tramonto, un sole che riverberava di striature sanguigne la superficie piatta dell’oceano, tutt’attorno solo il suono delle onde che si infrangevano sulla battigia e il grido di qualche gabbiano. Violet si era concessa di inspirare a fondo, le mani appoggiate sulle ginocchia e il fiato corto. Ansimava, temeva quasi che il cuore le scoppiasse. Solo quando aveva fatto l’amore per la prima volta il cuore aveva battuto così forte contro il petto, simile al suono crudele di una bomba ad orologeria.
Aveva lanciato un’ultima occhiata alle proprie spalle, poi aveva estratto dalla tasca della felpa la lametta. Tagli verticali e profondi, se vuoi che l’emorragia non si arresti, le aveva detto Tate una volta. Le dispiaceva solo per sua madre, ancora rinchiusa in ospedale, che non avrebbe mai potuto salutare con un dignitoso addio. Cosa lasciava? Suo padre era un traditore, il ragazzo che amava un fantasma; sua madre avrebbe avuto altri due figli e avrebbe reagito al dolore prendendosi cura di loro: dopotutto le aveva dimostrato di essere forte, non solo una codarda del cazzo. Da grande forse sarebbe stata come Vivien? Adulta, lei, non lo sarebbe diventata mai, quella domanda non aveva nemmeno senso porsela.
“Violet!”
Tate l’aveva seguita tra i passanti, lungo i viali deserti, attraverso il parco in cui i ragazzini si tenevano per mano e le madri spingevano passeggini gravidi di bambini paffuti ed ora era lì, poco più in alto di lei, sul piccolo promontorio che sovrastava la spiaggia.
Violet si era girata verso di lui sorridendogli, le lacrime a rigarle il viso.
Non voglio morire, lo sai? Se me ne vado io, però, sono certa che anche tu troverai il tuo pezzo di pace. Da qualche parte, lontano da tutto, c’è anche per te un luogo sereno in cui vivere.
Non voglio impazzire. Non voglio essere rinchiusa in un ospedale come mia madre, capisci? Io voglio vivere. Vorrei vivere con te, ma non posso. Mi dispiace.
La debole non è mia madre: sono io.
La lametta era fredda a contatto con la carne e il solco da cui aveva preso a fuoriuscire un fiotto di sangue caldo e vischioso bruciava come una ferita aperta immersa nel sale. L’altro polso, in un macabro passaggio di testimone dalla mano destra alla sinistra, si era offerto all’ultimo verdetto. Erano bastati pochi istanti perché la vista le si annebbiasse e sentisse la necessità di sedersi a terra: le gambe non la reggevano più.
China a terra, le ginocchia affondate nella sabbia gelida, Violet continuava a guardare il mare offrendosi spontaneamente alla morte: l’unica via di fuga, quando sei circondato da vivi e morti e non riesci più a distinguere ciò che è vero e ciò che è falso.
“No, no! Violet non puoi morire, non puoi!”
La voce di Tate era stata un grido strozzato dal pianto, poi si era fatta più vicina, sino a trasformarsi in braccia che la stringevano con forza disperata.
“È finita Tate. Non ha senso. Niente ha senso.”
“Non puoi morire, non puoi! Dobbiamo restare insieme per sempre, te lo ricordi?”
“In un certo senso sarà così. Sei stato l’unico che abbia amato. Dovrebbe bastarti, no? Il mio cuore, tutto per te. Lasciami dormire così, per favore.”
Violet aveva chiuso gli occhi, il viso appoggiato contro il petto di Tate scosso dai singhiozzi, inspirando aria che le sembrava fosse sempre più pesante da ingoiare.
“Tu non morirai, Violet.”
Si era sentita sollevare dal proprio posto, le braccia che le pendevano lungo i fianchi, inermi.
Dove vuoi andare? All’ospedale ci arriverò già morta, Tate. Lasciami qui, cullami con il rumore dell’oceano in sottofondo. Morirò felice, così, lo sai?
 
 
Correre e ingoiare smog e polvere. Correre più forte che poteva, ordinando alle gambe di non cedere e non lasciarlo cadere. Correre lontano dalla spiaggia, fare ritorno a casa e da sua madre. La donna che più odiava al mondo era l’unica in grado di restituirgli la felicità, in quel momento. Quando si era trovato dinnanzi all’imponente villa, Moira e Constance lo stavano aspettando, l’una con le braccia conserte al petto, l’altra che si torturava nervosamente le mani sollevate a mezz’aria, all’altezza della vita.
“L’istinto di sopravvivenza è più forte di qualsiasi ragione, vero Tate?”
“Salvala. Lo puoi fare, no?” le gridò il ragazzo con il volto rigato dalle lacrime.
Constance gli fece cenno di proseguire lungo il viale, indicandogli un angolo del giardino lontano da occhi indiscreti. Se Violet non aveva ancora emesso l’ultimo respiro si sarebbe salvata. Non c’era riuscita con Addie, ma forse con quella ragazzina impertinente le cose sarebbero andate diversamente.
“Lo puoi fare?”
“Tutto ha un prezzo, Tate.”
“La rivoglio indietro, cazzo! L’unica cosa bella di tutta la mia stramaledetta vita non puoi togliermela!”
La donna era tornata a guardare il volto livido della ragazzina, gli abiti intrisi di sangue e i polsi squartati che si mostravano al cielo come macabri sorrisi.
Uno, due, tre colpi di tosse, poi Violet aveva inspirato profondamente sollevandosi a sedere di scatto, con una forza nuova a muovere il corpo, tentando di ingoiare aria che non arrivava ai polmoni, in totale apnea. Aveva spostato lo sguardo su ognuno di loro, incerta, poi aveva portato l’attenzione sui propri polsi lacerati, le ferite ancora aperte e sanguinanti, e aveva compreso tutto.
“Non… non… Tate? Cos’hai fatto, Tate?”
“Ti ho riportata qui. Non potevo permettere che tu morissi.”
“No… no!”
Non volevo morire.
Ora vivrò in eterno accanto a lui. Ti amo, Tate, ma questo è un compromesso folle, un sentimento che non posso sopportare. Ti odio, Tate, perché hai distrutto ogni certezza della mia vita, hai buttato all’aria tutto ciò che desideravo avere.
“Ho fatto una cosa molto orribile, vero?” le domandò lui, chinandosi accanto a lei e stringendole le mani, baciandole le dita gelide.
“Sei il padre dei gemelli. Mi hai vincolata a questa casa del cazzo. Ti odio, Tate! Ti odierò per sempre!”
“Imparerai che l’odio è una forma diversa d’amore, ragazzina. Considerati fortunata: quando tua madre avrà bisogno di aiuto le sarai molto più utile in questo stato, che non da viva.”
Violet aveva spostato lo sguardo su Constance, che continuava a fissarla con il desiderio di spingersi oltre,  studiarli nell’intimità di un rapporto da costruire da zero, di nuovo, basato sulle fondamenta di un castello già caduto.
Mi hai resa una debole, Tate, ma d’altra parte, perdente lo sono sempre stata.
 
 
 
Note dell'autrice.
(*) Dean Koonz è un famoso scrittore di thriller. Ho voluto utilizzare il gioco fonetico di tra il suo cognome e quello di Keats.
Si ringrazia Nana per aver pazientemente betato questa storia di cui non le interessava assolutamente nulla b29;


   
 
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