Storie originali > Thriller
Segui la storia  |      
Autore: JohnRainbow    17/12/2011    1 recensioni
Un uomo, recandosi ad aprire, come ogni mattina, il suo bar nella città di Plymouth, Inghilterra, scopre che di esso non rimane che una scarna cintura di mattoni rossi e la porta d'ingresso, che dà su una profonda voragine. Presto in città la gente inizia a morire a causa di una forza incontrollabile e spietata, la stessa che ha distrutto l'edificio. Ma John Rainbow scopre di avere delle facoltà che lo aiuteranno a venire a capo di quella che potrebbe essere la distruzione totale di Plymouth.
Genere: Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

PROLOGO

1

 
31 ottobre, ore 18:57. 57 minuti dopo il disastro
 
In un panorama di mite desolazione, un ragazzo sedeva sui resti dell’edificio appena crollato, in un agonico quartiere della (un tempo)  ridente città di Plymouth. Riusciva a scorgere il tramonto, attraverso lo scheletro della porta d’ingresso, in precedenza sorretta dai muri portanti. Lo vedeva, in tutta la sua straordinaria bellezza, oltre il parapetto sull’altro lato della strada, che dava sul fiume Orson. Cento chilometri più a nord e l’Orson si affacciava sul mare, in uno stretto di esigue dimensioni, quello che la gente comune chiamava “Lo Stretto Vergine”.
    Il ragazzo stava lì, a fissare il Sole in uno stato di catalessi. Quell’edificio, nella sua rassicurante cerniera di mattoni rossi, era ora un cumulo di nulla. Strano, visto che della sua insignificante vita non gli era rimasto oramai che quello. Era come perdere l’unico appiglio verso una qualsiasi forma di realtà, pensò lui. Come essere un morto che cammina, un condannato sul tragitto che lo conduce alla sedia scintillante, un passero senz’ali. Era perso, si sentiva perso senza il suo bar, la caffetteria “da Rainbow”. Non aveva pianto, non aveva potuto, considerato il suo scarso attrito con la realtà dei fatti, quasi come se accettare quanto era successo potesse risvegliarlo da un prezioso sogno, come quando sogni di librarti in volo e scomparire per poi trovarti confuso nel letto mattutino. Era come se gli si fosse bloccato il cuore, come se i suoi ventricoli non pompassero più il sangue all’interno dell’aorta, o peggio: come se il sangue si fosse trasmutato da rosso a nero.. E in un certo modo poteva essere possibile, vista la quantità di polvere che aveva mangiato ultimamente (cazzo, persino nei suoi cornflakes c’era polvere!).
  Così, mentre pensava a tutto questo, tornò alla realtà e fu doloroso, una sorta di eutanasia non richiesta: il Rainbow non esisteva più e lui non aveva posto dove stare. ‘Adesso sono solo un John Rainbow di periferia, una periferia senza case e senza luoghi.. La periferia della mia mente, l’Apocalisse, ci siamo Baby, dritti all’inferno con tanto di cappello (e che cazzo di cappello!)’ si ritrovò a pensare, quasi divertito. Eh si, stava impazzendo.
    Un uccellino sbraitò confuso, come a rappresentare l’anima di John. Gran parte della sua vita (non sapeva se potesse ritenersi un uomo ‘vissuto’, avendo soltanto venticinque anni) era trascorsa in quello che adesso era un cumulo di macerie, e ogni pezzo di muro infranto poteva rifletterlo dentro di se, come in un ricordo lontano. Ogni  pezzo era un tassello di quella esistenza biunivoca e totale, un rapporto unico e morboso, senza conflitti di interessi, un gemello di mattoni e cemento. E nella consapevolezza improvvisa a John venne la tentazione di gettarsi nell’Orson, chissà, magari sarebbe riemerso ai confini tra il “Vergine” e il mare, e poi più niente.. E invece svenne.
Quando si risvegliò si accorse di non essere solo.
 
2
 
Plymouth era stata effettivamente una città “ridente”. Ma tante sono le accezioni del termine, e quella che la caratterizzava maggiormente si poteva esprimere all’incirca come “La città delle ridenti ascelle”, posto che città la si potesse chiamare. I quindicimila abitanti vivevano in uno stato di trance, anche se inconsciamente erano al corrente del fatto che le loro vite sarebbero drasticamente cambiate da un momento all’altro: era nell’aria. Quindi facevano finta di niente, pensavano ‘Tanto vale..’ e fu proprio quello il problema, quel clima di generale e essenziale indifferenza, quella che John non aveva mai sopportato.
    Nonostante l’esiguo numero di abitanti, Plymouth aveva una certa importanza nel teatrino delle ‘città che contano davvero’ inglese, per un semplice motivo: il porto locale era un importante centro per lo scambio di armi, e la continua affluenza di navi da cargo trasportanti (mangime per allevamenti, come il sindaco nonché esimio consigliere Teddy Ament amava far credere) contribuiva a rendere la città economicamente stabile. Ament aveva messo in atto molte misure di miglioramento e i cittadini ne erano felici, come se a importare fosse solo la Città come Forza Fisica. Recentemente era stato ristrutturato il centro di accoglienza per gli anziani, in Kennedy Avenue, non lontana dal municipio, simpatico eufemismo di ‘Obitorio senza morti annessi’, e la gente aveva apprezzato; apprezzava sempre, come negarlo e come biasimarli. Insomma, tutto andava per il verso giusto, almeno per Ament e i suoi elettori più fedeli (fedeli quasi in senso matrimoniale), ma non mancava chi protestava: l’errore più grande era farlo pubblicamente, allora si che ti beccavi un bel biglietto gratis per visitare le gabbie della prigione cittadina, così, tanto per schiarirti le idee per una notte o due, e i soldi per mantenere la baracca di certo non mancavano.
    Pochi giorni prima della Catastrofe, un certo Jimmy McGinty aveva mostrato un file contenente alcune soffiate e indagini riguardanti la vera natura degli affari portuali della contea. Il problema è che aveva scelto la persona sbagliata a cui mostrarlo: Ament in persona. Inutile dire che Jimmy McGinty non fu più avvistato al Rainbow da quel giorno: messo in quarantena, eliminato, così come si eliminano le fastidiose zanzare estive, con un buon prodotto disinfestante o un colpo di palmo.
    << La mia città, i miei affari, la mia famiglia >> si sarebbe giustificato Ament in un’altra vita. In questa non aveva bisogno di trovare delle scuse: lui sapeva, lui era convinto.
 
    In periferia, a Nord del centro cittadino di Plymouth, dove Kennedy Avenue terminava in tutta la sua lunghezza incrociandosi con Portland Road, il volgo si riuniva al bar Rainbow. L’edificio in mattoni rossi si ergeva innocentemente circondato da una antica biblioteca, sulla sinistra e il negozio di souvenir sulla destra (il turismo non era contemplato nel programma cittadino, il sindaco amava la riservatezza della sua città, quindi la presenza di un negozio di souvenir era alquanto bizzarra). Gli affari al Rainbow non andavano particolarmente bene, in città si era diffusa la voce che il locale fosse frequentato da gente poco raccomandabile, spacciatori, consumatori, ubriaconi, inutile dire chi avesse diffuso tale voce (chi se non il nostro signor Teddy Fottuto Ament?). Falso, ma solo in parte: quale locale non ha il suo spacciatore? Tuttavia la clientela abituale rimaneva, e al proprietario, John Rainbow (il cui padre, Frank Rainbow, aveva dato il nome al locale giocando sul fatto che tutti erano ammessi come tanti sono i colori dell’arcobaleno - che stronzata di metafora, pensava John -), stava bene così. Suo padre era morto circa un anno prima della catastrofe (che avvenne il 31 ottobre 2011) di cancro al cervello e considerato che la madre di John viveva come ospite fissa al manicomio Krueger, John era bello e che fottuto. Ma in qualche modo aveva portato avanti il locale; l’unica cosa che rimanesse della sua vita, come se essa fosse letteralmente sorretta da quei mattoni. Prima che la città venisse devastata, John stava ricominciando a vivere.
 
3
 
La bambina reggeva la sua bambola di pezza con il solo ausilio del pollice e dell’indice della mano sinistra: le uniche dita che ancora le erano rimaste.
    Un anno prima era al parco a giocare con le amiche e un pazzo decise di divertirsi tagliando le innocenti dita di una bambina di cinque anni per intascarsele e fuggire lontano. Lo fece davanti alle sue amichette, troppo sconvolte per urlare, troppo spaventate per reagire, troppo bambine per capire. Ricordava ancora come il sangue avesse inzaccherato il suo vestitino blu e i suoi capelli biondi, portati lunghi con un caschetto. Era svenuta e si era risvegliata in ospedale con la mano fasciata. O meglio, ciò che della mano sinistra rimaneva.
    I genitori avevano interpellato ogni tipo di investigatori possibile, tuttavia senza successo: il maniaco era scomparso, come un fantasma; e Dodee, con tutta la fantasia di cui è capace il cervello di una bambina, lo sognava ogni notte, con quell’impermeabile marroncino, il cappello portato davanti agli occhi, quei lunghi capelli brizzolati e sporchi che pendevano a coda di cavallo dalla schiena, quelle forbici da cucito che, un istante prima di adempire al loro scopo, avevano riflesso in un moto accecante la luce del fresco sole invernale, tingendolo poi di rosso acceso.
Adesso Dodee camminava tranquilla nei giardinetti di Portland Road, disseminando pensieri qua e là. Non si sarebbe mai immaginata che la sua vita sarebbe finita cinque minuti                          dopo.
I suoi genitori non l’avevano vista uscire; dopo l’incidente dell’anno prima non la perdevano di vista e Dodee, che a dispetto della sua giovane età (appena dodicenne, ma abbastanza sveglia da sembrare una quindicenne) aveva una concezione ben precisa del concetto di privacy, quel pomeriggio aveva deciso di uscire, di tornare nel luogo della tortura, il parchetto di Portland Road. Era ossessionata all’idea di tornarci, come se da ciò dipendesse il suo futuro, talmente ossessionata che non riusciva a pensare ad altro: curioso per una bambina di una così tenera età.
    Quella sera portava un vestitino rosso vermiglio e i capelli biondi erano legati dietro la schiena da un nastrino arancio. La bambola di pezza era instancabilmente sorretta da quelle due uniche dita di una mano che le avrebbe consentito di suonare il pianoforte a livello professionistico, un giorno, sua passione da che ne avesse memoria. La reggeva anche quel giorno maledetto, un anno prima: quando si era svegliata in preda ai dolori in ospedale, l’aveva trovata di fianco a se, come se avesse fatto da guardiana dell’oltretomba. Quei suoi occhi incantati, occhi furbi e accusatori. A volte le sembrava parlasse, ma naturalmente le bambole non possono parlare, giusto? ‘Allora perché mi sento così a disagio?’ pensò lei mentre si incamminava in Portland Road.
    Raggiunse l’erba lucente di quel parchetto alle 17:57 esatto del 31 ottobre 2011. Sentiva il vento autunnale che le faceva volare i capelli solleticandole il nasino. Improvvisamente le venne l’impulso di buttarsi nel fiume Orson, così, un tuffo acrobatico, volando in quei 100 metri che conducevano all’acqua. Non accorgendosene, era arrivata al punto esatto in cui lo sconosciuto le aveva tagliato le dita, le aveva strappato l’ultimo barlume di infanzia che le rimaneva, l’aveva fatta maturare precocemente.
    Invece guardò in alto e non vide le stelle. L’ultima cosa che pensò fu ‘Sto sognando?’. Una nera entità la polverizzò all’istante, portando con se le rosse mura del Rainbow e il rosso sangue di una innocente bambina di dodici anni,
    Da qualche parte a Plymouth, Lui urlò di dolore. Così cominciò la fine di tutto.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Thriller / Vai alla pagina dell'autore: JohnRainbow