Wishing I could find a way to wash away the
past. Knowing that my heart
will break, but at least the pain will last.
Emily
aveva perso la speranza in molte cose, dopo l’arrivo di
Kenny.
Suo figlio aveva ormai 4 anni, ed era l’unica sua vera gioia,
ma non poteva negare che con il suo arrivo fossero scomparsi anche
tutti i suoi
sogni.
A 25 anni, Emily aveva un bambino di 4 anni da crescere, un
mutuo da pagare ed un lavoro da mantenere, e faceva tutto completamente
da
sola.
Miami era una città così affollata che lei si
trovava ogni sera
ad ammirare suo figlio che dormiva, senza un uomo al suo fianco che
potesse
indossare i panni di un compagno per lei e, soprattutto, di padre per
lui.
Il bambino aveva ereditato la carnagione da entrambi i genitori
– scura da lui e chiara da lei – e aveva preso gli
occhi della madre, mentre i
capelli erano color miele. Aveva un sorriso raggiante ed era una
creatura vispa
e amichevole con tutti.
Emily amava suo figlio più della sua stessa vita, ma questo
non
le sembrava mai abbastanza.
Avrebbe voluto dargli un padre, una vita migliore di quella che
gli stava facendo vivere.
Non era una brutta ragazza, bensì il contrario: diversi
uomini
si erano avvicinati a lei nel corso di quegli anni, ma quando poi lei
aveva
aperto l’argomento ‘Kenny’, nessuno si
era più fatto sentire; così aveva deciso
che nessun uomo sarebbe entrato a far parte della sua vita, e Kenny
iniziava a
capire che sua madre vestiva i panni di entrambi i genitori.
Tuttavia, per quanto Emily provasse ad autoconvincersi che
meglio di così non poteva andare, si domandava sempre che
cosa sarebbe successo
se Kenny non fosse stato con lei. Prontamente, però,
scacciava via quei
pensieri e fissava Kenny con gli occhi di una mamma inesperta ed
innamorata del
proprio figlio.
Ogni tanto lo portava a New York dai suoi genitori, in modo da
poter incontrare le sue amiche d’infanzia e staccare un
po’ la spina dalla
solita routine lavoro-casa-Kenny-lavoro-Kenny- lavoro-casa-Kenny.
La situazione era così drastica per via del padre di Kenny,
Richard.
Richard aveva 10 anni in più di Emily, e l’aveva
fatta cadere
ai suoi piedi mentre lei seguiva dei corsi di recitazione; le sarebbe
piaciuto
diventare un’attrice.
Dopo qualche uscita da amici, Emily si era sentita immediatamente
a proprio agio con Richard, e lui sembrava ricambiare i suoi
sentimenti,
mostrando delle avance e facendole apertamente dei complimenti per come
aveva i
capelli, o per la maglietta che indossava. Emily si era sentita davvero
apprezzata con lui.
Quando poi aveva scoperto di essere rimasta incinta di Kenny,
il mondo era crollato sulla testa di entrambi, ma più su
quella di Emily:
Richard era già sposato, e aveva già un bambino.
Lui non voleva rovinare il suo
matrimonio, così si era velocemente disfatto di Emily,
lasciandola incinta ed
emotivamente distrutta. Lei era stata costretta ad abbandonare il suo
corso di
recitazione per trovare un impiego e aveva dovuto adattare la sua casa
di Miami
all’arrivo di un bambino.
Dirlo ai suoi genitori era stata una cosa non semplice,
perché
suo padre voleva che Richard le pagasse gli alimenti, ma lui nel
frattempo si
era trasferito in Canada e Emily non voleva fare la mantenuta da un
pezzente
come lui.
Negli anni successivi, Kenny le aveva dato tutta la gioia e
l’amore
di cui aveva bisogno.
Era un bambino brillante e intelligente, imparava subito e non
faceva i capricci; una specie di figlio modello.
Non aveva avuto molti problemi con i suoi compagni d’asilo, o
almeno non ancora, sosteneva Emily. Temeva che il bambino, per via
della sua
carnagione caffellatte, potesse risentirne con l’andare del
tempo. Nonostante
l’America fosse un paese libero, lui restava pur sempre un
bambino per metà
nero senza un padre a crescerlo.
Emily si rimproverava costantemente per essersi lasciata andare
in quel modo con Richard, ma quando ricordava ai momenti che aveva
passato con
lui, non poteva evitare di ammettere di esser stata sinceramente felice.
Tuttavia, dopo l’orribile modo in cui lei e lui avevano
chiuso
la loro storia, Emily aveva aperto un bar in una via vicina al centro
di Miami,
non molto distante da casa sua. Non guadagnava tanto, ma era il
necessario per
non far mancare nulla al suo bambino.
Lo amava, e non c’era alcun dubbio. Nonostante i numerosi
ripensamenti sul rapporto con Richard, di una cosa era assolutamente
certa: lei
amava suo figlio.
Suo figlio che, come ogni mattina, faceva i capricci per
scendere dal letto.
- Kenny, alzati! E’ tardi!
Emily poggiò una fetta di pane tostato su un piatto, accanto
a
uova e bacon, e lo posò sul tavolo. Successivamente
balzò fuori dal tostapane
una seconda fetta, che prese e poggiò su un secondo piatto,
anch’esso con uova
fritte e bacon.
- Kenny, perché ci metti così tanto?
Poco dopo, dei piccoli passi percorsero il tragitto che andava
dalla cameretta alla cucina, e un Kenny assonnato, con addosso il suo
pigiama
azzurro con sopra disegnata un’astronave, comparve sulla
soglia mentre si
stropicciava ancora gli occhi.
Emily si portò le mani sui fianchi e lo guardò
con un mezzo sorriso.
Suo figlio era così carino quando si svegliava.
- Sei pronto per questa fantastica giornata?
Kenny continuò a stropicciarsi gli occhi, poi si
arrampicò su
per la sedia e fissò il piatto.
Emily gli si avvicinò.
- Qualcosa non va? Hai forse paura?
La scuola di Kenny aveva programmato un giro della città che
avrebbe occupato tutta la mattina e buona parte del pomeriggio, e dopo
qualche
iniziale esitazione, Emily aveva acconsentito per lasciar andare suo
figlio;
non poteva permettere che le sue paure gli impedissero di fargli
trascorrere
un’ottima giornata come quella programmata.
Kenny scosse la testa con noncuranza.
- Non mi sento bene. – biascicò.
Emily gli accarezzò la fronte e poi le guance, ma non erano
calde. La sua temperatura corporea sembrava normale.
- Forse hai solo fame.
Il bambino annuì e prese le posate, iniziando a mangiare.
Emily tornò ai fornelli.
- Se non vuoi andare, sei ancora in tempo.
Kenny scosse energicamente la testa.
- Mi sentò già meio.
La mamma annuì.
- D’accordo.
Kenny era così forte da riuscire ad autoconvincersi da solo.
Nonostante fosse molto piccolo, riusciva ad autocontrollarsi
benissimo e a riconoscere quando stava davvero male e quando no.
Era anche un bambino abbastanza autonomo, perché sapeva
lavarsi
i denti e vestirsi da solo.
Emily gli preparò due panini per pranzo e poi lo
accompagnò
all’asilo.
- Segui quello che ti dice la maestra.
Kenny annuì.
- E se non ti senti bene, loro hanno i miei numeri di telefono
e possono chiamarmi, quindi avvertile subito che vengo a prenderti. Va
bene?
- Va bene.
Emily gli prose il mignolo, e Kenny lo intrecciò con il suo
nettamente più piccolo e leggermente più scuro.
Era una cosa che avevano sempre fatto, perché appena era
nato,
il primo dito che Emily gli aveva dato era stato il mignolo, e lui
l’aveva
intrecciato con il suo.
Lo baciò sulla fronte e poi lo lasciò andare con
la maestra.
Le giornate di Emily erano quasi sempre avvolte dalla
monotonia.
Accompagnava Kenny a scuola, andava a lavoro, pranzava in
qualche posto lì vicino, e a fine giornata rientrava a casa
passando a prendere
Kenny all’asilo.
Il risultato era una stanchezza terrificante e nessuno ad
attenderla a casa.
Il negozio di Emily era aperto ogni giorno e non c’era
nessuno
che se ne prendesse cura al posto suo.
Era un locale piccolo ma accogliente, dalle pareti bordeaux,
con i tavolini in legno e dei divanetti in pelle rossi.
A Emily piaceva lavorare lì, servire i clienti, essere
cordiale
e rendersi presentabile, perché si sentiva ancora giovane e
piena di vitalità.
Ma sapeva anche che quello non era il lavoro che aveva sempre sognato,
e che
tutti i suoi piani erano andati in fumo.
Stare a contatto con la gente le scaturiva un certo interesse.
Si domandava che vita avessero le persone che entravano e si
sedevano a prendere un caffè, e si chiedeva anche
perché avessero deciso di
andare proprio da lei, in quel preciso bar.
Pensava anche “chissà se si chiedono che vita
conduco io”.
Oppure se l’avessero mai vista e quindi riconosciuta in
qualche negozio, o
magari all’asilo a prendere Kenny.
Qualche volta era capitato che, mentre andava a fare la spesa,
qualcuno la fermasse e la salutasse chiedendole se si ricordava di
“quello che
ieri è venuto al caffè”.
Probabilmente qualcuno usava il caffè come una scusa per
cercare
di iniziare un rapporto.
Tuttavia, Emily restava sempre chiusa e non si sbilanciava
troppo nelle relazioni.
Aveva qualche amico, molti conoscenti, ma nessun uomo che
l’amasse. E non lo voleva assolutamente.
Dopo Richard, Emily non aveva più voluto sentir parlare di
un
qualsiasi cosa che c’entrasse con l’amore.
L’unico maschio che aveva un posto d’onore nel suo
cuore,
escluso suo padre, era Kenny. Suo figlio. L’unica ragione
che, anche se tutto
andava a rotoli, le era rimasta per sorridere.
Emily chiudeva il bar solo per una breve pausa pranzo, poi lo
riapriva verso le 14.
Non poteva permettersi un’aiutante, perché il
guadagno non era
sufficiente per pagare un altro stipendio. Molto probabilmente, se
avesse avuto
abbastanza soldi, avrebbe trasferito l’attività a
New York, dove stavano i suoi
genitori.
Ma più ricamava quell’idea, più si
convinceva che stare lontana
da loro aveva il suo lato positivo, perché era riuscita a
responsabilizzarsi a
dovere.
Una volta chiusa la porta con due mandate, Emily fece per
dirigersi al solito punto di ristoro che c’era al primo
angolo, quando il
cellulare squillò.
Il numero era privato, e per qualche istante pensò perfino
di
non rispondere, ma poi cambiò idea.
- Pronto?
- Emily Roth?
- Sì, sono io.
- Mi spiace disturbarla signora, ma abbiamo avuto un problema
con suo figlio Kenny.
- Come, prego?
- Mi perdoni, sono la maestra. Miss Wilby.
Emily smise di camminare e strinse il telefono.
- E’ successo qualcosa a Kenny?
- Niente di grave, non si preoccupi. Ma credo che non si senta molto
bene. L’abbiamo riportato in asilo, le dispiacerebbe venire a
prenderlo qui
appena possibile?
- Ma certo, senz’altro.
- Fra quanto pensa di arrivare?
Emily guardò l’orologio.
Erano le 13 esatte.
Fanculo al negozio.
- 10 minuti e sono da voi.
Il
viso di Kenny era diventato misteriosamente giallognolo.
Emily gli aveva immediatamente toccato la fronte e le guance, e
il bambino sembrava stesse per esplodere da quanto era caldo.
Lo portò via dall’asilo in un batter
d’occhio e lo sistemò in
macchina.
Kenny chiuse gli occhi, la febbre alta lo stordiva.
- Adesso andiamo a casa e ti metti al caldo, va bene amore?
Annuì con la testa.
Emily allacciò la cintura di sicurezza e poi accese la
macchina, partendo verso casa sua.
Fortunatamente la strada non era molto trafficata, così
arrivarono in fretta a destinazione.
Emily parcheggiò meglio che poteva, osservando
l’enorme camion
aperto che c’era davanti alla casa accanto alla sua.
Quella casa era rimasta disabitata per parecchi anni, e Emily
aveva perfino dimenticato che fosse in vendita. Non aveva mai
conosciuto i
proprietari, era arrivata ad abitare lì qualche mese dopo.
L’avrebbe comprata
lei, se non fosse per il fatto che era da ristrutturare da cima a fondo.
Chiunque l’avesse comprata, doveva avere ottime basi
economiche
per fare un affare del genere.
Slacciò la cintura di Kenny e lo portò di peso
dentro casa sua,
chiudendosi la porta alle spalle.
La camera di Kenny stava al piano di sotto, mentre quella di
Emily al piano di sopra.
Lasciarlo da solo nella sua cameretta non le sembrava il caso,
preferiva che sentisse la presenza di sua madre anche se lei non
c’era. E poi,
molto probabilmente, l’avrebbe tenuto con sé per
tutta la notte; optò quindi
per portarlo al piano di sopra.
Kenny iniziava a crescere e a pesare, e Emily fece una certa
fatica portandolo di peso fino alla sua camera.
Spostò le lenzuola blu scuro e lo coricò dentro
il letto.
Il bambino aveva ancora gli occhi chiusi e respirava con
l’affanno, segno che la febbre stava salendo.
Emily gli cambiò i vestiti, mettendogli addosso il pigiama,
e
poi lo coprì con le lenzuola.
Corse a prendere il termometro e attese paziente accanto al
figlio.
Il silenzio che si era creato, inizialmente scandito solo dal
respiro pesante di Kenny e dalle lancette dell’orologio nel
corridoio del piano
di sopra, venne improvvisamente disturbato dal rumore di un motore,
come se
qualcuno avesse acceso un’enorme macchina.
Emily sobbalzò sul letto e Kenny mugolò qualcosa.
- Stai tranquillo amore, dev’essere il camion di sotto che va
via.
Il bambino non rispose, e Emily gli accarezzò una guancia.
Scottava.
Attese qualche altro istante con lui, finché
controllò il
termometro.
39 e mezzo.
Una febbre come quella, per un bambino così piccolo, era per
Emily un incubo che diventava realtà.
- La mamma sta tornando.
Si allontanò e andò verso il bagno, dove prese un
asciugamano.
Lo bagnò con dell’acqua fredda, lo
strizzò e poi tornò nella camera da letto.
Lì, piegò l’asciugamano e lo
poggiò sulla fronte di Kenny, che sussultò un
poco
al contatto della superficie bagnata e fresca.
Emily sarebbe voluta restare a vegliare su di lui, ma il suo
stomaco brontolava e per di più quel rumore meccanico non
cessava mai.
Diede un bacio al figlio e scese rapidamente al piano di sotto.
Riscaldò due toast e li farcì con qualche fetta
di prosciutto e
una foglia di verdura, giusto per buttar giù qualcosa.
Ingurgitò tutto con rapidità e poi
tornò dal suo bambino.
Kenny dormiva, probabilmente stordito dalla febbre alta.
Inoltre, quel dannato rumore non smetteva e a Emily faceva
innervosire terribilmente.
Restò accanto a suo figlio per un po’, cercando di
non badare
al frastuono proveniente dalla casa accanto.
Possibile che dovessero fare dei lavori proprio in quei giorni?
Mentre suo figlio stava male?
Probabilmente nessuna di quelle persone aveva famiglia.
Emily stette accanto a Kenny per tutto il tempo, osservandolo
mentre dormiva.
Lesse due capitoli de “La caduta dei giganti” di
Ken Follett,
fece un po’ di zapping, ma i suoi nervi si tendevano ogni
istante che passava.
Il trapano – o forse i trapani – nella casa
affianco sembravano
non cessare mai.
Per di più gli operai urlavano come dannati e
c’era un maledetto
cane che abbaiava in continuazione.
Perse del tutto la pazienza quando sentì della musica alta
provenire dall’abitazione e Kenny brontolò.
Scese velocemente al piano di sotto e uscì da casa sbattendo
la
porta. Superò la siepe che divideva il suo giardino da
quello della casa vicina
e osservò la situazione.
C’erano operai dovunque, e la casa sembrava irriconoscibile.
Le finestre erano già state cambiate, così come
il pavimento, e
sembrava che gli operai stessero controllando i cavi elettrici e i tubi
dell’acqua.
Emily prese coraggio e camminò con decisione in mezzo a
tutti
quegli uomini e verso quel baccano.
Non appena fu abbastanza vicina all’ingresso da poter vedere
il
parquet per tutto quello che doveva essere il soggiorno, un uomo enorme
le si
piazzò davanti. Indossava una tuta grigia e un casco giallo,
e alle mani aveva
dei guanti sporchi.
Sudava come un caprone.
- Lei chi è? Cosa ci fa qui?
Emily fissò l’uomo con aria di sfida.
- Voglio vedere il proprietario della casa.
- Lei è la moglie?
Sbottò in una risata.
- Mi pare ovvio di no! Avanti, chiamatemi immediatamente il
proprietario, io e lui dobbiamo fare una bella chiacchierata.
- C’è qualche problema?
Emily si voltò a sinistra e vide un ragazzo avvicinarsi
lentamente.
Per un attimo perse la cognizione del tempo, e le sembrò di
essere dentro un film.
La figura davanti a sé indossava una canottiera bianca e dei
pantaloni in tela chiari. In testa aveva anche lui un casco e indossava
dei
guanti uguali a quelli degli operai.
Emily pensò si trattasse di uno di loro.
L’uomo che le si era piazzato davanti sospirò.
- Questa ragazza dice di voler parlare con te, Tom.
Emily guardò prima l’uomo e poi il giovane davanti
a lei.
Lui era il proprietario della casa?
Si sarebbe aspettata un ricco banchiere con moglie e figli al
seguito, non un giovanotto dagli occhi scuri, muscoli e una leggera
barba.
Lui la guardò.
E la guardò per davvero.
Emily vide chiaramente il suo sguardo slittare da una parte
all’altra del suo corpo, e si sentì
incredibilmente a disagio.
- Ci conosciamo? – le chiese.
Lei non si lasciò intimorire e incrociò le
braccia in petto.
- Sono la sua vicina di casa.
Il ragazzo sollevò le sopracciglia.
- Piacere di conoscerla, allora. – abbozzò un
sorriso e le
porse la mano. – Tom.
Emily non gliela strinse e lo trafisse con lo sguardo.
- Emily.
Il ragazzo ritirò indietro la mano e l’operaio si
allontanò,
sentendo l’ostilità di Emily.
- C’è qualcosa che posso fare per lei?
- Sì, far smettere questi rumori. – rispose
stizzita.
- Come?
- Mio figlio è di sopra con la febbre alta, e tutto questo
baccano che state facendo da ore e ore di sicuro non lo aiuta a stare
meglio.
- Suo figlio?
Emily lo vide sorpreso e sciolse le braccia.
- Sì, mio figlio.
- Posso sapere cos’ha?
- No, non lo può sapere. E se vuole rendersi utile, mi
faccia
il favore di dire ai suoi operai di fare meno rumore. Almeno per oggi.
Non gli lasciò il tempo di rispondere e andò via,
camminando a
passo svelto e deciso.
L’incontro con quel ragazzo l’aveva messa a disagio.
Erano anni che nessuno l’aveva guardata in quel modo. E non
era
nemmeno vestita in maniera esuberante; aveva soltanto una maglietta e
dei jeans
scuri.
I capelli erano perfino legati in una coda di cavallo alta.
Emily rientrò in casa e andò immediatamente a
controllare come
stava Kenny.
Dormiva beatamente, ma si era voltato su un fianco e il panno
bagnato gli era caduto dalla fronte.
Passarono meno di due minuti, il tempo del millesimo sbuffo, e
tutti i rumori cessarono.
La ruspa che stava scavando nel retro della casa si
immobilizzò
e l’operaio che la guidava scese.
Emily si affacciò alla finestra.
Gli operai stavano lasciando la casa e risalendo nel camion.
Altri erano venuti con le proprie macchine.
Vide il ragazzo stringere la mano all’omone con cui Emily
aveva
parlato all’inizio. Poi anche lui andò via.
Emily si ritrasse dalla finestra, temendo di essere vista.
Aveva fatto la figura della madre isterica e prepotente.
Guardò Kenny: dormiva. Forse la febbre stava scendendo.
Controllò ancora una volta fuori dalla finestra, e vide
l’abitazione svuotarsi velocemente.
Si ricordava ancora il suo nome: Tom.