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Autore: Camelia Jay    20/12/2011    6 recensioni
Circondata dal buio e dai libri, Keira si rifugia in camera sua per evitare i suoi problemi, come l'assenza della voglia di studiare, il difficile rapporto con i genitori, la rottura irreversibile con l'amica Lydia e il cuore spezzato e disilluso a causa di un amore non sbocciato da ambo le parti.
Quasi nella stessa situazione si trova Blake, suo coetaneo e vicino di casa, così simile alla ragazza da essere l'unico in grado di comprenderne le emozioni, ma allo stesso tempo il solo in grado di farla ragionare davvero. Infatti, riuscirà a convincere Keira a tornare a condurre una vita normale.
Ma ecco che, appena sembra essersi ristabilito l'ordine, per Keira è ora di fare le valigie, e si ritrova affrontare la rigida e severa zia che la tiene sotto regole troppo strette. Confortata solamente da Blake, sempre più assente, e dalla materna vicinanza della signora Rush, per Keira subentra poi un nuovo problema: un problema di nome Logan.
Mi bastò allungarmi di pochi centimetri prima che le mie labbra venissero a contatto con le sue, aderendo perfettamente, in un gesto repentino e inaspettato. Non volevo più aspettare.
Non era la prima volta che baciavo qualcuno, ma quel bacio in particolare aveva un sapore… buono; così tanto che mi stupii. Con un flebile sospiro poi, entrambi e contemporaneamente, ci tirammo indietro. [...] Fu un attimo. Un attimo che pensavo mi avrebbe dato delle risposte, che pensavo avremmo preso entrambi così, un po’ per scherzo, un po’ per curiosità. Quanto mi sbagliavo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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[Capitolo Quattro]
[Cambiamenti]





Il patto era questo, e non tardai a farlo presente ai miei genitori: io tornavo a scuola, loro mi restituivano i libri. Non c’era molto da capire.
«Tra due settimane ne riparliamo» aveva detto mamma, con quel suo finto tono austero, scatenando però la mia ira funesta. Due settimane erano troppo: entro quel tempo le pagine avrebbero già perso il loro olezzo di stampa, che mi inebriava come il più costoso dei profumi quando le sfogliavo, in un magico fruscio di carta e di profumo.
«No, oggi stesso» avevo ribattuto, decisa a non cedere.
«Assolutamente no; una settimana, posso arrivare fino a questo compromesso.»
Compromessi. Non avevo mai creduto nelle vie di mezzo, il venirsi incontro a vicenda… specialmente quando si parlava di mia madre. Tuttavia, ero ben conscia di non poter fare altro. Era l’unico modo per rivedere i miei libri. Benché riluttante, alla fine avevo accettato l’offerta.
Mi aspettavo che da lì sarebbe stato tutto più agevole e che, tutto sommato, una settimana sarebbe passata in fretta. Ma, malgrado ciò, non dovetti attendere troppo, prima che arrivasse un’altra brutta notizia. Scoprii ben presto, di fatto, che i patti non sarebbero stati rispettati come volevo io.
Tornata da scuola, il secondo giorno, aprii la porta che introduceva mia stanza, e un velo di luce proveniente dal corridoio si proiettò all’interno dell’ambiente, diradando la coltre profonda e quasi palpabile di quel buio che tanto amavo. Quando poi, andando a tastoni con la mano, premetti sull’interruttore, rimasi non poco stranita nel rivedere tutti i miei libri perfettamente al loro posto. Shakespeare, Orwell, Jane Austen, Hemingway; erano tutti quanti presenti all’appello, sugli scaffali, per quanto a casaccio e non nell’ordine che io richiedevo.
Il cuore mi sobbalzò nel torace, e sembrò che mi potesse arrivare fino in gola. Che cos’era successo? Era fin troppo bello per essere vero, ma mi chiedevo insistentemente perché i miei libri fossero tornati al loro posto così in fretta; mi riusciva infatti difficile pensare in un atto di magnanimità dei miei familiari.
Poi il mio sguardo si posò sul resto della camera, ispezionandola centimetro per centimetro. Notai immediatamente che nell’ambiente regnava un ordine quasi irreale, assurdo. Semplice, perché quello non era ordine: non c’era più niente. Tutti i miei effetti personali, libri a parte, erano scomparsi. Potevo solamente vedere il mio lettore mp3 appoggiato sulla scrivania insieme alle custodie dei DVD che mi aveva prestato Blake, ma per il resto le mie cose si erano tutte dileguate.
Improvvisamente, un’ombra che proveniva dalle mie spalle arrivò, torreggiando sopra di me. Di scatto, mi voltai, e vidi mia madre a poca distanza che parlava al telefono. Immaginai quasi subito che l’argomento di discussione fossi io. Ma ciononostante, ancora non avevo capito né con chi stesse parlando, né perché in camera mia fossero ricomparsi i libri, benché tutto il resto della roba fosse sparito. In ogni caso, si diffuse in me, come gli arabeschi di fumo di una sigaretta si diffondono ineluttabilmente in una stanza, la consapevolezza che non ci sarebbe stato nulla di positivo per cui cercare di rimanere di buon umore, quel giorno.
 
Passò appena una settimana prima della partenza.
La mia partenza.
So bene che il mio broncio era perenne. Eppure, quel giorno, pareva essere ancora più evidente; capivo che la mia espressione burbera veniva sottolineata dalle valigie che tenevo strette in mano, per chi mi avesse visto in quel momento. Valigie che promettevano cambiamenti, che si portavano dietro pezzi di passato che avrei avuto con me solamente in maniera figurativa.
Varcai la soglia di quell’appartamento e subito poggiai i miei bagagli a terra, su un pavimento marmoreo con delle piastrelle beige dai motivi nodosi, motivi che si intrecciavano tra loro nei bordi, formando qualcosa che somigliava vagamente ad un agglomerato nodi celtici che scivolavano per la superficie mantenendosi ai margini.
La donna che avevo dinanzi, però, col petto all’infuori e dall’aria severa e indeteriorabile, mi ordinò di riprendere subito i miei bagagli e di non fare la scansafatiche. Io ubbidii, sebbene l’unica cosa che avrei desiderato in quel momento fosse tirarle un pugno in pieno viso. Forse così avrebbe smesso di fissarmi con astio, come se fossi una scapestrata.
«Regola numero uno» esordì poi zia Catherine. «Non permetto nemmeno un singolo giorno di assenza da scuola, a meno che tu non sia malata e stia per morire.»
Deglutii fortemente a quella frase, e rimasi in silenzio. Se l’avessi sentita in un film, mi avrebbe fatto ridere. Ma con quella, da ridere non c’era proprio niente.
Zia Catherine era la sorella di mia madre. Era sulla cinquantina – non avevo mai domandato quanti anni avesse e sono certa che la cara zia non me l’avrebbe mai detto – e aveva un modo di fare che era completamente l’opposto di quello della mia genitrice. Era sempre stata, quelle rare volte in cui l’avevo incontrata, estremamente severa, e adesso me ne stava dando la prova inconfutabile.
Era più sottile di mia madre, e infatti, guardandola, pensai che il tailleur nero che indossava le calzasse proprio bene. Era una donna in carriera, faceva l’avvocato ed era impegnata per la maggior parte della giornata. Notai subito le rughe, ben più profonde di quelle della mia mamma sebbene tra loro ci fossero pochi anni di differenza, che le solcavano il viso vicino agli occhi e alla bocca. I capelli erano ordinatamente raccolti sulla nuca, castani e lisci che contrastavano con la pelle lattea che avevo anche io.
«Regola numero due» proseguì la matrona, aggiustandosi gli occhiali dalla montatura pesante e a tartaruga sul naso «io sarò via per molte ore, durante la giornata, per questo esigo ordine e disciplina anche mentre non ci sono. Dunque, è severamente vietato portare gente in casa, amici o giovanotti malintenzionati che siano, sia in mia assenza che in mia presenza.»
Mi guardò, imponendo un cenno di assenso da parte mia. Dopo dieci secondi in cui l’ebbi guardata fisso senza dare alcuna risposta, m’ignorò deliberatamente e continuò con un sussurro che parlava chiaro. Un sussurro che diceva «Ti rimetterò in riga, ragazza, non preoccuparti.»
Avevo odiato i miei genitori per molto meno, ma non per questo: non era stata colpa loro. Sapendo di quello che stava succedendo sotto il mio tetto, infatti, zia Catherine si era subito proposta – meglio dire imposta – per ospitarmi per qualche mese nel suo vasto appartamento, così da evitare spese inutili di un eventuale psicologo che non avrei mai incontrato o punizioni che non mi avrebbero fatto imparare un bel nulla.
Riluttanti, ma alla fine convinti, sia i miei che Gwendolyn si erano trovati d’accordo sulla richiesta, che pareva più una decisione, della mia parente.
La zia abitava persino vicino alla mia scuola; dovevo ancora prendere l’autobus per arrivarci, ma la distanza si accorciava.
«Regola numero tre: in questa casa gli orari vanno sempre rispettati. Sveglia alle sette meno un quarto, non un minuto più tardi.» Prima, malgrado la maggior distanza da scuola, mi alzavo sempre non prima delle sette. «Si cena alle otto. Ti voglio vedere a letto non dopo le dieci. Intesi?»
Cosa avrei detto a Blake? Come avrei fatto a vederlo ancora, con questa zia che mi tartassava con le sue rigide regole?
«Mi stai ascoltando, signorina?»
«Sissignora… ehm, volevo dire, sì, zia Kate» mormorai in rassegnazione. Fui attraversata da un moto di odio che avevo provato per pochi esseri umani prima di allora. Potevo essere più tollerante persino nei confronti di Lydia e Douglas. Forse.
«Non ti azzardare mai più a chiamarmi con un diminutivo, signorina, detesto questo tipo di informalità» mi rimproverò in tono rigoroso.
“Oh, bene”, pensai, “sono appena entrata in questa casa e già comincio a fare errori uno dietro l’altro”. Pazienza, non credevo che avrei rivolto spesso la parola alla zia, non ci sarebbe dunque stato sovente bisogno di chiamarla nella giusta maniera.
«Regola numero quattro: qui, quello che sporchi, lo pulisci» mi ammonì sventolando l’indice in aria, disegnando dei cerchi per indicare l’ambiente. «Inoltre, non sognarti nemmeno di poterti strafogare di schifezze come facevi a casa tua. Con me non toccherai, anzi, non vedrai nemmeno con il binocolo cibo impacchettato, inscatolato, imbottigliato o surgelato, né tanto meno niente di fritto, di dubbia provenienza o con eccedente contenuto zuccherino.»
Praticamente dovevo morire di fame. Il messaggio mi sembrava ovvio.
Le valigie incominciavano a pesare per le mie braccia sottili. Mi sorpresi del fatto che fossero così grevi nonostante dentro non vi fosse alcun libro. Sì, perché i miei libri erano tornati nella mia stanza, ma io me ne ero dovuta andare, senza portarmi dietro alcun oggetto di svago.
«Regola numero cinque: quando sono a casa, voglio vederti studiare seriamente. Quando sarò sicura che la tua media scolastica si sarà rialzata almeno un minimo, allora potremo ricominciare a parlare di libri. Ma non di musica ed mp3. Ci siamo capite?»
Annuii con le lacrime che mi pungevano gli occhi, il capo chino. Ma non potevo farmi vedere piangere, ero troppo orgogliosa per questo. Mi domandavo, comunque, come avrebbe fatto la zia ad essere così presente e a controllarmi, sapendo che era così impegnata con il lavoro. Eppure, in qualche maniera, non faticavo a credere che vi sarebbe riuscita senza troppo sforzo.
«Ah, e non inventarti nemmeno scuse come “Rimango in biblioteca dopo la scuola” o cose simili, perché tanto so che anche se ci andassi leggeresti di tutto tranne quello che dovresti studiare. Devi essere a casa all’ora che decido io.»
Anche mentre mi scortava nella mia nuova stanza, vuota e senza segni che qualcuno vi fosse stato prima di me, desolata e senza colore, la zia continuava ad ammucchiare regole su regole, che dubitavo mi sarei ricordata tanto facilmente. Le pareti desolate non avevano visto la compagnia di mobilia da anni. Al centro, potevo vedere l’intelaiatura di un letto che sorreggeva il materasso nudo, dello stesso colore pallido e spento del resto della camera.
Prima che uscisse e mi lasciasse sola, mi disse: «Alle cinque, cioè tra mezz’ora, la signora Rush al piano di sopra ci ha cortesemente invitate per un tè. Siamo molto amiche e le piacerebbe conoscerti. Ovviamente verrai, e sarai anche educata. Siamo d’accordo?»
Per lei era tutto un impormi doveri e doveri e chiedermi se andava bene, dicendomi implicitamente che non avevo scelta che obbedire. Ancora una volta, annuii debolmente; mi sentivo come una servetta che altro non poteva fare se non quello. Dire di sì senza obiezioni da muovere.
Quando la perfida zia richiuse la porta alle sue spalle, crollai sul letto dallo spoglio materasso che dovevo ricoprire con le mie lenzuola, e lo bagnai di lacrime. Singhiozzai sommessamente per un quarto d’ora abbondante, poi mi decisi ad asciugarmi gli occhi e a cominciare a rendere mia quella stanza, malgrado sapessi che non si sarebbe mai animata di quella personalità presente nella mia vecchia.
Poco dopo stavo già tirando le labbra in un sorriso sghembo e forzato, mentre salivo le scale verso il piano di sopra insieme alla zia. Quando non si girava per guardare se ero ancora lì a seguirla, digrignavo i denti e, mentalmente, le lanciavo una maledizione dietro l’altra. Ero appena arrivata e già non sopportavo più la convivenza con quella donna. Bramavo una qualche via di fuga, o un’alternativa che non mi avrebbe costretta a vivere sotto lo stesso tetto di quella tiranna. Ma se anche mi fosse venuto in mente di scappare, magari non tornando a casa dopo la scuola, cosa avrei fatto dopo? Potevo rifugiarmi da Blake, ma era una copertura che non sarebbe durata troppo: i suoi genitori non potevano non riconsegnarmi ai miei familiari. Non potevo neanche chiedere aiuto a Gwendolyn, poiché era d’accordo riguardo la mia prigionia.
Sì, prigionia, ma era completamente diversa da quella che intendevo io fino a pochi giorni prima.
Avevo ricominciato ad andare a scuola da più di una settimana, ma ancora non avevo raccontato nulla del mio trasferimento a Blake, neppure quando ero ancora a casa e lui veniva a trovarmi. Come avrei fatto a dirgli che da un momento all’altro non potevamo più vederci all’infuori delle mura scolastiche? E con chi mi sarei confidata d’ora in poi, io?
 
La signora Rush non era poi così male: una volta arrivate, ci accolse molto calorosamente. Era una donnina all’incirca della stessa età della zia, tarchiata e con indosso un largo maglione rosa classico che le conferiva un’aria pacata e cortese. Era molto più affabile della mia detentrice, poco ma sicuro, ed ebbi meno difficoltà a comportarmi educatamente sapendo che non ero in compagnia di un’altra matrona come Catherine. Quest’ultima, per tutto il tempo passato nell’appartamento della donna, risultò particolarmente sopportabile. Sì, certo, con me si comportava ancora freddamente. Tuttavia, riuscivo a tollerare la sua presenza.
Ammetto che era un salotto accogliente e ben arredato, quello ove fummo invitate a prendere posto. Inoltre, sopra il sofà di un bianco perlaceo, potei notare un cesto contenente due ferri e qualche lavoro a maglia, di cui uno ancora incompiuto. Ne dedussi che la signora doveva essere una casalinga, e che nel tempo libero si dedicasse a quel passatempo. In quell’atmosfera calda, mi sentii quasi a mio agio.
La signora Rush era sola quel pomeriggio, ma potei desumere che doveva avere una felice famigliola. Infatti, una volta finito di bere il tè verde che ci aveva servito, mi fece vedere tutte le foto incorniciate dei suoi parenti più stretti, che probabilmente zia Catherine aveva già potuto ammirare in precedenza. Se ne usciva sempre fuori con frasi come «Dio, com’era carino il mio bambino quand’era così piccolo!» oppure «Com’ero giovane quando è stata scattata questa foto!» ed io tutte le volte annuivo, con un iniziale stupore nel vedere quelle immagini.
Sì, proprio così: stupore, cui poi però mi abituai, e lo vidi così disperdersi man mano dentro di me a zampilli, come gli schizzi di una pozzanghera.
Un’ora dopo ritornai nella mia prigione insieme alla tremenda zia. Ero stanchissima, ma almeno lo era anche lei. Significava che forse, almeno per quella sera, mi avrebbe lasciata in pace.
Decisi di non disturbarla, onde evitare scatti d’ira improvvisi, fino a dopo cena. Il pasto era orribile: era stata lei a cucinare; mi aveva presentato nel piatto una zuppa di non so che cosa fumante, dall’odore non molto invitante, e il sapore non tradì, ahimè, le mie aspettative. Non terminai di mangiare, e Catherine capì di essere un fallimento in cucina, quindi lasciò che rimanessi con i morsi della fame piuttosto che costringermi a mangiarla.
Speravo che dopo quella cena da dimenticare, per farsi perdonare mi avrebbe concesso una telefonata. Così, poco dopo le nove, mi addentrai in soggiorno, e vidi la donna seduta sulla sua poltrona di pelle con le gambe accavallate, che indossava già la camicia da notte. Aveva gli occhi puntati sul televisore, che trasmetteva un telefilm prodotto dieci anni prima almeno. Ipotizzai che di lì a poco sarebbe andata a dormire, anche se il giorno dopo era domenica, quindi lei in teoria non doveva lavorare. Ma era sempre meglio chiederglielo adesso. «Zia Catherine?» la chiamai, appoggiandomi allo stipite ligneo della porta.
La zia non distolse nemmeno lo sguardo dallo schermo. «Sì?» chiese, seccata.
«Potrei fare una telefonata?» azzardai.
Il mezzo secondo che trascorse mi parve infinito. «Vuoi chiamare i tuoi genitori?» mi rispose lei con un’altra domanda.
«N-no…»
«E allora chi?» incalzò lei.
«Vorrei… vorrei sentire un mio amico; sapere come sta.» Io e Blake ci eravamo visti appena il giorno prima a scuola, ma quel giorno, che era sabato, ancora non avevo avuto notizie di lui. Solitamente passavamo il sabato sera in casa mia a guardare un film e poi giocavamo a dama fino a tarda notte. Ma sapevo, con un peso nel petto che metteva a prova la mia resistenza, che tutto ciò sarebbe ineluttabilmente cambiato.
«Per sapere come sta?» ripeté, a pappagallo, zia Catherine la mia domanda. Poi scosse con decisione la testa. «No, non se ne parla, è troppo tardi, lo sentirai domani.»
Evidentemente qualcuno non aveva capito qualcosa. Mi rinchiudevo per dei giorni in camera mia senza andare a scuola, rendevo la vita impossibile ai miei genitori e non avevo più amici, a parte Blake, e la cosa migliore che viene in mente a quelli che avrebbero dovuto starmi più vicino era stata quella di spedirmi da una zia malefica che non mi permetteva di fare niente?
Strinsi i pugni, sapendo di non poter ribattere, con le lacrime che iniziavano a salire e ad esigere il loro spazio. Mi maledissi, perché piangere era la cosa che mi veniva più spontaneo fare in quei momenti di debolezza in cui dovevo sottomettermi. Ero così infantile e viziata. Mi sforzai tuttavia di mantenere un tono dignitoso: «Posso andare, allora, a prendere una boccata d’aria fuori?»
«Il termine “fuori” è troppo generico» telegrafò la donna tra le labbra sottili, degnandomi di un minimo di attenzione e abbassando il volume del televisore. «Dove vorresti scappare, signorina?»
Abbassai lo sguardo, incapace di sostenere il suo. «Dove vuoi che vada, zia?» risposi con calma e un pizzico di amarezza. «In queste ultime settimane non mi ha mai cercato nessuno. Non ho una gran vita sociale. Volevo solo fare due passi qui intorno.»
La zia, alquanto scocciata, alla fine comunque fece un cenno d’assenso. «Va’ pure. Ma sono guai se non torni entro mezz’ora.»
In quel momento il cuore mi si riempì di gioia. Mi infilai la giacca e uscii dall’appartamento, precipitandomi giù per le scale di corsa, nella consapevolezza di avere i minuti contati – il coprifuoco alle dieci non si rimandava.
Essere fuori, sotto un cielo quella notte privo di stelle, mi dava un pizzico di senso di libertà, una libertà che non mi era concessa. Era molto più bello essere una reclusa a casa mia.
Mi mancava Blake.
Mi misi a camminare distrattamente sul marciapiede lì vicino, sotto la luce fioca dei lampioni. Ripensai a ciò che avevo fatto poche notti prima, quando gli avevo stampato un bacio sulle labbra. Non potei fare a meno di sorridere: era stato così tenero e così amichevole allo stesso tempo. “Ma i baci sono davvero amichevoli?”, mi chiesi poi.
Ebbi paura di aver messo qualche strana preoccupazione a Blake. In effetti, andava tutto così bene tra me e lui, perché doveva venirmi la curiosità di baciarlo? Non andava già perfettamente in questa maniera?
Le mie domande furono troncate quando vidi un pezzo cartaceo svolazzare per terra di fronte ai miei piedi. Un lampione appena sopra di me lo illuminava, comprendendolo nel cerchio di luce che emanava sul marciapiede.
Sbarrai gli occhi e il cuore iniziò a pulsare con foga: erano cinque dollari. So che era poco, anzi pochissimo, ma io non avevo potuto portarmi soldi dietro, dalla zia. Mi abbassai per raccoglierli, chiedendomi che cosa poterci fare, una brezza notturna che faceva svolazzare ancora gli angoli della banconota tra le mie dita.
Fu allora che lo stomaco brontolò con forza, lamentandosi ancora della scarsità della cena consumata poco tempo prima.
«Non sognare nemmeno di poterti strafogare di schifezze come facevi a casa», aveva deliberato la zia appena poche ore prima. Io avevo cinque dollari in mano, nessun controllo, una fame da lupi e ancora venticinque minuti a disposizione: quanti caffè potevano essere aperti nei dintorni quella sera? Dio, cinque dollari potevo usarli per una, ma no, che dicevo, due o tre ciambelle almeno. Sarei andata a letto del tutto sazia.
Avevo appena iniziato a guardarmi intorno in cerca di qualche insegna, quando mi accorsi di una figura che si era posizionata davanti a me e che prima ancora non avevo notato, troppo presa dalla banconota appena trovata per terra.
«Ehm, scusa? Quella è appena caduta a me» mi sentii dire da una voce che aveva un che di nebulosamente familiare.
Sollevai lo sguardo dai soldi che avevo raccolto e mi ritrovai a guardare negli occhi Logan Rush. Riconobbi immediatamente il suo intenso sguardo color nocciola che mi squadrava minuziosamente, un centimetro per volta. Il venticello che sferzava stava scompigliando anche i suoi capelli folti e castani. Lo vidi stringersi nella sua giacca di pelle.
Molti chiamano certi fortuiti avvenimenti semplici coincidenze. Ma chi lo dice che non sia in realtà uno strano scherzo del destino?
«Keira Towers? Che cosa ci fai tu qui?» mi chiese poi, sinceramente dubbioso.
Io feci spallucce. «Sai, da adesso ci abito» risposi con acidità, quasi fosse colpa sua. Intanto tenevo ancora i soldi trovati nella mano destra.
«Ci abiti?» aggrottò un sopracciglio lui.
«Aha» asserii, indicando con il capo l’edificio poco lontano dove ora abitavo con Catherine.
Lui sembrò non aver capito molto bene. Tuttavia non mi fece altre domande. Semplicemente, scrutò i miei – anzi, suoi – cinque dollari. «Cosa volevi farci, con quelli?» domandò poi, con un sorrisetto che gli affiorava sulle labbra. Non era un sorrisetto di scherno né d’imbarazzo. Semplicemente, era quello che era.
Mi posai una mano sullo stomaco. «Stavo andando a cena. A cena di ciambelle» specificai. Neanche a casa mi passava per la testa di consumare un pasto del genere. L’aspettativa di qualche dolciume zuccheroso stava facendo salire la mia emozione alle stelle, in un entusiasmo tuttavia era scemato poco più tardi nella consapevolezza che il proprietario del denaro di cui mi ero impossessata era di fronte a me.
Lui, forse guardando me e i miei occhi gonfi e ancora arrossati, o forse per semplice telepatia, o con più probabilità per puro caso, credo capì immediatamente cosa mi passasse per la testa. «Se vuoi ti faccio vedere un caffè qui vicino.»
Scossi la testa, porgendogli la banconota. «Ormai non ne ho più la possibilità» gli risposi con un sorriso amaro, del tutto al verde.
Lui ridacchiò. Quando rideva gli si sollevavano lievemente gli zigomi stringendo gli occhi dallo sguardo profondo in due fessure, in un’espressione molto più adorabile rispetto a quando era serio. Be’, non che Logan non avesse un brutto aspetto. Ma non badavo eccessivamente a questo tipo di cose. «Dai, andiamo, offro io» concluse infine.
In quell’istante avvertii la forte sensazione di sprizzare gioia da tutti i pori, ma di certo non lo diedi a vedere. Non mi posi alcun problema ad accettare, non ero il tipo da fare complimenti. Feci di sì con il capo e basta, piena di aspettative per la prima volta nella giornata.
 
Mi sedetti al tavolo da sola, una volta dentro il locale, e vidi Logan arrivare appena un minuto dopo con in mano una scatola di cartone contenente sei ciambelle disposte ordinatamente in due file da tre. Ne arraffai subito una con una zuccherosa glassa rosa sopra e la addentai voracemente, come se non avessi messo niente sotto i denti per giorni. Logan ne prese una al cioccolato, ma la mangiò masticandola con estrema calma, senza fretta.
Per qualche secondo nessuno dei due disse nulla, ma non ci volle molto prima che lui esordisse: «Dunque, spiegami, cosa intendevi quando hai detto che adesso abiti qui?»
Presi un tovagliolo e mi pulii le labbra dallo zucchero appiccicoso prima di replicare. «Intendevo dire che ora siamo coinquilini, vicini di casa
Preferivo di gran lunga Blake, come vicino, a dire la verità.
Lui parve sinceramente confuso. «Come sarebbe a dire vicini di casa? Stai delirando per caso, Towers?»
Feci di no con la testa. «Ho conosciuto tua madre. Una personcina davvero simpatica e deliziosa, devo dire. Mi ha fatto vedere le foto di quando eri piccolo. Che… carino» finii, in cadenza discendente. Sì, mi sentivo particolarmente loquace quella sera, specie dopo aver visto Logan Rush arrossire violentemente alle parole “che carino”. Fui incoraggiata a proseguire: «Sto al piano appena sotto il tuo, con mia zia Catherine» lo informai poi con tono che lasciava intendere che non ne fossi particolarmente entusiasta.
Gli raccontai di come i miei genitori non riuscissero più a starmi dietro, perciò mi avevano mandato dalla zia, una donna rigida e insopportabile, e gli raccontai della mia visita alla signora Rush e di come, dalle foto che mi aveva fatto vedere, avessi capito che eravamo diventati coinquilini a tempo indeterminato. Non so perché lo feci, visto che non mi aprivo mai con nessuno. Lo facevo con Blake, ma lui era il mio migliore amico. O forse era una cosa da vicini di casa?
Lui ascoltò in silenzio per tutta la durata del racconto, ma sapevo che anche se non diceva nulla, aveva l’attenzione focalizzata su di me. Si espresse solamente alla fine. «Quella donna la conosco abbastanza bene: deve essere un cyborg, una macchina da guerra, o qualcosa del genere» disse, con una naturalezza tale da farmi scoppiare in una risatina.
«Chi, mia zia?»
«Eh già» annuì lui, ridendo.
Agguantai la seconda ciambella, ripiena di crema, mentre gli esprimevo il mio consenso alle sue parole. In fondo, dovetti ammettere, non stava andando in maniera così pessima come mi aspettavo per la fine di quella giornata. Avevo avuto a che fare con Logan per tutti quegli anni al liceo parlandoci a malapena, ed ero convinta che fosse solamente una testa vuota, un altro di quei ragazzini pieni di sé che popolano gli edifici scolastici. Be’, che lo fosse effettivamente ancora non potevo saperlo, ma ciononostante stava facendomi ridere un po’, cosa che non avveniva spesso, e potevo dire di essergli già grata per questo. Per quanto potessi essere grata io a un essere umano.
«Quindi hanno deciso di mandarti qui perché ti sei chiusa in camera tua. Ecco perché non venivi più a scuola» comprese lui.
«Proprio così» confessai. «Ma come, si notava così tanto la mia mancanza?»
«Be’, non proprio» disse lui, puntando lo sguardo fuori dalla finestra. «Il fatto è che dopo qualche giorno c’è chi ha incominciato a fare strane ipotesi, costruendo delle storie romanzate, inventandole di sana pianta e facendole girare come pettegolezzo, così la voce si è un po’ sparsa. Sai, le congetture danno sfogo all’immaginazione.»
Corrugai la fronte, in un sospiro. «E tra quelli che hanno fatto queste congetture,scommetto che ci sei anche tu.»
Lui non riuscì a trattenere una risata. «Io però non ho reso pubbliche le mie supposizioni» disse, fiero di sé. Come se fosse stato un paladino della giustizia. Mamma mia, quanto era insopportabile quando era convinto di essere carino e simpatico. «Dai» continuò, vedendo la mia faccia seria. «Stavo solamente scherzando. Non mi sarei mai permesso di dire nulla su di te o qualcun altro.»
Questa fu una magra consolazione per me. Dopo che ebbi ingurgitato anche la terza ciambella, lasciando a Logan le restanti, mi decisi a sbirciare l’orologio. Imprecai quando vidi che mancavano due minuti alle dieci.
Zia Catherine mi avrebbe ucciso.
Avrebbe detto ai miei genitori che ero una spregiudicata teppista e che dovevo rimanere a vivere con lei fino al giorno della mia laurea – ma mi sarei mai laureata?
Mi avrebbe reso la vita un inferno.
Dovevo tornare a casa entro due minuti – mi corressi, entro un minuto e cinquantatre secondi.
Mi alzai di scatto da tavola. «Scusa, ma devo andare, o mia zia mi ammazza» sbottai, prendendo a correre verso l’uscita senza nemmeno salutarlo.
«Keira?» lo udii prima di precipitarmi fuori dalla porta del locale. Ero appena uscita quando percepii una mano che mi afferrava saldamente per il polso, esattamente come quella volta, quando fui salvata dai rimproveri di Douglas Spear. «Ehi, calmati. Guarda, noi stiamo laggiù» disse Logan, dietro di me, indicando un grande edificio con il dito. «Due passi e siamo arrivati. Sta’ tranquilla.»
Ripresi la calma e lo costrinsi a lasciarmi. Dopo di che mi avviai verso casa, con il ragazzo che, ad un certo punto, mi affiancò. Rimasi meravigliata. «È sabato sera. Che fai, vai a casa alle dieci?» Non ci potevo credere. Io ero l’unica adolescente sulla faccia della terra che tornava a casa il sabato sera alle dieci.
«E tu?»
«Io sono un caso particolare.» Non andavo molto fiera della cosa, ma forse dal mio tono parve proprio così.
«E se volessi essere un caso particolare anch’io?» A quel punto calò il silenzio tra noi due. Entrambi non credevamo nemmeno un po’ a ciò che lui stesso aveva detto. «Devo tornare a casa a prendere altri soldi. Non ne ho presi abbastanza e in più le tue ciambelle, seppur di poco, hanno fatto la loro parte nel mio portafoglio» ammise poi.
Non mi sentii particolarmente in imbarazzo. Avrei dovuto esserlo un pochino, in teoria, visto che prima avevo scroccato un passaggio a un amico di Douglas, e adesso gli avevo fatto anche pagare la mia “cena”. Eppure no, mi sentivo tranquilla e in pace con me stessa. «Grazie per le ciambelle.» Almeno però non ero un’ingrata.
«Figurati. A me basta che non vai in giro a dire quanto ero carino da bebè – e mi riferisco alle mie foto compromettenti.»
Io ridacchiai, ancora una volta. «Ma a chi potrei mai raccontarlo?» Domanda retorica. Mi sembrava così scontato.
«A tutti i tuoi amici, che lo direbbero a tutti i loro amici, e così via. Forse non lo sai, ma i pettegolezzi si diffondono più velocemente di un’epidemia.» Si mise una mano distrattamente tra i capelli.
«Ah, sì, i miei amici.» La mia voce si abbassò morendo lentamente verso la fine della frase. Mi strofinai gli occhi, pensando “Certo, avere degli amici è così dannatamente normale”. Tutti ne avevano almeno un paio molto intimi, e un’altra ventina con cui uscire, come minimo. Io avevo un vicino di casa – ex vicino di casa – e Lydia. Anzi, no, non avevo più nemmeno lei. Ma perché proprio io, tra tutti gli esseri umani?
Una volta arrivati e oltrepassato la soglia del portone, ci dirigemmo verso l’ascensore. Appena dentro, premetti il tasto che ci avrebbe condotti al terzo piano, e quando le porte si chiusero realizzai che lì dentro c’era uno spazio decisamente troppo piccolo, al punto da costringere me e Logan da stare così vicini da sfiorarci. No, non ero abituata agli ascensori.
Al terzo piano le porte si riaprirono pigramente e mi sentii molto meglio in uno spazio più vasto. Feci un respiro profondo, e da fuori vidi Logan che stava premendo il tasto 4. Appena prima che le porte si incontrassero, chiudendosi di nuovo, lui le bloccò con le mani e vidi il suo viso sbucare da una fessura poco più grande di un palmo. «Buonanotte allora, Towers.»
«‘Notte» dissi appena e svogliatamente. Infine l’ascensore ripartì, ed io rientrai in casa. Sinceramente, avrei di gran lunga preferito la compagnia di Logan ancora un po’, benché nemmeno lo conoscessi, piuttosto che stare sotto lo stesso tetto, sebbene a malapena ci parlassimo, di zia Kate. Oh, chiedo perdono; zia Catherine.
«Era ora. Cominciavo a preoccuparmi» mi accolse calorosamente la zia quando fui davanti a lei. «È ora che vai a dormire, signorina. Domattina devi essere in piedi alle sette meno un quarto.»
Inutile descrivere la mia faccia sbigottita. «Come? Ma domani è domenica!»
«Essere mattutini è importante, signorina, e poi bisogna cominciare a darti delle regole, che non ti sono mai state imposte. Approfitterai della mattinata per fare i compiti.»
«Ma sei sadica!» mi uscì un’esclamazione che forse avrei fatto meglio a tenere per me. Infatti me ne pentii quando ancora non avevo terminato di dirla.
«Non parlarmi con quel tono, signorina!» mi rispose lei in tutto tono, con gli occhi sbarrati, grandi e a palla che da dietro gli occhiali mi incutevano timore. «Altrimenti ti faccio anche pulire il bagno e cucinare il pranzo!»
Ammutolii all’istante e, remissiva, strisciai nella mia stanza, adagiandomi sul materasso con le coperte ammassate in fondo e ancora da sistemare, ma non ne avevo voglia per niente. Eppure, se volevo dormire – e la zia pretendeva che dormissi – dovevo sistemarmi per bene il letto. Mi misi d’impegno e poco dopo, ancora con i vestiti addosso e le scarpe da ginnastica logore lanciate a casaccio sul pavimento, m’infilai sotto le coperte, inerme e pigra, attendendo solamente che il soggiorno dalla sadica e malvagia Catherine si concludesse.
 
Era ancora notte fonda, ma i miei occhi fissavano il soffitto, un soffitto che in realtà non riuscivano a mettere a fuoco a causa del buio.
“Sai, Lydia…”
Non so perché incominciai, tutto ad un tratto, a rivolgere a lei i miei pensieri.
“… guardo verso l’alto, un punto indefinito. Sono in questa stanza vuota, una stanza spoglia e senz’anima. Sì, perché camera mia, con tutte le mie cose dentro, aveva come assunto l’impronta della mia personalità. Le avevo regalato un pezzo della mia anima. Sai, penso che lì dentro ci fosse anche una parte di te. In fondo, tutto il tempo che vi abbiamo passato dentro insieme e tutti i regalini che mi hai fatto negli anni che ho messo lì dentro, devono pur contare qualcosa.
Per qualche ragione a me sconosciuta, prima di partire ho infilato uno dei pupazzetti che mi donasti un giorno, nella mia valigia. È quello arancione, a forma di gattino. Era ed è tutt’ora il mio preferito.
Non so perché l’ho fatto. Probabilmente è stato perché volevo portarmi dietro con me un ricordo dei momenti gioiosi.
I ricordi. Qualcosa che ci appartiene, ma che tuttavia rappresentano qualcosa che non possediamo più.
Sai una cosa però, Lydia? Preferisco pensare a qualcosa che non ho più, piuttosto che a quello che mi aspetta adesso, nella vita vera, nel presente, e alla fortuna che sembra avermi del tutto abbandonata. Perciò, sai cosa farò? Cercherò di addormentarmi pensando a tutti i momenti belli passati insieme, così s’imprimeranno meglio nella mia mente. Ti auguro buonanotte, Liddy”.
Così abbassai le palpebre, pesanti, senza nemmeno accorgermene.
Ero così arrabbiata con Lydia, che involontariamente avevo iniziato a scindere i miei ricordi che la riguardavano in belli e brutti, suddividendo così la mia ex migliore amica in due persone completamente diverse. La Lydia che mi era amica e fedele, allora, per la mia mente, semplicemente non esisteva più, mentre quella che mi aveva tradito mi stava facendo soffrire senza alcun motivo preciso.
I miei pensieri si fecero man mano più offuscati, finché mi addormentai, esausta.




I deliri pensieri di Camelia:
vi chiederete ora perché ho cambiato banner e, soprattutto, nickname nella foto. Ecco, in realtà sto per cambiare nickname su EFP. D'ora in poi, anzi, non appena la mia richiesta sarà accettata, mi chiamerò Camelia Jay ;D
Scusate, ma pubblico questo capitolo davvero di fretta e non ho il tempo per i miei soliti fronzoli! Mi farò sentire presto. Ringrazio infinitamente tutte coloro che mi hanno lasciato e che mi lasceranno un commentino - si spera ;D. Ciaoooo! A presto!
Cam

   
 
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