Ci
incontreremo ogni notte
Do
I wake or sleep?
Ode
to a Nightingale, John Keats
«La
ritirata
strategica è stata provvidenziale! Ancora un pasticcino e giuro
che sarei morto» esclamò Milo, lasciandosi cadere sul divano
dell'Undicesima Casa con un sospiro di sollievo.
Camus
entrò
a sua volta in salotto, chiudendosi la porta alle spalle.
«Taci:
se
non fosse stato per me, avresti continuato a mangiare tutta la
notte» puntualizzò, scuotendo la testa in segno di disapprovazione
«Io proprio non capisco cosa ci troviate di bello nell’abbuffarvi
fino a star male».
«Ma
Camus!»
protestò l’altro, l'incredulità dipinta sul viso «É la vigilia di
Natale!»
«Me
ne
sono accorto, grazie. E con ciò?» replicò l'Acquario sarcastico,
spolverando via dal cappotto ciò che restava del nevischio
accumulatosi nel tragitto dal Secondo Tempio fin lassù.
In
appena
due giorni la neve aveva ricoperto ogni cosa: dalla cima del
Santuario si poteva ammirare la coltre bianca estendersi tanto da
arrivare a scontrarsi col placido blu dell'acqua salata, diverse
miglia più in basso.
«Mi
sa
tanto che quest'anno avremo un bianco Natale!» aveva annunciato Milo
entusiasta, alla vista dei primi cristalli ghiacciati.
Camus
si
era limitato ad annuire, lieto che la compagna di una vita gli
avesse fatto visita anche lì in Grecia, dove in genere non cadeva
mai.
«Possibile
che
tu non senta l'atmosfera speciale che permea questo periodo
dell'anno? Le luci colorate, i regali sotto l'albero, la voglia di
condividere tutto con gli affetti più cari... secondo me è un
evento bellissimo!»
Aquarius
lo
guardò con una punta di tenerezza, ben celata dall'espressione
scettica che gli rivolse; a volte lo Scorpione era come un bambino
divenuto adulto troppo presto, pronto a farsi incantare da
qualsiasi sciocchezza.
«Ti
ricordo
che questa è una festività prettamente cristiana. Passino
Aldebaran, Shura e Death Mask – anche se temo che Cancer la
consideri solo un’occasione per sbronzarsi in santa pace –, che
sono nati e cresciuti in paesi dove la tradizione cattolica è
molto forte, ma il resto di noi non dovrebbe celebrarla affatto».
Eccezion
fatta
per lui e Shaka, con l'avvento di dicembre tutti sembravano
dimenticarsi di essere cavalieri di Atena e passavano l'intero
mese a organizzare cene, decorare le abitazioni, comprare doni da
scambiarsi – decisamente ridicolo.
«Dei,
quanto
sei rigido! Non mi stupisce che le stelle abbiano scelto proprio
te per rappresentare il Signore dei ghiacci. Basta guardare casa
tua: bianco, grigio, bianco – grigio l’ho già detto, vero? E
nemmeno uno straccio di albero! Sei un cinico, Camus di Aquarius»
scherzò Milo, invitandolo a sedersi vicino a lui.
Il
suddetto
cinico si accomodò sulla pelle color avorio del proprio divano,
tenendosi tuttavia a debita distanza dalle mani del precedente
occupante; quest’ultimo, pur rimanendo leggermente deluso, non si
diede affatto per vinto.
«A
me
piace questa festa,» ripeté, afferrando a tradimento una ciocca
rossa del compagno e iniziando a giocarci «mi ha sempre fatto
sentire parte di un mondo dal quale, di norma, sono lontanissimo.
Mi ricorda anche dei bei momenti della mia infanzia; in dicembre,
dopo gli allenamenti, il maestro e io ci spostavamo sul versante
abitato dell’isola di Milo e passeggiavamo per il centro. Le
signore dei negozi mi auguravano buon Natale e mi davano un sacco
di caramelle».
L'Acquario,
nel
figurarsi il piccolo Scorpio vezzeggiato da donne di mezza età,
sorrise sotto i baffi.
«E
tu?
Tu non hai qualche reminiscenza del tuo passato che ti è dolce?
Anche in Siberia si dovrà pur festeggiare qualcosa!»
Alla
domanda,
Camus tornò subito serio.
Nella
zona
orientale della vasta regione russa dove si era allenato gli unici
eventi da celebrare erano quelli in occasione dei quali gli
abitanti del villaggio riuscivano a cacciare un numero sufficiente
di foche che bastasse a sfamare la popolazione; in quelle rare
occasioni lui e il suo mentore lasciavano l'isba per recarsi nel
piccolo centro abitato e pasteggiare con carne fresca.
«Tieni,
giovane
Camus,» gli diceva l'uomo, staccando con il coltello un pezzo di
carne dallo spiedo che girava sopra le braci «mangiane a sazietà,
ora che puoi».
Il
bambino
non se lo faceva dire due volte e si avventava sul cibo come il
peggiore dei selvaggi, sporcandosi le dita e la faccia di grasso.
«Lassù
i
momenti di letizia sono tutti collegati all'abbondanza o meno di
roba da mangiare: è difficile stare allegri con la pancia vuota –
specialmente al Nord, dove il freddo non perdona».
Approfittando
della
momentanea distrazione di Camus dalle faccende presenti, Milo
riuscì finalmente a stringere a sé l'amante che, di riflesso,
abbandonò il capo sul suo petto.
«Proprio
per
questo dovresti godere del temporaneo benessere concessoci»
riprese poi, baciandogli la fronte «Potrebbe non ripresentarsi:
sai meglio di me quanto sia precaria la nostra condizione».
A
rompere la serietà del discorso arrivò un sonoro gorgoglio,
partito dalla pancia dello Scorpione.
Entrambi
risero,
colti alla sprovvista.
«Dannato
Aiolia!»
si lamentò Milo «Lui e i suoi Kourabiedes pieni di burro! Mi ci
vorranno cento giri di Arena supplementari per smaltirli!»
«La
colpa
è tutta tua: difetti del senso della misura» lo bacchettò
Aquarius, scansando con grazia il braccio che gli cingeva le
spalle «Vado a prepararti una tazza di tè. Ma non ci fare
l'abitudine: non ho la vocazione dell'infermiere».
Appena
l'altro
scomparve oltre la soglia della cucina, il volto dell'Ottavo
Custode si distese in un ghigno soddisfatto; nonostante l’aria
seccata che il suo burbero camerata si sentiva in dovere di
assumere in quelle circostanze, egli amava essere accudito da lui.
«Peccato»
disse
poi, cercando di sovrastare il fischio del bollitore.
«”Peccato”
cosa?»
«Che
tu
non abbia la vocazione dell'infermiere: saresti molto sexy con la
divisa indosso».
Un
ringhio
indignato, proveniente dall'altra stanza, gli confermò di aver
raggiunto l'obiettivo – ah, quanto adorava farlo irritare!
A
onor del vero non c'era momento in cui non lo adorasse, ma quando
era arrabbiato la sua blanda reattività emotiva saliva di qualche
gradino e tutto diveniva più divertente.
Al
suo
ritorno, Camus posò con calma studiata il vassoio sopra il
tavolino di cristallo e, prendendo una delle due tazze fumanti, si
accomodò su una sedia posizionata dalla parte opposta rispetto a
dove si trovava Milo.
«Piantala
di
fissarmi così. Sembri un avvoltoio che studia la preda».
«La
smetterò
solo quando tu farai altrettanto con le tue stupide battute osé.
Lo sai che mi imbarazzano».
«Ok,
ricevuto:
se la montagna non va da Maometto, allora Maometto andrà dalla
montagna» decretò rassegnato Scorpio, per poi raggiungere la sua
"montagna" con velocità sorprendente.
«Nobile
cavaliere
dell'Acquario,» cominciò solenne, inginocchiandosi ai piedi di
Camus «vorreste concedermi l'onore del Vostro perdono? L'onta che
per mano mia avete subito è grave, ma sono disposto a pagare con
la vita per riscattarmi ai Vostri grandi occhi dorati. Farò tutto
quello che vorrete-»
«Davvero?»
lo
interruppe il francese, a mezza via fra l'accondiscendente e il
divertito.
«Lo
giuro
su di Voi, amor mio».
«Allora
termina
qui questa pagliacciata. Ho qualcosa per te, in camera. Vallo a
prendere».
Incuriosito,
Milo
fece come gli era stato detto; sul letto trovò un pacco rosso
impreziosito da un nastro argentato.
«Quest'anno
niente
regali, Milo. Ormai siamo grandi, non è più tempo di simili
stupidaggini».
«Mh.
Dici
sempre così, ma alla fine non è mai vero».
«Vedrai,
vedrai».
Se
l'era
aspettato: Camus non aveva mantenuto la promessa nemmeno quella
volta.
Da
quando
stavano insieme, ogni Natale significava doni avvolti in carta
rossa e fiocchi d'argento.
Tornò
indietro
scuotendo la scatola, cercando di capire cosa ci fosse
all'interno: Aquarius aveva la bizzarra abitudine di impacchettare
gli oggetti di modo che fino all'ultimo non si riuscisse a
indovinarne la natura. Aumentava l'effetto sorpresa, diceva.
«Sapevo
che
non avresti resistito. Sei un parolaio» si chinò su di lui a
baciargli le labbra «Un parolaio così carino!»
«Sì,
sì…
adesso basta, però!» borbottò l'altro, continuando tuttavia a
prestargli la bocca.
Lo
Scorpione
lo accontentò, ridendo: «Come vuoi. Adesso tocca a me».
Dopo
aver
frugato per qualche tempo fra le tasche interne del giubbotto, ne
estrasse un pacchetto rettangolare.
«Oh
no,
Milo! Ancora quegli orribili Babbi Natale!» protestò Camus,
storcendo il naso.
«Oh
sì,
Camus! Anche io ho le mie sane tradizioni da rispettare» replicò
quello, difendendo la dignità dei piccoli Santa Claus ridenti che
ornavano la sua solita carta da pacchi.
«Aprilo,
schizzinoso che non sei altro!».
Qualche
attimo
dopo, l'espressione gioiosa del compagno gli confermò di aver
fatto centro.
«Allora,
ti
piace?»
«I
Poems
di Keats... Milo, grazie! Li desideravo da secoli!»
«Sì,
lo
so: sono proprio un tesoro! Che ne diresti di ringraziarmi in un
modo un po' più appropriato?» ammiccò Scorpio, allargando le
braccia.
L’Acquario
vi
si rifugiò di buon grado, finendo sul pavimento accanto all'amico.
«Vediamo
se
il tuo regalo può competere con il mio» disse provocatorio, mentre
attaccava il nodo del nastro.
«Uffa,
‘Mus!
Il maglione è carino, ma dovevi per forza prenderlo grigio?!»
«Tralasciando
il
fatto che il colore ti sta benissimo,» puntualizzò Camus,
ignorando l’occhiata stupefatta di Milo al complimento inatteso
«devi guardare all'utilità delle cose. Dato che appena entra
l'inverno prendi a lagnarti di avere freddo, quale dono sarebbe
stato più adatto di questo?»
Non
si
smentiva mai, quel perfettino: sempre a badare all'aspetto
pratico, quando si trattava degli altri.
«Seguendo
il
tuo ragionamento, la quantità industriale di libri di cui ti
circondi è pressoché da buttar via».
«I
libri
servono ad arricchire lo spirito, e… insomma, poche storie:
provalo!»
«D'accordo».
Sfilandosi
la
felpa che aveva indosso, Milo non poté non notare il guizzo
sottile che la vista dei suoi pettorali nudi aveva acceso negli
occhi dell’Undicesimo cavaliere; con un sorriso malizioso gli
prese le mani e se le poggiò addosso, rabbrividendo appena sotto
il suo tocco.
Camus
lo
lasciò fare per un po' e poi, ripreso possesso dei propri arti,
cominciò a vagare da solo lungo il corpo scolpito dello Scorpione,
soffermandosi di tanto in tanto sui punti che lui sapeva essere
più sensibili grazie a ore e ore di allenamenti.
Quando
con
le dita si addentrò all'interno dei jeans consumati di Scorpio,
questi emise una specie di grugnito e si affrettò a denudare il
busto dell'Acquario, la cui camicia finì orribilmente stropicciata
in un angolo; egli ammirò per un attimo i guizzanti muscoli del
compagno, per poi fiondarcisi sopra con la lingua e leccarne ogni
centimetro.
L'altro,
che
intanto era impegnato in lavoretti più in basso, si lasciò
sfuggire un mugolio di protesta.
«Questo
è
un colpo gobbo!» esalò, eccitato.
Milo,
nell'incavo
della sua spalla, ghignò: se c'era una cosa che faceva impazzire
il francesino, quella erano i classici morsi sul collo. Troppo
facile.
Ma
la
vendetta non tardò ad arrivare: Camus lo spinse via e, liberato
l'oggetto delle sue attenzioni dai boxer, dalle dita passò alla
bocca.
«A-ah
sì?»
ansimò il greco, mentre quello andava avanti e indietro,
implacabile «Vuoi... vuoi la guerra? Ora ti faccio vedere io!»
Lo
strattonò
quindi per i capelli – quei suoi meravigliosi capelli rossi –
senza preavviso, onde staccarselo di dosso; poi, fra le sue
proteste, si alzò e se lo caricò sulle spalle, diretto verso la
stanza da letto.
«Mettimi
subito
giù!»
«Eccoti
accontentato!»
esclamò una volta arrivato a destinazione, buttandolo con ben
poche cerimonie sul materasso.
Si
fissarono
quasi in cagnesco – Milo in piedi, col fiato corto e la fronte
imperlata di sudore e Camus scomposto fra i cuscini, scarmigliato
e paonazzo.
Poi
l'Ottavo
Custode si sdraiò con studiata lentezza sopra l'amante, che lo
accolse aprendo pian piano le gambe.
Esaudì
la
muta richiesta delle sue iridi languide penetrandolo
delicatamente, onde non fargli male, mentre l'altro riprese il
lavoro con le mani che prima aveva lasciato incompiuto.
Era
come
un rito, il loro: tutto cominciava in un irruento corpo a corpo,
per poi finire invece con morbida dolcezza.
Vennero
insieme,
gemendo l'uno sull'altro in un vivido miscuglio di chiome ramate e
dorate.
«Camus?»
chiamò
debolmente Milo, sfiorandogli alla cieca la testa con una carezza.
«Uhm?»
«Ti
amo».
L'Acquario
si
sollevò su un gomito, a studiarlo sbigottito.
«Non
me
l'avevi mai detto».
«Se
è
per questo, tu non me lo stai dicendo nemmeno ora».
Il
rosso
lo strinse a sé, continuando a non proferire parola.
«Devo
interpretare
questo abbraccio come un "anch'io"?»
«Certe
cose
non hanno bisogno di essere esplicitate a parole» rispose lui, a
bassa voce «Non serve che ti dica quello che già sai».
Stettero
per
un po' in silenzio, godendo della reciproca presenza e della
quiete circostante la quale, di quando in quando, veniva
interrotta dal suono lontano di una campana.
«Questa
deve
essere la campana della chiesa di Rodorio che segna la mezzanotte»
bisbigliò Scorpio «Buon Natale, Camus».
«Altrettanto».
Milo
balzò
giù dal letto e camminò a piedi nudi fino alla finestra del
salone, l'unica con
le imposte rimaste aperte.
«Ehi,
sta
ancora nevicando! Di questo passo sarà possibile scendere alle
Case sottostanti solo con gli sci!»
Dalla
camera
non arrivò nessun commento, così decise di tornare a letto;
sentiva freddo e aveva voglia di addormentarsi fra le braccia di
Camus.
«’Mus,
che
stai facendo?!» esclamò sulla porta, ignaro del motivo per cui
Aquarius si stesse rivestendo.
«Devo
andare,
Milo».
«Ma
stanotte
avevamo deciso di dormire qui! Nel caso tu avessi cambiato idea,
comunque, sarei io quello a dover alzare i tacchi».
«No,
tu
resta pure; io, però, non posso rimanere».
Il
biondo
lo guardò abbottonarsi il cappotto, continuando a non capire.
«Ho
fatto
qualcosa di sbagliato?» chiese allora, bloccandolo per un braccio.
Forse
l'aveva
offeso senza avvedersene: come spiegare altrimenti quello strano e
inquietante comportamento?
Camus
si
voltò e sorrise – di un sorriso talmente triste da fargli
accapponare la pelle.
«Tu
non
hai mai fatto nulla che non sia stato perfetto. Dal momento in cui
ti ho conosciuto, hai illuminato e riscaldato la mia via in un
modo che non credevo possibile. Ma è tempo che io ti lasci».
«C-Camus,
io
non comprendo… »
«Anche
se
non potrai vedermi, giuro che ti rimarrò sempre accanto, qualunque
cosa succeda» lo interruppe, ancora con quel sorriso mesto sulle
labbra «Te l'ho già promesso un'infinità di volte prima di adesso
e, come sai, io onoro sempre le promesse... a meno che non si
tratti dei tuoi regali. Non temere: ci incontreremo ogni notte...
nei sogni».
Un
sussulto.
Un brivido.
Milo
aprì
prima un occhio, poi l'altro, quindi allungò una mano a toccare il
pavimento: non era il gelido marmo dell'Undicesima Casa, bensì tiepido
parquet.
Quello
su
cui stava sdraiato, poi, non assomigliava per nulla al letto di Camus;
a giudicare dal sinistro scricchiolare delle molle, pareva invece il
suo vecchio divano.
Ancora
assonnato,
alzò la testa a cercare la sveglia digitale, che trovò in bella mostra
poco lontano: le undici e quarantacinque del ventiquattro dicembre.
Era
stato
solo un sogno.
Un
sogno
tanto crudelmente reale da attorcigliargli le viscere e mozzargli il
respiro.
«Solo
un
sogno. Perché mi fai questo, Morfeo?»
Durante
il
giorno sopravvivere era tremendamente difficile, ma se la cavava,
trascinandosi stanco attraverso giornate spente e tutte uguali.
Le
cose
peggiori rimanevano tuttavia i momenti come quello: non esisteva
sofferenza più grande che ritornare all'amara realtà dopo un'illusione
felice.
Si
alzò
controvoglia e arrancò fino all'interruttore della luce; una volta
acceso, rimase sorpreso nello scoprire un sacchetto sopra il tavolo.
Che
strano,
prima di coricarsi non l'aveva notato. O forse non c'era – poco
importava.
Dentro
vi
trovò delle cibarie avvolte in una pellicola di alluminio, e un
biglietto macchiato dai ghirigori di Aiolia.
Ti
mandiamo un po' di cibo, nella speranza che tu mangi qualcosa.
Puoi
raggiungerci quando vuoi, se ti va: in caso contrario, ci vediamo
domani. PER FORZA.
Auguri
‘Lia, Mu, Al, Shaka.
Qualcuno
doveva
essere salito dal Secondo Tempio fino all'Ottavo, lasciando lì la
busta per non disturbarlo.
Rilesse
le
firme: un anno prima, quella di Virgo di certo non sarebbe stata
presente. Era quasi buffo quanto i tragici eventi che li avevano
dimezzati avessero mutato il carattere dell'Illuminato.
In
quattro. Di nove che erano stati, quella sera solo in quattro
stavano festeggiando la vigilia giù da Aldebaran.
Di
sicuro,
comunque, più che di festeggiamenti si trattava di un disperato
tentativo di recuperare un briciolo di normalità.
Milo
di
Scorpio invidiava quei coraggiosi: lui non se l'era sentita.
Aveva
preferito
rimanere rintanato fra le sue mura, seduto a fissare l'angolo in cui,
in quel periodo, avrebbe dovuto esserci il solito abete sgangherato e
coloratissimo.
«Milo,
cos'è
quell'obbrobrio?»
«Non
si
vede? È un albero di Natale!»
«Fammi
un
favore: quando sai che sto per arrivare, nascondilo. È talmente
brutto da levare il sonno».
«Sei
noioso,
Camus. Sta’ zitto e baciami, piuttosto».
Quel
Natale
aveva deciso di non decorare nessun albero, ed era molto probabile che
non ne avrebbe decorati altri per il resto della sua vita.
Non
ci
sarebbero stati mai più né pacchi rossi né nastri argentati ad
attenderlo da qualche parte, e nemmeno regali da avvolgere nella carta
con le stampe di Babbo Natale: senza Camus non valeva la pena di
tentare di abbellire il mondo.
Passeggiò
un
poco per casa, senza meta; alla fine si ritrovò in camera, dove ebbe
l’impulso di aprire la finestra e sporgersi fuori.
«Niente
neve.
Nemmeno un fiocco».
Faceva
anzi
un caldo anomalo, per essere dicembre inoltrato.
E
pensare che solo dodici mesi addietro intorno al Grande Tempio non si
riusciva a vedere altro che bianco – e pensare che solo dodici mesi
addietro, proprio a quell'ora, lui e Camus se ne stavano abbracciati
fra le sue lenzuola di seta.
Adesso
anonimi
teli ricoprivano l'elegante mobilia del Tempio della Giara Sacra,
tanti fantasmi immobili e vuoti.
«Camus?»
«Uhm?»
«Ti
amo».
«Non
me
l'avevi mai detto».
No,
basta.
Doveva togliersi dalla mente quelle immagini a ogni costo, altrimenti
stavolta sarebbe impazzito davvero.
Spalancò
con
rabbia il cassetto del comodino, contenente un semplice quaderno blu
scuro dalle pagine ingiallite – l'unico strumento che gli aveva
permesso di non uscire di senno fino a quel momento.
Non
si
trattava di un vero e proprio diario, quanto piuttosto di una specie
di macabro promemoria.
Scorpio
non
era mai stato un nostalgico, uno di quelli che ama vivere nel passato;
persino subito dopo la morte di Aquarius aveva sempre tentato di
resistere come meglio poteva alla malinconia, evitando magari di
ricordare dettagli troppo intimi e dolorosi.
In
certe
occasioni, però, tale sforzo si era rivelato del tutto impossibile –
allora come adesso.
Così,
quando
rischiava di confondere il vero con la fantasia, apriva il quaderno e
scriveva tre semplici parole: Camus
è
morto.
Era
incapace
di motivarne il perché, ma vedere la verità messa su carta lo aiutava
a rassegnarsi.
Dopo
averlo
afferrato con la stessa delicatezza che avrebbe riservato a un
gioiello, prese a sfogliarlo: l'ultima traccia della sua sofferenza
risaliva a circa trenta giorni prima.
Stava
migliorando:
all'inizio lo usava quasi tutti i giorni, spesso anche più volte
nell'arco di un solo dì, macchiando la pagina di lacrime.
Piano,
a
fatica, ma stava migliorando.
24
Dicembre 1986, ore 11:58
6
mesi, 239 giorni, 5736 ore dalla sua scomparsa.
Camus è morto.
Din,
Don,
Dan.
Tre rintocchi distinti.
«Questa
deve
essere la campana della chiesa di Rodorio che segna la mezzanotte.
Buon Natale, Camus».
Già.
Buon
Natale, Camus.
Si
passò
una mano sul viso, stancamente: stava facendo gli auguri a uno
spettro. Che cosa ridicola.
Ma
era
davvero così assurdo rivolgere un pensiero a colui che era stato la
persona più importante della sua esistenza?
Non
poteva
fare a meno di ricordarlo, e mai avrebbe potuto: non in quel momento,
non dopo dieci anni. Dunque, che senso aveva condannarsi da solo?
L’Acquario
glielo
aveva promesso, in fondo; sotto il sole d'estate, fra le nebbie
autunnali, in punto di morte. Perfino nei sogni.
«Giuro
che
ti rimarrò sempre accanto, qualunque cosa succeda».
Per
un
giorno – uno soltanto – poteva concedersi di credere a quel
giuramento: del resto, era Natale anche per lui.
Le
campane
continuavano a suonare testarde, come a voler cancellare tutte le
angosce del mondo.
Fregò
con
due righe decise quello che aveva annotato pochi minuti prima e, su
una pagina bianca, scrisse nuovamente:
25
Dicembre 1986, ore 00:00
6
mesi, 240 giorni, 5737 ore dalla sua scomparsa.
Camus
è morto.
Ps:
Non badare a quello che ho appena scritto.
Sei
morto, ma nel mio cuore non morirai mai.
Buon
Natale, amore mio.
Ci incontreremo ogni notte... nei sogni.
Note
dell’autore
Cielo,
che angoscia.
Devo
tenere a mente di non mettermi mai più accanto al fuoco col computer e
le sigarette mentre fuori minaccia tempesta, altrimenti ecco quello
che viene fuori.
Desideravo
scrivere
qualcosa per Natale, ma l'avrei voluto appena appena più allegro...
pazienza!
Spero
che l’abbiate gradito lo stesso e che mi farete il regalo di
recensire: a Natale siamo tutti più buoni, no?
Dedico
questa cosa a barakei, LuluXI
e... a tutti voi.
Auguri
di cuore!