La mattina di Natale le campane suonavano a festa.
Kanda, che pure era spesso irritato dai rumori che aveva intorno, amava il suono delle campane. Avevano un loro linguaggio immediato, che tutti capivano, e si sentivano anche da molto lontano. Permettevano a ciascuno di partecipare in qualche modo a quello che stava succedendo.
Aveva sempre un brivido lungo la schiena quando sentiva il primo, cupo rintocco delle campane a morto, e quando suonavano a martello sentiva l’adrenalina arrampicarsi su per il suo sangue come durante una battaglia. Gli infantili carillon dei vespri non lo scuotevano più di tanto e la breve chiamata delle laudi gli era indifferente, ma quando suonavano a stormo, specialmente in una mattina limpida e fredda come quella, gli davano per un attimo la sensazione di essere più vivo di quanto fosse mai stato.
Durava poco però: mentre gli ultimi echi si spegnevano nel cielo, Kanda ritornava il solito essere irrigidito e stanco di sempre, anche a Natale, anzi, forse soprattutto a Natale. Perché, dopo, tutta la complessa e ben oliata macchina cerimoniale si metteva in moto e se la bellezza del canto (quelle voci infantili, così pure) rendeva sopportabile la lunghissima funzione, altrettanto non si poteva dire per l’omelia, sempre la stessa, che da anni ascoltava ogni Natale. Avrebbe tanto desiderato sentire parole di sollievo e di speranza, parole di gioia e di benedizione, anziché quelle trite frasi di circostanza a cui nessuno prestava davvero attenzione.
Una volta, a dire il vero, gli era successo. Erano andati in missione in un paesino freddo e sperduto fra la neve e, la mattina di Natale, si erano ritrovati, insieme ai pochi parrocchiani, stipati nella modestissima unica chiesa del villaggio. Il prete era così vecchio che sembrava dovesse cedere da un momento all’altro sotto il peso dei paramenti, e il coro era stonato. Però c’era qualcosa in quella piccola chiesa che non avrebbe potuto definire: forse un’aria di accoglienza che non aveva mai sentito altrove. Era come sapere di essere tornati a casa (casa? lui non aveva una casa); era come sapere che lì nessuno l’avrebbe soppesato e giudicato e tenuto al suo posto, ma che l’avrebbero preso per quello che era e forse (la parola faceva fatica anche a pensarla) amato per quello che era.
Comunque, non gli era più successo. Ora, irrigidito nei fronzoli dell’alta uniforme, la consueta maschera di impassibilità sui lineamenti delicati, si apprestava a fare il suo ingresso insieme a tutti gli altri esorcisti e a prendere posto (posti riservati, naturalmente, in prima fila) alla cerimonia.
Lenalee si affannava  attorno al gruppo come un piccolo folletto natalizio, bellissima e radiosa.
Si avvicinò anche a lui sistemandogli il colletto (che era già a posto) e spostandogli di qualche pollice il nastro d’argento che appuntava sul petto la decorazione a forma di rosa-croce.
- Secondo me dovresti metterlo più a destra – mormorò senza guardarlo. Continuò a trafficare per un po’ con la spilla che non voleva saperne di chiudersi, e intanto Kanda inspirava lentamente l’odore buono dei suoi capelli appena lavati con qualche essenza fiorita.
- Ecco – concluse sorridendo – ora sei a posto.
Kanda per la verità non si sentiva mai a posto, ma fece finta di niente, come richiedevano le circostanze, ed entrò con lei nello spazio vertiginoso della cattedrale.
Un coro limpidissimo intonò l’Adeste Fideles, e poi tutto si perse nella luce.