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Autore: eyesoftiger    26/12/2011    7 recensioni
Tre figli dei Tre Pezzi Grossi.
"Dalla nascita non si sono mai incontrati, e mai dovranno farlo" dice la profezia.
Eppure dice anche "i loro cammini si incroceranno solo in un caso di pura emergenza."
E quando per colpa della riunione di tre dee, e una strana scatoletta dal contenuto misterioso, il mondo va verso la sua fine, può essere considerato un caso di emergenza?
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Tre lettere non troppo gradite.






Tre figli dei Tre Pezzi Grossi. Loro sanno chi sono e sanno cosa devono fare.
 Vivono tra le persone comuni, e solo le conoscenze più intime sanno del loro segreto.
 Vivono in mezzo alla foschia, una foschia che solo pochi mostri possono aggirare.
Non si sono mai incontrati, e mai dovrebbero farlo. Come dice la profezia. Ma dopotutto, la profezia dice anche che solo in caso di emergenza questi dovranno essere riuniti.
E se questo fosse veramente una caso di emergenza?
 
 
 
Tic, tac, tic, tac.
Si sentiva solo il monotono rumore del grande orologio a pendolo, nella spaziosissima stanza della grande casa bianca, costruita su una bassa scogliera che dava sul mare. Dietro a essa, si trovava un delizioso boschetto, che, con l’arrivare dell’autunno, si stava tingendo di varie gradazioni di rosso e giallo. Un ragazza, seduta su una poltrona di pelle rossa, leggeva tranquillamente, con le gambe accavallate su un tavolino di mogano e un pigiama a pois, poco lontano dalla grande finestra decorata di lunghe tende blu. Il rumore delle onde, fuori dalla finestra, rendeva il tutto estremamente calmo.
La ragazza sfogliò un'altra pagina, gli occhi chiari, posati tranquillamente sulle lettere greche del libro.
La totale tranquillità fu interrotta dallo scricchiolio della grande porta di quercia, dalla quale uscì un uomo, alto, bruno, con due grandi buste della spesa nelle mani, coperte dai guanti, vestito di un caldo e morbido trench nero.
Guardò la ragazza stupefatto, alzando un sopracciglio.
- Grazie, Susan del tuo aiuto. Queste buste erano davvero pesanti! –
- Il tuo sarcasmo non aiuta, Louis. – disse con tono fermo e pacato la ragazza, senza staccare gli occhi dal libro, mentre i lunghi capelli rossi gli scivolavano sul viso.
L’uomo sospirò, dirigendosi verso l’ampia cucina, e posando sopra al grosso tavolo le buste strapiene di cibo.
- Spero tu mi abbia comprato la liquirizia, Louis. – sollevò gli occhi dal libro, guardandolo togliersi il cappotto e porlo sull’attaccapanni.
- Mi hai comprato la liquirizia, non è vero, Louis? –
L’uomo si diresse in cucina e frugando un po’ tra carote, spinaci e cavoli, tirò fuori un pacchettino di metallo e lo lanciò alla ragazza.
- Dovresti smetterla di drogarti con queste. –
- Non è droga, Louis. Ho solo la pressione bassa. –
- E ne approfitti. –
La ragazza scrollò le spalle.
- Capita. – disse, rivolgendo un sorriso smagliante all’uomo, che procedette a levarsi i guanti e infilarli dentro la tasca del lungo trench.
- Hai dato da mangiare ai pesci? –
- Non hanno fame. – rispose, rimettendo gli occhi sul libro.
-Sicura? – disse, perplesso.
- Sicurissima. –
Per un attimo l’uomo restò in silenzio,a fissare la ragazza, per poi sgranare gli occhi.
- Baah, sei tu la figlia di Poseidone. -
 Si diresse verso le lunghe scale, per andare al piano di sopra.
La ragazza posò il libro, e si mise a sgranocchiare una rotellina di liquirizia, guardando davanti a se, il vuoto. Poi posò un piede a terra, infilandosi una pantofola e poi l’altra, e alzandosi pigramente, raggiunse la grande finestra accanto a lei.
Rimase, lì ,ferma, a guardare l’oceano, le onde cristalline morire e rinascere, morire e rinascere, a braccia incrociate.
Tutto era perfettamente immobile, ogni cosa al suo posto. Ogni libro aveva il suo posto nella grande libreria posta sulla parete, ogni DVD nell’apposito spazio, dell’apposito mobiletto bianco, sopra al quale si trovava un grande televisione nera. E’ tutto troppo sbagliato, pensò, mentre mise in bocca un altro piccolo pezzo di liquirizia. 
Poi girandosi di scattò, camminò verso l’altro lato della stanza, dirigendosi verso un grande acquario, dove pesciolini variopinti nuotavano tranquillamente tra le piante finte che l’adornavano, mentre i suoi passi leggeri calpestano il pavimento di legno, facendolo scricchiolare lievemente.
Alla sua vista, i pesci accorsero verso il vetro. La ragazza si inginocchiò per guardarli meglio, e con un dito, sfiorò la barriera che si contrapponeva tra loro.
Il suo sguardo cadde su una lettera, posta là, sullo scalino freddo.
Se lo ricordava ancora, con che faccia Ermes l’aveva consegnata. Come se non approvasse.
Titubante, raccolse la lettera tra le sue mani, girandola e rigirandola, cercando di capire cosa contenesse. Era dal campo, si vedeva.
Ma era troppo spaventata per aprirla.
Troppo spaventata di quello che poteva contenere.
 
-
 
- CHAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAD! – una voce penetrò le pareti della stanza del giovane ragazzo biondo, che scattò sull’attenti, spaventato, dal letto. Un leggera luce filtrava le persiane della finestra, che gli illuminava debolmente gli occhi, cristallini, limpidi.
Si ributtò di colpo sul letto, a pancia in giù, intento a dormire un altro po’, quando dalla porta, entrò una giovane donna dai capelli castani con le mani sui fianchi, imperterrita davanti al ragazzo.
- Archibald Adam Vasosky, credi di riuscire a alzare quelle tue benedette chiappe da quel letto entro la fine del mondo? –
- Ma il mio letto mi ama. – disse, senza alzare la testa dal cuscino. – E io amo lui. –
La donna, innervosita, sollevò gli occhi al cielo e se ne andò a passo veloce dalla stanza, lasciando il ragazzo solo, immobile.
- Mia madre non approva la nostra relazione. – esclamò infine, sollevando di scatto la testa. – Oh, mio caro! – continuò rotolandosi nel letto. – Come mai potre … -
BOOM. Un tonfo sordo risuonò. Il ragazzo si ritrovò ai piedi del letto, senza muoversi, a pancia in giù, con le braccia aperte. Si sollevò piano, e guardò dritto davanti a se.
- Che risveglio drammatico. –
In cucina intanto, un bambino squittiva di qua e di là, cercando attenzione. Probabilmente perché aveva fame.
- Mamma, è pronta la colazione? Mamma, mamma? – disse, strattonando il grembiule sporco della madre, che stava sbattendo un uovo.
- Mangiamo appena arriva tuo fratello. –
A queste parole, il bambino si affacciò alla rampa di scale, saltellando di qua e di là.
- Chad, Chad, CHAAD! –
- Un attimo, un attimo. Un figlio di Zeus non può avere i suoi tempi?!- disse, scendendo a saltelli le scale.
- Non se io ho fame. – esclamò il bambino, correndo in cucina. Aveva un caschetto castano e grandi e teneri occhi color nocciola. Salì – o meglio, volò – sulla sedia e impugnò coltello e forchetta, bramando la sua amata colazione.
Intanto il ragazzo biondo avanzava con passo lento, scalzo, verso l’arco della porta, dove appoggiò la testa, con aria stanca.
Intanto la donna stava servendo sul piatto del bimbo un po’ di pancetta, con una forchetta colorata.
- Ne vuoi altra, Nicolas? – chiese la madre, al bimbo castano, probabilmente troppo impegnato a mangiare per risponderle.
Chad guardò atterrito il fratellastro, alzando un sopracciglio.
- Ma quanto mangi di prima mattina? –
Sollevò la testa dal piatto, e ancora con la bocca piena, scrollò le spalle.
- Tuo padre dovrebbe arrivare tra due or … -
- Non è mio padre. –  la interruppe il ragazzo. Sollevò il capo e camminando fino al tavolo di marmo, accanto al fratello e scostando la sedia, si sedette.
La madre restò muta per un po’, impassibile, continuando a sbattere le uova.
- Ne abbiamo già parlato Chad. –
- Io ho già un padre. – aggiunse. – E sicuramente non sarà qui tra due ore. –
Nella stanza l’unico rumore udibile era lo scontrarsi del metallo del coltello e della forchetta di Nicolas. Un fastidiosissimo silenzio, così fastidioso da essere quasi rumoroso. Chad aveva gli occhi rivolti verso il suo uovo strapazzato, che stava ribaltando e strapazzando ancora di più con la forchetta.
- Chad, c’è Eagle! – disse improvvisamente Nicolas, rompendo il silenzio.
- Eh? – fu la cosa intelligente che riuscì a dire il fratellastro.
- Eagle. – indicò verso la finestra.
Una bellissima aquila dalla testa bianca si era posata sul davanzale della finestra, impaziente di entrare, con una strana lettera nel becco.
Il ragazzo biondo si alzò, finendo di deglutire e, scendendo dallo sgabello, si diresse verso la finestra, aprendola. Un freddo spifferò entrò insieme all’animale, che con un gesto veloce delle ali, si posò sul tavolo, vicino al piatto del bambino.
- Eagle! – esclamò, lui, estasiato. Chad si avvicinò all’aquila, e prese la busta che aveva posato sul tavolo.
“Da Ermes” c’era scritto “Ho trovato Eagle per strada e l’ho consegnata a lei. Non dirlo a tuo padre, però , mi raccomando.”
Il ragazzo sorrise, e con un gesto rapido aprì la busta.
Una lettera.
Dal campo.
Il sorriso scomparve dalle sue labbra, e nervoso, degludì.
Dal Campo, dal campo.
Che era successo questa volta?
 
-
 
Nel lungo corridoio si sentivano soltanto i passi degli anfibi neri della ragazza.
Toc, toc, toc, toc.
Teneva un paio di libri tra le braccia, e sulle sue labbra rosse, era dipinto un lieve sorriso. C’era solo lei, nel lungo corridoio, sorvolata da grandi arcate, e con accanto le grandi vetrate colorate che davano sul cortile degli alberi che si stavano spogliando delle loro foglie.
Bel collegio. Il ventunesimo o il ventiduesimo? Ma molto bello. Simile a Hogwarts, tra poco. Soltanto che non c’era un maghetto dagli occhiali rotondi, con un rosso e una saputella. Ma ci si accontenta.
I lunghi capelli mori gli ricadevano sulle spalle, mentre gli occhi scuri scrutavano tutto con nei minimi dettagli.
Salì un rampa di scale e riguardò di nuovo il bigliettino della stanza che gli avevano assegnato: n. 223 b. Doveva essere al terzo piano.
Si scostò i capelli bruni dalla pelle chiara del viso, e con indifferenza, svoltò l’angolo. Una fila di porte, si stagliava davanti a lei, lungo uno stretto corridoio.
197, 216, 221 … 223!
Girò la maniglia dorata con una mano fasciata da un guanto di pelle, che scopriva le dita e le unghie, smaltate di un nero brillante.
Una finestra dava sul paesaggio autunnale, e un letto a castello, con le lenzuola bianche era posto su un lato della stanza. Al centro vi era un grosso tappeto persiano, e in un angolo una scrivania di legno, con una comoda sedia imbottita, rossa. In una parete si stagliava un armadio di legno, vuoto e dall’altra, un piccola libreria, anch’essa di legno, stracolma di libri ricoperti in pelle.
La ragazza buttò i libri sul letto, insieme al cappotto nero.
Qualcuno bussò alla porta.
- Avanti. – incitò la ragazza mora, ammirando dalla finestra gli alberi tinti di rosso e il prato perfettamente curato della sua nuova casa.
- Signorina Smith? – Un uomo dai capelli grigi, vestito di una camicia bianca a righe e una cravatta nera, entrò a fatica nella stanza trascinando due nere e pesanti valigie.
- Oh, Sebastian. – esclamò la ragazza, girandosi e sorridendo all’arrivato, mostrando un sorriso perfettamente candido. – Puoi posarle lì, per favore? –
L’uomo annuì e obbedì all’ordine della ragazza.
- Desidera altro Signorina Smith? –
La ragazza sbuffò.
- Quante volte ti ho detto di chiamarmi Abbie? –
- Tante, Signorina Smith. –
La ragazze rise lievemente.
- Ormai sei un caso perso. –
- Lo prenderò come un complimento. – disse l’uomo, scrollandosi qualcosa dalla camicia. – Ha bisogno d’altro? –
- No, grazie Sebastian. – disse la mora, girandosi nuovamente verso la finestra.
L’uomo se ne andò, i mocassini che calpestavano il pavimento di matttoni e con un suono lieve, chiuse la porta.
Abbie si diresse verso le sue valigie, e dopo aver frugato un po’, tirò fuori uno stereo nero e lo attaccò alla corrente. Premette il pulsante “play” è una musica rock rompi timpani  si divulgò per tutto il collegio, anche se alla ragazza sembrò non importare.
Si tolse gli anfibi scoprendo i calzini a righe, e con nonchalance si buttò con un tonfo sordo nel letto.
Dopo pochi minuti, qualcuno ribussò alla porta.
La ragazza infastidita – perché, mai, badate, mai, dovete disturbare tale ragazza nel bel mezzo della sua riflessione pomeridiana, mai! – si alzò di scatto, dal letto e con passo furente – tanto furente che si potevano vedere anche le scintille ai piedi – andò ad aprire, o meglio, sradicare la porta della camera.
- O santi numi, Abbie! Abbassa il volume! – Un uomo di mezza età, con capelli sale e pepe e una sacca al collo stracolma di lettere, era davanti allo sguardo della ragazza, che stava cercando di non far penetrare quel rumore assordante, coprendosi le orecchie.
Con un gesto di un mini telecomando, la ragazza pose fine alle sofferenze dell’uomo davanti a se.
- Oh, finalmente. –
- ERMES? COME OSI INTERROMPERE UNA FIGLIA DI ADE NEL BEL MEZZO DI UNA CANZONE ROCK? E IN SPECIAL MODO SE QUELLA FIGLIA DI ADE SONO IO? –
- Per una cosa della massima urgenza. – Il dio frugando e rifrugando nella sua sacca, cercando disperatamente qualcosa.
La ragazza infastidita, lo fissava con due occhi di fuoco, incrociando le braccia e muovendo ritmicamente sue e giù il piede destro.
- Ebbene? –
- Ah, eccola! – esclamò Ermes, tirando fuori una lettera giallastra e la porse alla ragazza.
- Brutte notizie? –
- Sarai tu a giudicare. – rispose. – Io sono solo un postino olimpico. – disse, come se fosse affranto, in qualche modo.
Abbie rigirò la lettera tra le mani.
- Grazie, Erm. –
- E’ il mio lavoro. – disse poi dileguandosi in un immensa luce dorata.
La  ragazza chiuse la porta dietro di se, e guardò la lettera incuriosita finche non vide chi l’aveva mandata.
Era dal Campo.
Si, erano decisamente brutte notizie.
  
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