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Autore: NobleSeaFoam    27/12/2011    1 recensioni
"Inghilterra, vado a prendere le brilla brilla e te le porto, stavolta sul serio." una storia sulla mia OTP. Perchè Alfred che lavora alla NASA è un idea affascinante. Inserendo un po' di ricordi di Arthur qua e là, l'esuberanza dell'americano, un inglese a tratti OOC (spero non molto, io l'ho messo, non si sa mai, poi dite voi) e un po' di tenerezza per amalgamare il tutto... Beh facciamola breve, leggete e se vi va, recensite.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Il fatto che mi avesse fatto chiamare dalla sua segretaria mi lasciava alquanto interdetto. Cos’è non mi voleva più parlare? Ero alquanto tentato primo, dall’attaccare la cornetta in faccia alla donna, ma in quanto gentleman inglese non era il caso, secondo, di rispondere male all’impiegata al di là della cornetta che tra l’altro parlava con un tono di voce parecchi decibel in più del consentito e ogni singola parola finiva con un acuto degno di una cantante lirica, ma, sempre per il motivo di prima, evitai. Il messaggio che la donna mi doveva riferire era alquanto semplice, sembrava fosse stato un bambino a lasciarglielo, non un ragazzo di diciannove anni anche se, visto chi era il ragazzo suddetto, non c’era poi tanto da stupirsi.
“Inghilterra, vado a prendere le brilla brilla e te le porto, stavolta sul serio, non quelle di carta che ti avevo regalato tempo fa.”
In quel momento provai una fitta al cuore e molte immagini che avevo rinchiuso nel cassetto con l’etichetta “passato” si affacciavano nella mia mente e mi facevano tornare alla mente vecchi ricordi, di quando l’americano era ancora piccolo ed era ancora una mia colonia. Tutte le volte che succedeva una cosa del genere mi lasciavo cullare dai ricordi, anche se sapevo che alla fine si sarebbe sempre arrivati da quel maledettissimo 4 luglio e ancora una volta mi sarei attaccato a una o anche più bottiglie di rum finché l’alcool e la sbronza non avessero fatto il loro dovere.
*Flashback*                                                                                 
Un bambino piccolo e biondo correva a perdifiato in mezzo alla prateria, urlando il nome del suo fratellone.
“Igghitewa! Igghittewa!” Il suddetto si girò verso l’altro, sorridendo bonariamente, con una luce negli occhi smeraldini che veniva fuori solo quando era con il piccolo americano.
“Che c’è America?”
“Cosa sono quelle cose luminose lassù?” Chiese il bambino indicando il cielo notturno illuminato dalla luce delle stelle che componevano la via lattea.
“Sono stelle America, stelle.”
“Tutte le stelle fanno brilla brilla Igghitewa?”
“Si, tutte quante le stelle che vedi fanno brilla brilla. Ma in realtà le stelle sono molte di più di quelle che vedi.”
“E quante sono?”
“Tantissime, più di quante tu possa immaginare.”
“Quindi se ne prendo una e te la porto, Igghitewa, non se ne accorgerà nessuno?”
“Non credo, ma è difficile prenderle. Impossibile direi.” Rise il maggiore, come poche volte accadeva, e sempre solo in presenza della piccola colonia. Ma non rideva per prenderlo in giro, anzi, rideva per la tenerezza e l’ingenuità che il piccolo dimostrava nelle sue affermazioni.
“Io ce la farò, perché io sono l’eroe e posso prendere anche le brilla brilla!” Affermò convinto il ragazzino puntando gli occhi azzurri come il cielo del mattino verso lo scuro manto della notte.
*Fine Flashback*
Lui e la sua fissazione per gli eroi. C’erano sempre state, sin da quando era piccolo. Anche se all’epoca si poteva capire, a diciannove anni nessuna persona sana di mente credeva di essere un eroe che poteva salvare tutto e tutti. A pensarci quel ragazzo aveva avuto parecchie fissazioni: il cowboy, lo sceriffo, l’indiano, il cercatore d’oro, il soldato. Soldato rivoluzionario per la precisione. Quella è stata la fissazione peggiore, quella che ha portato a quella maledetta indipendenza, a quel dannatissimo giorno di pioggia in cui il suo piccolo eroe, ormai grande, aveva deciso di dichiarare l’indipendenza, di separarsi per sempre da lui. Inevitabilmente, le lacrime presero a solcarmi il viso, come ogni volta al ricordo di quella giornata. E non riuscivo a capacitarsi di come quell’idiota americano riuscisse tutti gli anni a festeggiare senza sentirsi minimamente in colpa per il dolore che gli aveva provocato. Alzandomi lentamente dal divano sul quale ero seduto mi diressi verso il mobiletto dove tenevo i liquori e, dopo aver preso un bicchiere che alla fine avrei utilizzato ben poco, mi versai del rum e cominciai a bere come facevo sempre, abbandonandomi al ricordo del rumore della pioggia, a quello prodotto dagli stivali mentre camminava nel fango, all’odore del bosco bagnato, della polvere da sparo, del fuoco. Finiva così, sempre. Per quanto un ricordo fosse dolce, bello, stupendo, o addirittura magnifico, finivo sempre per pensare al momento in cui tutto era finito. E mi odiavo per questo. In fondo non era il nostro unico ricordo insieme. In quel momento mi vibrò il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni. Un messaggio. Un messaggio di America. “Guarda il cielo in questi giorni, io sarò lì per te.” In quel momento tutto l’odio che stavo ritornando a provare, tutto il dolore, sparirono in un secondo. Per me. Mi asciugai velocemente le lacrime dal visto e cominciai a sistemare il salotto. Finito di mettere in ordine mi diressi in cucina per prepararmi un tea e degli scones che come al solito vennero bruciacchiati. Al diavolo, dovevo cambiare forno una buona volta, mi rovinava tutto ciò che cucinavo! Finito di bere e di mangiare mi diressi in camera, avevo particolarmente sonno, nonostante fossero appena le sette di sera. Sarà colpa della semi sbornia che avevo preso. Arrivato davanti alla finestra mi misi ad osservare il cielo notturno. Erano i mesi freddi dell’anno quindi già alle sette era buio pesto e, nonostante fossi a Londra, qualche stella si vedeva. La loro luce sfidava quella artificiale della mia stupenda città. Guardando l’astro più brillante di tutti decisi che sicuramente America poteva essergli paragonato. Quel ragazzo con prepotenza si faceva valere e brillava anche nei momenti più bui, anche di fronte ad avversari di pari o superiore forza. Una folata di vento troppo fredda mi fece desistere dall’idea di restare a fissare il cielo notturno per immaginare America che fluttuava in assenza di gravità osservando lo spazio che lo circondava con quegli occhi curiosi che aveva da bambino. Abbassai piano piano le serrande, presi il pigiama da sotto il cuscino, mi cambiai e mi misi sotto le coperte, sprofondando in un sonno ristoratore.
 
La mattina seguente alla radio, tra le notizie di cronaca mondiale passavano quella della partenza di uno shuttle americano, un nuovo esperimento della NASA. Guardai fuori dalla finestra il grigiore che regnava sovrano sulla città e mi chiesi se dallo spazio si riusciva a identificare Londra per la coltre perenne di nubi che la ricopriva. Dopo aver finito la colazione mi vestii e mi diressi verso il mio posto di lavoro.
Le giornate passarono, lavorando con la regina, con il primo ministro, passai a trovare il principe William e sua moglie Kate, passai in ospedale a trovare il principe Filippo e a fargli auguri di pronta guarigione. Ogni sera osservavo il cielo e come un ragazzino di cinque anni salutavo in direzione del nulla, come a sperare che lui potesse vedermi. Che pensiero idiota.
Dopo un mesetto circa mi arrivò a casa una lettera. Era un certificato. Possedevo una stella. Una stella, cioè ci rendiamo conto. Il certificato proveniva dall’osservatorio di Washington DC. “Shine”. Mi venne da piangere. Di nuovo. In quegli ultimi tempi piangevo troppo. Dalla felicità, d’accordo, ma è sempre troppo. Presi il telefono, dovevo ringraziarlo, ma non feci in tempo perché suonò il campanello. Chi arrivava alle otto di mattina di sabato? A casa mia poi. Andai ad aprire e mi ritrovai di fronte un essere indefinito nascosto sotto sciarpe, guanti, cappelli e paraorecchie.
“Mi fai entrare o mi lasci sull’uscio?” Risi.
“Ti lascerei volentieri fuori, giusto per farti abituare al freddo. Ti ricordo che New York è spesso più fredda di Londra, dovresti esserci abituato.”
“Non fa nulla, se fa freddo fa freddo, che sia Londra o New York o Washington fa sempre freddo.”
“Entra che ti faccio una tazza di tea così ti scaldi almeno un pochino.” L’americano non se lo fece ripetere due volte e mi seguì in cucina.
“Siediti pure, intanto io metto su il bollitore”
“Oggi siamo molto gentili eh?”
“Che c’è, problemi? Devo essere sempre scontroso?”
“No no, anzi, solo che è strano ecco. Ah! Ti è arrivata la stella?”
“Ho visto la busta pochi minuti prima che citofonassi tu.”
“Piaciuto il regalo?”
“Uhm, si, bello.”
“Solo bello? Insomma Iggy! Chi mai ti regalerebbe una stella? A te soprattutto!”
“Stai insinuando che nessuno mi vuole bene abbastanza per farmi un regalo?” Sbottai alquanto alterato. Quel ragazzo aveva un potere assurdo sulla mia pazienza. La faceva esaurire in pochi istanti.
“Artie, sto solo dicendo che potresti mostrarti più entusiasta. In fondo ho mantenuto la parola, ti ho regalato una brilla brilla.” Nonostante non lo stessi guardando in faccia si notava nel suo tono di voce che ci era rimasto male. Mi girai verso di lui.
“Se osi commentare quello che sto per fare giuro che non uscirai vivo da questa casa!” Tentai di risultare minaccioso mentre lo dico ma già il fatto che io sia alquanto sensibile ad alcuni comportamenti di America non mi aiuta. Lo fissai per qualche istante negli occhi e poi lo abbracciai forte, sussurrando un “Thank you” al suo orecchio. Lui ricambiò velocemente l’abbraccio.
“Per te questo è poco Artie, io vorrei regalarti il mondo intero.” A quell’affermazione avvampai.
“Che cosa cavolo stai dicendo? Da dove la tiri fuori sta frase? Che film smielato hai visto stavolta?”
“Arthur cazzo! Perché appena tento di essere dolce tu te ne esci così?”
“Perché non è normale! Quella è una frase che un ragazzo dice alla sua ragazza!”
“E io non la posso dire a te?”
“Non ha senso che tu me la dica!”
“E se ti dicessi che l’ho fatto perché io sono innamorato di te?” sbiancai e subito dopo avvampai. Aveva veramente appena detto di essere innamorato di me? No sul serio? Sbattei un paio di volte le palpebre, come se quello fosse un sogno e io stessi tentando di svegliarmi. Probabilmente si era reso conto di quello che aveva detto perché avvampò.
“Dimentica quello che ho detto. Fa come se non fosse successo nulla, sul serio.” Fece per andarsene ma lo bloccai per un polso. Fissai prima la mia mano, stretta intorno al suo arto, poi pian piano risalii con lo sguardo fino a incrociare i suoi occhi.
“Grazie.” Sussurrai appena sorridendo. Lui mi guardò stupito poi mi riabbracciò.
“I love you, Englishman.” Ricambiai l’abbraccio anche se non dissi nulla.
 
Il telefono squillava insistentemente. Immaginavo chi potesse essere, solo lui poteva telefonare alle sette di mattina.
“Al?”
“Ehi come hai fatto a capire che ero io?” La sua voce era squillante anche per telefono, assurdo.
“Chiamalo intuito. Cosa vuoi a quest’ora? Insomma da te non è ancora notte?”
“Si lo so ma non riuscivo a prendere sonno. Tra due giorni si parte per un altro viaggio nello spazio!” Eccolo, eccitato come non mai all’idea di svolazzare nello spazio, un ragazzino.
“Lo so, nell’ultimo mese me lo avrai ricordato si e no due volte al giorno.” Sbuffai. Non che non fossi contento per lui, ma sapeva risultare assillante se ci si metteva.
“Mostrati più entusiasta allora! Insomma Artie!”
“Insomma cosa? Si sono felice per te ma cosa vuoi di più? Che organizzi qui a Londra una festa per la partenza del tuo shuttle?”
“Ti ricordo che gireremo intorno alla Terra seguendo Greenwich, quindi passeremo sopra l’Inghilterra!”
“E con questo?”
“Farò un sacco di foto alla tua adorata nazione, poi te le invierò via mail quando torno a Washington.”
“Si bene ok, a che scopo?”
“Artie…”
“Che c’è?”
“Ti amo.” Avvampai.
“Idiota non dire certe cose per telefono!” Riusciva a mandarmi nel panico con pochissimo. “Se ti sentisse qualcuno?”
“Che sentano pure se è quello che vogliono, non per questo ho intenzione di smetterla di dirtelo. E sarei contento se ogni tanto me lo dicessi anche tu, sai com’è.”
“Ma anche io te lo dico!”
“Si, una cosa come un dodicesimo delle volte che te lo dico io.”
“Solo perché sei più espansivo di me!”
“Non perché ti amo di più?”
“Non dire assurdità! Pensi che se non fossi innamorato di te per lo meno quanto tu lo sei di me starei qui a sopportarti tutto il tempo? Pensi che non ti avrei attaccato il telefono in faccia subito?” dall’altro lato del telefono lo sentivo ridacchiare.
“Hai ragione.”
“Ovvio che ho ragione…” Presi un profondo respiro. “Al, ti amo anche io. Buona fortuna per il viaggio.”
“Grazie Artie,grazie mille.”


Riguardando il certificato della stella che tempo fa Alfred mi aveva regalato avevo capito che paragonarlo ad una delle stelle lontane milioni di anni luce era ingiusto e non rendeva giustizia a quel ragazzo. Lui era il sole, la stella per noi, per me, più importante. Senza quella stella, noi non siamo nulla. Senza di lui, non credo riuscirei a sopravvivere.



Note:
Allora partendo dal presupposto che non credo di essere bene in grado di esprimere il mio amore profondo per questi due, ho provato a raccontare un qualcosa un po' così, senza molto senso in effetti. Però poi boh, mi piace via. Spero piaccia anche a voi. Prima storia su loro due (scritta, che se no di filmini e rollate ce ne sono a palate *si ricorda di quando nelle role Arthur era costretto a vestirsi da Alice in wonderland*). Grazie alle anime sante che sono arrivati a leggere fino alle fine TAT

  
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