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Autore: Hiromi    27/12/2011    6 recensioni
"Tesoro, è finita l'era dell'anti-innocenza: qui le persone girano come trottole ventiquattr'ore al giorno per lavorare, studiare, e per fare sesso - hai capito bene: Sesso! - Cupido è volato via dal condominio sdegnato e il principe azzurro per la disperazione è diventato gay!"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Hilary, Mao, Mariam
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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If you can take a chance
Find you that better man
Well, life seeps
From your quaint disease
You're giving all my lovin' away

Damn GirlAll American Rejects

*******************

Era bello passare la mattina con le amiche, era bello avere un po’ di tempo per se stesse, doveva tenerlo a mente.

Hilary sorseggiò placidamente il suo espresso, accavallando le gambe. “Tu e Max siete definitivamente tornati insieme, quindi?”

 

Mariam ostentò un’espressione casuale. “Beh, sì.” I sorrisi enormi delle sue amiche furono più di quanto potesse sperare, perché si sentì finalmente felice. “Ma non siamo certo l’unica coppia all’interno del gruppo.”

 

Arrossendo fino alla punta dei capelli, lanciò all’irlandese un’occhiataccia, capendo il trucco di sviare la conversazione su un altro argomento. “Beh… Non ne abbiamo mai parlato.” Farfugliò. “Diciamo che usciamo insieme.”

 

Querida, non farmi ridere.” Julia roteò gli occhi. “Ti ho vista tentare di staccargli le labbra dalla faccia proprio ieri sul pianerottolo.”

 

La bruna emise un ‘oh oh oh’ piuttosto ironico. “Da quando hai subito questo corso accelerato di inglese sei più simpatica, lo sai?” la rossa sorrise in maniera fintamente dolce. “E poi senti chi parla, il bue che da del cornuto all’asino.”

 

Questa volta fu Julia ad irrigidirsi spasmodicamente, tra le risatine delle altre. “Mao ha lasciato Kurt!”

 

La diretta interessata roteò gli occhi. “Lo sapevano già.”

 

“Bel tentativo.” Le concedette Mariam, annuendo.

 

“Paraculo.” L’apostrofò ridendo Hilary.

 

Julia s’imbronciò. “Se proprio lo volete sapere, non c’è nessun cambiamento nella mia vita, a parte che tra otto mesi diventerò zia. Non è male se ci pensate. Mi sono già sposata, sono una divorziata, e tra un po’ la famiglia Fernandéz si allargherà.”

 

Hilary assunse un’espressione preoccupata. “Raùl e Mathilda come stanno?”

 

Mao respirò a fondo prima di parlare. “Diciamo che sono abbastanza scossi. Non sanno ancora su quale decisione vertere.”

Per un minuto le quattro rimasero in silenzio, moltiplicando i loro pensieri fino a farli divenire enormi, fino a quando il vibrare del cellulare della ragazza non riscosse un po’ tutte.

E poi il messaggio che lesse fu talmente veritiero da farle accusare dei crampi allo stomaco. Semplicemente non rispose e mandò giù il resto del suo caffè.

 

 

 

 

“Insomma, siete tutte nei casini.” Concluse Takao, sentendo il racconto della sua migliore amica.

 

Hilary sbuffò, incrociando le braccia sotto il petto. “Più o meno. Però sai cosa? Mao e Rei la stanno facendo troppo lunga. Che cazzo, potrebbe essere così semplice per loro..!”

 

“Che vuoi farci? L’amore fa male.”

 

La bruna ridacchiò per la battuta dell’amico soprattutto per il tono usato. Piluccò un altro biscotto accompagnato al suo tè e gli sorrise. “Tu che mi racconti?” quando vide il suo sguardo incupirsi, si sentì a disagio.

“Sai cos’è strano? Il fatto che dopo un anno passato lontani l’uno dall’altra improvvisamente ci siano riserve tra noi.” Borbottò, mordendosi le labbra. “Devo ricordarti quanto ti adoro?”

 

La frase lo fece ridere e scuotere la testa. “No, tranquilla.” Ribatté, sospirando leggermente. “Certe volte ci sono cose che devi affrontare da solo, non puoi aggrapparti sempre agli altri.” Hilary fece per ribattere, ma lui la precedette. “Ci faccio portare dell’altro gelato.”

 

Mentre lo fissava alzarsi dalla sedia ed andare al bancone del bar, Hilary fu presa da mille pensieri contrastanti, che le suggerivano in maniera differente come affrontare la situazione.

 

E poi fu un sms.

 

Non ci pensò nemmeno due volte a prendere il cellulare del suo migliore amico e ad aprire il messaggio, era una cosa che aveva sempre fatto e che lui faceva anche con lei. Quando però lesse il contenuto, non poté impedire che una sonora imprecazione le fuoriuscisse dalle labbra.

 

Dove sei? Ho proprio voglia di te… xoxo, Trish

 

“Ti ho preso il gelato alla nocciola come piace a te! Vedi che amico-” al suo sguardo livido il ragazzo tacque all’istante, chiedendosi cosa, in due minuti, potesse aver fatto cambiare umore alla sua amica. “Che c’è?”

Hilary non disse nulla; semplicemente gli ridiede il suo cellulare dove spiccava, visibile, il messaggio di Trisha. “Oh, merda… Hila-”

 

La giapponese si alzò, rimettendosi il giaccone. “Capisco che tu possa volere il tuo tempo, capisco che possano accaderti delle cose… Ma tutto questo mi fa sentir inutile e non considerata.” Fece, asciutta. “E ora, scusami.”

 

 

 

 

 

“¡Ojalà!” sentire Raùl esclamare in spagnolo fu qualcosa di assolutamente comico. “Tu ti fidanzi e io divento padre!”

 

Mao lo guardò di traverso. “Io non mi fidanzo.” Puntualizzò. “Era un sms molto elegante che proponeva qualcosa di assolutamente accettabile. Per la verità gli ho detto che ci avrei pensato.”

 

Lui inarcò un sopracciglio. “Ci devi pure pensare?” fece, con tono mordace. “Mao, hai vomitato prima o dopo esser venuta via?”

 

Lei sbuffò pesantemente, fulminandolo con lo sguardo. “Dopo, va bene?” si passò una mano tra i capelli, con aria confusa. “E non so nemmeno cosa mi sia preso.” Borbottò. “Quella di Jared era una formale richiesta di accompagnarlo al ballo in maschera, niente di… Illegale.”

La sola espressione della faccia di Raùl bastò a mandarla in paranoia. “Lui non è male, okay? E’ così distinto, elegante, carino… Se solo non fosse così pressante...”

 

“Se solo non fosse così poco Rei.” Le fece il verso l’amico, scoccandole un’occhiata ironica e beccandosene una omicida. “Tu non hai un problema: la tua situazione è semplice; la mia lo è meno, capisci quello che voglio dire?”

 

L’orientale si voltò a fissarlo; quando quella mattina si era incontrata con l’amico, l’aveva visto già parecchio più consapevole e rilassato, ma ancora ben lungi dal sapere cosa avrebbero dovuto fare lui e Mathilda. “Con Julia come va?”

 

Il ragazzo fece una smorfia. “Lo sai com’è fatta mia sorella: all’inizio è uscita fuori di testa, poi ha riflettuto, e ci ha offerto tutto il suo sostegno. Mi chiedo se dietro il suo cosiddetto riflettere, non ci sia stato qualcuno.”

 

Mao inarcò le sopracciglia. “Qualcuno tipo Ivanov?”

 

“Eh.”

Non era un mistero che nei confronti della squadra russa Raùl nutrisse timore ed insieme ammirazione, per non parlare di sospetto. A cominciare dal rapporto fin troppo strano che legava il russo con la sorella. Che cosa c’era tra loro? Quello che si sapeva in giro era che, settimane prima, Yuri Ivanov era finito all’ospedale e che a chiamare l’ambulanza era stata Julia Fernandéz. Cosa fosse accaduto, però, restava per lui un mistero.

 

“Non saprei dirti.” Fece, riflettendo che, invece, era parecchio probabile. “Tu e Mathilda avete preso una decisione?”

 

Lui sospirò. “Lei è parecchio cattolica e lo siamo anche noi, quindi niente aborto; si era pensato alla possibilità di dare in adozione il bambino, ma al sol pensiero ha avuto una crisi di pianto.”

 

Mao si morse le labbra, dopodiché fissò attentamente il suo migliore amico. “Tu come ti senti?”

 

Lo vide sbuffare ed allargare le braccia, come in segno di resa. “Scombussolato. Non pensavo potesse accadere, mi sento confuso, spaesato e l’unica cosa che posso fare è restare accanto alla mia fidanzata perché capisco che per lei la questione è ancora più complicata e difficile.” Si passò le mani tra i capelli, stancamente. “Non so che fare.”

 

La cinese gli sorrise, abbracciandolo e pensando a quanto, in poche settimane, fosse cambiato e maturato quel ragazzo che aveva di fronte: da un timido ragazzino era passato ad essere una persona solida e con la testa sulle spalle, seppur con la stessa insicurezza. “Ti starò accanto, tesoro.”

 

Raùl ricambiò l’abbraccio, dopodiché la fissò negli occhi, scostandole fraternamente una ciocca di capelli dagli occhi per porla dietro l’orecchio. “Devi prendere una decisione.”

 

La ragazza si morse le labbra, come spaventata. “Io l’ho già presa.”

 

 

 

 

 

Posteggiando davanti il Plaza, Hilary si accinse a mettere per bene la catena alla sua Kawasaki, e a liberare Freddie dalla gabbietta in cui l’aveva messo per portarlo a spasso in moto.

 

Facendo si che il cucciolo trotterellasse verso il giardino dell’hotel, cercò di scacciare il pensiero che le parlava di Takao.

Sospirando, fece un giro largo, andando verso il giardino dove stava il gazebo, quello dove lei e un certo russo di sua conoscenza si erano ritrovati a parlare più volte.

Non appena Freddie vide una sagoma alta allenarsi a beyblade, incurante della padroncina che lo teneva al guinzaglio, cominciò a voler correre verso la persona conosciuta, spingendo la ragazza ad accelerare il passo per doverlo assecondare.

 

Sentendo tutto quel chiasso, Kai si voltò, ritirando Dranzer e sorridendo quando si vide assaltato da un certo cagnolino. Freddie era lì, e gli stava facendo le feste, scodinzolando allegro; Hilary era dietro di lui: sguardo divertito, aria di chi la sa lunga, il fatto che dietro quella sagoma da donna vissuta convivessero più volti lo stuzzicava da morire. Ogni volta si domandava quale piccola sfaccettatura avrebbe assaporato della giapponese, e la cosa buffa era che non ne era mai stanco.

 

“Credo tu gli piaccia molto.” Spiegò la ragazza, scrollando le spalle. “Ha insistito per venirti a trovare.” Usò un tono strafottente, quasi di presa in giro che gli fece inarcare le sopracciglia.

 

“Lo ringrazio per il pensiero, allora.” Fece, beffardo, incrociando le braccia e non volendo sbilanciarsi affatto.

 

Hilary gli lanciò un’occhiata divertita e si andò a sedere sulla panchina sotto il gazebo, facendogli venir voglia di seguirla; quando il cagnolino si frappose tra i due e si distese placidamente, la giapponese fissò dritto davanti a sé, per non cedere. “Con le Dolls stiamo preparando una sorpresa.” Cambiò discorso, accavallando le gambe. “Per questo weekend sarà pronta.”

 

Lui si voltò a guardarla. “Sorpresa per i fan?”

 

La ragazza scrollò le spalle. “Chi lo sa… Ma ricordati che vi saranno poche parole per un buon intenditore.” Sorrise, schiacciandogli l’occhiolino.

 

Il moscovita si confuse per quella frase criptica e decise che l’avrebbe studiata pensandoci più in là. “Come procedono le prove con il gruppo?” Hilary fece per rispondere, ma lui continuò. “Hai ancora intenzione di lasciar stare Takao?”

 

La ragazza s’irrigidì. “Non lo lascio stare. Sono solo confusa, okay?”

 

“Tu sei amareggiata perché non ti ha detto di Trisha, non sei confusa.” Ribatté, capendo dallo sguardo di lei di averci preso. “Fuggendo il confronto non risolverai niente, otterrai soltanto di esserti messa la testa dentro la sabbia. Inutilmente, aggiungerei.”

 

La ragazza fece una smorfia. “Probabilmente non voglio stargli davanti sapendo che quello che raffazzona sono soltanto palle. Non capisco perché non me l’abbia detto.”

 

“Probabilmente perché deve capirci lui prima.” Spiegò, con semplicità. “Sai bene quanto lui ti adori, e non mi venire a dire di non esserne cosciente.” Lei sorrise. “Va’ da lui e parlagli, digli come ti senti, litigaci… Ma prima ascolta quello che ha da dire, dopo sarai libera di mandarlo al diavolo.”

 

Hilary lo fissò con tanto d’occhi, basita: chi era quel ventenne maturo che le stava facendo quel discorso con un filo logico, e dov’era l’orgoglioso e superbo Kai Hiwatari quindicenne che aveva conosciuto anni prima? L’avevano rapito gli alieni, forse?

Improvvisamente una consapevolezza si abbatté su di lei come una secchiata di acqua gelida, solo molto più piacevole. Si avvicinò a lui e lo baciò premendo le labbra sulle sue, e all’inizio lo sentì irrigidirsi, sorpreso, per poi ricambiare il bacio con tutta la coscienza e la voluttà che vi erano sempre tra loro.

 

Quando si ritrasse a poco a poco, lui sbatté gli occhi. “Per che cosa era questo?”

 

Lei lo fissò, decisa ma anche emozionata. “Perché mi piaci. E perché ho capito che tutti gli uomini sono uguali a loro modo, nella loro forma, nel loro essere, ma… C’è l’eccezione. E che tu lo sei.” Sussurrò, arrossendo fino alla punta dei capelli.

 

Il volto di lui parve rischiararsi come il cielo quando sorge il sole, e quando i suoi occhi si posero su di lei, la ragazza avvertì una fortissima sensazione di calore. “Non sarà semplice; sono una persona complicata, ho una vita incasinata e talvolta starmi intorno è un’impresa.”

 

Hilary dapprima sorrise, radiosa, poi incrociò le braccia al petto e sbatté drammaticamente le palpebre. “Io invece sono Heidi, ho la casetta in Canadà, un gatto, un pesciolino e tanti fiori di lillà.” Canticchiò, prendendolo in giro; quando lo sentì sospirare pesantemente gli assestò una pacca sul braccio per poi mettersi a roteare gli occhi. “Siamo due teste troppo diverse, complicate, con una vita assurda e un carattere schifoso ma, ehi… Ci arrendiamo?”

 

Le rivolse uno sguardo a metà tra lo schifato e lo scandalizzato. “No.”

 

Hiwatari, ho detto arrendersi, mica mettersi a mungere i tori.” borbottò, alzando gli occhi al cielo. “Quindi, appurato che vogliamo andare entrambi avanti anche solo per la curiosità di vedere chi sarà ad uccidere prima l’altro… Non resta che accettare la sfida e scoprirlo.” Fece, con tono pratico e un sorrisone sulle labbra. “Ah, ovviamente sarò io ad uccidere te.”

 

Lui sospirò stancamente. “E’ ora di redigere testamento.”

 

 

 

 

Estoy con el agua al cuello; ¡ningun sentimiento por un tubo!*

 

Si morse le labbra, fissando il ragazzo dietro di sé che osservava, annoiato, il centro commerciale all’interno del quale gli aveva dato appuntamento. Quando gli aveva scritto l’sms era riuscita a pensare soltanto che dopo sole ventiquattro ore che non lo vedeva ne sentiva una mancanza disperata, e che, o gli parlava anche solo per un motivo banale, oppure sarebbe morta come una tossicodipendente alla quale manca la propria dose.

 

Estoy empanada.*¹

 

Dargli appuntamento in quel posto le era sembrato la cosa più giusta e sensata, visto che aveva ragionato per trovare un luogo neutro dove vedersi pochi minuti e via: il tempo sufficiente di acquietare la sua voglia disperata, il suo bisogno di vederlo, sentirlo… E basta.

 

Vale, me do asco.*²

 

Stava fingendo di essere interessata ai vari oggetti esposti in quel reparto, ma nel frattempo lo guardava fissare il negozio in lungo e in largo, impaziente, come a domandarsi che diamine ci facesse lì.

 

Non aveva tutti i torti: lo aveva trascinato lì, lo aveva a malapena salutato e in quel frangente si stava beando della sua vicinanza fingendo di essere interessata ad altro. La verità era che non sapeva cosa fare; la scoperta della volta scorsa l’aveva stordita miseramente e quasi atterrata, come se si fosse trattato di sfidare a colpi di karate qualcuno.

 

Fernandéz, se mi hai trascinato qui inutilmente, io toglierei il disturbo.” Aveva ragione, eccome se ce l’aveva, eppure non voleva che andasse via.

Era questo l’amore? Sentirsi esplodere il petto fissando l’altra persona e, nel frattempo, aver voglia di dirgli cose immensamente stupide e melense? Se sì, quanto si poteva divenire idioti da innamorati?

Mentre lo realizzava, Julia si sentì perduta e assolutamente spaesata; lei, che nella sua vita non aveva mai provato nulla se non l’affetto smisurato per le sue amiche e per i suoi familiari, si sentì persa, perché in fondo era colei che aveva giurato che non sarebbe mai potuta morire per un uomo se non dal ridere.

 

“No… Perché?” sorrise, e un’idea si fece largo nel suo cervello con prepotenza; con un sorriso accattivante gli fece cenno di seguirla verso le scale mobili.

 

Superati due piani, il negozio di beyblade più grande del mondo si stagliò in tutta la sua imponenza davanti a loro, e fu con tutta la naturalezza del mondo che Julia vi entrò, rivolgendogli un sorriso.

Quel negozio sarebbe stato una tentazione per qualunque vero appassionato di beyblade: dai pezzi di ricambio, alle riviste in stile News of the World, alle trottole vere e proprie, ad un piccolo campo da gioco, vi era proprio di tutto. C’erano appassionati dello sport che facevano la fila per comprare attrezzi che avrebbero permesso loro di esercitarsi al loro sport preferito, e lì, senza dubbio, non mancava niente.

 

“Ottima idea venire qui.” Borbottò lui, guardandosi intorno. “Così poi un branco di persone scatenate ci riconosceranno e noi saremo fottuti: sei un genio.”

 

Julia roteò gli occhi. “¿Por qué no te callas? Non vedi que son todos... Impegnati?*³ Basta non farsi notare. Se ti metti con quell’aria sostenuta, sfido io che ti riconosceranno all’istante.”

 

Yuri sbuffò, ignorando il commento poco carino nei suoi riguardi e continuando a camminare dietro quella spagnola pazza capace di trascinarlo nelle situazioni più assurde ed intrepide.

 

Il negozio era affollatissimo, pieno di ragazzini di tutte le età che, aiutati dai commessi, si sforzavano di migliorare grazie agli attrezzi e a tutte le diavolerie che vendevano per attirare la gente appassionata di quello sport che, da generazioni, era in grado di attirare veramente chiunque.

 

Il russo fissò con aria divertita la spagnola prendere da uno scaffale un paio di occhiali da sole e una sciarpa e indossarli con nonchalance; quando subito dopo lei gli mise in testa le stesse cose, facendogli fuoriuscire un borbottio non ben definito, capì cosa aveva in mente.

 

Poco distante stava il piccolissimo campo di beyblade, dove due ragazzini che non dovevano avere più di dodici anni si stavano sfidando e in maniera alquanto traballante: nessuno stava prestando loro attenzione, ma quando Julia, al di sopra dei suoi occhiali da sole, gli lanciò un’occhiata che lui interpretò al volo, sentì un brivido correre lungo la schiena; lungo, eccitante e sensuale.

 

Non ci volle molto prima che i due sgomberassero il campo, e allora, tempo un’occhiata famelica, vorace, assolutamente affamata l’una dell’altro, e Wolborg e Thunder Pegasus furono lanciati sul campo, pronti a combattere una battaglia che pareva fatta di sentimenti piuttosto che di sport.

 

 

 

* “Sono con l’acqua al collo! Nessun sentimento proprio per niente!”

*¹ “Sono fusa.”

*² “Okay, mi faccio schifo.”

*³ “Perché non chiudi il becco? Non vedi che sono tutti…”

 

 

 

Aiutando Hilary a porre il cagnolino dentro la gabbietta, si stupì di quanto gli potesse piacere quella nuova realtà; avevano passato un pomeriggio parlando di tutto e di più, passeggiando per quella New York che aveva imparato, per quanto potesse, a conoscere, e quando la ragazza gli aveva detto che per lei era ora di tornare a casa a studiare si era sentito quasi deluso, nonostante fosse lì con lei da un bel po’ di ore. La verità era che voleva sapere tutto di lei, non se ne sarebbe stancato mai.

 

“Perfetto, allora io vado.” Freddie abbaiò alla frase di Hilary, facendola sorridere; la giapponese sellò la Kawasaki togliendo il cavalletto ed infilando la chiave nel riquadro.

 

Si avvicinò a lei, fissandola, serio. “Sta’ attenta.”

 

Lei sorrise, reggendo il casco tra le mani. “Nessun cucciolo verrà investito stavolta, lo prometto.” Le labbra di lui sfiorarono le sue in un tocco dapprima timido ed innocente per poi farsi via via più deciso, e allora fu solo per uno schiarimento di voce che udirono da dietro, che lei non gli gettò le braccia al collo e non lo attirò a sé, dimenticando dove si trovavano.

“Rei.” Sussurrò, schiarendosi la voce ed allontanando l’altro ragazzo da sé.

 

Il loro amico aveva un sorriso sincero sulle labbra e si avvicinò a loro con l’aria di uno che ha appena scoperto qualcosa di magico. “Congratulazioni, ragazzi.”

 

Kai roteò gli occhi e Hilary arrossì per poi ridacchiare, e zittì il cagnolino che, da dentro la sua gabbietta, iniziò ad odorare rumorosamente per sentire chi diavolo era arrivato. La giapponese si scostò una ciocca di capelli dalla fronte, infine sorrise, indossando il casco. “Noi andiamo.” Fece, indicando Freddie. “Ciao a tutti e due.”

 

Quando Kai la osservò andare via, non poté fare a meno di chiedersi se non fosse andata via così bruscamente a causa di Rei, perché aveva percepito che lui volesse parlargli.

Qualche secondo dopo, il cinese sospirò profondamente, come uno al quale mancavano le parole, e allora capì che la sua ragazza ci aveva visto lontano un miglio. “Che succede?”

 

“Mao è andata a letto con Raùl.” Borbottò, lo sguardo tetro. “E’… E’ incredibile! Quella ragazza mi farà uscire pazzo. Un attimo prima stavamo alla grande, quello dopo stavamo litigando sul fatto che io avrei problemi con le sue decisioni prese qui.”

 

“E’ vero?”

 

“No!” esclamò, con tutta la forza possibile. “Non sono proprio entusiasta di quello che ha fatto o non ha fatto con Raùl, ma… Non mi importano o suoi errori o le sue scelte. Io voglio stare con lei.”

 

Kai lo fissò ironicamente. “E perché non vai da lei a dirglielo?”

 

 

 

 

 

Mmm… La tua padroncina ha esagerato come al solito, eh Fred?”

Hilary sbuffò alla frase detta da una persona di sua conoscenza: camicia messa alla rinfusa, capelli spettinati, aria beata, lentiggini sul volto…

Roteò gli occhi ed iniziò a ridere non appena si accorse che Freddie si era accoccolato accanto a lui.

 

“Sta’ zitto, Max; solo perché ti sei rimesso con la mia coinquilina non ti autorizza a startene qui a sputare sentenze.” Borbottò, fintamente accigliata ma in realtà divertita. “A proposito, dov’è?”

 

“Sotto la doccia.” Rispose pigramente l’americano, per poi prendere a fissarla in maniera seria.

 

“Non ti sembra di star esagerando con questa situazione di Trisha e Takao?” quando lei le rivolse un’occhiataccia, lui contrattaccò con uno sguardo limpido. “Hils, Takao non sa più che fare: quanti sms ti ha mandato? Mille? E quante volte ti ha chiamato? Duemila?” La vide mordersi le labbra ed appoggiarsi al frigo. “Mi ha dato questo.”

 

Quando toccò quella foto, fu come colta da un flashback troppo grande per essere quantificato.

 

Il karaoke…

 

“Era la festa dei sedici anni di una nostra compagna di scuola.” Spiegò, la voce gracchiante. “Avevano sfidato Takao al karaoke, e lui mi trascinò a cantare, dicendo che insieme eravamo imbattibili.” Nemmeno si rese conto di star sorridendo. “One…” bisbigliò, ricordando la canzone degli U2 che avevano cantato quella sera.

 

“Immagino che con la sua voce melodiosa abbia minimo rotto tutti i vetri in circolazione.”

 

Hilary rise. “Diciamo che ci è andato molto vicino.”

 

Max osservò l’aria trasognata dell’amica e sospirò. “Credo che te l’abbia mandato come simbolo del fatto che ne avete passate troppe per mandare tutto a puttane.”

 

In quel momento dal bagno uscì una Mariam con un accappatoio avvolto attorno al corpo; Hilary le lanciò una breve occhiata, prima di andar via.

Mariam guardò prima l’amica- coinquilina chiudersi la porta alle spalle, poi il ragazzo sbuffare, infine inarcò le sopracciglia. “Ti lascio cinque minuti e combini un disastro. Possibile che tu non sappia stare da solo?”

 

Max sorrise, sornione, prima di attirarla a sé, fregandosene del fatto che fosse grondante d’acqua. “Eh, no. Vedi che mi causi dipendenza?”

 

 

 

 

 

Non la capiva: non capiva perché diavolo quel giorno avesse deciso di trascinarlo in quel dannatissimo centro commerciale e lui, allocco, avesse accettato di seguirla.

 

D’accordo, sulle prime era stato pure divertente quell’intermezzo nel negozio di beyblade, specie quello scontro finito in parità, ma ora che cosa c’entrava il momento nel negozio di biancheria intima femminile, con quella musica pop assordante a tutto volume? Era violenza psicologica, altro che storie!

 

Sbuffando per l’ennesima volta, si ritrovò ad guardarla male, mentre la osservava scegliere reggiseni, slip, e altra biancheria di cotone, pizzo e diavolerie varie che al solo adocchiarla gli faceva venire voglia di sentirsi male un’altra volta.

 

Dannatissima Fernandéz.

 

Te stai annoiando, Ivanov?” cinguettò l’infernale spagnola, rivolgendogli di soppiatto un sorriso che non prometteva nulla di buono.

 

“No, figurati; è sempre stato il mio sogno circondarmi di reggiseni e mutande.”

 

Julia rise di una risata cristallina e puramente sua, per poi rivolgergli un sorriso sincero. “Ho quasi fatto.” Gli diede le spalle per, ancora una volta, mettersi a cercare altri capi intimi, e, quello che successe dopo, Yuri Ivanov, non lo poteva immaginare nemmeno nei suoi pensieri più torbidi.

 

Quando, con una quindicina di indumenti tra le mani, Julia si diresse verso il camerino, trascinandosi dietro lui, Yuri non poteva assolutamente immaginare che di lì a pochi secondi ci sarebbe stata una sfilata di intimo avente per protagonista una focosa spagnola che conosceva bene con indosso gli slip e i reggiseni più impalpabili che si potessero mai immaginare.

 

Indumento dopo indumento, Yuri capì come mai poco prima aveva avuto l’impressione che quella dannata madrilena fosse stata mandata direttamente dall’inferno per fargli scontare le sue malefatte: era audace, attraente, lasciva e in più pareva non lasciarsi prendere, leggiadra e impalpabile come quegli indumenti che portava.

 

Durante quella sfilata si era guardato intorno più volte per vedere se vi era qualche commessa nei paraggi che li stava fissando o se vi potessero essere delle dannate telecamere.

                                                                                                                           

MmmMe sa qué devi venire tu aquì.” Quando udì il commento della ragazza da dentro il camerino, inarcò il sopracciglio: entrare? E perché? “Animo, ¡Ivanov!” sbuffando, controllò che non lo vedesse nessuno, per poi chiedersi come mai fosse portato a dare corda alle idee strampalate di quella spagnola del cavolo, ed entrare di soppiatto.

 

Ciò che vide lo lasciò di stucco.

 

Julia era di fronte a lui, con un sorriso divertito; indossava un negligé che pareva di pizzo bianco, che con la sua pelle abbronzata creava un contrasto assolutamente sublime ed eccitante; la musica pop non aveva smesso un solo minuto di suonare, pulsando nelle loro orecchie e facendo loro pensare la stessa cosa nello stesso istante: nessuno li avrebbe sentiti.

 

 

 

 

 

Dopo essere stato battuto a carta, forbice e sasso, Max sbuffò, prendendo posto accanto al conducente ma mettendo il broncio, mentre una Mariam sorridente e soddisfatta apriva la portiera si immetteva al suo posto. Quando mise la chiave nel riquadro per accendere la mustang, l’americano le indirizzò uno sguardo deluso. “Perché non vuoi che io guidi?”

 

“Perché nessuno deve toccare la mia macchina.” Fece, accendendo la vettura e partendo alla volta del posto dove avevano deciso di andare.

 

Max non capiva come quella vecchia auto del ’73, rossa, vecchia e quasi andata potesse fare tanto breccia nel cuore della sua ragazza; ce l’aveva da un bel po’ di tempo, eppure si rifiutava di farsene comprare un’altra. Come mai, era un mistero.

 

Si ritrovò ad armeggiare con lo stereo dell’auto, chiedendosi se avesse ancora i cd di quei vecchi cantanti degli anni ’60 che le piacevano tanto; quando lei gli porse un cd che conosceva bene, scosse la testa, pensando che certe cose non sarebbero mai cambiate.

 

Le note di Helter Skelter si sparsero nell’abitacolo, e rimandarono Max all’anno di prima, a quando in quella stessa auto, a Washington, stavano ore ad ascoltare Beatles e a parlare di loro.

 

When  I get to the bottom, I go back to the top of the slide where I stop and I turn and I go for a ride ‘till I get to the bottom and I see you again.

 

Senza volerlo, si ritrovò a battere sul finestrino il tempo della canzone, e scosse la testa pensando a quanto in effetti i Beatles entrassero in testa e non uscissero più; un po’ tutto quello che riguardava Mariam era così.

 

 

La ragazza trovò posteggio per miracolo di fronte il centro commerciale; qualche ora prima si era informata per sapere dove fosse il negozio di beyblade più grande del mondo e con Max si erano organizzati per andarvi prima che lei iniziasse a lavorare; quel centro commerciale era senza dubbio immenso, e posizionato di fronte Seaside, la spiaggia dei Newyorkesi, il solo posto in cui un luogo del genere – così grande, quasi immenso – potesse avere luogo a New York; ma loro, in vista della finale di bey, volevano soltanto entrare in quel negozio per respirare un po’ aria di sport.

 

Una volta entrati, dovettero dirigersi verso la grande mappa posta davanti l’entrata per vedere dove si trovava quello che cercavano, ma fu una voce che conoscevano bene e un intenso rumore di tacchi a farli voltare entrambi.

 

“¡Gilipollas!”* capelli spettinati, rossa in volto, denti digrignati, era proprio Julia Fernandéz quella che procedeva spedita verso non si sapeva che meta, e pareva avercela proprio con colui che procedeva dietro di lei, le labbra strette e gli occhi assottigliati in due fessure, niente popò di meno che Yuri Ivanov.

 

Max aggrottò la fronte e si voltò verso Mariam con fare interrogativo, ma lei gli fece cenno di non fare alcunché; videro i due sibilare e ringhiare come due animali, fino a quando lui non disse qualcosa che gli valse un sonoro schiaffone e qualcosa di detto a denti stretti; dopodiché Julia se ne andò, intraprendendo l’uscita.

 

L’irlandese si rivolse verso il suo ragazzo e non disse niente, certa che avrebbe capito con un solo sguardo; rincorse la sua amica immediatamente e, non appena fu davanti a quell’idiota di Ivanov gli lanciò uno sguardo talmente gelido volto a farlo pentire di essere nato, dopodiché si accinse a vedere dove poteva essere finita Julia.

 

La fermata degli autobus era poco distante da lì, e per fortuna la beccò in tempo prima che potesse fare qualsiasi cosa: sapeva che la spagnola non era una piagnucolona, quindi quando le afferrò il polso e le vide il volto rigato dalle lacrime, la voglia di andare da quell’Ivanov del cavolo e andargli a spaccare la faccia fu ancora più forte.

 

“Mariam? ¿Qué estas haciendo aquì?”*¹ chiese, tirando su con il naso.

 

“Ero con Max, e ti ho sentita con Ivanov.” Spiegò, senza mezzi termini.

 

Lei scosse la testa, determinata.“E-Estoy asì por el tiempo.”*² Fece, mettendo il broncio e facendo ridere l’altra.

 

“Da quando sei metereopatica?”

 

Siempre. Soy sensible, ¡yo!” a quella frase Mariam scoppiò a ridere, facendo fare un sorriso anche a Julia che, poi sospirò pesantemente. “Da asco quando sai che devi lasciar perdere ma non puoi, perché stai ancora aspettando che l'impossibile avvenga.”

 

L’irlandese passò un braccio attorno alle spalle dell’amica, poggiando la testa su quella di lei. “Sì, fa proprio schifo.” Sussurrò, sorridendo e baciandole la testa. “Vieni, ho mollato il mio ragazzo all’entrata del centro commerciale; andiamo al bar a prendere qualcosa.”

 

Julia fece una smorfia. “No, no: siete venuti qui per stare in pace. Non vi voglio rovinare il pomeriggio!”

 

Mariam la fissò, sbattendo gli occhi. “La pianti di sparare cazzate?”

 

 

 

* “Coglione!”

*¹ “Mariam? Che stai facendo qui?”

*² “Sto così per il tempo”

*³ “Sempre. Sono sensibile, io!”

 

 

Davanti ad un caffè macchiato, che Julia chiamava cortado, un espresso e un frappé, Max e Mariam ascoltarono attentamente la spagnola sproloquiare circa il suo pomeriggio con un certo russo di sua conoscenza: la ascoltarono urlare, sibilare, la videro mordersi le labbra, passarsi le mani tra i capelli e bere di scatto il suo caffè macchiato, nonché battere violentemente una mano sul tavolo, facendo sobbalzare entrambi. I due si scambiarono un’occhiata veloce giusto per attestare che stavano pensando la stessa cosa, dopodiché i loro sguardi si focalizzarono nuovamente sulla spagnola.

 

“… ¡No lo sé como! La musica era altissima, in quel negozio non c’era ninguno, lo giuro! Ma quando siamo usciti dal camerino la commessa ci ha intimato di non farci rivedere mai più in quello stupido negozio.” Fece, con una smorfia. “Io l’ho presa iniziando a ridere, lui no.”

 

“Non è da Yuri Ivanov avere senso dell’umorismo, scusa se te lo dico.”

 

All’intervento di Max, Julia sbuffò, pensando a quanto avesse ragione. “Quando siamo usciti io stavo ancora ridendo, e lui ha iniziato a sibilare cose assurde. Ha detto che avevamo fatto una figura de mierda, che lui, Yuri Ivanov, non se era mai vergognato tanto, che solo quando era con me gli succedevano queste cose.”

 

Mariam capì. “Fammi indovinare: una parola ha tirato l’altra e-”

 

Julia annuì. “Eravamo davanti all’ingresso quando ha detto che non gli era mai capitato di esser cacciato da un negozio, e che si vergognava di andare in giro con me; a quel punto gli ho dicho de andar a tomar por-”

 

Mariam l’interruppe immediatamente. “L’hai mandato affanculo, okay.”

 

L’altra annuì. “Sì, gli ho detto che me dava asco e gli ho dato uno schiaffo.” Ammise, prendendosi la testa tra le mani.

 

Per un paio di secondi, nessuno parlò; i due osservarono la madrilena disegnare forme probabilmente geometriche sul bordo del tavolo, dopodiché Mariam cercò lo sguardo dell’amica, che ottenne solo dopo un paio di secondi. “Non è la prima volta che vi capita una cosa simile.” Allo sguardo perplesso della spagnola, la mora vide di spiegarsi meglio. “Nella vostra situazione particolare, nel vostro rapporto particolare di amici con benefici, avete… Beneficiato – diciamo così – in diversi luoghi, dovunque e comunque. E qualche volta è capitato che vi abbiano anche ammonito.”

 

Julia scosse la testa, evidentemente troppo seccata per qualunque cosa. “Non riesco a ricordare.”

 

“Sul bordo piscina dell’hotel, per esempio, quando vi scoprirono per la lezione di acqua-gym. Io non riesco a ricordare che Ivanov si sia arrabbiato – per lo meno, tu non me lo hai raccontato. O nel giardino pubblico dell’Upper East Side, per esempio, quando rischiaste la multa.”

 

Julia fissò l’amica sbattendo gli occhi. “No entiendo donde tu voglia arrivare.”

 

“Tu e Ivanov state camminando sul filo di un rasoio: basta un nulla per far scappare uno di voi due lontano mille miglia, in fondo i presupposti affinché questa situazione non funzioni ci sono tutti. Siete troppo diversi, la vostra storia sta iniziando da qualche scopata qua e là, e abitate a continenti di distanza.”

 

La Fernandéz impallidì. “¡El campeonato..! Yo…” si guardò intorno, respirando come se le mancasse l’aria, e gli occhi le si fecero lucidi; mai più di allora Mariam capì quanto in quel frangente Julia fosse fragile.

 

“Tuttavia credo che vi sia una cosa che stia alla base del vostro rapporto, per la quale valga la pena di continuare tutto questo.” Fece, seria. “I sentimenti che provate l’uno per l’altra.”

 

Julia fissò l’amica come se si fosse bevuta il cervello, spalancando occhi e bocca. “L’uno per l’altra? Mari, tornare con lui ti ha fatto male, perdoname!” sbottò, paonazza. “No, per niente, proprio per niente.” Borbottò, scuotendo la testa.

 

Max la osservò. “Non credi che lui ti ricambi?”

 

La madrilena serrò le labbra. “No. Potrò pure disgraziatamente essere fregata, provare qualcosa per lui, ma lui non c’è cascato. No, propio no.” Fece, amara, un sorriso sarcastico sulle labbra.

 

Mariam la fissò attentamente. “Il campionato finirà tra poco meno di due settimane e poi ognuno di noi tornerà da dove viene: tu non vuoi dirgli cosa provi?”

 

Julia fece tanto d’occhi per poi azzardare una risatina stridula, nervosa. “Non scherziamo, por favor. Non oso nemmeno immaginare cosa accadrebbe…” sussurrò, rabbrividendo.

 

L’irlandese la fissò seriamente negli occhi, e il verde smeraldo s’incontrò con il verde prato. “La più grande debolezza degli esseri umani è la loro esitazione nel dire agli altri quanto li amino finché sono accanto a loro. Chi ha tempo non aspetti tempo. Pensaci.”

 

 

 

 

La festa in maschera era fissata per le nove di quella sera, ed era già passata dall’Avalon per compiere il suo dovere: povero Mitch, in quel periodo aveva trascurato a dir poco il lavoro, ma non sarebbe più accaduto. Gliel’aveva promesso, dopo essersi sentitamente scusata.

 

In quel frangente, si stava recando al Plaza, pronta a fare un’altra cosa per la quale si sentiva pronta: aveva due ore e mezza di tempo prima di farsi trovare pronta da Jared, ma prima c’era qualcosa che doveva assolutamente, doverosamente fare.

 

In quei mesi aveva giocato a beyblade solo per dovere, e non per la passione che distingue una campionessa; i Baihuzu non erano stati uniti e compatti, facendosi eliminare alle semifinali forse anche un po’ per colpa sua, ed era suo dovere dopo mesi, chiedere scusa a chi di dovere.

 

Quando attraversò il corridoio con un po’ di pesantezza nel cuore, realizzò che erano mesi che non faceva quella strada, il che era strano; la porta le si spalancò davanti, e sorrise, mordendosi le labbra come soleva fare quando era piccola.

 

“Ciao, fratellone. Posso entrare?”

 

 

 

 

Quando ricevette l’sms di Mao, Hilary scosse la testa, non pensando a niente: ne aveva già avuto abbastanza in quei giorni per mettersi a pensare anche alla sua amica, quindi avrebbe fatto come voleva lei e le avrebbe ordinato sul letto il vestito per il ballo in maschera, i collant panna e le decolleté nere. Doveva solo vedere che tipo di pochette la sua amica poteva abbinarvi.

 

Mentre recuperava la chiave dell’appartamento della sua amica, andava a vedere le borsette che avevano in comune lei e Julia, capiva che non ne avevano nessuna adatta, rientrava nel suo appartamento e ne prendeva una in prestito a Mariam, dall’abbaiare di Freddie capì che era rientrato qualcuno. Quando si affacciò e vide che era proprio la mittente dell’sms, le sorrise e la invitò ad entrare nel suo stesso appartamento, facendole vedere cosa le aveva preparato.

 

“Grandioso.” La cinese si sedette stancamente sul divano; pareva sfinita. “Mi prendi una delle red bull che ci sono in frigo, per favore? Vorrei dormire ma non posso, è stata una giornata assurda e io devo ancora andare ad una festa in maschera.” Hilary si diresse in cucina e tornò con la bevanda che l’amica bevve tutta d’un fiato, dopodiché Mao si rivolse alla bruna con aria disperata. “Non ho avuto tempo di prenotare dal parrucchiere, mi devi aiutare.”

 

La bruna annuì. “Ci penso io.”

 

La cinese aveva degli splendidi capelli setosi e liscissimi che si potevano acconciare come si volevano; con l’aiuto di una piastra e di una spazzola mise su una pettinatura semplice ma all’apparenza elaborata, con una mezza coda fermata da un elegante nastro verde ed i restanti capelli cotonati a mo’ di boccoli.

 

Mentre apprendeva dell’asfissiante giornata dell’amica, Hilary restò senza parole quando sentì del messaggio di Jared e della chiacchierata che aveva avuto con Raùl e, dal suo canto, le raccontò di Kai e di Max che le aveva portato quella foto.

 

“Mi ha scatenato una serie di flash back.” Rivelò, mentre la truccava. “Non posso dire certo che non gli voglio più bene, chiaro; solo che non può sbagliare e subito dire… Ehi, scusa, facciamo pace?” fece, stizzita, mettendo via il make-up per poi andare a prendere i vestiti.

 

Mao si osservò, soddisfatta del risultato. “Io non credo, sai? Credo invece che Takao stia facendo di tutto per tornare ad essere tuo amico, e che si sia reso conto di aver fatto una grandissima cavolata. Correggimi se sbaglio: più del fatto stesso ti danno fastidio le bugie pietose che ti rifilava ogni volta, e sei arrivata al limite. Ti senti presa in giro volutamente.”

 

Hilary sbuffò, porgendogli i collant che la cinese si affrettò ad indossare. “Mi conosci troppo bene.”

 

“Dopo cinque anni, vorrei ben vedere.” fece, prendendo il vestito ed iniziando ad indossarlo.

 

La bruna non rispose, osservandola semplicemente ed aiutandola quando fu il momento di armeggiare con la lampo. Una volta indossate i tacchi, era pronta; indubbiamente bellissima, indubbiamente elegante ed aggraziata, avrebbe fatto impallidire chiunque l’avesse guardata. “Attenta, o stasera potresti ricevere anche una proposta di matrimonio.” Mao sgranò occhi e bocca, facendo per mandarla a quel paese, ma il campanello suonò: era l’ora della verità.

 

 

 

 

Quando la porta si spalancò, notò subito che c’era qualcosa che non andava: tanto per cominciare Gao e Kiki non c’erano, poi la suite era nel silenzio più assoluto, ed infine Lai era seduto al tavolo, come immerso nei suoi pensieri. Che poteva essere accaduto?

 

“Siediti.” Alla parola precisa e ben calibrata dell’amico d’infanzia, Rei si stupì, e fu con naturalezza che fece come richiesto; Lai aveva un cipiglio serio, ma non arrabbiato, tutt’al più neutrale. Che cosa gli potesse essere accaduto era un mistero, ma lo avrebbe scoperto di lì a poco. “Da quanto ci conosciamo, noi?”

 

“Da sempre.” Rispose meccanicamente; era impossibile quantificare il tempo. Lì al villaggio erano tutti un gruppo immessi l’uno ad interagire con l’altro praticamente ab eterno. Non avrebbe saputo dire né la data né il giorno di quando vide l’amico la prima volta.

 

Lui annuì. “E’ passata a trovarmi mia sorella, poco fa.” Rivelò, fissandolo negli occhi. “Abbiamo parlato molto. Mi ha rivelato molte cose, troppe che io ignoravo, e solo ora ho compreso il perché di molte sue scelte che l’hanno portata, mesi fa, ad allontanarsi dal gruppo.”

 

Nonostante stesse morendo di curiosità, non osò fare domande. “Mi fa piacere che vi siate ritrovati.” Fece, cauto.

 

Lai gli rivolse uno sguardo ironico. “Mia sorella a quel campionato, anni fa, si dichiarò a te, e tu dicesti di ricambiarla ma che al primo posto, per te, vi era il beyblade.” Quel repentino cambio di discorso fece sì che Rei si confondesse. “Te lo chiederò una volta soltanto, e vedi di non prendermi in giro, o non risponderò delle mie azioni.” Fece, severo. “Che cosa provi per mia sorella?”

 

Che cosa c’entra, adesso? Fece per chiederglielo, ma vedendo quelle iridi color caramello così simili a quelle di Mao fissarlo in maniera decisa, non poté far altro sospirare. “La amo probabilmente da sempre.” Sussurrò, osservando la reazione dell’amico che, fortunatamente, non batté ciglio.

 

“Non voglio sapere perché tu la desti per scontata; sono cose che dovrai spiegare a lei.” Fece, alzandosi e spingendolo a fare lo stesso. Rei sbatté gli occhi, non capendo. “Cos’hai intenzione di fare nei suoi riguardi? Restare qui e rimanere con il dubbio, oppure andare da lei?”

 

Sapendo che il suo amico non si sbilanciava mai sulla sorella per niente, sentì improvvisamente crescere in lui una adrenalina non indifferente. “Dov’è, ora?”

 

 

 

 

Tutto sommato, quella festa non era male: Mao sorrise quando l’orchestra attaccò a suonare l’ennesima ballata e Jared la fece roteare, facendole fare una piroetta che la divertì molto; era stata bene attenta a godersi quella festa dall’inizio alla fine, ben sapendo che era l’ultima del genere alla quale sarebbe mai andata.

 

Quando la ballata finì, Mao si accostò al muro della grande sala da ballo, decisamente stanca; gettando uno sguardo all’orologio notò che tra un ballo e l’altro si erano già fatte le undici, e che sarebbe già stata ora per lei di andare.

 

Sbuffò: quanti compiti ingrati le stavano capitando, in un giorno solo?

“Ehi, eccoti.” Jared la raggiunse nell’enorme terrazza, porgendole il coprispalle in tinta con il vestito. “Ti ho già ricordato quanto sei bella stasera?”

 

La ragazza si morse le labbra per non ridere, pensando a Julia e alla smorfia comica che avrebbe fatto al sol sentire quel discorso melenso e sdolcinato, dopodiché si voltò. “Devo parlarti.”

 

Lui si incupì per quel tono serio. “E’ a causa dei miei zii che hanno creduto stessimo insieme? Lo sai come sono fatti, hanno-”

 

Lei gli si avvicinò, un sorriso sulle labbra. “A causa di tutto.” Sussurrò, decisa. “Stasera mi hai dato tutto quello di cui io avevo bisogno, e per questo io ti sarò grata eternamente: sei dolce, bello, mi hai offerto una vera favola. Ma… C’è altro.” Alla faccia cupa di lui si morse le labbra, e scrollò le spalle. “Amo un altro; pensavo di poter riuscire a dimenticarlo, e non ci sono riuscita.”

 

Il ragazzo aggrottò la fronte. “Lo sapevo, ovviamente.”

 

Lei annuì, fissando il vestito non suo. “Mi dispiace. Ovviamente ti ridarò indietro tutto quello che tu hai insistito per comprarmi-”

 

Jared dapprima ostentò un’espressione ferita, dopodiché parve riprendersi, infine scosse la testa con decisione. “Mi hai detto che è sempre stato il tuo sogno partecipare a party di questo genere: se lo tieni, magari ti ricordi di me.”

 

Mao sorrise, dolce. “Ma io mi ricorderò sempre di te!” si abbracciarono da amici, e la ragazza accettò di buon grado quando lui le chiamò un taxi che si propose di stare ad aspettare assieme a lei, fino a quando non fu chiamato da un parente.

 

Dalla terrazza stessa, osservò il panorama, perdendosi nei suoi pensieri e lasciando che la sua mente si rimandasse a flashback come quando, con Julia, aspettò l’alba sulla terrazza dell’ospedale; anche lì con la sua amica si era persa in flashback assurdi ed elucubrazioni mentali non indifferenti. Per cosa, poi?

Fu il suono di una voce conosciuta a farla sobbalzare; si sporse dalla terrazza e, quando vide chi vide, per poco non si sentì mancare.

Che ci faceva lui lì?

 

 

 

 

Continua

 

 

 

 

Ce l’ho fatta!

Mi scuso sentitamente per il mostruoso ritardo, ma sembra che qualcuno mi abbia lanciato il malocchio per quante cose ho avuto da fare!

Parola mia, questo capitolo è stato un parto, ha avuto bisogno di modifiche su modifiche, e sinceramente non sono contenta nemmeno ora, ma accontentiamoci. U.U

 

 

Okay, momento delle lamentele finito: questo è il penultimo capitolo (che, tra l’altro, poteva tranquillamente chiamarsi “questione di sms” per quanto li ho citati, LOL) e beh… Siamo al capolinea! T.T

 

Spero abbiate passato un bellissimo natale, perché con questo io vi auguro buon capodanno e… Basta. e.e Siete voi che dovete augurarmi buon compleanno (notare il dovete) perché questa pazzoide che vi sta parlando domani fa vent’anni! T___T anzi no. U.U Faccio 2.0 anni. Così è molto più accettabile. *soddisfatta*

 

 

Va bene, la pianto. Noi ci vediamo la prossima settimana con il finale di Overboard. Non ve lo dico il titolo, se no che gusto c’è? Vi dico solo che questa è l’unica storia per la quale ho ideato due finali. La prossima settimana vedremo quale sarà, quindi badate a voi. *minacce vane*

 

 

Grazie veramente di tutto,  alla prossima.

 

 

Hiromi

   
 
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