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Autore: Sah049    03/01/2012    1 recensioni
751 donne incinte, sottoposte alla follia dell'eugenetica nazista.
748 bambini dei quali non fu mai possibile conoscere la sorte: i documenti relativi alla ricerca, del tutto scomparsi senza lasciare alcuna traccia.
Due organizzazioni in guerra, il destino del mondo nella loro vittoria. O nella loro sconfitta.
Un immortale.
Una mortale.
Un amore che dovrà sopravvivere a un mondo di cui nessuno conosce l'esistenza. O quasi.
Che seccatura, la sopravvivenza.
Genere: Azione, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Evolution

Dall'acqua.



Non aveva ancora ripreso conoscenza quando avvertì il lento movimento che lo cullava. Si sentiva come se stesse volando, abbandonato al vento che lo trasportava fin sulle nuvole soffici e calde, lontano da tutto, lontano da tutti.
La pace dei sensi.
E poi sentì un rumore che non riuscì ad identificare. Un lento sciabordio, il grattare ruvido della salsedine sulle onde. L’irritante grattare che gli riempiva le orecchie. E poi un sibilo, molto simile a un fischio. Il canto del mare.
Era sott’acqua. Come aveva fatto a non accorgersene?
Solo allora cominciò a riacquistare consapevolezza: il mare lo aveva chiamato, lo aveva svegliato dal suo torpore mentre lo trasportava giù, sempre più giù.
Ecco cosa c’era che non andava, ecco cos’era quella strana sensazione di pericolo: non riusciva a respirare! L’acqua gli aveva inondato i polmoni, completamente svuotati d’aria.
Fu come svegliarsi durante un temporale. Il sonno tranquillo, e magari anche sogni piacevoli, vengono interrotti bruscamente da un tuono. E un lampo. Non c’è sensazione peggiore.
Aprì gli occhi di scatto, proprio come faceva quando saltava su all’esplodere di un tuono, o di una bomba sganciata in piena notte. A volte gli era capitato di non sentire gli allarmi. Dopotutto, aveva il sonno molto profondo. E poi il lampo. Per lui che era fotosensibile, era la parte peggiore di un temporale e persino dell’attacco di un bombardiere, il lampo che seguiva l’esplosione e lo accecava.
L’acqua gli riempì gli occhi, con violenza. La salsedine grattò e grattò anche quando li richiuse di scatto, cercando di abituarsi. Ma quello era il problema minore. Non che morire fosse tutto quel gran problema: prima o poi il corpo sarebbe tornato in superficie da solo e non avrebbe dovuto fare il minimo sforzo per svuotarsi i polmoni che sembravano voler esplodere; ma sarebbe stato spiacevole. E poi la morte per annegamento non era tra le sue preferite. Andarsene lentamente, con tutto il tempo per pensare a ogni singolo errore commesso nel corso degli anni, tutte le persone che aveva amato o a cui aveva fatto del male… insomma, troppo tempo per pensare e un gran senso di impotenza nel continuare a dimenarsi e scalciare e nuotare, senza mai raggiungere la superficie. La superficie. Quanto era lontana?
Decise di tentare. Con gli occhi ancora ben chiusi agitò braccia e gambe, dimenticò di ogni lezione di nuoto o capacità che aveva acquisito nel molto tempo trascorso in acqua: voleva solo respirare.
Salì e salì, mentre scalciava più rapidamente che poteva e dopo un tempo che gli parve interminabile, riemerse con difficoltà. Boccheggiò, tossì e sputò tutta l’acqua che gli otturava le vie respiratorie e rimase per alcuni minuti così, fermo in mezzo all’oceano, occhi serrati, avido di ogni boccata d’aria. Soltanto dopo si rese conto che era troppo stanco per continuare a rimanere a galla. Maledicendosi per aver anche solo pensato di poterci riuscire, si abbandonò al volere del mare.
Restò sospeso tra la vita e la morte per un tempo indefinito, mentre la sensazione delle onde che lo sballottavano dove volevano non cambiava mai, come se stesse nel dormiveglia. Era davvero cosciente solo a tratti, ma non gli importava granché di quello che gli stava succedendo. Sperava solo che finisse presto e pregò di risvegliarsi direttamente in obitorio. Aveva cominciato ad apprezzare l’aria fresca di quei posti e soprattutto l’assenza di persone ficcanaso che assistevano alla sua rinascita. A volte era rimasto morto tanto a lungo che gli era capitato di risvegliarsi nella tomba, in una chiesa che non aveva mai visto, addirittura durante il proprio funerale. Generalmente partecipavano poche persone e lui nemmeno le conosceva, ma era lì che la situazione si faceva complicata. Testimoni scomodi che difficilmente si sarebbero potuti bere la scusa di uno scherzo di poco gusto o di una scommessa persa. A quel punto doveva anche sobbarcarsi il disturbo di sbarazzarsene.
Sì, svegliarsi in un obitorio era decisamente meglio. Tutti i testimoni presenti erano già morti, quindi un pensiero in meno.
Invece il suo risveglio successivo fu traumatico quanto il precedente.
All’inizio registrò solo vagamente di aver smesso di ondeggiare. Terraferma, finalmente.
Non doveva neanche essere passato molto, dal momento che non era morto di fame né di sete e non era annegato di nuovo. Poi avvertì l’instabilità del suolo sotto di lui, l’odore di salsedine ancora nelle narici e … c’era qualcos’altro nelle sue narici. Qualcosa di piccolo e fastidioso che gli si infilava nella bocca chiusa, nelle orecchie, continuava a grattare gli occhi: sabbia. Sabbia! Solo la sabbia ci mancava! La odiava. Per quanto cercasse di scrollarsela di dosso, quando tornava a casa trovava sempre qualche granellino che gli era rimasto appiccicato nei posti più impensabili.
Si tirò su di scatto e sputacchiò finché non gli salì il vomito. Allora si voltò e aprì gli occhi, ma un sole accecante li trafisse spietatamente. Bene, ora che il sole correva a dare man forte alla sabbia che scivolava verso gli angoli e alla salsedine che si divertiva a incollare le palpebre, perse ogni speranza di poter riaprire gli occhi. Che gran fastidio gli avevano sempre dato.
Nella sua perfezione, perché doveva nascere albino? Perché con occhi tanto delicati?
Sentì subito la pelle bruciare. Rimase seduto finché non gli sembrò che sfrigolasse sotto i raggi incandescenti del sole e non gli rimase altro che alzarsi e incamminarsi alla cieca, nella direzione dove la sabbia diventava più soffice e calda, lontano il più possibile dalla riva.
Si sentiva tanto un vampiro.
Arrancò a fatica senza vedere dove andasse a finire e non gli ci volle molto per andare a sbattere contro qualcosa di ruvido e appuntito. Gli sembrò che gli avesse trafitto la fronte. E in effetti, cadendo a terra, si portò la mano alla tempia che già si stava gonfiando, avvertendo la pelle scorticata. Ora non aveva proprio altra scelta se non aprire gli occhi.
Gli bruciavano ancora e non riuscì a mettere a fuoco le immagini, ma le ombre che vedeva erano abbastanza chiare. Insomma, non c’era molto da vedere; si trovava in una grotta. Una piccola grotta a poca distanza dalla riva, che proiettava la sua ombra diffondendo una piacevole aria fresca. Una piccola grotta che gli aveva lasciato una bella striscia rossa sulla fronte.
“E questa chi diavolo ce l’ha messa qui?”, e a questo pensiero seguirono altre bestemmie, poi altre ancora quando gli toccò rialzarsi e infine quando si vide costretto a ripararsi finché non avesse riacquistato la vista. Che seccatura, la sopravvivenza.
Quando finalmente si sentì pronto, aggirò la grotta. Da un lato la spiaggia sembrava non finire mai, estendersi come un deserto, mentre sul lato destro c’era una distesa di scogli che si immergevano fino in profondità nell’acqua cristallina, dall’aria tanto pura che invece li erodeva lentamente. La scogliera era sovrastata da una scalinata con tanto di corrimano in legno. Optò per le scale.
Solo quando fu ai piedi della scalinata si accorse che non erano altro che pietre, disposte a casaccio a dare la parvenza di scalini. Ma c’era qualcosa che potesse andargli per il verso giusto?
A quanto pareva, no.
Per di più, la scalinata – o presunta tale – non era accessibile direttamente, ma bisognava letteralmente scalare alcuni scogli levigati e ancora bagnati, ricordo forse dell’alta marea. I primi due tentativi fallirono miseramente, con i piedi nudi che continuavano a scivolare, ma a quel punto la sua pazienza andò a infrangersi sugli scogli vicini, incontrò la schiuma del mare e venne trascinata via dalle onde. Forse non l’avrebbe ritrovata mai più.
Ritrovò però le sue abilità di scalatore; spiccò un balzo come se volesse prende il volo e cominciò a salire. Lasciò perdere il corrimano, come se non volesse nemmeno l’aiuto di un pezzo di legno, e arrancò per i gradini di pietra irregolari, che continuavano a salire.
Il sentiero era strettissimo, permetteva il passaggio di una sola persona, e la sterpaglia che gli era cresciuta intorno sembrava essere straripata dai margini della strada e l’aveva completamente invasa. Quando finiva il corrimano, la sterpaglia si impossessava di entrambi i lati, e le erbacce si riversavano sulle pietre tanto che a volte le coprivano interamente.
Doveva procedere lentamente, facendosi strada con le mani, mentre le erbacce lo graffiavano comunque. Aveva già perso la visuale sulla baia, non riusciva a vedere nient’altro che quella fastidiosa vegetazione, ma dopo un po’ non sentì neanche il rumore del mare. Ma dove stava andando?
Pochi passi e si trovò in una posizione abbastanza elevata da vedere oltre la sterpaglia: una torre si stagliava contro il cielo azzurro. Aveva una pianta quadrangolare e non era molto alta, perciò si divertiva ad apparire e scomparire a tratti durante il percorso. Ora che aveva deciso una meta, aumentò la determinazione di andare avanti. Nonostante i tagli che gli ricoprivano il corpo, nonostante il sole picchiante o i piedi martoriati, che continuavano a pestare erbacce e pietre, aprendo sempre nuovi tagli, senza dare tempo ai precedenti di rimarginarsi.
Poco dopo il sentiero si fece meno accidentato e più pianeggiante, le rocce lasciarono il posto al terriccio, che si insinuò spietato nei tagli ancora sanguinanti che ormai ricoprivano tutta la pianta dei piedi. Ma ormai non sentiva neanche più il dolore. Aveva smesso di pensarci un paio di decenni prima. Il dolore era un’emozione forte e una sensazione sgradevole, di conseguenza era stancante dargli tutto quel peso, e non ne valeva la pena.
Così, l’aveva prontamente aggiunto alla lista delle emozioni che richiedevano il dispendio di troppe energie e che andavano quindi evitate. Gioia, tristezza, malinconia, amore, odio, rabbia…  in pratica, tutte le emozioni. Erano anni che non provava nulla al di fuori della pigrizia o del leggero fastidio. Persino quando bestemmiava o urlava di dolore, lo faceva per il semplice gusto di farlo.
Aveva deliberatamente deciso di ignorare ogni tipo di sensazione e gli riusciva anche facile.
Quando trascorri una vita da immortale, anche pochi decenni bastano a farti perdere il gusto per la vita. Semplicemente, lo trovava inutile.
Somigliava a un automa privo di volontà e persino di cervello? Probabilmente.
Gli interessava? No.
Tirò avanti per puro masochismo, fino ai piedi della torre. Era a strapiombo sul mare; a sinistra altre sterpaglie che nascondevano sentieri ancora più ripidi e stretti di quello da cui era venuto, a destra invece una distesa di rocce molto scure, affilate e dall’aspetto minaccioso. Ne aveva viste di simili in un videogioco, Sacred; la terra dei draghi era composta esclusivamente da rocce di quell’aspetto e in effetti era proprio quella l’immagine che evocavano: draghi.
La torre era fatta interamente di pietra e aveva un aspetto dimesso e abbandonato. Era persino transennata, con tanto di cartello che indicava pericolo di morte e instabilità della struttura. Struttura era un eufemismo.
Le finestre erano sprangate e l’accesso impossibile. Decise allora di inerpicarsi per le rocce dei draghi, fino a che non riuscì a sporgersi per vedere il mare. Era molto agitato e le onde si infrangevano con violenza, tanto che la schiuma saettava verso l’alto, come artigli protesi verso di lui. L’acqua si ritirò e tornò alla carica, cercando ogni varco possibile tra gli scogli, scalandoli con i suoi tentacoli come se fosse dotata di propria volontà e volesse soltanto raggiungerlo.
Era uno spettacolo molto suggestivo, ma evidentemente non abbastanza. Avrebbe potuto sentirsi il re del mondo dalla cima di quella scogliera, ma tutto quello che riuscì ad apprezzare fu quel refolo di vento che gli diede un po’ di tregua dall’afa opprimente. Se la pelle avesse cominciato a squagliarsi e sciogliersi, cadendogli di dosso, non se ne sarebbe meravigliato.
Ricordò la prima volta che aveva visto il mare. Alcuni dei suoi compagni non vedevano l’ora, fremevano nell’attesa e formulavano mille ipotesi su come sarebbe stato, su cosa avessero provato. Lui non ne era mai stato particolarmente entusiasta. Nonostante fino ad allora avesse vissuto nell’oscurità e la distesa d’acqua più grande che avesse mai visto era stata quella della piscina della palestra – olimpionica, certo, ma pur sempre una piscina – non gli interessava respirare l’aria salmastra o ammirare l’infinità del mare, l’unica cosa al mondo capace di apparire allo stesso tempo calma e agitata, capace di trasmettere serenità e inquietudine.
Certo, la prima impressione che gli aveva dato il mare era stata un incredibile senso di potenza. Gli si era irradiata in tutto il corpo, infondendogli una nuova fiducia, la sicurezza di poter compiere qualsiasi impresa. Era stato bello, ma diciamo solo che non ci aveva perso il sonno.
Ecco perché si stancò presto della ripetitività del movimento onde-schiuma-scogli, e, non avendo niente di meglio da fare, tornò indietro e aggirò la torre.
L’esplorazione diede i suoi frutti: ad un certo punto la recinzione era attraversata da uno squarcio che gli permise di entrare. Girò attorno ai piedi della struttura, attento a non inciampare – la recinzione non sembrava molto solida e il peso del suo corpo l’avrebbe sicuramente sfondata, così nulla gli avrebbe impedito di ruzzolare fino alla riva sottostante, rompendosi tutte le ossa del corpo – finché non si ritrovò davanti dei gradini. L’enorme portone sembrava sprangato, ma non si poteva mai dire. Avrebbe fatto di tutto per buttarlo giù e trovare un po’ d’ombra.
Era sul penultimo gradino quando accadde l’ultima cosa che si sarebbe mai aspettato in quella situazione.
Il portone si aprì.
Cigolando con un baccano assurdo, che sovrastò il ruggito delle onde, con una lentezza esasperante; eppure era così improbabile che accadesse che quasi non se ne accorse. Così, quando ne uscì una ragazza e se la trovò improvvisamente di faccia, sussultò e cadde all’indietro. Miracolosamente, riuscì a rimanere in equilibrio quel tanto che bastava a non farlo cadere e scivolò solo qualche gradino più in basso.
La ragazza non lo aveva visto subito. Era uscita con la testa bassa, assorta nei suoi pensieri, ma quando lo aveva sentito sussultare le era scappato un urlo.
Rimase a guardare il ragazzo albino sbucato dal nulla, il volto stremato, la pelle diafana sporca di sangue, terriccio e salsedine.
«Chi sei tu?» gli chiese spaventata.
Lui non rispose. Si limitò a fissarla. I capelli setosi e lucenti le ricadevano in fluenti ricci sulle spalle piccole, dall’aria fragile, contornandole un visino dai lineamenti morbidi e delicati. Aveva le labbra carnose e dalla forma a cuore, il naso all’insù e due occhi enormi, verdi con minuscole macchie marroni che somigliavano a tante scaglie di cioccolato, che rilucevano di riflessi dorati alla luce del sole e che lo stavano scrutando. Quando realizzò che non si era mai soffermato così tanto sul volto di una donna – una donna per di più in costume, con curve sinuose e seno prosperoso, come piaceva a lui – senza prestare troppa attenzione al corpo, provò qualcosa che non seppe spiegare. Sentì come se avesse appena fatto un torto a se stesso e non appena avvertì la confusione nei suoi pensieri, cercò qualcosa da dire che risultasse scontroso e maleducato, così da mandarla via. Ma non gli uscirono che farfugli.
Solo allora la ragazza parve accorgersi del suo stato pietoso, perché sgranò gli occhioni preoccupati ed esclamò: «Oddio, stai bene?».
Stava bene? Dal momento che aveva archiviato il dolore, si concentrò sull’aspetto che doveva avere in quel momento, dopo essere quasi annegato in mare, quasi soffocato dalla sabbia e quasi bruciato al sole. No, probabilmente non stava bene.
«Vieni dentro, il sole qui fuori picchia troppo» gli propose gentile. Doveva essersi accorta della pelle squagliata. Gli si stava già staccando dal corpo? No, se ne sarebbe accorto.
Salì i gradini ed entrò. Ombra, finalmente.
Le pietre di cui era fatta la torre gli offrirono refrigerio, come se avessero catturato il vento dall’esterno e lo rilasciassero all’interno. Strascicò i piedi lasciandosi dietro una piccola scia di sangue e si sedette sulla prima sedia che trovò. Non gli importava di guardarsi intorno.
«I tuoi piedi! Hai fatto tutta questa salita scalzo?» non sembrava aspettasse una risposta, quindi lasciò che continuasse a rimproverarlo «Se aspetti qui vado a prendere qualcosa per aiutarti».
«Grazie» bofonchiò, più per togliersela di torno che per l’aiuto che gli stava offrendo.
«Oh, parli l’italiano?».
Solo allora si accorse di aver parlato in inglese. Aveva completamente dimenticato di essere in Italia. Non sapeva bene dove, in realtà. Era partito da Positano, quindi doveva essere ancora presso la costa Sorrentina, o forse più giù, nel Cilento.
«Sì, sì, ti ho capita. Grazie.» ribadì in tono sbrigativo. Aveva capito che la stava praticamente cacciando?
La ragazza indugiò ancora un po’, indecisa se lasciarlo in quello stato o portarlo con sé, ma alla fine decretò che non ce l’avrebbe fatta a seguirla fin giù alla spiaggia, quindi se andò titubante, come se non fosse sicura di ritrovarlo ancora lì ad aspettare.
Quando il portone si richiuse, finalmente lui ebbe modo di guardarsi attorno. Non c’era molto da guardare: qualche sedia rotta, delle quali solo due riuscivano a stare in piedi; vetri rotti sparsi un po’ ovunque sotto le finestre, ora chiuse con pesanti assi di legno; un tavolo traballante e qualche bottiglia rotta sparsa sul pavimento polveroso. Questo fu tutto ciò che riuscì a vedere alla fioca luce della torcia lasciata dalla ragazza, il resto era tutto avvolto dalle tenebre.
Dopo un po’, stanco di aspettare, si alzò e fece un giro attorno al tavolo; nemmeno cercò di evitare i vetri rotti e a stento gemette calpestandone qualcuno. Afferrò la torcia e arrivò fino ad una tromba di scale. Fantastico, altri gradini alti quindici centimetri costruiti con pietre perfettamente non levigate. Non valeva la pena di salire.
Passò molto tempo prima che si chiedesse cosa stesse facendo ancora lì. Aspettava davvero la ragazza? Perché? Le ferite si sarebbero rimarginata nell’arco di una mezza giornata, non aveva bisogno del suo aiuto. Eppure qualcosa lo spingeva a rimanere, qualcosa che non riusciva a spiegarsi e cominciava nelle piccole scaglie nocciola dei suoi magnifici occhi verdi… No, questo non era lui. Non si soffermava mai troppo sulle persone in generale, figuriamoci se ne focalizzava solo lo scintillio negli occhi; quando si trovava davanti una bella donna, di qualsiasi età, stava solo attento a misurare la “triade perfetta”, ossia 90-60-90. Punto. Fine del suo interesse.
Forse era tutto dovuto al fatto che era quasi morto e la sua pelle ancora ustionata, ma quando la ragazza ricomparve, il solo vedere la sua esile figura stagliarsi contro il sole sulla soglia gli diede un nuovo… sollievo. Sì, sollievo. Non andava decisamente bene.
«Ecco, scusa se ci ho messo tanto, ma non è una passeggiata salire e scendere da qui. Ti ho portato alcune cose per tamponare le ferite, ma per il resto credo che dovrai andare al pronto soccorso.» si schernì lei, seriamente dispiaciuta di non poter fare di più.
«Queste vanno più che bene.» rispose lui brusco, prendendo le salviettine che gli stava porgendo. Non erano la cura migliore e a contatto con i tagli bruciavano, ma dopo un po’ gli portarono un piacevole senso di frescura. Pulite le ferite alla bell’e meglio, la ragazza gli porse delle garze ruvide e poco adatte come fasciatura, ma era il meglio che era riuscita a trovare chiedendo ai proprietari dei lidi balneari dall’altro lato della scogliera. Poi gli allungò dei calzini comprati da un giovane tunisino sulla spiaggia, al quale non sembrava vero essere riuscito a vendere dei calzini in pieno agosto, e poi fu la volta delle scarpe. Erano gli zoccoli neri del padre, più grandi di almeno due numeri, ma tutto ciò che avrebbe potuto ottenere.
«Il pronto soccorso non è molto lontano da qui, se ci si va in auto. Mio padre ha detto che possiamo accompagnarti fin lì.» propose timidamente la ragazza. E allora capì che non se la sarebbe più tolta di torno fino a che non avesse accettato il suo aiuto.
Senza nemmeno ringraziarla, si mise in piedi e si avviò fuori. C’era ancora il sole. Lei gli mollò un cappellino tra le mani e si avviò spedita dalla parte opposta a quella da cui era arrivato. Forse si era accorta del suo atteggiamento scorbutico e si era offesa. Poco male, sarebbe stato più facile toglierle quell’aria da crocerossina che le donne assumevano sempre alla vista di un uomo bisognoso, anche quando dovevano essere poco più grandi dei diciassette anni.
La strada era in discesa, ma le rocce erano sempre taglienti e i piedi gli dolevano ad ogni passo, il sole picchiava e le piante frustavano, ma se non altro, all’ombra della visiera del cappellino, riusciva a vedere chiaramente dove stava andando.
Giunsero in un punto in cui, affacciandosi, si poteva ammirare un’altra baia, bella come quella su cui si era arenato ma molto più affollata. Ombrelloni colorati punteggiavano l’immensa spiaggia, mentre tanti puntini che si agitavano nell’acqua dovevano essere bagnanti nel bel mezzo di una vacanza all’insegna del relax.
«Come sei arrivato fin qui?» chiese schietta la ragazza, anche se questo la metteva molto a disagio.
Una domanda che sorgeva spontanea, effettivamente.
«E’ una lunga storia.», rispose annoiato. Tipica, scontata, ma efficace risposta di chi non voleva dare spiegazioni né tantomeno dare adito ad altre domande. Difatti, la ragazza smise di parlare.
Camminarono in silenzio, i timpani cullati dal ronzio lontano del mare, che divenne via via più potente, man mano che si avvicinavano ai piedi della scogliera.
Chissà cosa ci faceva lei in esplorazione in quella torre pericolante. Quanto detestava il fatto che mente e bocca fossero collegate da un filo diretto di cui lui non aveva il minimo controllo, perché doveva averle fatto una domanda e dovette ascoltare la lunga risposta. Non gli piacevano le persone che parlavano troppo, anche se lei… lei riusciva ad assumere un tono particolare mentre raccontava che in qualche modo lo portò ad ascoltare davvero.
Era in vacanza con la famiglia a Marina di Camerota, vicino a dove era nato il padre, e ci veniva quasi ogni anno per una settimana o poco più. Generalmente sceglievano sempre la stessa spiaggia, al riparo di una grotta, ma non si erano mai chiesti dove portassero le scale fino ad un anno prima. Suo padre si era inerpicato per quel sentiero fino alla torre e poi giù, fino alla spiaggia dalla quale era salito lui, e lo spettacolo era così bello che ci aveva portato tutta la famiglia. Lei era rimasta tanto colpita che ci era tornata ogni giorno, nonostante la fatica e il sudore, finché non era riuscita a forzare il portone della torre. Chi aveva messo quella recinzione e tutti quei cartelli doveva essersene completamente dimenticato, perché nessuno si era mai preso il disturbo di controllare che venissero rispettati. Ecco perché era lì. Era salita insieme alla sorellina di dodici anni, che però si era scocciata subito ed era tornata indietro. Essendoci poco da fare, se non godersi l’ombra e l’odore di chiuso, anche lei stava per scendere quando lo aveva incontrato.
«Sul serio ti piace quel rudere?» chiese scettico.
«Certo. Lo trovo… non so, affascinante. Mio padre dice che era una torre che serviva da vedetta e non posso fare a meno di pensare a chi ci trascorresse intere giornate, con nient’altro da fare se non guardare sempre lo stesso mare, le stesse rocce, lo stesso cielo. Lo so, non è molto normale, ma le cose antiche mi piacciono.» disse sorridendo con naturalezza. Era evidente che poco importasse cosa pensavano gli altri. Un tratto apprezzabile, soprattutto di quei tempi.
Nel frattempo erano arrivati ad un’altra scalinata, ripida quando la precedente. La ragazza saltò agilmente gli scogli, nonostante le pantofole di gomma e lui la seguì goffamente, ma comunque con molta più abilità di quanto ci si sarebbe aspettato da chi riuscisse a stento a stare in piedi.
Le ferite, come aveva previsto, si stavano già risanando all’interno del calzino.
Un uomo dalla pancia grossa, in costume e canotta, si stava avvicinando.
La ragazza salutò il padre e gli andò incontro, ma prima si voltò e sorrise timidamente: «A proposito, io sono Sara.»
La guardò un istante, mentre il suo cervello cercava di inventare un nome inglese decente, dato che non riusciva a ricordare il falso nome italiano con cui era arrivato a Positano. Alla fine optò per: «Sebastian.»
Banale. Sara invece sembrò soddisfatta e lo accompagnò alla Fiat Marea bianca parcheggiata a pochi metri dalla spiaggia libera. Una volta salito sui sedili posteriori, dovette affrontare un viaggio sottoposto alle domande che l’uomo al volante gli porgeva a raffica. Ma il pronto soccorso non era vicino?
Rispose in maniera vaga e strascicando le parole, come per far capire che si sentiva troppo debole per rispondere, mentre Sara cercava di limitare il flusso di parole che uscivano dalla bocca del padre, ma quella testolina non ancora del tutto calva non ne voleva sapere di smettere di indagare. Così dovette inventare.
Sebastian, a quanto pareva, era un ragazzino del nord dell’Inghilterra che si trovava in vacanza nella bella Italia con i genitori. Dopo aver visitato Napoli e poi Sorrento, si erano spostati più giù, a Camerota e avevano deciso di prenotare l’imperdibile gita in barca tra le grotte del posto, come gli aveva invece detto la ragazzina poco prima. Se fosse stato davvero in vacanza lì non si sarebbe mai sognato di sprecare il suo tempo per un’escursione tra rocce e grotte, nemmeno se lo avessero portato a Baia Infreschi, dove il mare era cristallino e la sabbia uno spettacolo imperdibile.
Sebastian invece era entusiasta del mare e della barca decisamente troppo piccola per contenere tutti i turisti, ma il mare aveva cominciato ad agitarsi e quando la barca era tornata a riprenderli non era più capace di procedere spedita. Così, mentre l’imbarcazione poco raccomandabile combatteva con le onde, lui era caduto in mare ed era quasi affogato; fortuna che era un così abile nuotatore!
L’uomo si bevve la storia, che non era poi molto diversa dalla realtà. A parte il fatto che in mare ce l’avevano buttato di proposito, per ucciderlo, dopo una lotta estenuante da cui era uscito evidentemente perdente. I lividi e le contusioni erano guarite, la mascella rotta era tornata a posto, e anche i segni delle coltellate dovevano essersi rimarginati mentre annegava, anche se, ora che ci pensava, doveva avere ancora qualche costola rotta.
Quando finalmente arrivarono al pronto soccorso, Sara e suo padre insistettero per accompagnarlo finché non gli avessero assegnato un medico, o almeno un’infermiera. Volevano chiamare i suoi genitori. I genitori. Era stato proprio un genio a dire che i suoi fossero lì a guardarlo annegare, ora chi avrebbe chiamato? Come avrebbe spiegato la loro assenza e la loro mancata agitazione? Avrebbero dovuto quanto meno avvertire la guarda costiera, invece come avrebbe spiegato la totale noncuranza dei suoi fantomatici genitori?
Declinò l’offerta, rassicurando i due che ci avrebbe sicuramente pensato l’ospedale, ma non bastò a levarseli di torno. Mentre camminava scortato fino all’accettazione cominciò a pensare che forse sarebbe stato più semplice farsi trovare da cadavere.
Gli trovarono subito un’infermiera grassottella che, dopo una rapida occhiata alla pianta dei piedi, lo caricò su una sedia a rotelle e lo scarrozzò per mezzo ospedale prima di trovare la stanza giusta; ma prima che lo trascinasse in quel dedalo di corridoi bianchi, il ragazzo si voltò e con grande sforzo il suo sguardo oltrepassò i numerosi strati del braccio dell’infermiera. Sara era ferma accanto al padre, chiaramente a disagio con le infradito e un prendisole che la lasciava praticamente mezza nuda, che gli rivolgeva un sorrisino di incoraggiamento.
E, senza che avesse bisogno di nessun incoraggiamento di nessun genere, senza in realtà aver bisogno neanche di assistenza medica, senza provare alcuna ansia o agitazione, si sentì in qualche modo più calmo. Più tranquillo. E le sorrise grato.
  
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