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Autore: Melie Devour    05/01/2012    2 recensioni
«Come ti chiami?» mi chiese, senza muovere lo sguardo.
«Io? Alease.» risposi non molto prontamente. Dopo qualche secondo aggiunsi «E tu?»
«Io?» mi scimmiottò bonariamente «Io Kurt.»
Kurt. Eppure quella faccia la conoscevo, ma il nome non mi aiutava a ricordare. All'improvviso Kurt si piegò un po' in avanti con espressione dolorante, in silenzio.
«Va tutto bene?» Gli chiesi, ormai sinceramente preoccupata che potesse svenirmi davanti da un momento all'altro.
*Aggiunte illustrazioni fatte da me! *w*
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa è la mia seconda fan fiction, e la prima con Kurt Cobain come personaggio. È una storia di genere "What If", cosa sarebbe successo nei giorni precedenti al suo suicidio, Kurt avesse incontrato qualcuno che fosse stato in grado di capirlo. Mi scuso per eventuali inesattezze sui fatti o sul carattere di Kurt che ho cercato di immaginare ed esprimere al meglio.

Nota: Alease, traduzione alternativa di un misto tra "Alice" o "Elisa", si legge con la prima A simile ad una "e" molto aperta, la i lunga al posto dell'"ea", con accento sulla prima i, e la s di rosa, Elìiz.

 

Di nuovo, recensioni, critiche ed osservazioni sono più che apprezzate.

 

Uscii a corsa dal locale, e presi un po' d'aria fresca dopo tutto il fumo inalato. Aria fin troppo fresca, che al primo respiro sentii mille aghi forarmi i polmoni. Pensai "Come cazzo fa ad essere così freddo ad aprile?". Frettolosamente cercai di agganciare il fondo della zip della mia giacca. Era una giacca logora e in più era da uomo, perciò con la zip dalla parte opposta, e mi faceva confondere sempre. L'avevo comprata per pochi dollari in un negozio di roba usata al porto di Salmon Bay, a pochi passi da dove vivevo. Mi ero trasferita a Seattle cinque anni prima perchè mio padre ci aveva trovato lavoro. Un lavoro che durò due settimane, dopodichè venne licenziato perchè si presentava solo al bar sotto l'ufficio, a bere tutta la mattina. Mia madre, quella donna santa, diventava matta per tenere la sua casa in stato decente quando non era in giro a fare pulizie in quelle degli altri, e in più doveva fare i conti col marito, che nonostante l'amasse, amava di più l'alcool, e non avrebbe esitato a dar contro a chiunque si sarebbe messo tra di loro. Io da cinque mesi mi ero trasferita in una mansarda nel distretto portuale, ed avevo lavorato come fattorino delle pizze, come cameriera in un ristorante di periferia, alla cassa di un fast food, e nella cucina di una tavola calda lavando i piatti, alcuni di questi contemporaneamente. Fui costretta a smettere di frequentare la scuola tre mesi prima dei finali del 12thgrade, mandando in fumo un buon, fino a quel momento, curriculum scolastico. Ero stata ricontattata da qualche docente particolarmente sensibile alla mia situazione che proponeva finanziamenti per il proseguo degli studi, ma quello che serviva a me era tempo di lavorare, e non potei accettare. A casa con i miei c'erano ancora le mie due sorelle piccole, di 11 e 13 anni, alle cui spese d'istruzione provvedevo praticamente io, pagando tutto il materiale che lo stato non passava, oltre che l'iscrizione alla scuola. Mi piangeva il cuore quando ricevevo chiamate nel mezzo della notte della più piccola, Steffeny, che chiamava da sotto il tavolo della cucina piangendo, ed io sentivo le urla di mio padre in sottofondo. A noi figlie non aveva mai fatto del male, ma non ero sicura di poter dire lo stesso di mia madre.

Mi stavo già incamminando verso la via principale quando Ronald uscì dal locale e berciò il mio nome.

«Alease, ma dove vai?» Tirò una risatina pregna di alcool «Pensavo volessi un buon lavoro!»

«Fottiti, stronzo»

L'avevo conosciuto quel pomeriggio andando a trovare un'amica alla mia vecchia scuola, e lui mi aveva invitata ad un Irish Pub, The Dubliner, con la promessa di un buon posto di lavoro, che poi si era rivelato un posto da bartender con inclusi servizietti al proprietario ed eventuali clienti affezionati.

Sentii il rumore di una corsa dietro di me e allungai il passo. Cominciai a correre, ma lo feci troppo tardi. Il fiato puzzolente di Ronald mi scaldava la nuca.

«Mi sembravi una ragazza così disponib..» Una gomitata nelle costole gli tolse il fiato, e lui si piegò in avanti, lasciandomi andare. Potei sentirlo imprecare mentre correvo verso la fermata del pullman più vicina. Controllai più volte che non avesse deciso di inseguirmi, e un volta svoltato l'angolo, cercai di riprendere fiato. Dannazione, mi ripromisi di non accettare nessun'altra proposta da nessun uomo. Mi strusciai la spalla che quel bastardo mi aveva stretto con la mano destra, e mi avvicinai al ciglio di Aurora Avenue. Sulla destra c'era una fermata del pullman, 200 metri più in là. La paletta degli orari era stata mutilata da chissà quale ubriaco o drogato, non ero sicura fosse la linea giusta. Alzai gli occhi e scrutai intorno. Neanche un'anima per chiedere informazioni. Non c'era da sorprendersi, quella periferia sudicia non era un bel posto, figurarsi di notte.

Appoggiai la spalla al palo della fermata con le mani in tasca, e sospirai. Sentii la campanella della porta di un negozietto di alimentari 24h/24 suonare dietro di me. Quando mi voltai, nel buio vidi solo una persona avvolta in un impermeabile con cappuccio tirato su che se ne usciva abbracciando due buste di carta. Sembrava vacillare un po', ma una volta ristabilizzato si avvicinò a capo chino verso la fermata. Si sedette sulla panchina sotto la tettoia di plexiglas, accanto al cartellone pubblicitario. Non riuscivo a vedere niente sotto il cappuccio, non sapevo se fosse uomo o donna, magari un barbone, o un ubriaco. All'inizio esitai, ma la via era deserta e la situazione non sarebbe cambiata, mi decisi ad avvicinarmi. Mi sedetti un posto più in là dalla persona, e avvicinando la faccia al cappuccio dissi sottovoce «Mi scusi.» aspettai una qualsiasi reazione che non arrivò, e provai a continuare «Sa se per caso questo pullman arriva al porto?»

Allora la persona si voltò verso di me e con una mano si tirò un po' indietro il cappuccio sulla testa. Ne uscirono un paio di ciuffi biondi ed un viso bianco coperto di barba. Non avrei saputo dire l'età dell'uomo, ma aveva le palpebre cadenti, gli occhi sciupatissimi, gonfi e rossi, che col colore chiaro dell'iride facevano quasi sparire la pupilla. Per un attimo pensai che avrebbe tirato fuori un coltellino, mi avrebbe ucciso e preso il mio portafogli. Invece aggrottando le sopracciglia sembrò che cercasse di schiarirsi la vista. Sottovoce ripetei «Sa se questo pullman passa per il porto? Salmon Bay.» precisai. Lui prima guardò per terra, poi di nuovo me e farfugliò «Il porto.. Ehm, vediamo.. Sì, se vuoi fare il giro lungo.. Questo poi dovresti prendere la coincidenza e però non so aiutarti di più.» e con l'aria di chi sta soffrendo di emicrania si strusciò gli occhi con pollice ed indice della mano sinistra, e se ne tornò in catalessi. Ok, non avevo capito un'h di quel che aveva detto. Forse entro il passaggio del pullman sarebbe arrivato qualche altro passeggero a cui chiedere.

Mi raddrizzai a sedere e mi voltai di nuovo verso il vicolo dell'Irish pub, per controllare che nessuno mi tendesse un assalto. Si alzò una folata di vento e il freddo mi entrò dal collo fino alla schiena. Mi ritirai nella giacca fino al naso, tenendola stretta con le mani, che si stavano congelando. All'improvviso sentii qualcosa urtare contro il plexiglas, alla mia destra. Mi voltai, e l'uomo nell'impermeabile, stringendo le buste della spesa, era scivolato di lato ed aveva la testa appoggiata al cartellone pubblicitario. Aveva gli occhi chiusi, per un attimo pensai che stesse male, così mi avvicinai e gli posai una mano sulla spalla.

«Mi scusi, sta bene?»

 

  

Lui si scosse e il cappuccio gli scivolò indietro. Si risollevò diritto spingendosi con una mano, ma una delle buste cadde a terra. Sentii rumore di plastica rotta, e da sotto la busta uscì qualcosa di liquido. Pensai di avergli rotto una bottiglia di alcol, cavolo, sarebbe stato un guaio. Mi chinai per raccogliere la busta, da cui erano usciti un cartoccio di latte, un paio di barrette di cioccolato e tre sacchetti grandi di patatine salate. "Che razza di spesa è questa?" pensai. La busta di carta, impregnata di liquido, si era sfatta, e la bottiglia rotta era una bottiglia di succo d'arancia. La raccolsi e la gettai nel cestino lì accanto, dicendo «Cavolo, mi dispiace.»

Mi misi a raccogliere le altre cose, ma sentii di nuovo battere contro il plexiglas. Alzai lo sguardo. Era di nuovo appoggiato al cartellone. Occhi chiusi, naso rosso, bocca aperta. Ora che lo guardavo meglio, era più giovane di quanto avevo pensato, non avrà avuto più di trent'anni. Però quel viso l'avevo già visto da qualche parte. I suoi capelli biondi e lunghi mi erano familiari, ma non riuscivo a capire in che modo. Sembrava addormentato, non avevo voglia di far cadere anche l'altra busta. Posai i pacchetti di patatine, il latte e il cioccolato sulla panchina, ed entrai nel negozietto. Cercai negli scaffali il succo d'arancia che aveva comprato lui, e chiesi al cassiere una busta di carta grande.

Lui sembrava essersi destato e quando tornai alla fermata stava guardando i suoi oggetti sulla panchina in silenzio.

«Sono caduti quando ti ho chiamato. Sembrava che stessi male, scusami.» arrangiai velocemente, imbarazzata. Misi gli oggetti nella busta, mi sedetti e gliela porsi.

«Non dovevi. Sei stata gentile.» Non mi aspettavo che avrebbe parlato, e lo guardai. Guardava dentro la busta. Poi guardò il liquido per terra e di nuovo nella busta. Mi sorrise e con anche troppo entusiasmo disse «E mi hai anche comprato un altro succo!»

Non sapevo se essere inquietata o divertita. Decisamente divertita. Quello sguardo non aveva niente di cattivo, quell'uomo aveva gli occhi stanchi ma sinceri e buoni. Gli sorrisi, lui chinò di nuovo il capo in avanti, con aria sognante.

«Come ti chiami?» mi chiese, senza muovere lo sguardo.

«Io? Alease.» risposi non molto prontamente. Dopo qualche secondo aggiunsi «E tu?»

«Io?» mi scimmiottò bonariamente «Io Kurt.»

Kurt. Eppure quella faccia la conoscevo, ma il nome non mi aiutava a ricordare. All'improvviso Kurt si piegò un po' in avanti con espressione dolorante, in silenzio.

«Va tutto bene?» Gli chiesi, ormai sinceramente preoccupata che potesse svenirmi davanti da un momento all'altro.

A denti stretti sibilò un «Sì.» poco credibile.

Mi accorsi a malapena che davanti a noi il pullman vecchio e fumoso aveva aperto le porte. Mi alzai camminando verso i gradini, e mi accorsi che il ragazzo era ancora seduto a capo chino. "Mio dio, che ha che è così rincoglionito?" Sbottai all'autista «Aspetti un minuto, per favore.» con tono di supplica, e sgambettai velocemente verso quel cappotto gobbo e le sue buste di carta.

«Ma tu devi prendere il pullman o no?»

«Il pullman? È già qui?» Lui per un attimo si rinvenne «Certo che devo prenderlo.» Disse alzandosi in piedi stringendo le buste «Sennò perché avrei aspettato qui?» Lo disse in modo così spontaneo e logico che per un attimo mi fece sentire stupida. "Ma che cazzo, non era così ovvio che tu sapessi cosa stavi facendo!" pensiero che sfociò in un semplice «Eh sì, hai ragione». Lo vidi alzarsi e barcollare.

«L'altezza mi fa girare la testa, sai? Me lo faceva anche da bambino.» Ammise sorridendo lui. 

Io sinceramente non sapevo cosa dire. Da quelle labbra chiare circondate di barba bionda usciva una sorgente di candore capace di farti cadere le braccia. Gli presi una busta dalle mani e gli feci cenno con la testa di salire. Sul pullman c'era odore di tristezza e di gente persa. Pure i seggiolini piangevano di sporco. Io mi sedetti, Kurt rimase in piedi lì vicino con la busta tra le braccia, appoggiato solo con la schiena ad un divisorio di vetro. Mi metteva un senso d'ansia terribile, soggetto com'era ad addormentarsi all'improvviso. Avrei preferito vederlo seduto ben saldo.

«Dove devi scendere?» Gli chiesi.

«Ehm, tra tre fermate.. quattro.» parve pensieroso e buttò gli occhi al cielo, o meglio, al soffitto decadente del bus.

I cinque minuti seguenti li passai guardando quel volto che dovevo aver già visto in vita mia, svolgendo sforzi immani per ricordare. Lui oscillava senza che il pullman facesse curve, il che da un lato mi preoccupava, dall'altro m'ipnotizzava. Osservavo il suo bilico permanente.

Tenni il conto delle fermate «È questa la tua?»

Lui guardò fuori. «Sì.»

Mi alzai e gli porsi delicatamente la busta perché potesse prenderla pur garantendo al suo corpo un certo equilibrio. Ma lui non la prese. Le porte del bus si erano aperte, e il conducente ci guardava per capire che volessimo fare. Allora lui mi disse «Ti va di scendere qui? Potrei aver bisogno d'aiuto.»

Anche se sapevo fosse più che fondata, quella richiesta sembrava provenire da un molestatore/violentatore esperto. Ma lui non era nessuno dei due. Nell'ansia di dover pensare in fretta, decisi di scendere insieme a lui. E nel momento in cui decisi, ero già scesa comunque. La mia reazione aveva preceduto la decisione di qualche secondo. Lui camminava piano, diritto, con la sua spesa tra le mani, ed io lo seguii verso la scaletta di metallo di un motel. Lui si fermò davanti alla targhetta con su scritto 226 Marco Polo, e dalla tasca dei jeans estrasse una chiave. Con la stessa mano con cui teneva la chiave tastò il buco della serratura, e fece buca al primo colpo. Ero molto ammirata. La televisione berciava risultati di partite di baseball sola nella stanza. Lui posò la busta accanto ad essa, e continuò verso il bagno. La busta che tenevo in mano andò accanto all'altra. Non c'erano attaccapanni nei paraggi, così lasciai il cappotto steso sul letto a due piazze. Sentii l'acqua del lavandino aprirsi e scorrere per qualche minuto, poi sentii che Kurt mi chiamò.

«Vieni, Alease.» Quando mi affacciai nella stanzetta lui teneva le mani fisse sotto l'acqua, ancora con l'impermeabile addosso.

«Tutto ok?» Non capivo perché mi avesse chiamata.

«Vieni, puoi scaldarti le mani.» Era quasi scocciato che non capissi al volo. Per un attimo mi irrigidii. «No grazie, sto bene così.» e tornai di là. Mi sedetti sul fondo del letto con le mani tra le cosce per scaldarle, e mi chiesi perché mi trovassi lì. Lui intanto chiuse il rubinetto ed entrò nella stanza. Si fermò in piedi di fronte a me, ed alzai lo sguardo. Mi porgeva le mani col palmi verso l'alto. Temetti di non capire, feci un tentativo. Estrassi le mani dalle cosce e le feci fluttuare sulle sue. Lui me le chiuse a preghiera e le avvolse con le sua dita, calde e ancora un po' bagnate d'acqua. Le strusciò un paio di volte avanti e indietro e le lasciò, sorridendomi. «Meglio, vero?» Annuii, sorridendo un po' imbarazzata.

Si fece da parte e adagiò il suo impermeabile sopra alla mia giacca, sul letto. Tempo di fare un paio di passi verso il centro della stanza che si piegò in avanti con la bocca contratta. Si piegò fino ad appoggiare una mano sulla moquette sudicia, e ci si accasciò. Quell'uomo non stava per niente bene.

«Mi vuoi dire che cos'hai?»

«È l'effetto che mi fa essere stato triste per tanti anni» Disse con un gemito di dolore. Perché parlava a suon di rebus? Mi stava facendo impazzire. «Posso fare qualcosa?» 

Lui mi guardò in viso, e seriamente disse «Forse sì.» Aspettai che continuasse, e lui se ne accorse.

«Io però non so come.» Aggiunse come scrollandosi di dosso una responsabilità. Alzò la mano aperta, l'afferrai e lo aiutai ad issarsi sul bordo del letto.

«Tu perché sei venuta fin qui con me?» Mi chiese.

«Me lo hai chiesto tu.»

«Sì, lo so, ma intendo.. Tu non hai qualcuno.. a casa che ti aspetta? Voglio dire, un padre a cui non farebbe piacere saperti qui con.. me.»

Perché ha dovuto farmi questa domanda? Mi morsi un po' la lingua. «Mio padre ha altre preoccupazioni. Se hai paura che possa venire a cercarmi, allora stai tranquillo.» aggiunsi amaramente. «Non vivo più insieme a loro.»

«Perché?»

«Perché ho trovato lavoro un po' lontano da casa.» sbottai con sufficienza.

«Perciò non penso che tu vada ancora a scuola. E non penso che tu volessi lavorare invece che studiare.»

«Come fai a dirlo?»

«Perché nessuno lo vuole, a meno che non sia uno stupido. Tu non sei stupida.»

«Beh, c'hai preso. Lavoro perché le mie sorelle piccole possano continuare a studiare.»

«Loro sono ancora con i tuoi.» Non era una domanda.

«Sì.»

«Tuo padre vi ha mai fatto male?»

Mi si inumidirono gli occhi, e non risposi per non cominciare a piangere. Arricciai forte il naso per non farlo pizzicare così forte. Lui mi si fece vicino e con un fil di voce mi sussurrò «Ti va di chiamarli?»

  
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