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Autore: Kiyomi    06/01/2012    1 recensioni
Ironico che in quel momento avesse addosso, in un’unione quanto più improbabile, i colori che amava e quello che più detestava. Li sentiva pesanti sulla pelle, opprimenti, eppure non avrebbe mai creduto che un po’ di trucco potesse risultare così ponderoso. Aveva portato sul viso maschere ben più pesanti nel corso degli anni, d’argilla, come gli antichi attori Greci, d’acciaio, come chi solo ha un grande segreto da nascondere può indossare, ma quel grande naso rosso sembrava fatto di puro cemento. E aveva provato in tutti i modi a levarselo di dosso, a sciogliere il trucco con lacrime e sangue, ma quella maschera era decisa, avrebbe portato a termine il suo compito.
Copre, protegge, nasconde. È l’arte della recitazione, l’arte della menzogna.
[...]
Con la fallace realtà i molti
fai divertire, e arte i meandri
dell’illusione ti rendi, poiché mai
ti fu data vittoria dalla verità
ripudiata.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Edward Elric
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ridi Pagliaccio


Graffiava, con forza, con prepotenza, quasi a credere che il sangue potesse cancellare ogni tratto del suo volto. Aveva provato anche con le lacrime, ma nulla, era rimasto semplicemente intatto. Eppure ricordava di averlo visto fare numerose volte dalla mamma, quando di ritorno da quelle cene che si concedeva con suo padre, correva in bagno subito dopo averlo salutato. A lei bastava l’acqua per togliersi di dosso quel peso. A dir la verità il suo non era affatto pesante, era delicato, tutto di lei del resto era delicato, come se quel suo aspetto puro e quei dolci e ordinari gesti avessero voluto sancire sin dal principio la loro differenza. Lui non era delicato, ma sentiva che in quel momento si sarebbe potuto rompere in mille pezzi. Alzò gli occhi verso l’alto mentre il sangue sgorgava ancora dalla guance. Il tendone era grande, alto, dipinto di rosso e di nero.

Uno, due, tre, quattro. Erano diciannove strisce, dieci nere e nove rosse. No, doveva aver contato male. Dieci nere e dieci rosse. Nere come la paura, il dolore, la disperazione. Rosse come la passione, l’amore, la violenza. 

Aveva sempre amato questi due colori.

Spostò lo sguardo più in basso, quasi all’altezza del pavimento. Tangenti al perimetro del tendone c’erano tanti sedili disposti a semicerchio, un’impalcatura protetta da dei sottili pannelli di legno. Tutto – i sedili, i pannelli – era stato reso lucido e splendente, quasi abbagliante, come se l’intera struttura fosse stata appena ridipinta. Avevano sicuramente usato un grosso rullo, di quelli un po’ economici, e tanta, candida e fresca vernice bianca. Probabilmente, se fosse andato a toccare, si sarebbe ritrovato il dito macchiato.

Odiava il bianco. Lo aveva sempre considerato un colore ipocrita.  Bianco come i suoi guanti, bianco come il grembiule di sua madre, bianco come la verità. Rifugio, abbandono, disperazione.

Ostentava purezza, innocenza, perfezione, mentre in realtà era solamente una copertura, una maschera abbagliante.

Ironico che in quel momento avesse addosso, in un’unione quanto più improbabile, i colori che amava e quello che più detestava. Li sentiva pesanti sulla pelle, opprimenti, eppure non avrebbe mai creduto che un po’ di trucco potesse risultare così ponderoso. Aveva portato sul viso maschere ben più pesanti nel corso degli anni, d’argilla, come gli antichi attori Greci, d’acciaio, come chi solo ha un grande segreto da nascondere può indossare, ma quel grande naso rosso sembrava fatto di puro cemento. E aveva provato in tutti i modi a levarselo di dosso, a sciogliere il trucco con lacrime e sangue, ma quella maschera era decisa, avrebbe portato a termine il suo compito.

Copre, protegge, nasconde. È l’arte della recitazione, l’arte della menzogna.

Spostò nuovamente gli occhi, cercando, senza ravvedersene realmente, qualcosa di ignoto persino per lui. E lo trovò. Non lo aveva visto prima, eppure sembrava trovarsi lì da un’eternità, quasi fosse parte integrante di quella complicata struttura. La cornice di bronzo era incastonata al terreno, ma i suoi piedi apparivano rovinati, come se qualcuno avesse cercato di forzarli, di staccarli dal pavimento. In generale tutto il metallo che lo componeva era rovinato, ma l’interno, la parte specchiata, era impeccabile. Non un graffio, non una macchia, non un’imperfezione. Era così distinto dal resto dell’arredamento che sembrava non riflettesse la luce dei fari, bensì brillasse di propria sponte. Era un bello specchio, di quelli un po’ vecchi, vissuti, ma comunque raffinati. Cominciò ad avvicinarsi, mosso da una curiosità della cause più arcane, e, una volta davanti, guardò. Disperazione.

Graffia, cancella, distruggi. Con forza e violenza.

Voleva togliersi di dosso quella maschera grottesca, cancellare ogni segno del trucco. Non sopportava il viso coperto, le emozioni nascoste e quel falso sorriso. Aveva sempre odiato i pagliacci. Eppure, difficile a dirsi, era abituato alle maschere.

Indossava col fratello quella dell’eroico maggiore seppur non se ne sentisse all’altezza. Indossava col padre quella del figlio incazzato nonostante la nostalgia. Indossava con la madre – e col mondo – quella da uomo coraggioso, dimentico persino lui stesso di essere solo un bambino impaurito.

Davanti ad un bambino mascherato, durante il carnevale o in qualsiasi occasione, cominciava a provare un invidia esacerbante, spesso mista ad un flebile odio, che, dimentico di ogni autocontrollo, gli avrebbe fatto gridare in faccia a tanta sfrontatezza tutte le parole di rancore che aveva sempre trattenuto.

“Ti diverti tanto con quella maschera, stronzo? Io per niente. Prenditi le mie, ne ho tante, e vedi di sparire.”

Si girò di scatto appena sentì parlare. Era una voce amplificata, proveniente da qualche cassa su in alto, accompagnata da una musica che di piacevole aveva ben poco. L’avrebbe definita quasi inquietante. Appena la voce smise di parlare – non aveva ben capito cosa avesse detto – vide entrare dal tendone due strane figure. La prima era un giocoliere, con palline e tutto il resto. Era sorridente e suscitava ilarità, aveva la naturale capacità di far sorridere il pubblico – comparso insieme ad esso – con ogni più semplice mossa.

Sentiva di provare un incondizionato amore verso questo giocoliere. Lo amava perché lo conosceva da quando era nato, lo amava perché aveva in serbo per lui sempre un sorriso, lo amava perché anche nei momenti più tragici si mostrava forte e, nonostante la pesantezza del mondo, non cessava di farlo sentire leggero.

Il giocoliere era affiancato da un mimo vestito di bianco, anch’esso con una pesante maschera in volto. Il mimo amava il giocoliere, si vedeva chiaramente, e senza parole esprimeva il suo amore, in un particolare codice di gesti e emozioni. Anche il giocoliere lo amava, ed era un amore delicato e senza confini.

A lui quel mimo non piaceva. Sentiva un’avversione nostalgica alimentata da antichi ricordi. Era il trucco che nascondeva i tratti del viso , accompagnato dall’inconscia memoria di un abbandono prematuro. Era la consapevolezza che in fondo così diversi non erano.

Il loro spettacolo finì nello stesso modo in cui era iniziato, con fretta ed irruenza, forse anche un po’ prematuramente. Non che lo stesse realmente seguendo però, era troppo catturato dai loro gesti e da quel codice segreto che non riuscì ad interpretare. Di nuovo la musica, di nuovo la voce, di nuovo un’entrata. Si trattava questa volta di un giovane acrobata che si muoveva con eleganza tra trapezi ed anelli. Non era perfetto, alcuni sbagli decretavano la sua inesperienza, eppure vederlo era uno spettacolo. Volando tra gli attrezzi trasmetteva la gioia di vivere che solo l’ingenuità può provare.

Il rapporto col corpo era un continuo contrasto. Lo detestava, lo amava. Sembrava quasi che non lo conoscesse, che fosse novità. Ma era bellissimo. E la sua vera bellezza risiedeva nel cuore.

Altri due salti e l’acrobata sparì. La voce ricominciò a parlare come ricominciò anche la musica. Prestò più attenzione e finalmente qualcosa capì: doveva trattarsi di un domatore. Entrarono nel tendone tre leoni, seguiti – eppure guidati – da un uomo, posizionandosi poi su tre diversi podi. Lo spettacolo cominciò. Il domatore muoveva le sue marionette con fili invisibili, trattenendoli, giocandoci, facendoli quasi volare. E nel frattempo li amava.

Il suo amore era possessivo, quasi violento, ma pur sempre amore. Poteva anche morire, ma mai avrebbe smesso di amare i suoi animali.

Sentì che in qualche modo quell’amore gli apparteneva, che fosse rivolto a lui. Quasi quello spettacolo, quello strano gioco di ruoli, non fosse solamente una messa in scena allestita per il mero piacere degli occhi, ma una degna riproduzione di un’antica tragedia greca, col suo didascalico fine.

E lui era parte integrante di quella tragedia. Era l’attore principale, il leone protagonista. E la sua mente saltava, giocava, volava, guidata dalle abili mani del domatore. Perché lui quel domatore l’amava, anche se stentava ad ammetterlo.

Dopo l’ultima occhiata lanciatagli con apparente noncuranza l’uomo e i leoni uscirono di scena, lasciando vuoto quell’enorme semicerchio. Si aspettava di sentire nuovamente quella voce che aveva ormai assunto un tono stranamente familiare, ma alle sue orecchie non arrivò nessuna musica, straziante, nessuna annunciazione. Notò solo, girandosi verso il pubblico, dozzine di occhi frementi, provati dalla pesante attesa. Sembrava stessero aspettando da anni un momento ormai più che imminente. Si accorse solo dopo che quegli occhi erano puntati verso di lui. Tra il pubblico c’erano anche il giocoliere, il mimo, l’acrobata e il domatore, lo guardavano anche loro. Chi con dolcezza, chi con comprensione, chi con affetto, chi  con passione, ma tutti con la stessa aspettativa. Perché, si capiva, lo stavano aspettando. Comprese solo in quel momento che era arrivato il suo turno. Non si accorse che calò il buio, né che un riflettore puntò su di lui, sentì solamente, come se fosse stato l’unico suono proveniente dal mondo, il rumore dell’acqua che scorreva a non molta distanza: erano pochi metri a separarlo da quella fontanella. E la vita tornò a fluire nelle sue vene, e un nuovo entusiasmo si impadronì del suo corpo. Si sentiva rinascere ogni passo di più e mentre la distanza diminuiva, la  sua gioia aumentava. Arrivò alla fontanella togliendosi il naso rosso dalla faccia, si bagnò le mani con l’acqua e si girò per un’ultima volta. Vide i volti estasiati degli spettatori che attendevano solo una sua entrata in scena, i sorrisi carichi di speranza dei suoi conoscenti, le mani pronte per applaudire alla sua ennesima farsa. Erano tutti così maledettamente felici. Scrollò le mani e si rinfilò il naso da pagliaccio. Avrebbe recitato solo un altro po’, giusto il tempo di rendere il mondo contento. Dopotutto era la felicità che a lui interessava, che non fosse la sua era indifferente.

 

 

 

 

Ridi pagliaccio nella tua esasperata

vergogna, tra i poco giusti sentimento

comune, che l’amara menzogna

imprigionò nel tuo guscio.

 

Tu che troppo conosci,

tu che troppo capisci,

dell’altrui ignoranza, madre

di gioie e follie, ora ti bei,

nella chiarezza unico

despota.

 

Con la fallace realtà i molti

fai divertire, e arte i meandri

dell’illusione ti rendi, poiché mai

ti fu data vittoria dalla verità

ripudiata.

 

Sussurrano, ridono, applaudono

gli spettatori che tanto diletti,

con approvazione lodando

questa divertente tragedia.

 

Fatale

noti i sorrisi,

e una lacrima scende.

 

 

 

 

 

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Rieccoci qui, dopo tanto tempo nuovamente su EFP.

Difficile a dirsi *assume un tono sarcastico* ultimamente sono stanta abbastanza impegnata con la scuola e sono riuscita a trovare tempo solo durante queste vacanze.

A dir la verità è già da un po' che questa storia stava ammuffendo nel mio computer, ma non avevo mai avuto il coraggio di finirla e di pubblicarla.

Il fatto è che è uno stile così dannatamente nuovo, e strano, per me. Non so se si può propriamente dire che il risultato sia buono, anche perché io in questi casi non sono affatto oggettiva, spero solo di non aver tirato fuori una vera e propria schifezza.

Un bacio, Kiyomi.

  
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