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Autore: purplebowties    07/01/2012    5 recensioni
“Solo per farti un po’ di compagnia,” aveva detto Nate con il tono più innocente e genuino del mondo, ma Chuck non aveva impiegato più di dieci secondi per capire che l’intenzione reale del suo migliore amico era quella di controllare che non facesse nulla di pericoloso o folle, il che secondo Nate era comprensibile, visto "tutto quello che aveva passato".
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blair Waldorf, Chuck Bass, Louis Grimaldi | Coppie: Blair Waldorf/Chuck Bass
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quinta stagione
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Autore: purplebowties
Titolo: *1It was just that the time was wrong.
Fandom: Gossip Girl
Personaggi: Chuck Bass, Blair Waldorf.  Marginali o nominati: Monkey, Nate Archibald, Serena Van der Woodsen, Lily Humphrey, Louis Grimaldi.
Paring: Chuck\Blair
Genere: Drammatico
Rating: Giallo
Timeline: Dopo la 5X10, Riding In Town Cars With Boys. 
Avvertimenti: AU a partire dall'episodio 5X10.
Introduzione: “Solo per farti un po’ di compagnia,” aveva detto Nate con il tono più innocente e genuino del mondo,  ma Chuck non aveva impiegato più di dieci secondi per capire che l’intenzione reale del suo migliore amico era quella di controllare che non facesse nulla di pericoloso o folle, il che secondo Nate era comprensibile, visto "tutto quello che aveva passato".

 


 


And when you cried, you cried for us and when we died, you died alone.

I did what I could for one of us: I always thought it was for you.
And when I lied, oh, I lied for us, because you never heard the truth.

Look at the time it’s taking me yo get away from what was said:
“I'll never leave”, “I'll always love”.
    You know that all those words are dead, buried in yours tonight.

Ghosts, we love like ghosts.

Robbie Williams,  Ghosts


“Sei sicuro che vuoi che vada?” gli chiese Nata cautamente, lanciandogli l’ennesima occhiata preoccupata della mattinata. “Voglio dire, Blair non avrà bisogno di me oggi: dubito addirittura che si accorgerà della mia presenza, se è per questo. Potrei restare qui, davvero. Infondo Serena ha detto che non…”

Chuck sospirò, passandosi una mano sulla fronte. “Nathaniel,” lo interruppe, prima di dover ascoltare di nuovo la lunga lista di motivazioni per cui la presenza di Nate al matrimonio non sarebbe stata così strettamente indispensabile. Lui e Serena gliela ripetevano ad intervalli regolari di tempo da un’intera settimana, con il medesimo tono esageratamente conciliante. “Per l’ennesima volta,  non è necessario.”

Doveva aver pronunciato la frase con un tono più perentorio ed irritato di quella che era sua intenzione, pensò Chuck, perché Nate, impeccabile nel gessato Armani che Serena gli aveva consegnato trafelata la sera prima (con tanto di raccomandazioni da parte della sposa su quale cravatta indossare), abbassò velocemente lo sguardo e scosse la testa arrendevole, allargando le braccia sconfitto. “D’accordo,” mormorò dunque rassegnato.

Chuck sentì una fitta di colpa pizzicargli la gola. Nate non meritava alcun tono aspro da parte sua. Dopo l’incidente, il suo migliore amico era stato oltremodo protettivo, scosso com’era da quanto era successo; una volta tornato a casa dall’ospedale, Chuck aveva dovuto persino impedirgli di concedersi un indeterminato tempo di vacanza dal lavoro minacciandolo di sfratto.  

Solo per farti un po’ di compagnia,” aveva detto Nate con il tono più innocente e genuino del mondo,  ma Chuck non aveva impiegato più di dieci secondi per capire che l’intenzione reale del suo migliore amico era quella di controllare che lui non facesse nulla di pericoloso o folle, il che secondo Nate era comprensibile, visto "tutto quello che aveva passato" – Nate aveva tenuto ad argomentare così la sua preoccupazione quando era stato prevedibilmente smascherato, con sincero dispiacere negli occhi azzurri ed un sorriso nervoso.

Chuck non se l’era presa, comunque. In fin dei conti le angosce di Nate, per quanto francamente irritanti, erano del tutto giustificate: lui stesso si meravigliava ogni giorno di come, nonostante la chiara e palese sofferenza, riuscisse ad andare avanti mantenendo un precario equilibrio di contegno.

Tuttavia, aveva realmente pensato che la sua vita fosse un’enorme presa per i fondelli quando si era svegliato e, aprendo gli occhi, non aveva trovato nessuna Blair a stringergli la mano, bensì lo sguardo spaurito di Nate le dita di Lily strette intorno al suo braccio. Si era sentito spaesato, perso, chiedendosi dove fosse e quanto tempo fosse passato dall’attimo in cui aveva sentito la coscienza abbandonarlo, perché l’ultima cosa che ricordava prima del dolore e del buio era il corpo di Blair schiacciato dietro allo scudo del suo ed il profumo rassicurante di lei, mentre le giurava flebile che sarebbe andato tutto bene, che sarebbero stati bene.

“Blair,” aveva invocato Chuck terrorizzato e, quando Lily aveva abbassato gli occhi e Nate si era coperto la fronte con una mano, la paura di averla persa per sempre e di non essere riuscito a tener fede all’ennesima promessa gli aveva stretto la gola e fatto spalancare gli occhi, perché lui le aveva assicurato che l’avrebbe protetta, che l’amore sarebbe bastato e che sarebbero stati una famiglia, una famiglia vera per il suo bambino. Che sarebbero stati insieme, insieme per sempre.

“Blair sta bene, Charles,” lo aveva rassicurato Lily passandogli la mano sul viso e, sebbene la voce della donna non sembrasse pienamente convinta, Chuck si era sentito troppo stanco per pensare al motivo per cui Blair non fosse lì con lui. “Nate è andato a chiamare il dottore, va tutto bene. Riposa adesso.”

Era scivolato nuovamente nel sonno, convinto che lei sarebbe stata lì quando avrebbe aperto gli occhi nuovamente, pronta a ripetergli che era lui l’uomo che amava, che non sarebbe più andata via, che non lo avrebbe mai lasciato.

Tuttavia, ore dopo, l’unica persona che aveva trovato una volta sveglio era stata una Serena sgualcita e con i capelli biondi tirati su alla bene e meglio, che gli aveva sorriso di un sorriso triste, ben diverso da quelli sfavillanti e luminosi che le increspavano le labbra da sempre.

“Come ti senti?” gli aveva chiesto premurosa ma, appena Chuck aveva glissato sulla domanda interrogandola su dove fosse Blair, Serena aveva abbassato lo sguardo e si era mordicchiata nervosamente il labbro, torcendosi le mani come faceva ogni volta che era in difficoltà.

“Chuck…”

“Serena, che cosa sta succedendo?” aveva chiesto dunque Chuck con tono allarmato, attendendo impaziente che lei formulasse una frase di senso compiuto. “Dov’è Blair?” aveva domandato di nuovo, esasperato. “Perché non è qui?”

“Lei…lei è a casa,” aveva risposto criptica Serena, sospirando.

Chuck non aveva avuto il tempo di pensare a quale mostruosa verità la sua sorellastra stesse cercando di nascondergli, perché pochi secondi dopo aveva visto gli occhi chiari di lei riempirsi di lacrime e le mani posarsi esauste sul volto, prima di prendere fiato e cominciare finalmente a parlare.
“Blair è stata dimessa la settimana scorsa, Chuck. Lei sta bene, ma il bambino non ce l’ha fatta.”

Chuck ricordava di essersi letteralmente sentito morire a quelle parole. Con sgomento aveva percepito la colpa annidarsi nel petto e comprimergli le viscere al pensiero che era non erano stati i paparazzi o lo schianto ad uccidere la vita che stava crescendo in Blair, ma il suo egoismo, il dannato egoismo con cui aveva pensato di poter renderla felice, di poter essere un buon padre, di poter proteggere lei e suo figlio da tutto ciò che di cattivo, di sporco e di pericoloso il mondo aveva da offrire, così come nessuno si era mai curato di proteggere lui, nessuno se non Blair.

L’ironia crudele del suo destino amaro lo aveva eletto mortifero distruttore, Chuck lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Ne era a conoscenza da quando suo padre lo aveva informato colmo di disgusto e freddezza che sua madre era morta dandolo alla luce, e poco contava che quella fosse stata la prima delle infinite bugie di Bart, perché in fin dei conti lo aveva ritenuto comunque responsabile dell’abbandono di Elisabeth. Chi, d’altronde, avrebbe voluto crescere ed amare un bambino come lui? Era vero, non aveva ucciso sua madre, ma nel raccontargli quella menzogna Bart aveva comunque sottointeso che era quello il suo ruolo nel mondo: deludere, infangare, distruggere, uccidere. Uccidere le emozioni, uccidere i sentimenti, soffocare la vita.

Ed infine non era stato abbastanza coprire Blair nello schianto e tentare di difenderla, perché era lui a non essere abbastanza, era lui che attirava la crudeltà del caso. Perché era egoista, egoista per aver voluto trascinarla via dal suo futuro marito, egoista nel voler crescere un figlio che non era il suo, ancora più egoista perché, nonostante tutto, in quel momento non avrebbe voluto fare altro che stringerla e respirare la vita inalando il profumo dei suoi capelli.

“Verrà, Chuck. Ha solo bisogno di tempo,” aveva detto Serena sedendosi sul bordo del letto e accarezzando teneramente le lenzuola come per volerlo rassicurare, ma Chuck non aveva trovato alcun conforto in quelle parole, gli erano sembrate solo l’assurda espressione di un desiderio che difficilmente si sarebbe avverato. Il giorno dopo, infatti, con la testa bionda bassa e con un filo di voce, Nate gli aveva dato la tanto dolorosa quanto prevedibile notizia che Blair non aveva rotto il suo fidanzamento con Louis

Appurato che non c’era alcuna possibilità per lui di muoversi dal letto di ospedale su cui era costretto – il dottore era stato categorico e non era stato per nulla utile minacciare di far chiudere l’ospedale e tentare di corrompere l’amministrazione con cifre imbarazzanti di denaro per fargli cambiare idea - Chuck non aveva potuto fare altro di pregare Serena di riferire a Blair quanto avesse bisogno di parlarle, incapace di abbandonare l’ingenua speranza di vederla comparire sulla porta della sua stanza. 

Aveva immaginato che l’avrebbe abbracciata se fosse venuta e avrebbe lasciato che lei piangesse tra le sue braccia, asciugandole le lacrime via dalle gote con il pollice e ripetendole che la amava, che non avrebbe mai smesso di farlo. Ma Blair non era arrivata.

Non era arrivata nemmeno il giorno della vigilia di Natale, quando Lily aveva trovato un modo per organizzare la cena all’ospedale e tutti si erano riversati nella sua camera carichi di sorrisi rassicuranti e belle parole. Nate era persino riuscito a convincere l’infermiera di turno a fare entrare Monkey, che gli aveva leccato felicemente il viso e le mani per poi accoccolarsi placidamente ai suoi piedi, ma Chuck si era sentito vuoto ed incompleto in assenza dell’unica persona che lo avesse mai fatto sentire veramente vivo, perché Blair aveva amato tutto di lui, ogni singolo dettaglio tragico e malevolo del suo essere, aveva sofferto testarda e coraggiosa delle sue insicurezze e dei suoi drammi e, soprattutto, lo aveva scelto.

Lo aveva scelto nonostante  lui fosse una delusione e non sapesse fare altro che distruggere e calpestare e macchiare di inchiostro nero tutto quello che toccava. E Blair questo lo sapeva bene, lo aveva imparato a sue spese più in più di una circostanza ed era per questo motivo che non sarebbe più tornata indietro, non dopo quello che era successo, perché questa volta non aveva distrutto solo se stessa avvicinandosi a lui, ma aveva trascinato  nel vortice del loro destino maledetto anche l’innocenza di un’esistenza strappata violentemente alla vita. 

La notte di Natale, quando era finalmente riuscito a convincere tutti a tornare a casa, Chuck era rimasto sveglio rimpiangendo la bottiglia di scotch che Nate gli aveva negato perentorio prima di andarsene, perché, impossibilitato com’era a raggiungerla e ad aiutarla, immaginare una Blair distrutta tra le braccia di Louis lo tormentava al punto di lasciarlo senza fiato, soffocato da un terribile sentore di impotenza. Certo, aveva atteso ore che lei rispondesse alle sue infinite telefonate, si era premurato di fare in modo che ricevesse un immenso mazzo di peonie ogni mattina ed ogni sera finché non sarebbe potuto andare di persona ad offrirle il suo conforto e a chiedere scusa per quello che era successo, ma saperla vicina ad un uomo che non conosceva nulla dei momenti peggiori di Blair e che non aveva idea di come trattare e gestire le sue ombre lo angosciava terribilmente.

I suoi timori avevano trovato risposta concreta quando, qualche giorno dopo, un esasperato Louis si era presentato in ospedale e Nate non gli aveva permesso di entrare nella stanza, affermando sicuro che non era assolutamente il caso che Chuck si confrontasse con lui proprio in quel momento. Fuori dalla porta, Louis aveva inveito e gridato che era tutta colpa di Chuck se suo figlio era morto e se la sua fidanzata si rifiutava addirittura di parlargli, chiusa nella sua stanza da letto da tre settimane.

Sebbene avesse provato un sincero moto di gratitudine quando Nate aveva afferrato il Principe per il colletto della camicia e gli aveva intimato a chiare lettere di non permettersi più di tornare lì, Chuck non aveva potuto fare a meno di dargli ragione, scuotendo la testa e mormorando che era davvero colpa sua, che non avrebbe mai dovuto permettere a Blair di salire su quella macchina: nuovamente, cercando di renderla felice, non le aveva causato altro che dolore e disperazione.


“Allora, io vado,” disse Nate sul ciglio dell’ascensore, ancora leggermente titubante.

“Vai.”

“Posso stare tranquillo?”

Chuck non rispose, si limitò a stirare le labbra nella pallida imitazione di un sorriso e scosse la testa, facendo un cenno di saluto con la mano al suo migliore amico. Spense il cellulare mentre Nate spariva oltre le porte automatiche, con tutta la speranza di non essere disturbato.

Fu solo quando si ritrovò da solo che realizzò la fredda verità di quanto gli stava accadendo: Blair si sarebbe sposata. Blair avrebbe sposato un altro uomo, un uomo che la rendeva tiepidamente serena, un uomo che probabilmente non amava.Non nel modo in cui si amavano loro, almeno. Non con quel trasporto lacerante che li faceva sentire inesistenti da separati e che li riportava sempre al punto di partenza, con le gambe nude avvinghiate e le stesse parole tra le labbra. Ti amo, ti amerò per sempre.

Ma Blair avrebbe giurato il suo per sempre ad un altro, a qualcuno che non era lui, qualcuno che era più giusto per lei di quanto lui lo sarebbe mai stato, perché loro uniti non erano altro che passione, un fuoco ardente che bruciava consumandoli di volta in volta, che mischiava il piacere lanciante ed il dolore in un cocktail velenoso che avrebbe finito per ridurli nuovamente in fin di vita ma senza ucciderli, condannandoli a rinascere dalle loro stesse ceneri e riproporre all’infinito quel circolo vizioso. L’incidente non era stato altro che l’ennesimo segnale ad avvisarli crudelmente che non c’era speranza di felicità per due come loro, non insieme, non in questa vita.

Era stata la stessa Blair a dirglielo, con gli occhi bassi e i boccoli sgualciti, minuscola dentro la sua vestaglia di velluto grigio. L’aveva trovata così, raggomitolata nel centro del suo letto rivestito di seta, quando finalmente era stato dimesso ed era potuto andare da lei.

Uscito dall’ospedale, Chuck aveva ignorato palesemente le proteste di un Nate prontissimo a riportarlo a casa e aveva ordinato con urgenza ad Arthur di condurlo direttamente all’attico dei Waldorf. Per tutto il tragitto aveva avvertito il senso di inquietudine e di attesa per la voglia di rivedere Blair mescolarsi dolorosamente con il suo stesso senso di colpa. Si era sentito nuovamente egoista nell’impossibilità di frenare il suo bisogno di accertarsi che lei stesse bene, di stringerla, come se tenerla fra le braccia fosse stata l’unica valida ragione per vivere che conosceva.

Così, con le mani tremati aggrappate al tessuto del suo cappotto scuro, aveva camminato a passi lenti per l’ingresso silenzioso dell’attico. Louis, seduto con le gambe accavallate su una delle poltrone, l’aveva osservato maligno dal salotto e Chuck aveva sospirato frustrato quando il francese si era infine avvicinato, pronto di certo a rimproverarlo per una colpa di cui Chuck sapeva già di essersi macchiato.

Eppure, nonostante l’espressione tirata e dura del viso, Louis non aveva fatto altro che sospirare ed abbassare  gli occhi. “Sono sicuro che con te vorrà parlare,” si era limitato a dire con un tale carico di rassegnazione che Chuck non aveva avuto modo di replicare. Dopo un segno d’assenso con la testa, era salito rapidamente su per le scale, trattenendo il respiro.

Aveva trovato la porta della camera di Blair socchiusa ed aveva esitato un attimo con le nocche pronte a bussare sul legno scuro, inalando contrito il silenzio del corridoio. Poi, concedendosi finalmente di respirare, Chuck aveva battuto delicatamente il pugno chiuso sulla porta e non aveva atteso alcuna risposta per entrare. Nonostante la penombra della stanza, non aveva fatto nessuna fatica ad individuare Blair che lo fissava tramortita e commossa, con gli occhi immensi macchiati di gioia e disperazione.

Chuck aveva temuto che il misto di emozioni che le leggeva nello sguardo gli avrebbe spezzato nuovamente il cuore, ma poi l’istinto aveva avuto la meglio e, una volta che le sue braccia avevano avvolto il corpo esile di Blair, si era sentito finalmente vivo, finalmente a casa, in un attimo sospeso in cui erano nuovamente seduti sui sedili di una macchina in corsa a precipitarsi ansiosi verso il loro futuro di felicità.

“Chuck,” lo aveva chiamato lei con il volto umido di lacrime premuto contro la sua camicia, accarezzandogli i capelli con le dita, quasi si volesse accertare che lui fosse davvero lì, che fosse ancora vivo. “Sei qui.”

Con un gesto spontaneo Chuck le aveva preso la mano e l’aveva condotta sul suo petto: era stato mentre percepiva il cuore di lui battere che Blair aveva strizzato gli occhi e aveva cominciato a tremare, fragile e disarmata come lui non la vedeva da tantissimo tempo.“Mi dispiace,” aveva affermato piangendo. “Mi dispiace di non essere venuta, Chuck. Io volevo ma…”

Lentamente Chuck le aveva sfiorato le labbra con un dito, accarezzandole i capelli con l’altra mano. “Va tutto bene, Blair. Lo capisco, davvero,” aveva detto con la voce bassa e Blair aveva infine raccolto il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Chuck li aveva trovati talmente colmi di sofferenza che non aveva potuto fare altro che stringerla di nuovo, cullandola lentamente nel silenzio e nella penombra della camera.

Istintivamente, le dita di Chuck si erano mosse fino a sfiorarle il ventre tornato piatto e lui ne aveva percepito tristemente il vuoto. Al tocco Blair aveva sussultato, ma non aveva fatto nulla per fargli scostare la mano e Chuck si era sentito debole, vecchio: non importava che non fosse stato lui il padre perché, nell’attimo in cui aveva deciso di tornare con Blair, aveva sentito di amare pienamente anche la vita che lei si portava dentro. Inerme, Chuck non aveva potuto frenarsi dal pensare che nessuno lo avrebbe mai chiamato papà, che non ci sarebbero state partite di lacrosse o saggi di danza, che non ci sarebbe stato nessuno a cui insegnare alcunché, nessuno che lo avrebbe osservato dal basso con occhi pieni di aspettativa ed ammirazione.

Era stato solo dopo un tempo indefinito che Blair si era liberata dalle sue braccia e si era passata debolmente una mano sul viso per asciugare le lacrime, riprendendo lentamente fiato. Chuck l’aveva osservata aprire la bocca per dire qualcosa, ma, abbassando lo sguardo, l’aveva anticipata.

“Mi dispiace per quello che è successo al bambino, Blair. E’ stata colpa mia, non avrei mai dovuto chiederti di lasciare Louis. Se non avessi…”

“Ti ho chiesto io di farlo. E non importa che non te l’abbia detto esplicitamente, ma sono stata io a pregarti di portarmi via, di portarmi via con te.”

Le parole di Blair, improvvisamente ferme e dure, lo avevano fatto scattare in piedi, incapace di guardarla addossarsi la colpa di qualcosa che lei non aveva fatto.

“Blair…”

“Siamo noi, Chuck: siamo noi il problema. Insieme siamo persone peggiori, insieme siamo egoisti, siamo tossici. Quello che è successo è solo l’ennesima prova.”

A metà della frase Blair, alzandosi in piedi a sua volta, aveva ricominciato a piangere: le lacrime silenziose le avevano rigato nuovamente il volto e Chuck si era sentito totalmente inesistente quando lei lo aveva baciato facendo scivolare delicatamente le dita sul suo viso, lasciandogli in bocca il sapore salato delle lacrime e quello amarissimo di un addio definitivo.

“Ti amo, Chuck, ma meriti di essere una persona migliore senza di me,” gli aveva detto prima di allontanarsi da lui e a poco era servito trattenerle la mano fino a che lei non era stata troppo distante per raggiungerla persino con il braccio teso, perché era sparita nel bagno senza aggiungere altro.

Chuck era rimasto al centro della stanza vuota, ascoltandola singhiozzare dietro la porta tra le macerie del loro amore: Blair lo aveva lasciato andare.


Non si erano più visti da quel momento. Pochi giorni dopo Blair si era rituffata a capofitto nei preparativi per il matrimonio e Chuck aveva evitato accuratamente di incontrarla, convinto che rivederlo non le avrebbe fatto bene, che l’avrebbe distrutta, che le avrebbe fatto cambiare nuovamente idea e, benché si sentisse morire ogni volta che pensava che Blair sarebbe diventata la moglie di un altro, Chuck sapeva che lei aveva avuto ragione nel rinunciare a lui una volta per tutte.

Era giusto così, si era ripetuto un numero infinito di volte, bagnando la sua desolazione con lo scotch e colmano l’infinito vuoto del suo essere dedicandosi completamente al lavoro e passando il tempo libero con un Nate troppo premuroso, che non faceva altro che nascondergli i giornali e controllare che la televisione fosse sempre spenta, così che non la dovesse vedere sorridere agli obbiettivi tra le braccia del suo principe.

Chuck si allentò il nodo della cravatta ed osservò con un sospiro le lancette dell’orologio, tentando invano di sciogliere il groppo che sentiva pesargli in gola al pensiero che in quel momento, a qualche isolato di distanza, Blair stava pronunciando i suoi voti.

Era davvero finita, pensò: niente più Chuck e Blair, Blair e Chuck. Essere inevitabili e magnetici non era bastato. L’amore non era bastato, la loro voglia di stare insieme non era bastata. Erano stati annientati da qualcosa di molto più grande, dal destino beffardo che li aveva fatti congiungere e poi li aveva condannati ad amarsi per sempre, ma senza dare loro la possibilità di stare insieme.

Nuovamente, Chuck si sentì spogliato di tutto, perché era stata  lei  l’unica capace di colmare ogni suo vuoto. Blair gli era letteralmente esplosa dentro all’improvviso, scintillante di passione e travolgente come solo lui aveva ipotizzato potesse essere, nutrendolo con la mistura di insicurezza e coraggio che aveva negli occhi, con la contraddizione pura tra l’innocenza e l’impeto del suo corpo esile.

Ricordava ancora fin troppo bene la notte in cui tutto era cambiato, ricordava la seta della sottoveste di Blair scivolargli sotto i palmi delle mani e il brivido che lo aveva scosso quando infine le sue dita avevano esplorato ogni centimetro del corpo di lei. Ricordava quel vago senso di ebbrezza e il moto di orgoglio, stupore e gratitudine nel pensare che, nelle circostanze illogiche di una parentesi priva di qualunque inibizione, Blair lo aveva destinato come suo primo, lui che non era un principe e mai lo sarebbe stato, che non conosceva la luce e che non sapeva cosa volesse dire amare.

Ed invece si era innamorato subito o forse, come era solito pensare adesso, aveva scoperto di amarla da sempre, da quando bambina scivolava con grazia nelle sue gonne a campana giù dalle scale, assetata di ammirazione e considerazione, con i boccoli scuri che s’alzavano ad ogni gradino e lui restava a guardarla senza capire perché si sentisse a casa ogni volta che era con lei.

Da ora in poi non si sarebbe mai più sentito così.




La suite era un’opprimente mescolanza di buio e silenzio che gli impediva di respirare a pieni polmoni.  Chuck restava steso sul letto, la porta della camera socchiusa. Era fermo nella medesima posizione da ore, da quando con un gesto di impetuosa teatralità aveva strappato via la cravatta e si era slacciato i primi bottoni della camicia nel tentativo di respirare meglio.

Per tutta la giornata un opprimente senso di soffocamento gli aveva stretto impertinente la gola e non era bastata metà di una bottiglia di scotch per farlo sparire. Infine, Chuck si era rassegnato, arrivando persino a rimpiangere il periodo in cui si era ritrovato incapace di sentire alcunché, sospeso in un limbo dove gioia e dolore non esistevano.


Ora, invece, percepiva il dolore in un modo talmente acuto da dover pregare che quella giornata finisse il più presto possibile. I ricordi, i rimorsi ed i rimpianti gli ferivano crudelmente l’anima, lasciandolo disarmato, inerme di fronte al peso di un passato che non avrebbe mai lasciato andare: non avrebbe mai lasciato andare Blair, non davvero, non nel suo cuore.

Lei sarebbe sempre stata lì, onirica, splendente di fantasia a ricordargli quanto in effetti tutto quello che c’era tra di loro fosse destinato a restare sempre sospeso nell’irrisolutezza e, nonostante ci provasse con tutte le sue forze, Chuck non poteva fare a meno di immaginarla vestita da sposa, raggiante sotto una nube di organza bianca, in un universo parallelo dove era lui lo sposo e non Louis, dove il loro amore era sia giusto che grande e lui l’attendeva all’altare felice come non lo era mai stato.


Chuck spalancò gli occhi quando sentì il ding dell’ascensore spezzare il silenzio densissimo della suite: immaginò che fosse Nate, tornato prima dal ricevimento per controllare che lui stesse bene, ma poi percepì l’inconfondibile rumore dei tacchi sul pavimento di legno.

“Non può essere,” sussurrò appena e, ben consapevole che sarebbe stato capace di riconoscere il ritmo di quella camminata tra milioni, si tirò su a sedere. Lo stesso Monkey, accoccolato sul cuscino libero del letto, tese le orecchie con attenzione, guardandosi intorno.

“Chuck! Dove sei?”

La voce di Blair gli esplose nelle orecchie e in un attimo Chuck si ritrovò a spalancare la porta della sua stanza, con il cuore in gola e gli occhi colmi di sgomento. Lei non avrebbe dovuto essere lì.  Lei avrebbe dovuto essere al ricevimento del suo matrimonio, a mangiare la torta piena di panna bianco latte con il suo principe, lontano da lui, lontano dal loro buio.

Eppure Blair era ferma nel centro del suo salotto, con il vestito da sposa stropicciato e sporco di nero sul fondo, lo strascico lacero e i capelli sciolti che le ricadevano sul petto: era bellissima, perfetta nell’imperfezione del suo abito rovinato e della sua acconciatura ormai inesistente. Non c’era traccia della pietra gialla di Louis sul suo anulare e nessuna fede le sporcava la mano di un amore immaginario.

“Blair,” la chiamò con la voce carica di sorpresa e gli occhi spalancati colmi di commozione.

Le si avvicinò lentamente, quasi stentasse a credere che lei fosse davvero lì, in carne ed ossa davanti a lui, ma quando allungò la mano per sfiorare quella di Blair fu lei a gettarsi fra le sue braccia, fragile, fragile come lo era stato lui tutte le volte che lei lo aveva sfidato a vivere, quando non voleva far altro che cadere nel buio della sua perdizione, quando non c'era qualcosa che gli rendesse l'esistenza sopportabile, nulla se non le mani calde di lei e quelle braccia esili; braccia che lo avevano sostenuto ed avvolto per tutta la vita, che l'avevano a volte spinto via e che molto più spesso l'avevano cercato disperatamente tra i vuoti incolmabili delle sue stupide assenze, tese nel buio delle sue innumerevoli macchie di tenebra, nelle anticamere lunghe e fredde che abitavano la sua anima.

“Blair, cosa è successo?” le chiese in un soffio facendo scorrere le dita tra i suoi capelli e, stringendola forte, pregò intimamente di non doverla più lasciare andare via.

Lei rimase muta per qualche momento e, sebbene Chuck non potesse guardarla in faccia, non gli risultò difficile immaginare che stesse piangendo.

“Blair…” la chiamò di nuovo sciogliendosi dall’abbraccio e alzandole delicatamente il mento con la punta delle dita. “Parlami, ti prego.”

Qualcosa di profondamente doloroso scosse lo sguardo di Blair. Era un atmosfera surreale: chiunque li avesse osservati dall’esterno li avrebbe visti annientati, guerrieri feriti e ridotti in fin di vita da un nemico troppo grande e troppo potente. Erano lì, entrambi stravolti, entrambi distrutti.

La mano di Blair scivolò vibrante fino al ventre piatto, dove un elaborato intreccio di pizzo bianco disegnava il corsetto. “Il bambino…” mormorò appena scuotendo la testa, mentre grosse gocce perlacee le scivolavano sulle gote ed il mascara colato le disegnava due rivoli neri sulla pelle diafana. Non c’era più alcuna traccia di rossetto sulle labbra umide di pianto.

Chuck la osservò confuso e, senza riuscire a capire, coprì inconsapevole con la sua mano quella di lei sulla pancia, strofinandone lentamente il dorso con il pollice.

“Era nostro, Chuck,” disse Blair all’improvviso, con una voce minuscola. “Eri tu suo padre.”

La prima reazione di Chuck fu quella di scostarsi violentemente da Blair. La fissò terrorizzato, intorpidito da un dolore nuovo che gli squarciava prepotentemente il petto. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma non riuscì ad articolare alcuna parola. Si sentiva confuso e spaesato, perso nel vortice di pensieri contraddittori che gli affollavano la mente. Restò a guardarla in silenzio per un tempo indefinito, senza trovare il coraggio di  avvicinarsi nuovamente. “E tu lo sapevi?” le chiese in un soffio quando ebbe racimolato il coraggio sufficiente per formulare la domanda, ben consapevole che una risposta positiva lo avrebbe ferito 
mortalmente

Attese sperando si sentirla dire che lo aveva appena scoperto ma, quando Blair annuì, Chuck non poté fare altro che indietreggiare ancora di qualche passo.

“Me lo hanno detto dopo l’incidente. La famiglia di Louis ha falsificato il test, credevano che avrei annullato il matrimonio se avessi saputo di aspettare tuo figlio e non volevano incappare nello scandalo. Mi hanno ricattata, Chuck. Hanno minacciato di umiliarmi, di vendere la nostra storia a tutti i giornali, tu non ti svegliavi e io…”

“Una settimana, Blair,” disse Chuck con la voce spezzata. “Sono stato in coma per una settimana.”

Lei non lo aveva aspettato. Non aveva lottato con e per lui, non aveva esitato ad andare avanti con la sua vita, ad assecondare la menzogna con cui l’avevano ingannata. Chuck si sentì tradito, riassaporando amaramente la gioia di averla vista comparire nel centro del suo salotto, perché ora la presenza di Blair non lo faceva più vibrare per l’emozione. Sava affogando e lei non era la mano pronta a farlo risalire a galla, ma la spinta crudele che gli impediva di tornare in superficie e respirare.

“E’ la ragione per cui non sono venuta a trovarti in ospedale, la ragione per cui ti ho respinto quando sei venuto a casa: non sapevo come dirtelo, non volevo che soffrissi, che credessi fosse colpa tua. Cercavo di proteggerti, Chuck.”

L’aveva stretta tra le sue braccia, Chuck lo ricordava. L’aveva stretta vedendo infrangersi davanti agli occhi la felicità del loro futuro, si era rassegnato all’idea del suo addio, convinto che lei avesse ragione, convinto che tutte le sue intenzioni, persino le migliori, non potessero fare altro che intossicarle l’esistenza. Si era sentito in torto verso Blair e verso Louis, aveva maledetto se stesso ogni volta che il rimpianto per non essere riuscito a coronare il suo sogno con lei lo aveva accarezzato ed ora, invece, le parole di Blair gli sembravano solo scuse, tentativi inutili di nascondergli la realtà dei fatti: gli aveva mentito e lo aveva fatto per paura, per egoismo. Di certo, non lo aveva fatto per lui.

“Cercavi di proteggere te stessa,” rettificò Chuck, carico di rabbia e di sconforto.

 Blair abbassò gli occhi per una frazione di secondo e poi li riportò su di lui, colmi di un bagliore disperatamente speranzoso. “Ma sono qui ora, ti ho detto la verità. In chiesa camminavo verso Louis e non facevo altro che pensare che avrei voluto fossi tu. Sono scappata, Chuck. Sono tornata da te.”

Pronunciando quelle parole lei si era avvicinata nuovamente ed aveva appoggiato con delicatezza le dita sottili sul petto di Chuck.  Il tocco di Blair lo infiammava, ma non era ardente di passione o di piacere, non era un sollievo ne la carezza di un tocco salvifico. Era piuttosto un bruciore doloroso, mortificante, una ferita aperta su cui lei faceva scivolare incurante le mani. Le prese il polso fermezza.

C’era stato un tempo in cui lui toccandola non avrebbe saputo fare altro che strapparle violentemente i vestiti di dosso ed esaurire tutto l’odio e tutto il rancore dentro di lei, un tempo in cui lui si sarebbe fidato ciecamente di Blair, convinto che fosse la sua unica ancora di salvezza, la sua unica ragione di vita. C’era stato un tempo in cui non avrebbe mai smesso di considerarla sua, un tempo in cui l’avrebbe perdonata su due piedi, o almeno avrebbe finto di farlo, per poi farle scontare la sua pena giorno dopo giorno con piccole vendette, fino ad accorgersi che la collera verso di lei era svanita ancora prima che lui fosse riuscito a provarla davvero.

Ora era tutto diverso.

Blair lo fissò negli occhi carica di aspettativa, quando lui le arrivò ad un centimetro dalle labbra. Dischiuse la bocca, in attesa.

“Non importa,” sentenziò Chuck con falsa decisione, lasciandole andare il polso. “Non importa più.”

Il braccio di Blair ricadde a peso morto lungo il fianco. Non ci sarebbe stato alcun bacio.

 

*1  Il titolo della fanfiction, oltre che essere un riferimento alla canzone Romeo and Juliet dei Dire Straits, sta ad indicare come il tempismo con cui avvengono i fatti sia quello sbagliato. Chuck e Blair tornano insieme nel momento sbagliato, Blair si arrende troppo presto al coma di Chuck, dice la verità, ma la dice troppo tardi.

   
 
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