Sei nell’anima
Colonna Sonora: Sei
nell'anima_Gianna Nannini
È la tenerezza che ci fa
paura.
L’odore
del caffè di prima mattina, alla Tazza d’Oro, era una delle cinque cose
che
preferivo del centro di Roma. Costretto a un’alzataccia fuori
programma, quel
giorno non poteva che cominciare nel migliore dei modi, con un
bell’espresso
fatto apposta per tirarmi su di morale.
«Lo zucchero è qui» mi
comunicò il barista.
«Grazie» gli
risposi, afferrando
una bustina.
Alle
9.00 di mattina mi dovevo far trovare sotto casa di Sole, vestito e
lustrato di
tutto punto per andare a un tedioso matrimonio di non so quale amico,
Renza-qualcosa, che si era preso la briga di invitare tutti i compagni
del
liceo. Da bravo ragazzo quale ero
diventato, mi sarebbe toccato accompagnarla a quella cerimonia,
nonostante
avessi in mente una miriade di altre cose sicuramente più interessanti
da fare
con lei.
Veramente ne hai solo
una in testa, solo che svicola in diverse posizioni.
Roteai
gli occhi al cielo e desiderai con tutto me stesso che per una volta la
mia
coscienza si prendesse la briga di avvertirmi, prima di sparare a salve
questi
pensieri, ma come ogni emozione umana, non si poteva spegnere con un
semplice
interruttore.
Girai
il caffè con il cucchiaino, permettendo allo zucchero di sciogliersi
lentamente, ma quando portai la tazzina alle labbra, qualcuno mi diede
un bello
spintone e per poco non mi rovesciai tutto addosso.
«E che cazzo!»
sbottai infuriato,
voltandomi.
Ovviamente
il tizio non si era minimamente girato, né accorto di avermi quasi
fatto
macchiare la camicia che Sole aveva scelto per il matrimonio.
Mantieni la calma, sei
in un luogo pubblico.
Luogo
pubblico un cazzo! Magari ero anche passato dalla parte del bene, visto
che
Sole era riuscita ad ammansirmi, ma un affronto era un affronto e
l’orgoglio di
Francesco Russo era come la sua coscienza: non si poteva pigiare sul
pulsante off.
«Ehi!».
Il
moretto camminava facendosi largo tra la calca e notai che anche lui
era
vestito di tutto punto. Era un figlio di papà bello e buono, già da
come si
muoveva tronfio e altezzoso.
«Ehi, tu!» lo
chiamai di nuovo.
Mi
stava forse ignorando?
Calma, Francesco. In
fondo con tutto questo caos potrebbe non averti sentito.
Cercai
di farmi largo tra la gente che affollava il bar di prima mattina e
ormai avevo
abbandonato del tutto il mio espresso, dal momento che la metà era
stata
versata sul bancone. Già mi giravano perché mi sarei aspettato di
passare
l’ultima mia settimana nella Capitale a rotolarmi nel letto con la mia
ragazza,
prima di partire per quell’Erasmus massacrante, inoltre, ci si metteva
anche il
matrimonio di quel deficiente che non poteva aspettare momento migliore
per
aggiungere un +1 alla lista degli invitati.
Mannaggia
a me e a quando avevo accettato.
Ti ricordo che la
piccola Sole ha dei metodi piuttosto efficienti per convincerti.
Arrossii
violentemente al ricordo di quando me lo aveva chiesto, durante il
viaggio di
ritorno dal villaggio in Puglia. Ci eravamo fermati ad un autogrill,
mentre gli
altri erano andati a cazzeggiare altrove. Beh, dovevo ricordarmi di non
rimanere
più in macchina da solo con lei se voleva chiedermi un favore.
Riuscii
a evadere un paio di vecchietti che discutevano animatamente di
politica,
quando finalmente il bellimbusto si fermò alla cassa ed estrasse il
portafoglio. Montblanc, allora era proprio
un fottuto figlio di papà.
Come te, del resto.
«Scusami!»
ripetei più convinto,
allungando una mano e picchiettando sulla spalla da rugbista del tizio
coi
capelli scuri.
Stavolta
si voltò e mi squadrò da capo a piedi con le iridi più scure che avessi
mai
visto. Non erano nere, no, sarebbe stato troppo riduttivo descriverle
con quel
colore. Sembravano le piume di un corvo, cupe e tenebrose come una
notte
passata da solo in un cimitero abbandonato.
Rabbrividii.
I
capelli erano dello stessa, identica, tonalità.
«Che vuoi?»
sbuffò infastidito,
senza smetterla di lanciarmi uno sguardo di superiorità che proprio non
digerivo. Era uno di quei classici stronzetti che se la tiravano,
proprio il
tipo che io e Giorgio avremmo preso sempre per il culo a lezione.
La
Luiss era piena di quei ragazzi lì, che facevano tanto i gradassi e i
superiori
con i loro vestiti firmati, poi andavano tutti dal papi
a chiedere l’assegno. Da quando il mio era al gabbio, il
compagno di mia madre aspettava solamente la mia imminente laurea per
nominarmi
Dirigente.
«Vorrei le tue scuse»
risposi sprezzante. «Prima mi hai quasi fatto
rovesciare addosso il caffè».
Il
suo sguardo di sufficienza mi fece capire che era un tipo suscettibile.
«Te sbagli».
«Non credo proprio»
insistetti, senza mai
abbandonare i suoi occhi. «Mi
hai quasi macchiato la camicia».
Il
tipo sfoderò un sorriso beffardo, di quelli brevettati. «Hai
detto bene, quasi», poi si voltò e ordinò un cappuccino alla
cassa.
Non
mi sarei certo fatto mettere i piedi in testa da quella specie di
damerino
dall’aria altezzosa con un manico di scopa infilato su per il culo.
Sembrava
avercelo solo lui. Cazzone.
«Scusami»
insistetti ancora,
stavolta mettendogli una mano sulla spalla.
«Che fai, tocchi?»
ringhiò indispettito,
lanciandomi uno sguardo di sfida.
Voleva
fare a pugni per caso? Avrebbe trovato pane per i suoi denti, perché a
furia di
avere amici idioti come Stefano, finivamo una volta sì e l’altra pure a
scazzottarci con gente sconosciuta.
«Stai calmo, bello» lo
frenai, visto che eravamo
ancora in uno dei bar più famosi della Capitale.
«Senti amico»
cominciò.
«Non sono amico tuo» mi
misi sulla
difensiva.
Il
moro sorrise, poi ripose il portafoglio nella tasca posteriore dei
pantaloni
eleganti. «Bello,
non cerco rogna, anche perché qui fuori c’è la mia ragazza
e dobbiamo andare a una festa. Vuoi le tue scuse? Beh, scusami per
averti quasi rovesciato il caffè addosso».
Mi
aveva preso per un cretino? Cos’era? Una specie di misero tentativo di
darmi il
contentino? Come se fossi un povero idiota?
«Non prendermi per il
culo!» ringhiai infastidito.
Forse
era una reazione un po’ esagerata per un semplice spintone in un luogo
affollato come quello, ma quel tipo non mi andava a genio per niente.
C’era
qualcosa in quell’aspetto affascinante che mi dava sui nervi, come se
avesse
scritto in faccia di essere un vero stronzo.
Ti stai guardando allo
specchio, per caso?
Quello
sghignazzò schernendomi. «Si può sapere cosa vuoi
da me?» mi chiese ed io mi
ritrovai senza risposte.
Effettivamente
non sapevo spiegarmi il motivo per cui provassi tanta ostilità nei suoi
confronti, eppure percepivo ogni fibra del mio corpo che mi metteva in
guardia.
A salvarlo intervenne lo squillo del mio cellulare.
Lo
presi dal taschino della giacca e risposi. Ovviamente era Sole che mi
cercava.
«Ti aspetto da più di
mezz’ora, è successo qualcosa?».
Era
sempre pronta a preoccuparsi per gli altri e, a differenza delle mie
innumerevoli week-girl isteriche, non era mai arrabbiata. Dolcezza
era l’unica parola che mi sovveniva quando pensavo alla
mia ragazza.
Sorrisi
senza pensare, mentre sentivo la rabbia scemare alla stessa velocità
con cui
era sopraggiunta.
«Sto arrivando» le
risposi calmo. «Tra cinque minuti sono
da te».
Chiusi
la comunicazione e mi ritrovai gli occhi carbone di quel tizio che mi
scrutavano attentamente. D’improvviso mi sentii uno sciocco ad aver
organizzato
tutta quella messa in scena da bullo della scuola, perciò scrollai le
spalle e
tirai fuori le chiavi della mia Audi.
«Niente, devo andare»
sbuffai, squadrandolo
da capo a piedi.
Quel
tipo non mi piaceva, ma avevo ben altre cose cui pensare.
«Era la tua ragazza,
vero?» mi chiese quello.
«Fatte i cazzi tuoi!»
ringhiai, visto il modo
in cui mi aveva trattato.
Il
sorriso arrogante riapparve ed io pensai che quel tipo mi stesse
studiando. «Anche a me è successa la
stessa cosa, tranquillo».
«Ma che vai blaterando?».
«Io e te siamo uguali, si
vede. Solo che abbiamo trovato due persone che ci hanno imbrigliato per
bene, o
sbaglio?».
Si
era fumato un’intera piantagione di marjuana e ancora parlava? Avevo
attaccato
bottone con uno squilibrato, adesso ne ero più che certo.
«Credi di conoscermi?» lo
provocai.
Il
ragazzo scrollò le spalle, poi si infilò una mano nella tasca dei
pantaloni. «Ho detto solo quello che
pensavo. Se mi sono sbagliato, ti chiedo scusa. È solo che si vede dal
tuo
sguardo che sei innamorato, tutto qui».
Già
facevo fatica a sopportare Giorgio quando mi psicanalizzava,
figuriamoci uno
sconosciuto nel giorno più afoso di tutto Luglio.
«Senti amico, mi piacerebbe
stare a chiacchierare qui con te ma ho altro di meglio da fare»
tagliai corto,
imboccando la porta.
«Ehi!» mi
chiamò quello ed io
mi voltai, anche se avrei fatto meglio a tirare dritto. Gli occhi
corvini di
quel ragazzo erano dannatamente espressivi, quasi come quelli di Sole. «Non
sono amico tuo».
***
Sospeso
e immobile, fermo immagine, un segno che non passa mai.
Sistemai
meglio il pettinino nello chignon che mi ero fatta, lasciando cadere
qualche
boccolo qua e là che andasse ad incorniciarmi il viso fin troppo
rotondo. Mi
guardai complessivamente allo specchio, ondeggiando il vestito color
lavanda
che mi ero comprata insieme a Francesco per il matrimonio di Tommaso.
L’invito
mi era arrivato poco prima di partire per la Puglia e anche se avevo
ancora le
valigie da fare e le ultime cose da sistemare prima di partire per
Bali, non
avevo saputo dirgli di no. Renzaglia era qualcosa che mi teneva
inevitabilmente
legata al passato, a quei terribili anni del liceo, ma che mi
ricordava, giorno
dopo giorno, quanto fossi cambiata da quella ragazzina immatura che ero
un
tempo.
È un ricordo che non
puoi cancellare dalla tua memoria.
Ovvio
che non potevo cancellarlo, anzi. Mi premuravo sempre di ripensarci
ogni tanto,
di rendermi conto di quanto fosse sbagliato quello che io e Dario
avevamo fatto
in passato e che, in fondo, era meglio se fosse finito tutto.
Adesso
Frà era il mio centro di gravità, attorno cui girava tutto il mio
mondo. Sapevo
che il nostro rapporto non era nato come le più grandi storie d’amore
di tutti
i tempi, che lui mi aveva ingannata, come Dario in passato, ma a
differenza
sua, non aveva avuto paura del futuro, aveva preso in mano la
situazione e si
era esposto.
Vitrano
era scappato, aveva preferito fuggire invece che affrontare i problemi,
mi
aveva barattata per quella libertà che non si era potuto scavare in una
famiglia che non lo aveva mai accettato veramente. Fra sé stesso e me,
aveva
scelto Dario.
In
fondo me lo sarei dovuto aspettare, perché fin da piccolo era stato
molto
egocentrico e fiero della sua bellezza. Io avevo sempre dovuto fare i
conti con
i chili di troppo, con i capelli in disordine, con i brufoli e gli
occhiali che
mi facevano sembrare una sfigata, ma alla fine avrei rinunciato a tutto
per
lui.
A tutto quello che
avevo.
Mi
sedetti di peso sul letto a baldacchino, rimasto identico da quando
andavo al
liceo. C’era ancora la sopra-coperta di fiori, i cd sparsi sulla
scrivania, il
computer abbandonato in un angolo e vecchie foto che ritraevano me,
Serena e
Betta ai tempi del Montale. Sbuffai in attesa dell’arrivo di Frà e nel
frattempo sbirciai i contorni della mia stanza come se non la vedessi
da chissà
quanti anni. Quelle quattro mura ne avevano viste di avventure, dalle
costruzioni con i Lego ai primi baci che ci eravamo scambiati proprio
su quel
letto. Al ricordo di cosa avevamo fatto avvampai, cercando
disperatamente un
foglio di carta per non sudare e farmi sciogliere tutto il trucco.
Aprii di
corsa il cassetto del comodino e trovai un libro, il Ritratto di Dorian
Gray, lo
afferrai e cominciai ad agitarlo nel tentativo di ricavarne un po’ di
sollievo.
Inspirai
ed espirai senza entrare in iperventilazione e proprio quando
cominciavo a
sentire un po’ di frescura sulle guance arrossate, dalle pagine del
libro
schizzò fuori un foglio che cadde sul pavimento. Scesi dal letto,
facendo
tintinnare i tacchi dei sandali sul parquet, poi mi chinai ad afferrare
il
foglio ma quando lo vidi, per poco il cuore non mi uscì dal petto.
C’era
il sorriso di Dario davanti ai miei occhi, uno dei primi scatti fatti
con la
Reflex che mi aveva regalato e di cui ancora andavo fiera.
Improvvisamente mi
ritrovai trasportata indietro di anni, quando il ricordo di quello
scatto era
vivido nella mia memoria.
«Sono proprio un modello!»
sghignazzò Dario, sfoderando quel sorriso sghembo che mi
aveva sempre fatto battere il cuore.
«Smettila di fare il buffone» lo
redarguii seria. «Voglio una fotografia vera, che ritragga il
lato migliore di
te».
Fu
allora che la sua mano si era stretta attorno al mio polso, facendomi
fremere
incontrollatamente. Anche se soltanto ripensavo a quelle iridi color
petrolio
mi venivano i brividi, mi sentivo affiorare la pelle d’oca come se
avessi
ancora sedici anni. C’eravamo stati sempre io e Dario, l’uno per
l’altra, l’uno
nell’altra.
«Sei tu il lato migliore di me».
No,
non avrei mai potuto cancellarlo e mi rendevo sempre più conto che
anche se
Francesco me lo avesse chiesto, come favore personale, non ne sarei mai
stata
in grado. Vitrano era sempre stato parte della mia vita, nel bene e nel
male,
il petrolio dei suoi occhi scorreva all’interno del mio corpo,
cavalcando il
sangue nelle vene e portando ossigeno al cuore. Ecco, quello era Dario.
«Ehi!». Francesco entrò
di
colpo nella mia camera da letto e per poco non lanciai un grido per la
sorpresa
immediata. «Che hai?» domandò preoccupato,
vedendo la reazione che avevo avuto.
«N-Niente» mentii,
nascondendo la
foto di Dario dietro la schiena e appallottolandola come se fosse carta
straccia.
Per
fortuna Frà non sospettò nulla, anzi, mi si avvicinò col sorriso più
bello che
avessi mai visto e cercò le mie labbra, posandovi un bacio. Il sapore
di cacao
mi invase la bocca e sentii il cuore che martellava forte nel mio
petto,
facendomi immediatamente vergognare dei pensieri che avevo avuto fino a
poco
tempo prima. Quella fotografia bruciava racchiusa tra i miei palmi,
perciò con
un agile gesto, la lanciai sulla scrivania, in modo che si perdesse tra
le
altre cartacce.
«Sei bellissima» mi
soffiò sul viso ed
io non potei fare altro che posargli le mani sulle spalle.
«Non è vero» arrossii
prontamente.
Frà
sorrise e le fossette sulle sue guance tornarono a fare capolino dopo
un tempo
che mi era sembrato infinito. Dario e il nero dei suoi occhi
appartenevano al
mio passato, ad una Sole che adesso era cresciuta, era cambiata, anche
grazie
ad un certo Russo che ora la fissava con le iridi più azzurre di un
cielo
d’estate.
«Io avrei in mente un
modo per dimostrartelo…» sussurrò malizioso,
facendo cadere appositamente la spallina del mio vestito.
In
due nanosecondi divenni color aragosta.
«D-Dobbiamo andare…»
tentai di dirgli, ma
era quasi del tutto impossibile resistergli.
Quel
suo viso pulito, quei capelli così biondi da sembrare quasi pagliuzze
d’oro e
quel sorriso sincero che sarebbe stato capace di strapparmi via
l’anima.
Francesco era tutto questo, era l’opposto di Dario, l’azzurro e il
nero, il
biondo e il Moro…
Frà
era la mia luce ed io lo avrei seguito, sempre.
Indietreggiammo
verso il mio letto, quando le nostre labbra avevano cominciato a
rincorrersi,
ad inseguirsi fameliche. Sapevo che Francesco aveva accettato di
partecipare al
matrimonio soltanto per me, ed io gli dovevo tutto. Si era offerto di
seguirmi
a Bali, di rinunciare alla sua carriera per me, per la nostra storia,
perché ci
credeva.
In
due settimane Francesco aveva fatto quello che Dario non era riuscito a
fare in
sette anni.
«F-forse… è meglio… Frà…»
provai a fermarlo, ma
quando le mie ginocchia toccarono il bordo del letto, Francesco posò
tutto il
suo peso sul mio corpo affinché cadessi supina sul materasso.
«Shhhh, c’è tempo ed io
ti voglio» sussurrò sulla mia
pelle, lasciando languidi baci sul collo, poi scendendo verso il mio
petto
mentre sentivo chiaramente la temperatura del mio corpo che raggiungeva
la
soglia dei quaranta gradi.
Le
mie mani s’intrecciarono in quei fili d’oro che erano i suoi capelli e
tutto
intorno a me percepivo distinto il profumo della sua pelle, quell’odore
di
cacao amaro, come quello che sentivo quando nonna faceva il ciambellone.
Tutto
di Frà mi ricordava una casa, una famiglia. Lui era tutto quello che
avevo
sempre desiderato.
«Ragazzi, Betta e
Serena
sono arrivate!» mia madre di punto in
bianco piombò nella stanza e Francesco fece appena in tempo ad alzarsi
da sopra
il mio corpo e a lanciarsi sulla sedia girevole di fronte alla mia
scrivania,
prima che lei desse di matto.
«S-Sì!» risposi, rossa
in
volto, cercando di aggiustarmi i capelli che pendevano da tutte le
parti per
l’improvviso attacco di Frà.
Mia
madre ci fissò col sorriso sulle labbra. «Siete bellissimi» sospirò,
con la mano sul cuore e in quel
momento avrei voluto sprofondare nella mia stessa vergogna.
«No, sua figlia è
bellissima» rispose il mio ragazzo,
beccandosi un’occhiataccia dalla sottoscritta.
«Ed io che glielo dico
sempre di conciarsi in modo un po’ più femminile! Sempre con quei jeans
e
quelle scarpe da ginnastica!»
sbottò.
«Un filo di trucco non
guasta mai».
«Dobbiamo andare!»
m’intromisi, afferrando
Francesco e la pochette e fiondandomi fuori dalla mia camera prima che
mia madre
e il mio ragazzo facessero comunella come due vecchie comari.
«Ehi! Cos’è tutta
questa
fretta?!» bofonchiò Frà,
camminando sbilenco per via del malo modo in cui gli avevo afferrato il
braccio.
Fummo
in ascensore dopo pochi secondi, con il mio dito che pigiava
furiosamente sul
tasto ‘T’ in modo da raggiungere il più in fretta possibile il pian
terreno.
Mia madre che irrompeva nella mia stanza non era certo una novità,
ormai c’ero
abituata. D’improvviso ripensai a quelle volte in cui era apparsa senza
preavviso
sulla soglia, quando io e Dario eravamo impegnati in quei suoi esperimenti per farsi la Campanella.
Ancora lui.
Basta!
Dovevo smetterla.
Le
porte dell’ascensore si aprirono e stavolta intrecciai le dita attorno
a quelle
di Frà, ritrovando quella mano grande e calda che profumava di cacao.
Cercai il
suo sguardo e lui mi sorrise.
«Sei pronto?» gli
chiesi, alludendo
al fatto che non aveva la minima voglia di andare al matrimonio di
Tommaso.
«Per te, sì» mi rispose
ed io mi
diedi della sciocca per aver sempre vissuto in funzione di un fantasma.
Dario
ormai era il mio passato, qualcosa che non mi apparteneva più. Non ci
vedevamo
da cinque anni e dovevo metterci una pietra sopra. Avrei dovuto parlare
al mio
cuore e dirgli di smettere di sperare, perché lui non ci sarebbe più
stato per
me. Adesso avevo Frà e mi bastava.
***
non fa più paura.
La
navata della chiesa di San Marco era immensa e addobbata di fiori. A
destra e a
sinistra si erano già disposti tutti gli ospiti che chiacchieravano in
attesa
dell’arrivo della sposa.
Strizzai
gli occhi e tentai di dare uno sguardo a quel poveraccio che stava di
fronte
all’altare. Non lo avrei mai invidiato, visto che si stava ammanettando
da
solo.
Zitto che tu non sei da
meno.
Cancellai
velocemente quell’ultimo pensiero che la mia cara e vecchia coscienza
si
premurava sempre di rammentarmi, dopodiché sentii Sole che mi tirava
per la
manica della giacca.
«Da questa parte»
sussurrò, indicandomi
una delle panche.
Avevamo
fatto tutto il viaggio d’andata con le amiche svitate di Sole. Svitate era un complimento. La biondina
si poteva anche salvare, perché sembrava fosse uscita da un film di
Audrey
Hepburn. Persino il tailleur che aveva scelto, con cappellino
coordinato era in
pure stile America anni ’50.
L’Altra
invece, quella era una spina nel
fianco. Non le ero mai andato a genio, fin dalla vacanza in Puglia, ma
nonostante avessi ammesso i miei errori, la sua opinione nei miei
confronti non
era cambiata. Mi squadrava da capo a piedi come se fossi un demone o
Satana in
persona, per non parlare dello sguardo di sufficienza che mi rivolgeva
ogni
qual volta veniva a sapere che sarei uscito assieme a loro.
Per
quale motivo Sole frequentasse ancora quella tipa, era un mistero.
«Quanta gente!» esclamò
la bionda
eccitata, togliendosi le forcine dai capelli e posando il cappellino in
grembo.
«Io non conosco nessuno»
brontolò Betta-Vedovanera.
Sole,
di fianco a me, alzò lo sguardo e si agitò sul suo posto per osservare
meglio
chi c’era davanti a noi. «Magari c’è qualcun altro
del Montale» pensò ed io fui
raggelato da un pensiero improvviso.
Mi
aveva raccontato tutta la storia del Moro e di quella scuola che aveva
costretto Sole a trasferirsi, a cambiare istituto per via delle prese
in giro e
del bullismo che girava tra quelle mura. Strinsi le mani a pugno e
tentai di
calmarmi. Non era detto che ci sarebbe stato anche lui, o almeno, lo
speravo.
Nonostante
sapessi che lui si era trasferito a Milano, c’era qualcosa che mi
rendeva
inquieto, che mi faceva stare stranamente sulle spine. E non si
trattava degli
occhi scuri di Betta che mi trafiggevano l’orecchio.
Sapevo
perfettamente che mi stava fissando in cagnesco, perciò mi voltai di
scatto e
le feci una smorfia che la sorprese.
Comportamento davvero
maturo.
Elisabetta
sulle prime spostò lo sguardo davanti a lei, poi lentamente fece
risalire una
mano e mi mostrò chiaro e tondo il suo dito indice, con tanto di
brillocco.
«Volete finirla, siamo
in
chiesa!» sospirò Serena,
redarguendoci nemmeno fossimo dei bambini dell’asilo.
«È lei che mi fissa!»
protestai, poi sentii
una mano di Sole che si avvolgeva attorno alla mia e ritrovai i suoi
occhi
grigio perla.
Un
solo sguardo e il respiro mi era morto in gola.
Il
chiacchiericcio fu interrotto dall’arrivo della sposa, così la classica
marcia
nuziale di Wagner fu intonata e tutti gli invitati si alzarono in piedi
per
l’arrivo più atteso. Sole tentò in tutti i modi di sporgersi al di là
della
panca in modo da vedere la sposa in tutto il suo splendore e lei non si
fece
attendere.
Riuscii
a vederla di sfuggita, con il velo calato sopra il viso e il colore
nero
distinto dei suoi capelli, racchiusi in un elegante chignon. Era molto
alta e
il vestito bianco le cadeva a pennello, quasi fosse nata per indossarlo.
Chissà come starebbe
Sole vestita di bianco.
E
quel pensiero sfuggì al mio controllo proprio quando la mia ragazza mi
guardò e
sorrise. Sarei davvero stato disposto a fare quel grande passo?
Francesco
Russo, quello che cambiava una ragazza alla settimana, che era
allergico ai
rapporti fissi, che non aveva mai avuto una fidanzata in tutta la sua
vita,
sarebbe stato disposto a sistemarsi?
Ma
la vera domanda era un’altra: cosa avrei fatto per lei?
Il
ricordo di quella vacanza mi travolse come un’onda e se non avessi
avuto la
panca a cui sorreggermi, sarei franato come un sacco di patate. Avevo
passato
tutta la vita ad inseguire i sogni degli altri, a sfuggire da una vita
che mi
stava troppo stretta e ad evitare ad ogni costo le mie responsabilità.
Ventitré
anni vissuti all’ombra di un padre, ma erano bastate soltanto due
settimane per
innamorarmi.
Sole
era riuscita a raccogliermi, a tirarmi via dal baratro in cui stavo
lentamente
cadendo e con la sua ingenuità e semplicità, mi aveva conquistato. La
sua
purezza d’animo era disarmante, così buona e pronta ad amare. Il suo
amore
sarebbe bastato per entrambi, ma avevo deciso di mettermi in gioco
finalmente.
La
sposa arrivò all’altare e lasciò il padre con un sorriso. Il ragazzo
che non
riuscivo a vedere molto bene le scostò il velo dal volto e la cerimonia
ebbe
inizio.
Ci
sedemmo quasi contemporaneamente, poi avvertii le dita di Sole che
s’intrecciarono alle mie. Di certo non ero sicuro di quanto quella
storia
sarebbe durata, se avremmo solcato anche noi una navata un giorno.
Soltanto
di una cosa ero certo: Sole era il mio mondo adesso, e per lei avrei
fatto
qualunque cosa.
***
Odiavo
i matrimoni. Non sopportavo dovermi vestire elegante, indossare un
abito
scomodo che mi faceva patire un caldo sahariano, strangolarmi con una
cravatta
di dubbio gusto e colore, e calzare un paio di scarpe di vernice che mi
distruggeva i piedi. Odiavo i matrimoni ancor più se, tra gli invitati,
c'era
anche Elisabetta Renn, l'essere più insignificante che avessi mai
conosciuto.
Non l'avevo mai sopportata e il sentimento era corrisposto da quella
zitella
acida. Non le era mai andato giù il fatto che io e Sole stessimo
insieme. Ok
che la storia con la D'Amato era alquanto strana ed equivoca, ma sia io
che
Sole sapevamo quanto fosse forte ed intenso ciò che ci aveva legati.
Era stato
un grande amore, il mio più grande amore e Betta aveva sempre fatto di
tutto
per allontanare Sole da me. Non ero stato uno stinco di santo, anzi ero
stato
un bastardo con la b maiuscola, ma il nostro era stato
un
sentimento vero e anche Serena lo aveva capito. E aveva inteso anche
ciò che
avevo sempre cercato di nascondere agli altri, era stata una delle
poche che
era andata oltre l'apparenza, anche se tra di noi non c'era mai stato
un
dialogo che era andato più in là di un Come stai?, tranne le
rare volte
in cui mi prendeva in disparte, cercando di aprirmi gli occhi.
Non
solo la presenza di Renn era urticante quanto uno spray al peperoncino,
ma mi
aveva fatto subito pensare che lì, tra le centinaia di persone che
affollavano
il castello, ci fosse anche Sole. Quando ne avevo parlato poco prima
con Alice
in macchina era solo una pallida illusione, ma non appena avevo visto
le Veline – ossia Elisabetta e Serena –
quello che mi era sembrato solo un'immagine sbiadita, aveva acquistato
sempre
più consistenza. Molto probabilmente Sole era lì, anzi, quasi
certamente e non
sapevo se volessi incontrarla, rivederla dopo cinque anni, o meno. Non
avrei
saputo che dirle, non avrei saputo che fare e soprattutto non avrei
saputo come
reagire se mi fossi ritrovato di fronte il suo viso. E non sarei
nemmeno stato
in grado di guardarla negli occhi, perché non ne avevo il coraggio,
forse per
quello che le avevo fatto, forse perché avevo paura di perdermi
nuovamente nel
mare perlaceo e tranquillo delle sue iridi, che erano sempre state lo
specchio
in cui si rifletteva la mia anima per ciò che era realmente, senza
finzioni,
senza maschere.
«Vado
a prendere qualcosa da bere» dissi, sentendo la bocca e la gola ardere
a causa
del caldo asfissiante. Mi avvicinai alle labbra di Alice, sfiorandole
con le
mie e allontanando con quel breve contatto il pensiero di Sole dalla
mia mente
«Mi è venuta sete. Tu aspettami qui. Magari ti porto anche qualcosa da
mangiare» aggiunsi, abbozzando un sorriso.
Un
lieve rossore colorò le guance della mia piccola, rendendola ancora più
bella.
Nella mia vita ormai c'era Alice, lei aveva preso il posto di Sole,
nonostante
quest'ultima avesse ancora uno spazio nel mio cuore, una piccola parte
che non
batteva più da quando ci eravamo detti addio.
Mi
avviai a passo spedito verso il buffet, sperando di non incontrare di
nuovo
Elisabetta. Non avrei sopportato ancora i suoi insulti e non le avrei
messo le
mani addosso solo perché era una ragazza. Doveva solo ringraziare il
suo doppio
cromosoma X, sennò si sarebbe ritrovata quel suo bellissimo visino di
bambola
spiaccicato contro un muro. Evitai accuratamente vecchi e noiosi
parenti che
non vedevo da anni e salutai velocemente quelli che mi riconoscevano.
Non avevo
voglia di fare delle rimpatriate di famiglia, soprattutto con cugine di
sesto
grado e prozii prossimi alla bara. Mi avvicinai al tavolo, allungando
un
braccio per prendere un calice riempito di spumante ambrato e
frizzante, ma una
mano grande si intromise tra me e la mia bevanda. Sollevai lo sguardo
verso la
mia sinistra, incontrando un paio di occhi azzurri quanto il cielo che
quel
pomeriggio faceva da sfondo al matrimonio di mia cugina. Due occhi che
avevo
già visto poche ore prima.
«Ancora
tu?» sbottò il biondino, figlio di papà, vestito con un completo che
valeva
quanto il mio stipendio a radio Deejay.
«Era
la stessa cosa che stavo per dire io» ribattei, alzando l'angolo della
bocca in
un ghigno.
«Che
fai, mi segui per caso?» continuò, sorseggiando il mio spumante.
«Semmai
è il contrario, amico. Questo è il matrimonio di mia cugina» spiegai
con
naturalezza, affondando una mano nella tasca dei pantaloni.
«Smettila
di chiamarmi amico» sibilò il biondino, irritato «E poco mi importa chi
si
sposa. Sono qui solo per accompagnare la mia ragazza. Ma a quanto pare
avrei
fatto meglio ad ascoltare la mia coscienza e starmene a casa. Ai
matrimoni si
fanno sempre incontri sgradevoli. Parenti insopportabili, amici di
amici, cugini della sposa...» disse ironico,
alzando un sopracciglio e guardandomi da sopra il bicchiere mentre si
scolava
l'intero calice.
«Si
può sapere che cosa ti ho fatto? Ho rischiato di macchiarti la camicia
costosa,
eh?» domandai sarcastico ed irritato per l'astio inspiegabile che quel
ragazzo
aveva nei miei confronti «Con quel completo potresti sfamare interi
villaggi
africani»
«Senti
chi parla» bofonchiò «Non mi sembra che tu vada in giro con le pezze al
culo»
Istintivamente
abbassai lo sguardo e guardai il mio smoking. Aveva ragione il biondino
dato
che quell'abito lo avevo pagato un occhio della testa, ma almeno io non
avevo
la puzza sotto al naso tipica degli snob come quel ragazzetto con i
colpi di
sole.
«Capirai.
È un semplice smoking» tagliai corto, pur di non dare ragione al
biondo.
Afferrai al volo un bicchiere di spumante dal vassoio di un cameriere
che mi
sfrecciò accanto.
«Che
avrai pagato du'mila euri» bisbigliò, cercando forse di non farsi
sentire da
me.
«E
anche se fosse? Dobbiamo star qui a disquisire su quanto abbiamo speso
per un
dannato completo?» replicai irritato per la piega che stava prendendo
quell'assurda discussione. Perché stavamo ancora lì a battibeccare come
due
stupidi concorrenti del Grande Fratello? Sembrava che fossimo legati,
che il
nostro astio fosse nato da qualcosa di molto più serio di un semplice
spintone
in un bar.
«In
effetti» convenne con me, con una scrollata di spalle «Non so nemmeno
io perché
sto perdendo il mio tempo con uno come te, piuttosto che stare un po'
con la
mia ragazza»
«Nessuno
ti trattiene qui» replicai placidamente «Puoi benissimo andartene»
«Non
c'era bisogno che me lo dicessi tu» borbottò. Borbottava in
continuazione quel
ragazzo, era peggio di una pentola piena di fagioli che ribolliva sul
fuoco.
Dei
tacchi riecheggiarono dietro di noi, finché a quel rumore non si
aggiunse una
voce dolce, melliflua, che conoscevo fin troppo bene.
«Francesco»
sospirò «Dio mio, pensavo ti avessero rapito!»
Il
biondino, che dedussi si chiamasse Francesco, si voltò per sorridere
alla
ragazza che ci aveva appena raggiunti. Io non ebbi il coraggio di
imitarlo, non
ebbi la forza di girarmi e guardarla negli occhi. Riposi il calice sul
tavolo,
poi appoggiai le mani, sorreggendomi con l'aiuto di quel legno decorato
a
festa. Avevo le gambe molli, la temperatura di quell'afoso giorno di
luglio si
fece quasi insopportabile e la gola mi si seccò.
«Più
o meno» bofonchiò Francesco «Mi sono intrattenuto a discutere con
questo
maleducato» e mi indicò con una mano.
«Francesco!»
lo riprese Sole ed immaginai le sue guance diventare rosse per
l'imbarazzo «Lo
scusi» disse poi rivolta a me, appoggiandomi una mano sulla spalla. Fu
in quel
momento che decisi di voltarmi, come se il suo tocco mi avesse dato
d'un tratto
il coraggio di rivedere il suo viso dopo cinque lunghi anni, come se la
sua
mano avesse risvegliato in me una parte di anima assopita da tempo e
che
desiderava solo rivedere i suoi occhi.
«Da...
Dario» mormorò, con gli occhi spalancati per la sorpresa di vedermi.
Era
rimasta quella di sempre, la stessa Moby della quale mi ero
innamorato.
Sensuale nella sua morbidezza e nelle sue curve perfettamente disegnate
dal
vestito color lavanda che indossava, dolce ed innocente, con quel viso
paffuto
che era rimasto immutato da quando l'avevo conosciuta per la prima
volta. Era
bellissima in quel momento, mentre mi guardava con quegli enormi occhi
color
perla nei quali annegare e le labbra morbide appena dischiuse. Le avevo
baciate
così tante volte che anche solo fissandole, sentivo la pienezza e la
consistenza di quella morbidezza sulla mia bocca. E avevo una gran
voglia di assaggiarle
di nuovo, nonostante tutto.
Abbassai
lo sguardo, arrossendo come una scolaretta peri pensieri che stavo
facendo.
Stavo desiderando una ragazza che non avrei mai più riavuto e che,
soprattutto,
non era la mia fidanzata. Io ero innamorato di Alice, ero consapevole
di quanto
la mia piccola fosse importante per me. Eppure non potevo dimenticare
quello
che c'era stato tra me e Sole, non potevo cancellare con facilità tutti
i
ricordi che mi legavano a lei. Erano impressi nella mia memoria,
tatuati nel mio
cuore, in quella piccola parte atrofizzata da tempo, che aveva ripreso
a
palpitare lentamente non appena l'avevo rivista.
«Dario?»
ripeté Francesco, quasi sconvolto «Quel
Dario?»
«Dipende
quale Dario intendi. È un nome molto diffuso in Italia» tentai di
sdrammatizzare con una battuta, ma il biondino non sembrò apprezzare il
mio
sforzo.
«Il
pezzo di merda che ha calpestato il cuore della mia ragazza!» sbottò,
facendo
un passo verso di me, forse per incutermi timore con il suo sguardo
trucido, ma
se quello era davvero il suo intento, aveva toppato di brutto. Il suo
atteggiamento spavaldo, in netto contrasto con le sue fattezze
angeliche, mi
fece solo sorridere.
«Sì,
dovrei essere io» ridacchiai e potevo giurare di aver visto una strana
scintilla negli occhi del biondino, quasi volesse uccidermi «E comunque
mi
sembravi molto più simpatico al telefono» aggiunsi. Altro tentativo di
stemperare la tensione, altro buco enorme nell'acqua.
«Quante
cazzate hai sparato, eh?» riprese, paonazzo e tutto agitato Francesco «Siamo
anime gemelle, il grande amore e altre balle» disse camuffando la
sua voce
per farla somigliare alla mia «E intanto ti divertivi, ve'? Ti sei
fatto le tue
belle scopate e poi l'hai abbandonata»
«Smettila
Frà» cercò di placarlo Sole, stringendosi al suo braccio e rivolgendomi
qualche
sorriso impacciato, quasi si volesse scusare per quello che stava
dicendo il
suo ragazzo.
«Smettila
un bel niente!» sbottò di nuovo, scrollandosi di dosso la dolce Sole e
venendomi ancora in contro, a pochi centimetri di distanza da me.
Eravamo quasi
alti uguali, per cui i nostri sguardi si fusero in un istante.
L'azzurro e il
nero, la luce e l'ombra, il giorno e la notte in conflitto perpetuo,
anche
quando erano rinchiusi in un paio di iridi, il passato ed il presente
di Sole
che si sovrapponevano.
«Era
da molto tempo che volevo vedere questo fighetto e dirgliene quattro!»
sibilò.
«E
cosa ne ottieni urlandomi contro?» domandai, senza scompormi,
nonostante i suoi
giudizi campati per aria cominciavano ad innervosirmi «Ciò che è stato
non sarà
mai più, quindi più che ammettere che ho sbagliato che devo fare?»
Francesco
tentò di rispondere, protendendo l'indice verso di me, ma lo lasciò a
mezz'aria
rimanendo con la bocca semi-aperta. La richiuse un paio di volte per
poi riaprirla
e sbatté le palpebre.
Aveva
ragione la Campetti, la professoressa di filosofia: avevo del
potenziale, solo
che ero sempre stato troppo pigro per applicarmi adeguatamente. E lo
Scempia
aveva completamente sbagliato animale: non ero un asino ragliante,
ma
uno stanchissimo bradipo. E la mia dialettica, il modo naturale che
avevo per
zittire le persone lo dimostrava.
Abbozzai un sorriso, compiacendomi delle mie stesse parole.
Sole
si avvicinò a noi, afferrando per un braccio Francesco e allontanandolo
da me.
Gli rivolse un'occhiata, prima di donare i suoi occhi splendenti a me.
«Non,
non immaginavo di trovarti qui» disse, stringendosi nelle spalle.
«Nemmeno
io» concordai, tenendo d'occhio Francesco che scalpitava alle spalle di
Sole,
forse geloso delle attenzioni che mi stava rivolgendo la sua ragazza
«Però,
insomma, è bello ritrovarsi dopo tutti questi anni» continuai,
mordicchiandomi
il labbro inferiore «Era da tanto che volevo rivederti»
Sole
arrossì vistosamente ed abbassò il viso per mascherare il suo
imbarazzo. Tossicchiò
per schiarirsi la voce e parlò senza alzare lo sguardo da un punto
imprecisato
sul terreno.
«Già,
anche io» mi confidò, stretta nelle spalle.
Tutti
i secondi passati lontani, tutti i giorni che ci avevano tenuti
distanti e,
soprattutto Francesco, non avevano intaccato nulla della splendida
persona alla
quale avevo detto addio una sera di pioggia sul ponte Milvio. Quello
era stato
forse il giorno peggiore della mia vita. Avevo calpestato lei ed il suo
cuore,
ma allo stesso tempo avevo distrutto il mio lasciandola lì, fradicia
come un
pulcino indifeso, con il peso opprimente di una bugia che gravava su di
lei. Le
avevo detto di non amarla, che era stata solo un passatempo per me ma
non era
così, non lo era mai stato e speravo con tutto il cuore che lei avesse
capito
quanto l'amassi, nonostante non avessi mai avuto il coraggio di dirle Ti
amo.
«A-A
Milano…» domandò e il suo mi sembrò solo un diversivo per cambiare
argomento.
Decisi che era meglio per entrambi rimanere il più distaccati possibili
dal
nostro passato, perché era troppo doloroso ripensare agli ultimi giorni
trascorsi insieme a lei «…ti trovi bene?»
«Sì,
più o meno» sospirai, scrollando le spalle «Città bellissima, ma non è
casa mia». Per quanto avessi
desiderato così ardentemente lasciare la mia città, Roma era parte di
me, la
custodivo gelosamente nel mio cuore e lei si era impossessata di gran
parte
della mia anima. Quando passeggiavo per le strade della città eterna,
mi
sentivo a casa, sentivo di appartenerle, così come lei era un pezzo di
me. E la
stessa sensazione non me la davano le strade nebbiose e grigiastre di
Milano,
nonostante la città del Berlusca mi avesse fatto amare dopo così tanto
tempo.
«Beh,
l'importante è che sei libero, finalmente, che non sei più incatenato
ad una
famiglia che non reputi tale» disse saggiamente Sole. Lei era sempre
stata la
mia coscienza, una specie di grillo parlante – meno petulante
dell'insetto di
Pinocchio – che sapeva sempre cosa dire e quando dirlo «E che lavoro
hai
trovato?» chiese incuriosita.
Deglutii
a fatica, ricordando quello che avevo fatto per campare più di tre
anni. Quello
era sicuramente un particolare da omettere. Già la mia reputazione era
rasente
allo zero, se avessi detto che ero stato un prostituto sarei sceso
nella scala
dei numeri negativi.
«Presento
un programma su radio Deejay» risposi semplicemente, con un sorriso
stiracchiato.
«Ma
pensa un po'!» esclamò stupita Sole, annuendo forse a se stessa. C'era
distacco
tra di noi, lo percepivo. Era come se entrambi avessimo eretto un muro
per
proteggerci dallo sguardo dell'altro, quasi avessimo paura di ricadere
di nuovo
nella trappola del nostro amore passato.
«Sì,
sì, molto interessante» borbottò il biondino, intervenendo nella
discussione
infastidito «'ndo sta la tua ragazza?» domandò, ricordandosi il nostro
breve
incontro al bar. Stava cercando di distogliere la mia attenzione da
Sole e ci
era riuscito. Mi voltai, guardandomi a destra e a sinistra come se
Alice
potesse spuntare da un momento all'altro. Mi ero intrattenuto a parlare
con
Sole e non avevo minimamente pensato che la mia piccola fosse da sola
chissà
dove, incavolata perché l'avevo lasciata come una stupida.
«Hai
una ragazza?» mi chiese Sole, aggrottando le sopracciglia.
«Sì!»
esclamai felice, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio «Si
chiama
Alice. Ed è la mia vita» dissi, guidato dal mio cuore piuttosto che dal
cervello. L'amore rincoglioniva, ormai lo avevo capito. Sparavo cazzate
e cose
romantiche a raffica, senza che me ne accorgessi, ma mi piaceva essere
rincoglionito e drogato di Alice.
«E
com'è?»
Per
la prima volta, da quando avevo conosciuto Alice, mi ritrovavo a dover
dare una
sua descrizione. Non mi ero mai posto la domanda, per me lei era sempre
stata
la mia piccola, anche quando ancora io non me n'ero reso conto o non
volevo
rendermene conto. Era la ragazza che aveva cambiato la mia vita e, per
quanto
mi sforzassi di trovare le parole per condensare tutto il suo splendido
essere,
non ci riuscii. Ogni singola parola mi sembrava riduttiva, gli
aggettivi sembravano
così poveri paragonate alla mia Alice.
«Lei
è... lei è...» tentai di rispondere, guardando le bollicine dello
spumante
risalire il calice «...dolce, è bella, è meravigliosa. Purtroppo le
parole non
sono sufficienti per descriverla» scrollai le spalle di fronte alla
realtà di
ciò che avevo appena detto.
«Sei
proprio innamorato» osservò Sole con un sorriso tirato.
«Già»
sospirai, guardandomi la punta delle scarpe di vernice «Sono pazzo di
lei»
E
proprio mentre dicevo quelle parole, sentii la voce della mia piccola
chiamarmi.
Mi voltai verso di lei, incontrando il suo sguardo furente e il suo
broncio. Ed
era stupenda, nonostante tutto. La afferrai per un braccio e la
trascinai verso
di me, stringendola, cibandomi avido del suo calore. Ed era
maledettamente vero
che quella piccola ragazza, che stringevo nelle mie braccia, mi aveva
sconvolto
la vita.
La
serata stava andando relativamente bene, nonostante il piccolo e breve
diverbio
che avevamo avuto io ed Alice. La mia piccola era gelosa di Sole, lo
era sempre
stata, da quando gliela avevo nominata la prima volta durante il ballo
di San
Valentino. Magari ero stato un po' ambiguo nei suoi confronti, avevo
dimostrato
troppo interesse verso la mia ex fidanzata. Ma erano tanti, troppi anni
che
avevo voglia di rivederla e magari chiarire la situazione con lei,
aprendole il
mio cuore una volta per tutte. Non sarebbe cambiato nulla e non volevo
che
cambiasse niente, perché oramai amavo la piega che aveva assunto la mia
vita ma
Sole meritava di sapere la verità, doveva sapere quanto l'avessi amata.
Infatti,
la serata stava andando relativamente bene finché non era
arrivato Mauro
a rompere l'armonia. Lui era sempre la nota discordante, un tamburo in
un'orchestra fatta solo di violini, un urlo fastidioso in un silenzio
placido e
tranquillo. Doveva sempre parlare a sproposito, intromettersi tra me e
i miei
sentimenti, insinuare dubbi inutili nella mente di Alice. Era
insostenibile mio
fratello e più passava il tempo, più non lo sopportavo. Doveva sempre
distruggere
quello che cercavo di costruire giorno per giorno, lo trovava
divertente. Per
me, invece, era frustrante dover stare sempre ad ascoltarlo, umiliarmi
con le
sue parole davanti alle due persone più importanti per me.
Perciò,
l'unico modo che avevo per stare da solo con Sole era allontanarmi dal
nostro
tavolo e da mio fratello. Molto probabilmente quello non andò molto giù
ad
Alice che mi fulminò con lo sguardo quando le avevo chiesto se potevo
andare a
ballare con Sole, ma sapevo che avrebbe capito. La mia piccola stava
crescendo,
stava maturando, per cui ero fiducioso.
La
pista da ballo era sovraffollata, soprattutto da coppiette avvinghiate
che
ballavano le canzoni d'amore che il cantante stava intonando per lui.
Cinsi i
fianchi morbidi di Sole e lei allacciò le braccia dietro al mio collo,
stabilendo un contatto visivo con me. I suoi occhi mi infondevano
tranquillità,
serenità e un calore inspiegabile all'altezza del petto, proprio in
quella
parte di cuore che era dedicata a lei.
«Sempre
simpatico Mauro» borbottai, scocciato.
«Come
al solito» rispose con un sorriso stiracchiato, lasciandosi guidare dai
miei
passi in una danza lenta e scoordinata «Pensavo che con il tempo
cambiasse,
maturasse» scosse la testa.
«E
invece...» sbuffai «È ancora più antipatico di prima»
Ridacchiammo
entrambi, ma subito dopo quel breve scambio di battute ci fu un attimo
di
silenzio imbarazzante. Entrambi percepimmo il disagio dell'altro e
insieme
abbassammo lo sguardo verso il pavimento lucido del castello, per poi
rialzarlo
all'unisono e naufragare nelle iridi dell'altro.
«Sai,
non ci speravo più di rivederti» fu lei a spezzare il silenzio, anche
se solo
con un sussurro.
«In
effetti, è una sorpresa anche per me» risposi con il suo stesso tono di
voce
«Pensavo che quello sul ponte Milvio fosse un addio definitivo a te, a
Roma,
alla mia vita passata. Non credevo di ritornare nella mia città natale
e di
ritrovarti»
«Brutti
ricordi» disse solamente, fuggendo dal mio sguardo e puntandolo sui
cerchi di
luce soffusa che si stagliavano sul pavimento.
«Spesso
ho avuto la tentazione di chiamarti» le confidai.
«Ma
non l'hai mai fatto» mi fece presente lei, senza tradire la sua estrema
dolcezza.
«Da
stupido quale sono» ribattei, con una leggera risata per stemperare la
tensione
che mi stava contraendo tutti i muscoli corporei «Ho sempre avuto paura
di
farlo, che tu non accettassi le mie chiamate, che mi rifiutassi e non
avrei
resistito ad una cosa del genere»
Sole
aggrottò le sopracciglia, stiracchiando le labbra e scuotendo la testa.
«Pensavo
di averti capito molto tempo fa» disse «Ed invece ad ogni passo che
faccio
avanti, sono cento che mi rimandano indietro»
Sapevo
di avere un carattere non facile, di essere lunatico e di essere un
enigma
anche per me, alle volte. E questo perché non avevo mai trovato
coraggio di
mostrare i miei sentimenti. Avevo sempre preferito tenermi tutto
dentro,
interiorizzare le emozioni. Ciò aveva fatto soffrire tutti, sia me che
Sole.
L'avevo trattata come uno zerbino, come un pezzo di carta straccia
senza valore
quando invece, in realtà, era un prezioso diamante raro. E, anche se
pensavo
una cosa del genere, non era mai riuscito a farglielo capire. Speravo
solo che
Francesco fosse un fidanzato migliore di quanto non lo fossi stato io,
che le
desse ciò che realmente meritava, la felicità che spettava ad una
persona come
lei.
«Tu
sei stata una delle poche che mi abbia mai capito, Sole» la rassicurai
«Sono io
che cerco sempre di nascondermi dietro pareti invisibili. Quanto sono
stupido!»
«Sei
cambiato, Dario» disse Sole, con un sorriso «O almeno, hai capito
finalmente
che non devi aver paura dei giudizi altrui»
«Merito
di tutti gli errori che ho commesso e delle scelte che questi mi hanno
portato
a fare» risposi in tutta onestà. Anche io mi ero accorto del mio
cambiamento e
se quello era avvenuto era anche grazie a Sole, al suo ricordo costante
che mi
aveva fatto crescere e diventare un uomo.
«Che
tipo si scelte?» domandò e non seppi resistere al suo sguardo curioso,
alle sue
lentiggini color caffè che ancora contornavano il suo viso.
«È
meglio parlarne fuori» dissi solamente, prendendola per mano e
trascinandola
fuori dal castello, il più lontano possibile da lì. Il lago di
Bracciano
sarebbe stato una miglior cornice per il nostro dialogo, avrebbe creato
l'atmosfera giusta per aprirle, finalmente, il mio cuore.
***
Vado punto e a capo così,
spegnerò le luci e da qui sparirai.
Le
mani di Dario erano proprio come me le ricordavo, forse un po’ più
grandi e più
ruvide. Le mani di un uomo, ormai. I
miei sandali impattarono con la ghiaia fuori dal castello,
rumoreggiando nel
silenzio di quella notte incastonata di stelle.
Non
mi sarei mai aspettata di rivederlo, anzi, non ci avrei mai sperato.
Ricordavo
ancora il giorno in cui mi aveva detto addio, quando c’era soltanto la
città a
farci da sfondo e un silenzio intervallato unicamente dal rumore della
pioggia
che s’infrangeva sull’asfalto. Il ricordo peggiore della mia vita,
forse più
brutto di quando venivo derisa, presa in giro e maltrattata dal mio
stesso
migliore amico – amante – a scuola.
Quel
Dobbiamo parlare riecheggiò nella mia
mente, lasciandomi in bocca il sapore amaro di un momento che avrei
voluto
tanto dimenticare, insieme a quelle mani che mi stringevano, proprio
come in
quella sbiadita memoria di ragazzina che ora galleggiava nella mia
mente come
una vecchia fotografia. L’ultima volta che Dario aveva voluto parlarmi,
mi
aveva lasciata per sempre. Nessuna
spiegazione, poche parole e soltanto un grande vuoto che separava
sempre più
consistentemente il suo cuore dal mio.
Avevo
paura in quel presente, paura che tutto mi sfuggisse di nuovo dalle
mani, mi
scivolasse lontano come sapone sulle dita. Ora che la mia vita aveva
finalmente
preso una giusta piega, adesso che mi sentivo in pace con me stessa,
che ero
accettata ed amata senza che nessuno mi nascondesse, quasi come se
fossi un
fenomeno da circo.
Non è stata colpa sua,
lo sai bene.
Sì,
ne ero conscia. Avevo avuto cinque anni per riprendermi, per
riflettere, per
riaprire di nuovo il mio cuore al mondo e ricominciare a fidarmi dei
ragazzi.
Finalmente mi ero messa nei suoi panni, nelle vesti di un sedicenne
rifiutato
dalla propria famiglia, sostanzialmente solo. Dario avrebbe voluto
soltanto
essere amato, nient’altro.
«Dove andiamo?» gli
chiesi, cercando di
stare al passo.
Lui
si voltò e nella penombra della notte lo vidi sorridere. «In un posto
speciale» rispose, continuando a
camminare.
Da
quant’era che non lo vedevo sorridere così? Mesi? Anni?
Eri tu a farlo sempre
ridere.
Com’era
vero quel pensiero egoistico che per un momento mi era saettato nel
cervello,
sfuggendo al mio buonsenso. Quando aveva introdotto il nome di quella
ragazza, Alice, gli si erano illuminati gli occhi
come mai era successo in tutta la sua vita. Mai. Nemmeno con la
Campanella che
era stata la sua ossessione del liceo, e il mio incubo.
Soltanto con me.
Il
suo primo sorriso lo aveva regalato alla sottoscritta, tanti anni fa,
in quel
cortile polveroso della scuola materna, quando ci eravamo difesi
entrambi,
appoggiandoci l’un l’altra, facendoci forza contro il mondo che ci
voleva fare
soltanto del male. Poi il male si è impossessato di lui.
«Ci sei?» mi chiese,
voltandosi e
rallentando il ritmo.
Abbassai
lo sguardo, incapace di sostenere il suo dopo tutto quel tempo. Mi
sembrava
quasi un estraneo, come se le fattezze del suo viso fossero diverse da
come
ricordavo. Avrei voluto allungare una mano verso di lui, sfiorarlo,
sentire la
pelle sotto i polpastrelli soltanto per dare concretezza a quello che
ormai mi
sembrava soltanto un sogno ad occhi aperti.
«Sì» soffiai
imbarazzata,
sentendo che le guance s’imporporavano senza che io avessi il controllo
di me
stessa.
Con
Dario era come tornare indietro nel tempo, come se tutte le mie
certezze, le
sicurezze acquistate in questi anni crollassero e si dissolvessero come
fumo.
Era tutto reale quello che stavo provando, non frutto di un sogno. Lui
era
davanti a me, mi teneva per mano e la sua stretta si era fatta più
salda, quasi
avesse paura che gli potessi sfuggire.
«Fidati di me» mi
disse, forse perché
notò il mio disagio.
Alzai
lo sguardo solamente per rimanere intrappolata nell’oscurità dei suoi
occhi
neri, più avvolgenti e cupi di quanto ricordassi, ma sicuramente non
più tristi
come cinque anni fa. C’era qualcosa di nuovo in fondo a quelle iridi,
come se
la fiammella di una candela avesse cominciato a bruciare lo stoppino e
si
stesse lentamente accendendo. La vedevo debole e fioca, ma non per
questo
rischiava di spegnersi.
«Andiamo» dissi con
sicurezza,
alzando lo sguardo e scacciando via la vecchia Sole che spingeva per
tornare
ora che Dario era di nuovo con me.
Continuammo
a camminare nella notte, le nostre mani intrecciate e il silenzio rotto
solamente dal rumore della musica in lontananza e dai passi che ci
accompagnavano. C’era il lago che si apriva immenso di fronte al nostro
sguardo, nero e profondo, pronto ad inghiottire le mie paure e a farmi
andare
avanti.
Quel
matrimonio era diventato per noi teatro di confessioni, di momenti che
non
avevamo mai voluto affrontare tempo fa, ma che esigevano di essere
chiariti.
Camminavo
al suo fianco adesso, dopo che il suo passo si era fatto più cadenzato,
ma le
nostre mani erano ancora intrecciate. Avvertivo del disagio nel stare
mano
nella mano con qualcuno che non fosse Francesco, il mio ragazzo, ma
Dario non
era un semplice qualcuno.
Ne
avevamo passate così tante che c’era una specie di forza che m’impediva
di
sciogliere quell’intreccio di dita, non riuscivo a stargli distante
dopo tutto
il tempo che avevamo passato separati.
«Che ne dici?» mi
suggerì, indicando
con lo sguardo un grande gazebo di legno arroccato proprio sulla sponda
del
grande lago.
Aveva
il tetto spiovente ed era a forma esagonale, ricoperto completamente di
luci
bianche che serpeggiavano sino alla passerella. Era come se ci
indicasse il
cammino, come se ci suggerisse anche lui che quello era il posto adatto
per
parlare, per porre finalmente la parola Fine
alla nostra storia.
«È perfetto» asserii,
dando un
fuggevole sguardo a Dario che aveva l’attenzione fissa all’orizzonte.
Era
sempre stato la mia colonna portante, l’unico cui potessi appoggiarmi
nei
giorni più bui della mia vita.
Mi
sarei sempre fidata di Dario, anche dopo tutto quello che mi aveva
fatto.
Nel
cielo non c’era una nuvola all’orizzonte e le stelle brillavano così
intensamente che l’inquinamento luminoso non riusciva ad oscurarne lo
splendore. Ci incamminammo lungo la passerella, fianco al fianco,
mentre i
suoni ovattati della musica ci raggiungevano ormai a malapena.
Francesco
era lì, sulla pista da ballo, da solo ed io non riuscivo a sentirmi in
colpa
per averlo lasciato. Era come se il mio inconscio stesso sentisse il
bisogno di
chiarimenti. Dopo cinque lunghi anni, forse, avrei saputo il perché.
«Come va?» mi domandò
Dario,
rivolgendomi un radioso sorriso.
«Giusto un po’ d’umidità»
mormorai, riferendomi
alla temperatura vicino al lago.
Dario
scoppiò in una fragorosa risata, allargando le braccia e sciogliendo il
nostro
intreccio di mani. «Mi era proprio mancata
la tua ingenuità».
Sprofondai
nel completo imbarazzo e sentii chiaramente le guance diventare color
pomodoro
maturo. «S-Scusa» soffiai, torturandomi
le mani.
Lui
smise di ridere e mi guardò stupito. «Scusarti di cosa?».
Inghiottii
a vuoto, presa in contropiede. «N-Non
lo so…» ammisi, ancora più in
imbarazzo.
Di
slancio Dario mi passo un braccio attorno alle spalle e mi attirò a sé,
ridendo
ancora della mia ingenuità, ma quando il mio viso si scontrò con la
camicia
bianca del suo completo elegante, sotto gli strati di profumo e di
dopobarba,
riuscii per un attimo a percepire quell’odore.
Vaniglia.
«Intendevo come va
nella
vita, in generale» sghignazzò, allentando
la presa e lasciandomi libera di respirare. Una nuvola gravida di
pensieri si
addensò nella mia mente confusa, ancora annebbiata dall’intensità di
quel
profumo che portava con sé tutti quei ricordi che avrei voluto lasciar
andare,
in un angolo della mia mente.
«A-Ah…» realizzai,
sempre
imbarazzata.
Con
un gesto istintivo, mi allontanai dal suo corpo, liberandomi da
quell’abbraccio
che stava diventando troppo equivocabile. Ci fu un attimo di silenzio
in cui i
nostri sguardi s’incrociarono e sembrò che Dario fosse quasi tradito da
quel
mio allontanamento. «Va tutto bene» continuai. «A Giugno mi sono
laureata e tra una settimana partirò per un Erasmus».
Dario
si lasciò sfuggire un’espressione piuttosto sorpresa. «Bello» disse. «Non
avevo dubbi che
avresti fatto grandi cose nella vita, sei sempre stata tu la secchiona
tra noi
due».
Mi
strappò una risata sincera, al ricordo di tutti quei pomeriggi passati
a
studiare chiusi nelle nostre stanze, mentre il timore
dell’interrogazione o del
compito in classe ci costringeva a svolgere esercizi che, il più delle
volte,
dovevo ripetergli.
«E dove te ne vai?» mi
domandò,
ricominciando a passeggiare verso il gazebo.
Nervosamente
mi spostai una ciocca di capelli sfuggita all’acconciatura dietro
l’orecchio,
poi gli sorrisi. «Andrò a Bali, nella
penisola Indonesiana» poi abbassai lo sguardo
quel tanto da sbirciare attraverso le ciglia il cambiamento della sua
espressione. Anche Francesco non l’aveva presa bene, anzi, avevo quasi
rischiato di perderlo per quel motivo. «Per un anno» aggiunsi. «Starò
via per un anno intero».
Ed
ecco l’espressione di puro stupore che permise agli occhi neri di Dario
di
allargarsi e alle sue labbra di schiudersi incerte, rallentando il
passo della
nostra passeggiata. «Un anno?».
Stirai
un sorriso ed annuii. «È un progetto cui tengo
molto. Ho lavorato sodo per meritarmi questa opportunità».
Raggiungemmo
il gazebo in silenzio, sedendoci su una delle panchine di legno e
guardando le
placide onde del lago che bagnavano la spiaggia di fango. Era magico
quel
posto, quasi surreale, soprattutto quando un leggero velo di nebbia si
addensò
sulla superficie dell’acqua, vorticando come un fantasma dall’animo
inquieto.
Avrei
voluto dire qualcosa, almeno per interrompere quel silenzio
imbarazzante che si
era creato dopo la mia piccola rivelazione.
«E…» iniziò Dario,
anticipandomi. «E… coso?».
«Coso?» domandai
confusa.
«Sì» insistette lui,
cominciando a gesticolare nervosamente. «Quello».
Arrivai
alla risposta con un sorriso, dopo aver letto l’espressione sul viso di
Dario e
mi accorsi che, nonostante il tempo lo avesse maturato, riuscivo ancora
a
decifrare le sue emozioni. «Intendi
Francesco» ridacchiai.
Dario
annuì con convinzione. «Eh, il biondino con la
puzza sotto il naso» aggiunse, storcendo la
bocca.
Rimasi
sorpresa in quel momento, soprattutto perché avevo sempre avuto il
terrore di
essermi innamorata di Frà soltanto perché somigliava in modo
impressionante a
Dario. Avevo sempre pensato che fosse una sua copia, la mia seconda
occasione
per rimediare, per correggere i miei sbagli e poter, finalmente, vivere
il mio
lieto fine. Invece, per quanto potessi sforzarmi di trovare delle
similitudini
tra di loro, ben presto mi accorsi che c’era una netta differenza e che
Francesco aveva rinunciato a tutta la sua vita per me.
«Verrà con me» risposi
brevemente,
sapendo quanto quelle parole lo avrebbero ferito.
Era
la verità in fondo, non avrei potuto mentirgli. Anche se sapevo che la
storia
tra di noi non era ancora stata chiarita, era giusto fargli capire
quanto
Francesco, adesso, fosse parte della mia vita.
Dario
prese un respiro profondo e stavolta fu il suo turno di puntare
l’attenzione
altrove. Gli avevo inferto una stilettata al cuore, ma forse era giusto
così.
«Caspita» sospirò,
torturandosi
il lembo della giacca. «Pensavo che fosse un
damerino, invece ha le palle quadrate».
Fui
sorpresa da quel repentino cambio di rotta, così mi lasciai andare ad
una
risata libera e genuina. «Sai, Francesco è un po’
come te» mi ritrovai a
confessargli.
Dario
sgranò gli occhi sorpreso. «Non
credo proprio!» e mise subito le mani
avanti. «Premetto che non lo
odio, ma c’è qualcosa nel modo in cui mi guarda che mi fa venire la
voglia di prenderlo
a sprangate in faccia, ma sia ben chiaro, non lo farei mai. È solo che
te ne
potevi scegliere uno meno stronzo» concluse, incrociando le braccia al
petto.
«Uno come te?» lo
punzecchiai,
costringendolo a voltarsi ancora verso di me.
Era
quella la verità cui volevo farlo arrivare, come quando cercavo di
cavargli le
risposte di un’interrogazione di bocca. Ce la doveva mettere tutta e
contare
solo sulle sue forze.
Il
sorriso sghembo che tanto mi aveva fatto battere il cuore in passato,
comparve
galeotto sul suo viso e mi fece perdere un battito. «Sai che di stronzi
come
me ce ne stanno pochi» affermò, quasi come se
fosse un vanto.
Gli
posai una mano sul petto e lo spinsi lievemente all’indietro. «Ma
smettila che ti ho
visto con quella ragazza, prima»
sghignazzai, prendendolo in giro. «Avevi occhi solo per lei e se ti
avesse chiesto
di buttarti giù dal Tevere, lo avresti fatto! I tempi del Moro sono
finiti,
ormai» sentenziai, quasi come
se stessi leggendo un proclama che annunciava l’abdicazione del re.
Nonostante
l’oscurità, vidi le guance di Dario imporporarsi lievemente e quel
particolare
non poté altro che sorprendermi. Ero sempre stata abituata a combattere
con le
sue due personalità distinte, una che mi rendeva la vita un inferno e
l’altra
che passava interi pomeriggi a consolarmi sulle cattiverie che lui
stesso mi
diceva. Adesso sembrava che il Dottor Jekyll e il Mr. Hyde di Dario
avessero
trovato un compromesso e convivessero armoniosamente all’interno di un
solo
corpo.
«La mia piccola»
sospirò, riferendosi alla giovane ragazza che
avevamo visto al ricevimento. Un grande sorriso gli si allargò sul
volto, dove
un velo di ispida barba stava lentamente crescendo e indurendo i tratti
che un
tempo erano stati quelli del ragazzino di cui ero innamorata. «Credo
che il merito di
questo mio cambiamento sia stato soprattutto di Alice. Senza di lei, mi
sarei
ancora comportato come l’arrogante spaccone di un tempo e chissà quante
altre
persone avrei ferito. Le devo tutto».
Avvertii
qualcosa in fondo allo stomaco, come se un animale si stesse lentamente
risvegliando dall’intorpidimento del sonno. C’erano sempre state delle
piccole
cose tra di noi, dei gesti che mi permettevano di credere che Dario
fosse
davvero la mia anima gemella. Il suo sorriso era uno di quei ricordi
che conservavo
gelosamente nel cassetto della mia memoria, pensando e credendo che
soltanto io
ero stata in grado di vederli, perché erano così rari, quasi come
un’eclissi, e
altrettanto meravigliosi, ma in quel momento mi resi conto che quel
piccolo
angolo di paradiso non era più soltanto mio, apparteneva alla ragazza
che lo
aveva salvato, che era riuscita laddove io avevo fallito.
«È molto bella, Alice» dissi, sorridendogli.
«Sì» ammise lui, con la
voce
che gli tremava dall’emozione. «Con
lei sono tornato ad amare dopo tanto tempo».
Era
sbagliato sentire del disagio in quelle sue parole, soprattutto quando
cinque
anni fa avrei dato tutto pur di essere al posto di quella ragazza.
Perché di
Alice, Dario non si vergognava, non aveva avuto alcun bisogno di
nasconderla,
perché lei aveva conosciuto soltanto la sua parte buona. A me era
toccato il
compito di limare quegli spigoli del suo carattere, combatterlo giorno
dopo
giorno e il più delle volte, tornando a casa sconfitta per leccarmi le
ferite.
Non
avrei dovuto essere gelosa di lei perché gli aveva ridato la gioia di
vivere e
aveva finalmente trascinato Dario lontano da quel tunnel buio che era
la sua
famiglia. Avrei dovuto essere contenta, ma non riuscivo a pensare ad
altro che
non fosse un’ingiustizia nei miei confronti da parte del destino. Alice
non
aveva idea di quante ne avessimo passate io e Dario, soltanto il tempo
e la
memoria erano testimoni di quella storia.
«Perché? Hai mai amato?»
mi ritrovai a
domandargli, forse spinta da quell’animale che si risvegliava in fondo
al mio
stomaco e permetteva alla gelosia di fluire incontrollata.
Lui
rimase interdetto a quella mia domanda, poi si rilassò e sorrise. «Nella
mia vita ho amato
molto poco, Sole. Dovresti saperlo».
E
fu dopo quelle parole che ricordai un paio di occhi azzurri e un corpo
fasciato
da maglioncini sempre troppo aderenti. Sapevano tutti quello che era
successo,
lo scandalo che aveva colpito il liceo Montale. «La Campanella, giusto?»
chiesi, quasi sicura di
aver indovinato.
Dario
sgranò gli occhi e tentò di leggere l’espressione corrucciata del mio
viso.
Dopo nemmeno cinque secondi, scoppiò di nuovo a ridermi in faccia ed io
mi
sentii una vera deficiente. Che avessi il naso da Clown? Oppure della
verdura
in mezzo ai denti? Possibile che mi ridesse sempre addosso?
«Oddio Sole, non sei
cambiata per niente!» sghignazzò, posandomi
una mano grande sulla spalla.
«Tu invece sì» dissi. «E
tanto».
Dario
smise di ridere e mi guardò. «Spero
in meglio».
Certo
che era cambiato da quel punto di vista, altrimenti non mi avrebbe
nemmeno
rivolto la parola alla festa. Una serie di brutti episodi del passato
mi
ritornarono alla mente e non riuscii a fare a meno di rattristarmi.
Sentii
una mano incorniciarmi il viso e due dita grandi e ruvide che mi
costrinsero ad
alzare lo sguardo verso due enormi pozzi di petrolio. «Eri tu, scema»
disse, senza staccare
il suo sguardo dal mio.
«I-Io cosa?» balbettai
confusa,
cominciando a sentire caldo.
Fu
a quel punto che Dario mi avvicinò al suo petto, e mi lasciò
accoccolare
contro, come facevamo un tempo. Mi sentii di nuovo persa tra quel
profumo di
vaniglia e a contatto con quel corpo che era sempre stato mio.
«Ero innamorato di te,
Sole. Credevo te ne fossi accorta» smozzicò, mentre sentivo la sua voce
vibrare
attraverso il petto ampio.
«Pensavo ti vergognassi
di me» mormorai, riferendomi a
tutte le angherie che avevo dovuto subire in sua presenza.
La
sua mano risalì dalla spalla e andò ad accarezzarmi distrattamente i
capelli. «A quel tempo mi
comportavo da vero idiota, me ne rendo conto. Ti ho fatto soffrire
inutilmente,
nonostante fossimo amici, eppure non avevo il coraggio di confessarti
quello
che provavo per te».
«Eri spaventato, lo
capisco. In fondo non sono mai stata una gran bellezza» soffiai,
continuando a
fissare il lago con il rumore del suo cuore che tamburellava nel mio
orecchio.
«È vero, avevo paura,
ma
era un timore ingiusto. Ero terrorizzato dal perdere i miei amici, il
rispetto
della scuola, l’unico affetto che potessi ricevere dal mondo, visto che
la mia
famiglia era solo un optional. Comportandomi così, invece, ho perso
l’unico
vero amore di cui avevo bisogno ed era il tuo, Sole. Sono sempre stato
codardo
per ammetterlo, nonostante ti avessi costretta… beh… a fare quelle cose…»
e lì calò l’imbarazzo.
Come
dimenticare tutti quei nostri esperimenti?
I giochi, le carezze, il piacere di scoprirci l’un l’altro ed imparare
a fare
l’amore insieme, attimo dopo attimo, come se fossimo un’unica entità.
«Non mi hai costretta»
lo interruppi subito,
scostandomi da lui per cercare i suoi occhi. «C’ero anche io quando me
lo hai chiesto ed ho
acconsentito, quindi non fare la vittima».
Dario
mi sorrise più leggero, capendo finalmente quanto fossimo cresciuti
rispetto al
liceo e quanto la vita e le circostanze ci avessero cambiati.
«Nemmeno io ho avuto il
coraggio di dirtelo» gli confessai. «Avevo paura di perderti,
di interrompere quello che c’era tra di noi e avrei preferito mille
volte
essere la tua bambola e averti vicino, piuttosto che affrontarti col
rischio di
non rivederti mai più. Mi sono comportata proprio da stupida».
«Eravamo ragazzi, non
stupidi» mi corresse lui. «Col senno di poi è
facile parlare. Adesso che entrambi siamo cresciuti, che abbiamo
cominciato a
camminare con le nostre gambe, ora che non abbiamo più bisogno l’uno
dell’altra, finalmente abbiamo capito gli errori».
«Hai ragione».
I
nostri sguardi s’incrociarono ancora. «Tu eri il mio sbaglio, Sole, ma
io l’ho voluto
commettere lo stesso e senza di te sono sicuro che adesso non sarei
l’uomo che
sono. Non avrei avuto l’esperienza alle spalle per riuscire a
rituffarmi in
un’altra storia e non avrei avuto Alice. È tutto merito tuo se sono
felice, ora».
Arrossii
senza alcun motivo, torturandomi il lembo del vestito color lavanda. «È
lo stesso per me» ammisi, pensando a Francesco,
alla scommessa e a tutto quello che avevo passato. «Dario, tu sei stato
il
mio errore e senza di te non avrei avuto il coraggio di innamorarmi
nuovamente,
di perdonare e di riuscire a cambiare qualcuno».
Era
un placido ringraziamento quello che si stava consumando sotto il tetto
di quel
gazebo. Finalmente il tempo si era messo dalla nostra parte e aveva
permesso a
Dario e a Sole di chiarirsi, di rimediare agli sbagli e di potersi
dare, forse
un giorno, una seconda possibilità.
«Ti chiedo scusa, Sole»
continuò lui, stavolta
cercandomi con lo sguardo. «Scusa
per averti lasciato da sola, scusa per averti abbandonata senza dirti
la
verità, per averti fatto passare i peggiori cinque anni della tua vita
e per
non essere stato abbastanza coraggioso per rimanere» tirò un sospiro e
attese qualche secondo. «Se non avessi lasciato
Roma, se fossi stato meno egoista, forse adesso…» ma non riuscì a
finire la frase.
Gli
presi la mano e la strinsi tra le mie, constatando quanto fosse grande
rispetto
a quella che ricordavo. «La vita non è fatta di Se e
di Ma, di Ero e di Potevo»
gli dissi, sperando capisse dove volessi
arrivare. «Tutti i passi che
abbiamo percorso durante questo cammino ci sono serviti ad arrivare
dove siamo
oggi, ci hanno fatto crescere, ti hanno fatto diventare un uomo degno
di stare
al fianco di una ragazza speciale come Alice e a me hanno regalato la
dolcezza
di Frà».
Dario
sorrise, stavolta senza nessuna amarezza. «Su quel ponte, cinque anni
fa, avrei dovuto
dirti che ti amavo. Questo è il più grande rimpianto della mia vita»
ammise tremando.
Allungai
una mano d’istinto, verso il suo viso e gli regalai una carezza. Dario
aveva
sempre avuto bisogno più dei gesti che delle parole e forse non era
cambiato
poi tanto dai tempi del liceo.
«In fondo al mio cuore,
è
come se lo avessi sempre saputo»
gli confessai. «Non devi scusarti perché
quel giorno, il tuo sguardo, ha parlato per te».
Come
dimenticare quegli occhi? Anche se avessi forzato la mia mente ad
obliare quel
particolare, non ci sarei mai riuscita. Era forse il più vivido ricordo
di
tutta la mia adolescenza, insieme al corpo di Dario fradicio di pioggia.
Ridacchiò
sommessamente. «Sono proprio uno stupido
romanticone, mi hai contagiato alla fine».
«Lo sei sempre stato,
solo che non volevi ammetterlo»
lo corressi, inquinata da quel suo buonumore. «Ricordi l’odore della
pioggia?».
Dario
spalancò quei grandi occhi neri, inghiottendomi nel vortice delle sue
emozioni.
Forse se fossi stata ancora una sedicenne, mi sarei innamorata di nuovo
di lui
o forse… non avevo mai smesso di amarlo.
«Sì, come posso
dimenticarlo?».
Quello
era il nostro più bel ricordo, perché la pioggia aveva sempre
accompagnato la
vita di Dario e, insieme a quella, gli attimi della nostra storia. Quel
tuffo
nel passato era stato doloroso, magari evitabile, ma ci aveva permesso
finalmente di andare avanti, liberandoci dai fantasmi del passato.
«Ricordi quando
giocavamo
in giardino?» iniziò Dario,
lasciandosi trasportare dal viale dei ricordi. «Quando Suor Benedetta
cercava di riacchiapparci
ovunque…».
«…e noi ci nascondevamo
sull’albero di albicocche!»
lo anticipai, senza il bisogno di sforzarmi per associare quella
memoria.
Dario
scoppiò a ridere. «Rimanevamo lì per tutto
il pomeriggio, fino a quando non suonava la campanella e ce ne
ritornavamo a
casa!».
«Sì, e Consuelo ci
preparava la merenda».
«E Mauro rompeva le
palle!» sghignazzò ancora,
riferendosi a quel mostro che aveva per fratello.
D’improvviso
mi ricordai un particolare. «Quando
gli abbiamo rotto quell’affare? Ricordi?» gli chiesi, sperando non
avesse dimenticato.
«Il narghilè?»
specificò lui.
«Sì, sì! Si era
infuriato
a morte!».
Dario
cominciò a ridere e si tenne la pancia per non soffocare. «È stato
bellissimo! Mi
ricordo perfettamente che avevi dato una botta alla sua scrivania e lo
hai
fatto crollare a terra, riducendolo in mille pezzi».
Immediatamente
mi sentii in dovere di dissentire. «No! Sei stato tu che mi hai spinta,
come tuo
solito, ed io sono andata a sbattere contro la scrivania, quindi è
stata colpa
tua!».
I
nostri sguardi s’incrociarono, estremamente seri. «Sei stata tu» e mi
diede un leggero
colpetto alla spalla.
«No tu!» sorrisi,
compiendo quel
suo stesso gesto.
«Tu!» rise lui,
alzandosi in
piedi e spingendomi delicatamente all’indietro, poi cominciò a correre
sulla
spiaggia di fango.
«Ehi!» protestai,
muovendo dei
passi e appoggiandomi con la mano ad una delle colonne di legno del
gazebo. Lo
vidi scendere le scalette di corsa e fermarsi poco lontano da
dov’eravamo,
voltandosi e regalandomi uno dei suoi più sinceri sorrisi.
Mi sembrò di tornare a
un giorno di cinque anni fa.
Aprì
le braccia e mi chiamò silenziosamente, soltanto con un gesto, con un
semplice
sguardo perché noi non avevamo mai avuto bisogno delle parole. Niente
pensieri,
nessun rimorso o rimpianto. Mi tolsi i sandali e li abbandonai sul
legno del
parquet, per poi cominciare a correre verso di lui.
«Non riuscirai mai a
prendermi!» mi urlò, voltandosi e
facendo qualche passo all’indietro.
Era
logico che non ne sarei stata capace. Lui era più alto, più agile e
sicuramente
più in forma di me, perciò sarebbe stata una lotta impari, ma ciò non
m’impediva di provarci. In fondo era un gioco.
«Attento a te!»
sorrisi, sollevandomi i
lembi del vestito per migliorare i movimenti.
Proprio
quando Dario pensava di darmi lo stacco finale, non si accorse di un
vecchio
pezzo di legno marcio abbandonato sulla riva. Vi ci inciampò sopra e
rotolò
nella sabbia di fiume, inzaccherandosi il vestito.
Lo
raggiunsi preoccupata, chinandomi a vedere se si era fatto male. «Tutto
bene?» chiesi.
Dario
aprì gli occhi e non la smise di ridere come uno scemo. «Sei riuscita a
prendermi. Che tonto che sono».
Era
sempre così con lui e non sarebbe mai cambiato. Forse era vero che
eravamo
anime gemelle, che il destino ci aveva fatti incontrare dopo così tanto
tempo
soltanto per permetterci di chiarire e andare avanti con le nostre vite
senza
nessun rimorso.
«Ora tocca a te» gli
sorrisi, poi mi
alzai e cominciai a correre nuovamente verso il gazebo, prendendomi un
bel po’
di vantaggio.
«Non vale!» lo sentii
urlare alle
mie spalle, mentre si rialzava e percepivo distintamente i suoi passi
avvicinarsi.
Il
cuore mi batteva forte e lo sentivo martellare sin dentro le orecchie.
Avevo il
fiato corto, l’adrenalina che scorreva veloce e mi dava il senso di
poter
affrontare qualsiasi cosa. Ora non avevo più paura perché sapevo che
Dario mi
aveva amata, che non si era dissolto tutto nel nulla e che forse non
ero del
tutto da buttare via. Era come se da quella corsa dipendesse tutto,
come se
arrivare al traguardo significasse finalmente mettere una pietra sopra
il
passato e ricominciare a vivere.
I
fantasmi erano spariti, il dolore si era dissolto, perché finalmente
per Dario
e Sole, forse, in un angolino della loro vita, si poteva sbirciare uno
spiraglio
di lieto fine.
«Arrivo!» mi urlò da
vicino,
afferrandomi per un braccio.
Ruzzolammo
sull’erba poco distante dalla spiaggia, come due bambini, mentre non
c’importava se i vestiti si sarebbero rovinati o se le acconciature
sarebbero
saltate. Ci ritrovammo uno sopra l’altra, come due gocce di pioggia, e
rivolsi
un fuggevole sguardo al cielo muto di una notte di Luglio.
Il
silenzio era intervallato unicamente dal rumore del nostro respiro, dal
petto
di Dario che si alzava e si abbassava sopra il mio e il suo sguardo che
bruciava come un fuoco d’artificio. Avevamo finalmente finito di
soffrire,
l’uno per l’altra, l’uno con l’altra,
e forse avremmo dovuto fermarci e riflettere, prima di commettere
qualsiasi
cosa che avrebbe rovinato quel delicato equilibrio.
Ora
c’erano altre due persone nelle nostre vite, due persone che non
meritavano
tutto quello.
Dario e Alice.
Sole e Francesco.
Dario… e… Dario e Sole.
Eravamo
l’uno l’anima dell’altro, perché ci eravamo appartenuti un tempo e
forse, quel
tempo, non era ancora finito. Un errore che eravamo disposti a
compiere, tutto
era cominciato con quello sbaglio. Avevamo bisogno di un’ultima
occasione,
prima che ogni cosa potesse finire.
Inizia tutto con te,
non ci serve un perché.
No,
non ci serviva alcun perché, ci eravamo ritrovati dopo tanto tempo e in
quell’angolino di pace e di silenzio avremmo potuto rivivere quella che
era
stata la nostra favola.
Le
labbra di Dario erano sul mio viso, talmente vicine che potevo sentire
il suo
respiro infrangersi contro il mio e mischiarsi, diventando una cosa
sola.
Teneva le braccia ai lati del mio viso, per non gravarmi addosso con
tutto il
suo peso, ma non accennava a spostarsi. Furono attimi di silenzio
quelli,
perché le parole erano di troppo.
Lui
era in ogni parte di me, qualsiasi ricordo della mia vita era legato a
Dario,
che fosse bello o brutto, perché tra di noi c’era qualcosa di grande,
inspiegabile, che nessun altro avrebbe potuto capire. Non era amore,
non era
amicizia, né simpatia ma qualche strana alchimia che ci teneva uniti
come da un
sottile filo di rame.
Dario
si abbassò lievemente, dischiudendo le sue morbide labbra e catturando
il mio
respiro. Avrei voluto dargli la colpa di tutto, maledire il suo viso e
quegli
occhi che mi avevano costretta a cedere, purtroppo non era così.
Eravamo
innamorati, veramente, di altre due
persone, ma tutto era iniziato con noi e doveva finire quella notte.
«Dovremmo fermarci…»
sospirò, incapace di
smettere di avvicinarsi.
«Sì, dovremmo» gli
risposi, facendo
scivolare una mano tra i nostri due corpi troppo vicini e andandogli ad
incorniciare il viso. Era illuminato dalla luce fioca dei lampioni e
riuscivo
solamente a pensare quanto fosse incredibilmente bello.
Era
cresciuto, maturato, c’era un uomo tra le mie braccia ormai. La linea
dura
della sua mascella e l’accenno di barba erano così diversi da quelli di
Frà,
che aveva i lineamenti più femminili. Un angelo e un diavolo. Uno
diverso
dall'altro ma incredibilmente simili nel carattere, tanto da
confondermi.
«Amo Alice, con tutto
me
stesso» soffiò, a pochi
centimetri dalle mie labbra.
«Ed io amo Frà, più
della
mia vita» ripetei convinta, dando
voce ai miei pensieri.
Eravamo
ad un soffio l’uno dall’altra, convincendoci che tutto quello era
sbagliato,
che forse avremmo fatto bene a tornare sui nostri passi, ripercorrerli
e
tornare da quello che era ormai il nostro futuro. Per noi c’era stata
un’occasione, ma l’avevamo perduta.
Il
tempo di Sole e Dario era finito.
«Siamo ancora in tempo»
disse ancora, sempre
meno convinto.
Non
seppi dire se fu colpa del lago, dell’atmosfera quasi fatata, delle
luci o del
silenzio che ci avvolgeva, ma fu come se il destino ci avesse
ritagliato un
angolo di paradiso e lo avesse messo a disposizione per noi.
Un’ora
sola, un minuto, oppure un secondo. Ci avevano dato un’altra
possibilità, una
seconda occasione.
Siamo carne e fiato.
E
non ci volle molto perché le nostre labbra s’incontrassero e i nostri
respiri
finalmente diventassero una cosa unica. Pochi attimi, oltre la nebbia
che si
alzava, c’era una notte limpida che ci aspettava, ci cullava tra le sue
braccia
accoglienti, calde come quelle di Dario che mi tenevano stretta a lui.
Le mie
labbra si dischiusero e accolsero la sua lingua che s’intrecciò alla
mia,
sfiorandola, inseguendola, bramandola come in quelle notti di tanti
anni fa.
Non era giusto quello che stavamo facendo, non era giusto nei confronti
di due
persone che ci avevano aperto il loro cuore, che ci avevano permesso di
amare
di nuovo, oltre tutto quello che ci era successo, ma c’era una forza
che ci
impediva di fermarci.
Dario
mi regalò un bacio a fior di labbra, poi mi guardò. «Dio come mi eri
mancata,
Sole» soffiò, con il volto
travolto dalla passione e gli occhi neri così liquidi da inghiottirmi.
«Ti ho aspettato tanto»
gli confessai, cercando
di ricacciare indietro le lacrime che premevano per uscire, spinte
fuori da
anni passati a struggermi per lui.
«Non smetterò mai di
ripeterti quanto mi dispiace»
mormorò, baciandomi di nuovo.
Posò
le sue labbra sui miei occhi, catturandone una lacrima, poi scese sulla
guancia, all’angolo delle mie labbra ed infine sulla bocca. Intrecciai
le dita
nei suoi capelli e finalmente lasciai il mio cuore libero di battere
per lui,
di nuovo.
«Sarà il nostro segreto»
gli confessai,
costringendolo a cercare i miei occhi. Gli accarezzai quel viso così
ruvido,
così diverso da quello che ricordavo. «Promettimi che non lo saprà
nessuno e che non
accadrà più».
Mi
stavo comportando da egoista, mi ero trasformata in una Sole che
detestavo ma
che sembrava avere il sopravvento sulla razionalità. Non desideravo
altro che
un momento con Dario, senza le bugie, senza i sotterfugi, soltanto io e
lui.
«Va bene» rispose
convinto. «Una volta e poi sarà un addio».
Lo
scostai delicatamente, quel tanto da alzarmi i lembi del vestito e
sfilarmi con
velocità gli slip. Il tempo era poco e la fortuna non era mai stata
dalla
nostra parte. O adesso, oppure mai più.
***
Io
e Sole distesi sul prato, a pochi passi dal lago, baciato da timidi
raggi
lunari che si facevano strada tra la coltre nera di quella sera di metà
Luglio.
Non era un sogno, nemmeno una delle mie tante fantasie da adolescente,
ma la
realtà. Sole era davvero insieme a me in quel momento, stavo
accarezzando di
nuovo quel corpo morbido e caldo che avevo bramato per quasi tutta la
mia vita,
che avevo prima sfiorato timidamente e che poi era diventato mio,
dieci, cento,
mille volte mio. Lo avevo sentito ardere sotto di me, l'avevo
incendiato con i
miei tocchi da inesperto, lo avevo scoperto a poco a poco e lo avevo
amato con
tutto me stesso, con tutto il cuore e l'anima, anche se i miei
sentimenti erano
sempre rimasti nascosti dietro ad una stupida scusa.
Quella
sera, però, non erano implicati giochetti erotici, non dovevo fare
esperienza
per fare colpo sulla Campanella, no. Quella sera eravamo soltanto noi
due,
maturati, adulti ormai, privi di quegli spilli conficcati nei nostri
cuori che
erano le parole non dette, i sentimenti mai dichiarati, le paure celate
dietro
ghigni di scherno, gli sbagli mai ammessi. Ora eravamo stati in gradi
di
sfilare quegli aghi acuminati che ci avevano fatto sanguinare per lungo
tempo,
che ci avevano fatto soffrire inutilmente e così a lungo.
Eravamo
liberi. Liberi dalle costrizioni che io stesso avevo imposto per non
rovinarmi la
reputazione, liberi dalle catene che ci avevano impedito di amarci
pienamente,
liberi da maschere e finte personalità. Liberi, finalmente, di essere
noi
stessi.
Entrambi,
oramai, avevamo capito cos'era realmente l'amore. C'erano voluti anni
prima che
lo affrontassimo, piuttosto che nasconderci come dei vigliacchi da
esso. Ed era
grazie ad Alice e Francesco se questo era stato possibile. Molto
probabilmente
stavamo sbagliando in quel momento, anzi, sicuramente stavamo
commettendo un
errore. Stavamo per tradire le persone che ci avevano aperto gli occhi,
che
avevano scacciato i fantasmi del nostro passato e che ci avevano
catapultati
nel presente, obbligandoci a viverlo come se fosse un dono, attimo per
attimo,
senza rivangare il passato, quello che era stato e che non sarebbe
tornato mai
più.
Eppure
non riuscivo a fermarmi, non riuscivamo a smettere di sfiorarci, di
spogliarci
lentamente l'un l'altro, per unire le nostre labbra in lenti ed
infuocati baci
che sapevano finalmente di noi, di Dario e Sole. Perché, lo sentivo,
quello era
il nostro momento. Lo avevamo atteso per anni, ore e giorni
interminabili ad
attendere che questo arrivasse mentre il nostro cuore sanguinava per le
troppe
ferite che io stesso avevo
inflitto ad entrambi. Finalmente avevamo l'opportunità di vivere il
nostro
amore, di sentirlo scorrere nelle vene, nelle arterie, di sentirlo
riempirci i
polmoni e guarire le cicatrici della nostra anima.
Era
da sciocchi, forse, pensare che fosse stato il destino a regalarci
quell'attimo
di puro incantesimo, ma era come se la sorte, spettatrice per anni del
nostro
tacito amore, ci avesse dato l'occasione di viverlo, di goderlo, di
farci
travolgere da quel flusso di sentimenti, senza scudi, senza dighe che
impedissero al nostro amore di fluire indisturbato. Per cui non potevo
fermarmi,
di nuovo, e non percorrere fino alla fine la strada che il destino
aveva
costruito per me e Sole. Eravamo stretti, mano nella mano, e finalmente
avremmo
finito il percorso insieme, così come lo avevamo cominciato.
Se non
l'avessi fatto, non mi sarei mai sentito completo, avrei sempre
percepito un
vuoto, un buco nero dentro di me che avrebbe risucchiato qualsiasi mio
sentimento, qualsiasi mia emozione. E tutto sarebbe finito quella
notte, anche
se il noi sarebbe rimasto per sempre.
Perché nulla, nemmeno il tempo, sarebbe mai stato in grado di
cancellarci, di
dissolvere quel filo che ci teneva uniti da quando eravamo piccoli, da
quando
ci eravamo incontrati nel giardino della scuola elementare.
Mi
sollevai, inginocchiandomi tra le gambe nude di Sole per togliermi la
giacca di
troppo e slacciarmi i pantaloni eleganti, poi tornai ad avventarmi
sulle sue
labbra che avevano lo stesso dolce sapore di due fragole rosse e
mature. Le sue
mani strinsero alcune ciocche dei miei capelli, spingendomi ancor più
verso di
lei. Era ancora la stessa, ingenua Sole di qualche anno prima, solo con
un
pizzico d’intraprendenza in più. Forse era anche un po' merito mio e
dei miei
insegnamenti, per cui mi ritrovai a gongolare nel mio piccolo. Le
accarezzai le cosce con entrambe le mani, percorrendo le sue gambe per
tutta la
loro lunghezza. Tremavamo entrambi, forse perché ad ogni mia carezza,
ad ogni
nostro respiro, a tutti quei brevi e fugaci sguardi, ai baci rubati tra
un
ansimo e l'altro erano legati ricordi del nostro passato. In fondo, le
nostre
vite erano sempre dipese dall'altro, la sua esistenza era la mia, così
come un
pezzo della sua anima, incastonata per sempre in un angolo del mio
cuore.
Feci
perno su entrambe le braccia e mi sollevai, spinto da una voglia
irrefrenabile
di vedere il viso di Sole. Era buio e la luce della luna e delle stelle
si
rifletteva nelle sue iridi perlacee. Era bellissima con i capelli
scompigliati
e gli occhi spalancati per lo stupore di
tutto
ciò che stava accadendo. Entrambi eravamo stati colti di sorpresa,
nessuno dei
due si aspettava che, sulla riva del lago, si annidavano ancora piccole
scintille della nostra passione, che incendiarono tutto ciò che ci
circondava
con un'ultima ed intensa fiamma, prima di spegnersi per sempre.
Mi
abbassai di nuovo verso di lei, ma preferii il suo seno alle sue
labbra.
Affondai il viso tra le sue perfette rotondità, baciandola e rubandole
qualche
gemito appena accennato. Stavo indugiando, me ne rendevo conto e il
tempo, in
un momento come quello, era prezioso quanto una gemma rara. Se fossimo
stati
fuori troppo tempo, la gente avrebbe potuto insospettirsi della nostra
assenza
prolungata. Per di più, qualcuno poteva sorprenderci da un momento
all'altro,
mandando all'aria non solo gli ultimi attimi che vivevo con Sole, ma
anche
quelli che ancora dovevo vivere con Alice.
«Il
tempo non ci è amico» ridacchiai, sistemandomi al meglio tra le sue
gambe.
«Il
destino lo è stato» rispose lei, con un sorriso «Ci ha dato questa
opportunità»
«E
ne sono felice» dissi, ipnotizzato dalla luce fioca che si specchiava
negli
occhi color perla di Sole. Le accarezzai la guancia con il dorso della
mano,
sentendo il suo viso caldo ed intuii che fosse arrossita. Intrappolai
di nuovo
le sue labbra in un bacio che sapeva di fragola e di vaniglia, un
susseguirsi
di lingue bramose che lambivano ogni millimetro di quella dell'altro.
Le
mani di Sole mi accarezzarono la schiena, fermandosi sul lembo dei
pantaloni.
Intuite le sue intenzioni, mi sollevai quel tanto che bastava per
abbassarli
insieme ai boxer. Sole alzò il busto, affondando una mano tra i miei
capelli e
spingendomi verso di lei, per stenderci di nuovo sul prato.
«Aspetta!»
la fermai, prima che ci ritrovassimo ancora uno sopra l'altro.
«Ho,
ho fatto qualcosa di sbagliato?» domandò timidamente, fuggendo dal mio
sguardo.
Sogghignai
per la sua ingenuità fanciullesca e le baciai la punta del naso.
«Ma
no, stupidotta!» ghignai e la vidi incupirsi «Non voglio rischiare di
diventare
padre ancora una volta» spiegai, facendole un buffetto sulla guancia
paffuta.
Presi
dalla tasca posteriore dei pantaloni il portafoglio e afferrai il
preservativo
dalla taschina interna. Glielo mostrai, con un sorriso sghembo, mentre
le sue
pupille si dilatavano per lo stupore e l'imbarazzo.
«Lezione
numero due. Usare le precauzioni» le ricordai e Sole sorrise, scuotendo
la
testa.
«A
te non è servita poi granché» si burlò di me, riferendosi
implicitamente
all'incidente accaduto con la Campanella.
Finsi
di imbronciarmi e la strinsi di nuovo, spingendola verso il terreno. Mi
avvicinai al suo collo e cominciai a mordicchiarlo, solleticandola con
la mia
barba e facendola ridere. Il suono della sua risata riempì quel piccolo
spazio
che ci eravamo ritagliati sulla riva del lago, in quella gabbia di
cristallo e
luce in cui eravamo stati rinchiusi e mosse le corde del mio cuore. I
leggeri
morsi, presto, diventarono piccoli e sporadici baci sulla sua pelle che
sapeva
di dolce.
Mi
allontanai per qualche secondo dal suo corpo e indossai le precauzioni.
Tutto
era pronto per quel magico momento, per quell'addio, per percorrere
fino in
fondo il sentiero del nostro amore. Scivolai lentamente dentro di lei,
facendomi avvolgere dal suo calore, dal suo profumo che era sempre più
intenso,
dalla nebbia che, leggiadra, volteggiava come fumo in balia del vento.
Mi mossi
dentro di lei, intrappolando di tanto in tanto le sue labbra con le
mie, quando
gli ansimi e i gemiti lo permettevano. Era tutto perfetto. Quella
fantastica
atmosfera surreale, quasi uscita da un libro di Tolkien, lo sciabordio
dell'acqua del lago che si mischiava alle nostre voci, noi due stretti,
diventati ancora una volta un tutt'uno.
Qualcosa,
però, ruppe quell'equilibrio, uno strano fruscio che udii nonostante
fossi
concentrato sul corpo di Sole. Mi sollevai su un braccio per guardarmi
intorno,
senza però sciogliere il nostro intimo legame. Cercai con gli occhi
qualcosa o
qualcuno. Era come se ci stesse osservando, come se due occhi
dall'indefinito
colore stessero scrutando attentamente quello che stava succedendo e
che sarebbero
diventati custodi del nostro segreto.
«Co-cosa
c'è?» domandò Sole, spaesata, strizzando gli occhi per una scossa di
piacere.
«Nulla»
risposi.
In
giro non c'era nessuno. Magari ero solo io che mi immaginavo le cose,
era la
mia morale che si stava ribellando e che mi provocava strane
allucinazioni.
Quello che stavamo facendo era sbagliato, lo sapevo bene e lo sapeva
anche la
mia coscienza, e forse, appena avremmo concluso, mi sarei sentito in
colpa nei
confronti di Alice per averla tradita, ma era così che tutto doveva
finire, era
così che il mio cuore si sarebbe risanato, solo così potevamo dirci
veramente Addio.
*°*°*°*°
Non ho molto da dire su questa shot, salvo che si riallaccia
al capitolo 27 de Il meraviglioso mondo di Alice ''Viva gli
sposi'', dategli un'occhiata se non lo avete già fatto. Ringrazio
la mia lOver che ha scritto e descritto meravigliosamente il PoV di
Dario, per un'allegra rimpatriata tra ex e ne abbiamo viste proprio
delle belle. Spero solo che possa piacervi e che, nonostante tutto,
capiate quanto queste due persone si sono amate in passato e forse,
l'eco di questo amore, potrà giustificare il loro gesto anche solo in
minima parte.
Grazie a chiunque leggerà ♥