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Autore: IoNarrante    11/01/2012    5 recensioni
Missing Moment del capitolo 27 de Il meraviglioso mondo di Alice
Dario e Sole, un castello adagiato sul lago di Bracciano, un matrimonio a fare sfondo e l'opportunità di chiarirsi finalmente e di lasciar spazio, per una volta, al cuore.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sei nell’anima

Colonna Sonora: Sei nell'anima_Gianna Nannini

È la tenerezza che ci fa paura.

L’odore del caffè di prima mattina, alla Tazza d’Oro, era una delle cinque cose che preferivo del centro di Roma. Costretto a un’alzataccia fuori programma, quel giorno non poteva che cominciare nel migliore dei modi, con un bell’espresso fatto apposta per tirarmi su di morale.
«
Lo zucchero è qui» mi comunicò il barista.
«
Grazie» gli risposi, afferrando una bustina.
Alle 9.00 di mattina mi dovevo far trovare sotto casa di Sole, vestito e lustrato di tutto punto per andare a un tedioso matrimonio di non so quale amico, Renza-qualcosa, che si era preso la briga di invitare tutti i compagni del liceo. Da bravo ragazzo quale ero diventato, mi sarebbe toccato accompagnarla a quella cerimonia, nonostante avessi in mente una miriade di altre cose sicuramente più interessanti da fare con lei.

Veramente ne hai solo una in testa, solo che svicola in diverse posizioni.
Roteai gli occhi al cielo e desiderai con tutto me stesso che per una volta la mia coscienza si prendesse la briga di avvertirmi, prima di sparare a salve questi pensieri, ma come ogni emozione umana, non si poteva spegnere con un semplice interruttore.
Girai il caffè con il cucchiaino, permettendo allo zucchero di sciogliersi lentamente, ma quando portai la tazzina alle labbra, qualcuno mi diede un bello spintone e per poco non mi rovesciai tutto addosso.
«
E che cazzo!» sbottai infuriato, voltandomi.
Ovviamente il tizio non si era minimamente girato, né accorto di avermi quasi fatto macchiare la camicia che Sole aveva scelto per il matrimonio.

Mantieni la calma, sei in un luogo pubblico.
Luogo pubblico un cazzo! Magari ero anche passato dalla parte del bene, visto che Sole era riuscita ad ammansirmi, ma un affronto era un affronto e l’orgoglio di Francesco Russo era come la sua coscienza: non si poteva pigiare sul pulsante off.
«
Ehi!».
Il moretto camminava facendosi largo tra la calca e notai che anche lui era vestito di tutto punto. Era un figlio di papà bello e buono, già da come si muoveva tronfio e altezzoso.
«
Ehi, tu!» lo chiamai di nuovo.
Mi stava forse ignorando?

Calma, Francesco. In fondo con tutto questo caos potrebbe non averti sentito.
Cercai di farmi largo tra la gente che affollava il bar di prima mattina e ormai avevo abbandonato del tutto il mio espresso, dal momento che la metà era stata versata sul bancone. Già mi giravano perché mi sarei aspettato di passare l’ultima mia settimana nella Capitale a rotolarmi nel letto con la mia ragazza, prima di partire per quell’Erasmus massacrante, inoltre, ci si metteva anche il matrimonio di quel deficiente che non poteva aspettare momento migliore per aggiungere un +1 alla lista degli invitati.
Mannaggia a me e a quando avevo accettato.

Ti ricordo che la piccola Sole ha dei metodi piuttosto efficienti per convincerti.
Arrossii violentemente al ricordo di quando me lo aveva chiesto, durante il viaggio di ritorno dal villaggio in Puglia. Ci eravamo fermati ad un autogrill, mentre gli altri erano andati a cazzeggiare altrove. Beh, dovevo ricordarmi di non rimanere più in macchina da solo con lei se voleva chiedermi un favore.
Riuscii a evadere un paio di vecchietti che discutevano animatamente di politica, quando finalmente il bellimbusto si fermò alla cassa ed estrasse il portafoglio. Montblanc, allora era proprio un fottuto figlio di papà.

Come te, del resto.
«Scusami!» ripetei più convinto, allungando una mano e picchiettando sulla spalla da rugbista del tizio coi capelli scuri.
Stavolta si voltò e mi squadrò da capo a piedi con le iridi più scure che avessi mai visto. Non erano nere, no, sarebbe stato troppo riduttivo descriverle con quel colore. Sembravano le piume di un corvo, cupe e tenebrose come una notte passata da solo in un cimitero abbandonato.
Rabbrividii.
I capelli erano dello stessa, identica, tonalità.
«
Che vuoi?» sbuffò infastidito, senza smetterla di lanciarmi uno sguardo di superiorità che proprio non digerivo. Era uno di quei classici stronzetti che se la tiravano, proprio il tipo che io e Giorgio avremmo preso sempre per il culo a lezione.
La Luiss era piena di quei ragazzi lì, che facevano tanto i gradassi e i superiori con i loro vestiti firmati, poi andavano tutti dal papi a chiedere l’assegno. Da quando il mio era al gabbio, il compagno di mia madre aspettava solamente la mia imminente laurea per nominarmi Dirigente.
«
Vorrei le tue scuse» risposi sprezzante. «Prima mi hai quasi fatto rovesciare addosso il caffè».
Il suo sguardo di sufficienza mi fece capire che era un tipo suscettibile.
«Te sbagli».
«
Non credo proprio» insistetti, senza mai abbandonare i suoi occhi. «Mi hai quasi macchiato la camicia».
Il tipo sfoderò un sorriso beffardo, di quelli brevettati.
«Hai detto bene, quasi», poi si voltò e ordinò un cappuccino alla cassa.
Non mi sarei certo fatto mettere i piedi in testa da quella specie di damerino dall’aria altezzosa con un manico di scopa infilato su per il culo. Sembrava avercelo solo lui. Cazzone.
«
Scusami» insistetti ancora, stavolta mettendogli una mano sulla spalla.
«
Che fai, tocchi?» ringhiò indispettito, lanciandomi uno sguardo di sfida.
Voleva fare a pugni per caso? Avrebbe trovato pane per i suoi denti, perché a furia di avere amici idioti come Stefano, finivamo una volta sì e l’altra pure a scazzottarci con gente sconosciuta.
«
Stai calmo, bello» lo frenai, visto che eravamo ancora in uno dei bar più famosi della Capitale.
«
Senti amico» cominciò.
«
Non sono amico tuo» mi misi sulla difensiva.
Il moro sorrise, poi ripose il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni eleganti.
«Bello, non cerco rogna, anche perché qui fuori c’è la mia ragazza e dobbiamo andare a una festa. Vuoi le tue scuse? Beh, scusami per averti quasi rovesciato il caffè addosso».
Mi aveva preso per un cretino? Cos’era? Una specie di misero tentativo di darmi il contentino? Come se fossi un povero idiota?
«
Non prendermi per il culo!» ringhiai infastidito.
Forse era una reazione un po’ esagerata per un semplice spintone in un luogo affollato come quello, ma quel tipo non mi andava a genio per niente. C’era qualcosa in quell’aspetto affascinante che mi dava sui nervi, come se avesse scritto in faccia di essere un vero stronzo.

Ti stai guardando allo specchio, per caso?
Quello sghignazzò schernendomi. «Si può sapere cosa vuoi da me?» mi chiese ed io mi ritrovai senza risposte.
Effettivamente non sapevo spiegarmi il motivo per cui provassi tanta ostilità nei suoi confronti, eppure percepivo ogni fibra del mio corpo che mi metteva in guardia. A salvarlo intervenne lo squillo del mio cellulare.
Lo presi dal taschino della giacca e risposi. Ovviamente era Sole che mi cercava.
«
Ti aspetto da più di mezz’ora, è successo qualcosa?».
Era sempre pronta a preoccuparsi per gli altri e, a differenza delle mie innumerevoli week-girl isteriche, non era mai arrabbiata. Dolcezza era l’unica parola che mi sovveniva quando pensavo alla mia ragazza.
Sorrisi senza pensare, mentre sentivo la rabbia scemare alla stessa velocità con cui era sopraggiunta.
«
Sto arrivando» le risposi calmo. «Tra cinque minuti sono da te».
Chiusi la comunicazione e mi ritrovai gli occhi carbone di quel tizio che mi scrutavano attentamente. D’improvviso mi sentii uno sciocco ad aver organizzato tutta quella messa in scena da bullo della scuola, perciò scrollai le spalle e tirai fuori le chiavi della mia Audi.
«
Niente, devo andare» sbuffai, squadrandolo da capo a piedi.
Quel tipo non mi piaceva, ma avevo ben altre cose cui pensare.
«
Era la tua ragazza, vero?» mi chiese quello.
«
Fatte i cazzi tuoi!» ringhiai, visto il modo in cui mi aveva trattato.
Il sorriso arrogante riapparve ed io pensai che quel tipo mi stesse studiando.
«Anche a me è successa la stessa cosa, tranquillo».
«
Ma che vai blaterando?».
«
Io e te siamo uguali, si vede. Solo che abbiamo trovato due persone che ci hanno imbrigliato per bene, o sbaglio?».
Si era fumato un’intera piantagione di marjuana e ancora parlava? Avevo attaccato bottone con uno squilibrato, adesso ne ero più che certo.
«
Credi di conoscermi?» lo provocai.
Il ragazzo scrollò le spalle, poi si infilò una mano nella tasca dei pantaloni.
«Ho detto solo quello che pensavo. Se mi sono sbagliato, ti chiedo scusa. È solo che si vede dal tuo sguardo che sei innamorato, tutto qui».
Già facevo fatica a sopportare Giorgio quando mi psicanalizzava, figuriamoci uno sconosciuto nel giorno più afoso di tutto Luglio.
«
Senti amico, mi piacerebbe stare a chiacchierare qui con te ma ho altro di meglio da fare» tagliai corto, imboccando la porta.
«
Ehi!» mi chiamò quello ed io mi voltai, anche se avrei fatto meglio a tirare dritto. Gli occhi corvini di quel ragazzo erano dannatamente espressivi, quasi come quelli di Sole. «Non sono amico tuo».

***

Sospeso e immobile, fermo immagine, un segno che non passa mai.

Sistemai meglio il pettinino nello chignon che mi ero fatta, lasciando cadere qualche boccolo qua e là che andasse ad incorniciarmi il viso fin troppo rotondo. Mi guardai complessivamente allo specchio, ondeggiando il vestito color lavanda che mi ero comprata insieme a Francesco per il matrimonio di Tommaso.

L’invito mi era arrivato poco prima di partire per la Puglia e anche se avevo ancora le valigie da fare e le ultime cose da sistemare prima di partire per Bali, non avevo saputo dirgli di no. Renzaglia era qualcosa che mi teneva inevitabilmente legata al passato, a quei terribili anni del liceo, ma che mi ricordava, giorno dopo giorno, quanto fossi cambiata da quella ragazzina immatura che ero un tempo.
È un ricordo che non puoi cancellare dalla tua memoria.
Ovvio che non potevo cancellarlo, anzi. Mi premuravo sempre di ripensarci ogni tanto, di rendermi conto di quanto fosse sbagliato quello che io e Dario avevamo fatto in passato e che, in fondo, era meglio se fosse finito tutto.
Adesso Frà era il mio centro di gravità, attorno cui girava tutto il mio mondo. Sapevo che il nostro rapporto non era nato come le più grandi storie d’amore di tutti i tempi, che lui mi aveva ingannata, come Dario in passato, ma a differenza sua, non aveva avuto paura del futuro, aveva preso in mano la situazione e si era esposto.
Vitrano era scappato, aveva preferito fuggire invece che affrontare i problemi, mi aveva barattata per quella libertà che non si era potuto scavare in una famiglia che non lo aveva mai accettato veramente. Fra sé stesso e me, aveva scelto Dario.
In fondo me lo sarei dovuto aspettare, perché fin da piccolo era stato molto egocentrico e fiero della sua bellezza. Io avevo sempre dovuto fare i conti con i chili di troppo, con i capelli in disordine, con i brufoli e gli occhiali che mi facevano sembrare una sfigata, ma alla fine avrei rinunciato a tutto per lui.
A tutto quello che avevo.
Mi sedetti di peso sul letto a baldacchino, rimasto identico da quando andavo al liceo. C’era ancora la sopra-coperta di fiori, i cd sparsi sulla scrivania, il computer abbandonato in un angolo e vecchie foto che ritraevano me, Serena e Betta ai tempi del Montale. Sbuffai in attesa dell’arrivo di Frà e nel frattempo sbirciai i contorni della mia stanza come se non la vedessi da chissà quanti anni. Quelle quattro mura ne avevano viste di avventure, dalle costruzioni con i Lego ai primi baci che ci eravamo scambiati proprio su quel letto. Al ricordo di cosa avevamo fatto avvampai, cercando disperatamente un foglio di carta per non sudare e farmi sciogliere tutto il trucco. Aprii di corsa il cassetto del comodino e trovai un libro, il Ritratto di Dorian Gray, lo afferrai e cominciai ad agitarlo nel tentativo di ricavarne un po’ di sollievo.
Inspirai ed espirai senza entrare in iperventilazione e proprio quando cominciavo a sentire un po’ di frescura sulle guance arrossate, dalle pagine del libro schizzò fuori un foglio che cadde sul pavimento. Scesi dal letto, facendo tintinnare i tacchi dei sandali sul parquet, poi mi chinai ad afferrare il foglio ma quando lo vidi, per poco il cuore non mi uscì dal petto.
C’era il sorriso di Dario davanti ai miei occhi, uno dei primi scatti fatti con la Reflex che mi aveva regalato e di cui ancora andavo fiera. Improvvisamente mi ritrovai trasportata indietro di anni, quando il ricordo di quello scatto era vivido nella mia memoria.
«Sono proprio un modello!» sghignazzò Dario, sfoderando quel sorriso sghembo che mi aveva sempre fatto battere il cuore.
«Smettila di fare il buffone» lo redarguii seria. «Voglio una fotografia vera, che ritragga il lato migliore di te».
Fu allora che la sua mano si era stretta attorno al mio polso, facendomi fremere incontrollatamente. Anche se soltanto ripensavo a quelle iridi color petrolio mi venivano i brividi, mi sentivo affiorare la pelle d’oca come se avessi ancora sedici anni. C’eravamo stati sempre io e Dario, l’uno per l’altra, l’uno nell’altra.
«Sei tu il lato migliore di me».
No, non avrei mai potuto cancellarlo e mi rendevo sempre più conto che anche se Francesco me lo avesse chiesto, come favore personale, non ne sarei mai stata in grado. Vitrano era sempre stato parte della mia vita, nel bene e nel male, il petrolio dei suoi occhi scorreva all’interno del mio corpo, cavalcando il sangue nelle vene e portando ossigeno al cuore. Ecco, quello era Dario.
«Ehi!». Francesco entrò di colpo nella mia camera da letto e per poco non lanciai un grido per la sorpresa immediata. «Che hai?» domandò preoccupato, vedendo la reazione che avevo avuto.
«N-Niente» mentii, nascondendo la foto di Dario dietro la schiena e appallottolandola come se fosse carta straccia.
Per fortuna Frà non sospettò nulla, anzi, mi si avvicinò col sorriso più bello che avessi mai visto e cercò le mie labbra, posandovi un bacio. Il sapore di cacao mi invase la bocca e sentii il cuore che martellava forte nel mio petto, facendomi immediatamente vergognare dei pensieri che avevo avuto fino a poco tempo prima. Quella fotografia bruciava racchiusa tra i miei palmi, perciò con un agile gesto, la lanciai sulla scrivania, in modo che si perdesse tra le altre cartacce.
«Sei bellissima» mi soffiò sul viso ed io non potei fare altro che posargli le mani sulle spalle.
«Non è vero» arrossii prontamente.
Frà sorrise e le fossette sulle sue guance tornarono a fare capolino dopo un tempo che mi era sembrato infinito. Dario e il nero dei suoi occhi appartenevano al mio passato, ad una Sole che adesso era cresciuta, era cambiata, anche grazie ad un certo Russo che ora la fissava con le iridi più azzurre di un cielo d’estate.
«Io avrei in mente un modo per dimostrartelo…» sussurrò malizioso, facendo cadere appositamente la spallina del mio vestito.
In due nanosecondi divenni color aragosta.
«D-Dobbiamo andare…» tentai di dirgli, ma era quasi del tutto impossibile resistergli.
Quel suo viso pulito, quei capelli così biondi da sembrare quasi pagliuzze d’oro e quel sorriso sincero che sarebbe stato capace di strapparmi via l’anima. Francesco era tutto questo, era l’opposto di Dario, l’azzurro e il nero, il biondo e il Moro…
Frà era la mia luce ed io lo avrei seguito, sempre.
Indietreggiammo verso il mio letto, quando le nostre labbra avevano cominciato a rincorrersi, ad inseguirsi fameliche. Sapevo che Francesco aveva accettato di partecipare al matrimonio soltanto per me, ed io gli dovevo tutto. Si era offerto di seguirmi a Bali, di rinunciare alla sua carriera per me, per la nostra storia, perché ci credeva.
In due settimane Francesco aveva fatto quello che Dario non era riuscito a fare in sette anni.
«F-forse… è meglio… Frà…» provai a fermarlo, ma quando le mie ginocchia toccarono il bordo del letto, Francesco posò tutto il suo peso sul mio corpo affinché cadessi supina sul materasso.
«Shhhh, c’è tempo ed io ti voglio» sussurrò sulla mia pelle, lasciando languidi baci sul collo, poi scendendo verso il mio petto mentre sentivo chiaramente la temperatura del mio corpo che raggiungeva la soglia dei quaranta gradi.
Le mie mani s’intrecciarono in quei fili d’oro che erano i suoi capelli e tutto intorno a me percepivo distinto il profumo della sua pelle, quell’odore di cacao amaro, come quello che sentivo quando nonna faceva il ciambellone.
Tutto di Frà mi ricordava una casa, una famiglia. Lui era tutto quello che avevo sempre desiderato.
«Ragazzi, Betta e Serena sono arrivate!» mia madre di punto in bianco piombò nella stanza e Francesco fece appena in tempo ad alzarsi da sopra il mio corpo e a lanciarsi sulla sedia girevole di fronte alla mia scrivania, prima che lei desse di matto.
«S-Sì!» risposi, rossa in volto, cercando di aggiustarmi i capelli che pendevano da tutte le parti per l’improvviso attacco di Frà.
Mia madre ci fissò col sorriso sulle labbra. «Siete bellissimi» sospirò, con la mano sul cuore e in quel momento avrei voluto sprofondare nella mia stessa vergogna.
«No, sua figlia è bellissima» rispose il mio ragazzo, beccandosi un’occhiataccia dalla sottoscritta.
«Ed io che glielo dico sempre di conciarsi in modo un po’ più femminile! Sempre con quei jeans e quelle scarpe da ginnastica!» sbottò.
«Un filo di trucco non guasta mai».
«Dobbiamo andare!» m’intromisi, afferrando Francesco e la pochette e fiondandomi fuori dalla mia camera prima che mia madre e il mio ragazzo facessero comunella come due vecchie comari.
«Ehi! Cos’è tutta questa fretta?!» bofonchiò Frà, camminando sbilenco per via del malo modo in cui gli avevo afferrato il braccio.
Fummo in ascensore dopo pochi secondi, con il mio dito che pigiava furiosamente sul tasto ‘T’ in modo da raggiungere il più in fretta possibile il pian terreno. Mia madre che irrompeva nella mia stanza non era certo una novità, ormai c’ero abituata. D’improvviso ripensai a quelle volte in cui era apparsa senza preavviso sulla soglia, quando io e Dario eravamo impegnati in quei suoi esperimenti per farsi la Campanella.
Ancora lui.
Basta! Dovevo smetterla.
Le porte dell’ascensore si aprirono e stavolta intrecciai le dita attorno a quelle di Frà, ritrovando quella mano grande e calda che profumava di cacao. Cercai il suo sguardo e lui mi sorrise.
«Sei pronto?» gli chiesi, alludendo al fatto che non aveva la minima voglia di andare al matrimonio di Tommaso.
«Per te, sì» mi rispose ed io mi diedi della sciocca per aver sempre vissuto in funzione di un fantasma.
Dario ormai era il mio passato, qualcosa che non mi apparteneva più. Non ci vedevamo da cinque anni e dovevo metterci una pietra sopra. Avrei dovuto parlare al mio cuore e dirgli di smettere di sperare, perché lui non ci sarebbe più stato per me. Adesso avevo Frà e mi bastava.
 
***

Quanta tenerezza,
non fa più paura.
 
La navata della chiesa di San Marco era immensa e addobbata di fiori. A destra e a sinistra si erano già disposti tutti gli ospiti che chiacchieravano in attesa dell’arrivo della sposa.
Strizzai gli occhi e tentai di dare uno sguardo a quel poveraccio che stava di fronte all’altare. Non lo avrei mai invidiato, visto che si stava ammanettando da solo.
Zitto che tu non sei da meno.
Cancellai velocemente quell’ultimo pensiero che la mia cara e vecchia coscienza si premurava sempre di rammentarmi, dopodiché sentii Sole che mi tirava per la manica della giacca.
«Da questa parte» sussurrò, indicandomi una delle panche.
Avevamo fatto tutto il viaggio d’andata con le amiche svitate di Sole. Svitate era un complimento. La biondina si poteva anche salvare, perché sembrava fosse uscita da un film di Audrey Hepburn. Persino il tailleur che aveva scelto, con cappellino coordinato era in pure stile America anni ’50.
L’Altra invece, quella era una spina nel fianco. Non le ero mai andato a genio, fin dalla vacanza in Puglia, ma nonostante avessi ammesso i miei errori, la sua opinione nei miei confronti non era cambiata. Mi squadrava da capo a piedi come se fossi un demone o Satana in persona, per non parlare dello sguardo di sufficienza che mi rivolgeva ogni qual volta veniva a sapere che sarei uscito assieme a loro.
Per quale motivo Sole frequentasse ancora quella tipa, era un mistero.
«Quanta gente!» esclamò la bionda eccitata, togliendosi le forcine dai capelli e posando il cappellino in grembo.
«Io non conosco nessuno» brontolò Betta-Vedovanera.
Sole, di fianco a me, alzò lo sguardo e si agitò sul suo posto per osservare meglio chi c’era davanti a noi. «Magari c’è qualcun altro del Montale» pensò ed io fui raggelato da un pensiero improvviso.
Mi aveva raccontato tutta la storia del Moro e di quella scuola che aveva costretto Sole a trasferirsi, a cambiare istituto per via delle prese in giro e del bullismo che girava tra quelle mura. Strinsi le mani a pugno e tentai di calmarmi. Non era detto che ci sarebbe stato anche lui, o almeno, lo speravo.
Nonostante sapessi che lui si era trasferito a Milano, c’era qualcosa che mi rendeva inquieto, che mi faceva stare stranamente sulle spine. E non si trattava degli occhi scuri di Betta che mi trafiggevano l’orecchio.
Sapevo perfettamente che mi stava fissando in cagnesco, perciò mi voltai di scatto e le feci una smorfia che la sorprese.
Comportamento davvero maturo.
Elisabetta sulle prime spostò lo sguardo davanti a lei, poi lentamente fece risalire una mano e mi mostrò chiaro e tondo il suo dito indice, con tanto di brillocco.
«Volete finirla, siamo in chiesa!» sospirò Serena, redarguendoci nemmeno fossimo dei bambini dell’asilo.
«È lei che mi fissa!» protestai, poi sentii una mano di Sole che si avvolgeva attorno alla mia e ritrovai i suoi occhi grigio perla.
Un solo sguardo e il respiro mi era morto in gola.
Il chiacchiericcio fu interrotto dall’arrivo della sposa, così la classica marcia nuziale di Wagner fu intonata e tutti gli invitati si alzarono in piedi per l’arrivo più atteso. Sole tentò in tutti i modi di sporgersi al di là della panca in modo da vedere la sposa in tutto il suo splendore e lei non si fece attendere.
Riuscii a vederla di sfuggita, con il velo calato sopra il viso e il colore nero distinto dei suoi capelli, racchiusi in un elegante chignon. Era molto alta e il vestito bianco le cadeva a pennello, quasi fosse nata per indossarlo.
Chissà come starebbe Sole vestita di bianco.
E quel pensiero sfuggì al mio controllo proprio quando la mia ragazza mi guardò e sorrise. Sarei davvero stato disposto a fare quel grande passo? Francesco Russo, quello che cambiava una ragazza alla settimana, che era allergico ai rapporti fissi, che non aveva mai avuto una fidanzata in tutta la sua vita, sarebbe stato disposto a sistemarsi?
Ma la vera domanda era un’altra: cosa avrei fatto per lei?
Il ricordo di quella vacanza mi travolse come un’onda e se non avessi avuto la panca a cui sorreggermi, sarei franato come un sacco di patate. Avevo passato tutta la vita ad inseguire i sogni degli altri, a sfuggire da una vita che mi stava troppo stretta e ad evitare ad ogni costo le mie responsabilità. Ventitré anni vissuti all’ombra di un padre, ma erano bastate soltanto due settimane per innamorarmi.
Sole era riuscita a raccogliermi, a tirarmi via dal baratro in cui stavo lentamente cadendo e con la sua ingenuità e semplicità, mi aveva conquistato. La sua purezza d’animo era disarmante, così buona e pronta ad amare. Il suo amore sarebbe bastato per entrambi, ma avevo deciso di mettermi in gioco finalmente.
La sposa arrivò all’altare e lasciò il padre con un sorriso. Il ragazzo che non riuscivo a vedere molto bene le scostò il velo dal volto e la cerimonia ebbe inizio.
Ci sedemmo quasi contemporaneamente, poi avvertii le dita di Sole che s’intrecciarono alle mie. Di certo non ero sicuro di quanto quella storia sarebbe durata, se avremmo solcato anche noi una navata un giorno.
Soltanto di una cosa ero certo: Sole era il mio mondo adesso, e per lei avrei fatto qualunque cosa.

***
 
Odiavo i matrimoni. Non sopportavo dovermi vestire elegante, indossare un abito scomodo che mi faceva patire un caldo sahariano, strangolarmi con una cravatta di dubbio gusto e colore, e calzare un paio di scarpe di vernice che mi distruggeva i piedi. Odiavo i matrimoni ancor più se, tra gli invitati, c'era anche Elisabetta Renn, l'essere più insignificante che avessi mai conosciuto. Non l'avevo mai sopportata e il sentimento era corrisposto da quella zitella acida. Non le era mai andato giù il fatto che io e Sole stessimo insieme. Ok che la storia con la D'Amato era alquanto strana ed equivoca, ma sia io che Sole sapevamo quanto fosse forte ed intenso ciò che ci aveva legati. Era stato un grande amore, il mio più grande amore e Betta aveva sempre fatto di tutto per allontanare Sole da me. Non ero stato uno stinco di santo, anzi ero stato un bastardo con la b maiuscola, ma il nostro era stato un sentimento vero e anche Serena lo aveva capito. E aveva inteso anche ciò che avevo sempre cercato di nascondere agli altri, era stata una delle poche che era andata oltre l'apparenza, anche se tra di noi non c'era mai stato un dialogo che era andato più in là di un Come stai?, tranne le rare volte in cui mi prendeva in disparte, cercando di aprirmi gli occhi.
Non solo la presenza di Renn era urticante quanto uno spray al peperoncino, ma mi aveva fatto subito pensare che lì, tra le centinaia di persone che affollavano il castello, ci fosse anche Sole. Quando ne avevo parlato poco prima con Alice in macchina era solo una pallida illusione, ma non appena avevo visto le Veline – ossia Elisabetta e Serena – quello che mi era sembrato solo un'immagine sbiadita, aveva acquistato sempre più consistenza. Molto probabilmente Sole era lì, anzi, quasi certamente e non sapevo se volessi incontrarla, rivederla dopo cinque anni, o meno. Non avrei saputo che dirle, non avrei saputo che fare e soprattutto non avrei saputo come reagire se mi fossi ritrovato di fronte il suo viso. E non sarei nemmeno stato in grado di guardarla negli occhi, perché non ne avevo il coraggio, forse per quello che le avevo fatto, forse perché avevo paura di perdermi nuovamente nel mare perlaceo e tranquillo delle sue iridi, che erano sempre state lo specchio in cui si rifletteva la mia anima per ciò che era realmente, senza finzioni, senza maschere.
«Vado a prendere qualcosa da bere» dissi, sentendo la bocca e la gola ardere a causa del caldo asfissiante. Mi avvicinai alle labbra di Alice, sfiorandole con le mie e allontanando con quel breve contatto il pensiero di Sole dalla mia mente «Mi è venuta sete. Tu aspettami qui. Magari ti porto anche qualcosa da mangiare» aggiunsi, abbozzando un sorriso.
Un lieve rossore colorò le guance della mia piccola, rendendola ancora più bella. Nella mia vita ormai c'era Alice, lei aveva preso il posto di Sole, nonostante quest'ultima avesse ancora uno spazio nel mio cuore, una piccola parte che non batteva più da quando ci eravamo detti addio.
Mi avviai a passo spedito verso il buffet, sperando di non incontrare di nuovo Elisabetta. Non avrei sopportato ancora i suoi insulti e non le avrei messo le mani addosso solo perché era una ragazza. Doveva solo ringraziare il suo doppio cromosoma X, sennò si sarebbe ritrovata quel suo bellissimo visino di bambola spiaccicato contro un muro. Evitai accuratamente vecchi e noiosi parenti che non vedevo da anni e salutai velocemente quelli che mi riconoscevano. Non avevo voglia di fare delle rimpatriate di famiglia, soprattutto con cugine di sesto grado e prozii prossimi alla bara. Mi avvicinai al tavolo, allungando un braccio per prendere un calice riempito di spumante ambrato e frizzante, ma una mano grande si intromise tra me e la mia bevanda. Sollevai lo sguardo verso la mia sinistra, incontrando un paio di occhi azzurri quanto il cielo che quel pomeriggio faceva da sfondo al matrimonio di mia cugina. Due occhi che avevo già visto poche ore prima.
«Ancora tu?» sbottò il biondino, figlio di papà, vestito con un completo che valeva quanto il mio stipendio a radio Deejay.
«Era la stessa cosa che stavo per dire io» ribattei, alzando l'angolo della bocca in un ghigno.
«Che fai, mi segui per caso?» continuò, sorseggiando il mio spumante.
«Semmai è il contrario, amico. Questo è il matrimonio di mia cugina» spiegai con naturalezza, affondando una mano nella tasca dei pantaloni.
«Smettila di chiamarmi amico» sibilò il biondino, irritato «E poco mi importa chi si sposa. Sono qui solo per accompagnare la mia ragazza. Ma a quanto pare avrei fatto meglio ad ascoltare la mia coscienza e starmene a casa. Ai matrimoni si fanno sempre incontri sgradevoli. Parenti insopportabili, amici di amici, cugini della sposa...» disse ironico, alzando un sopracciglio e guardandomi da sopra il bicchiere mentre si scolava l'intero calice.
«Si può sapere che cosa ti ho fatto? Ho rischiato di macchiarti la camicia costosa, eh?» domandai sarcastico ed irritato per l'astio inspiegabile che quel ragazzo aveva nei miei confronti «Con quel completo potresti sfamare interi villaggi africani»
«Senti chi parla» bofonchiò «Non mi sembra che tu vada in giro con le pezze al culo»
Istintivamente abbassai lo sguardo e guardai il mio smoking. Aveva ragione il biondino dato che quell'abito lo avevo pagato un occhio della testa, ma almeno io non avevo la puzza sotto al naso tipica degli snob come quel ragazzetto con i colpi di sole.
«Capirai. È un semplice smoking» tagliai corto, pur di non dare ragione al biondo. Afferrai al volo un bicchiere di spumante dal vassoio di un cameriere che mi sfrecciò accanto.
«Che avrai pagato du'mila euri» bisbigliò, cercando forse di non farsi sentire da me.
«E anche se fosse? Dobbiamo star qui a disquisire su quanto abbiamo speso per un dannato completo?» replicai irritato per la piega che stava prendendo quell'assurda discussione. Perché stavamo ancora lì a battibeccare come due stupidi concorrenti del Grande Fratello? Sembrava che fossimo legati, che il nostro astio fosse nato da qualcosa di molto più serio di un semplice spintone in un bar.
«In effetti» convenne con me, con una scrollata di spalle «Non so nemmeno io perché sto perdendo il mio tempo con uno come te, piuttosto che stare un po' con la mia ragazza»
«Nessuno ti trattiene qui» replicai placidamente «Puoi benissimo andartene»
«Non c'era bisogno che me lo dicessi tu» borbottò. Borbottava in continuazione quel ragazzo, era peggio di una pentola piena di fagioli che ribolliva sul fuoco.
Dei tacchi riecheggiarono dietro di noi, finché a quel rumore non si aggiunse una voce dolce, melliflua, che conoscevo fin troppo bene.
«Francesco» sospirò «Dio mio, pensavo ti avessero rapito!»
Il biondino, che dedussi si chiamasse Francesco, si voltò per sorridere alla ragazza che ci aveva appena raggiunti. Io non ebbi il coraggio di imitarlo, non ebbi la forza di girarmi e guardarla negli occhi. Riposi il calice sul tavolo, poi appoggiai le mani, sorreggendomi con l'aiuto di quel legno decorato a festa. Avevo le gambe molli, la temperatura di quell'afoso giorno di luglio si fece quasi insopportabile e la gola mi si seccò.
«Più o meno» bofonchiò Francesco «Mi sono intrattenuto a discutere con questo maleducato» e mi indicò con una mano.
«Francesco!» lo riprese Sole ed immaginai le sue guance diventare rosse per l'imbarazzo «Lo scusi» disse poi rivolta a me, appoggiandomi una mano sulla spalla. Fu in quel momento che decisi di voltarmi, come se il suo tocco mi avesse dato d'un tratto il coraggio di rivedere il suo viso dopo cinque lunghi anni, come se la sua mano avesse risvegliato in me una parte di anima assopita da tempo e che desiderava solo rivedere i suoi occhi.
«Da... Dario» mormorò, con gli occhi spalancati per la sorpresa di vedermi.
Era rimasta quella di sempre, la stessa Moby della quale mi ero innamorato. Sensuale nella sua morbidezza e nelle sue curve perfettamente disegnate dal vestito color lavanda che indossava, dolce ed innocente, con quel viso paffuto che era rimasto immutato da quando l'avevo conosciuta per la prima volta. Era bellissima in quel momento, mentre mi guardava con quegli enormi occhi color perla nei quali annegare e le labbra morbide appena dischiuse. Le avevo baciate così tante volte che anche solo fissandole, sentivo la pienezza e la consistenza di quella morbidezza sulla mia bocca. E avevo una gran voglia di assaggiarle di nuovo, nonostante tutto.
Abbassai lo sguardo, arrossendo come una scolaretta peri pensieri che stavo facendo. Stavo desiderando una ragazza che non avrei mai più riavuto e che, soprattutto, non era la mia fidanzata. Io ero innamorato di Alice, ero consapevole di quanto la mia piccola fosse importante per me. Eppure non potevo dimenticare quello che c'era stato tra me e Sole, non potevo cancellare con facilità tutti i ricordi che mi legavano a lei. Erano impressi nella mia memoria, tatuati nel mio cuore, in quella piccola parte atrofizzata da tempo, che aveva ripreso a palpitare lentamente non appena l'avevo rivista.
«Dario?» ripeté Francesco, quasi sconvolto «Quel Dario?»
«Dipende quale Dario intendi. È un nome molto diffuso in Italia» tentai di sdrammatizzare con una battuta, ma il biondino non sembrò apprezzare il mio sforzo.
«Il pezzo di merda che ha calpestato il cuore della mia ragazza!» sbottò, facendo un passo verso di me, forse per incutermi timore con il suo sguardo trucido, ma se quello era davvero il suo intento, aveva toppato di brutto. Il suo atteggiamento spavaldo, in netto contrasto con le sue fattezze angeliche, mi fece solo sorridere.
«Sì, dovrei essere io» ridacchiai e potevo giurare di aver visto una strana scintilla negli occhi del biondino, quasi volesse uccidermi «E comunque mi sembravi molto più simpatico al telefono» aggiunsi. Altro tentativo di stemperare la tensione, altro buco enorme nell'acqua.
«Quante cazzate hai sparato, eh?» riprese, paonazzo e tutto agitato Francesco «Siamo anime gemelle, il grande amore e altre balle» disse camuffando la sua voce per farla somigliare alla mia «E intanto ti divertivi, ve'? Ti sei fatto le tue belle scopate e poi l'hai abbandonata»
«Smettila Frà» cercò di placarlo Sole, stringendosi al suo braccio e rivolgendomi qualche sorriso impacciato, quasi si volesse scusare per quello che stava dicendo il suo ragazzo.
«Smettila un bel niente!» sbottò di nuovo, scrollandosi di dosso la dolce Sole e venendomi ancora in contro, a pochi centimetri di distanza da me. Eravamo quasi alti uguali, per cui i nostri sguardi si fusero in un istante. L'azzurro e il nero, la luce e l'ombra, il giorno e la notte in conflitto perpetuo, anche quando erano rinchiusi in un paio di iridi, il passato ed il presente di Sole che si sovrapponevano.
«Era da molto tempo che volevo vedere questo fighetto e dirgliene quattro!» sibilò.
«E cosa ne ottieni urlandomi contro?» domandai, senza scompormi, nonostante i suoi giudizi campati per aria cominciavano ad innervosirmi «Ciò che è stato non sarà mai più, quindi più che ammettere che ho sbagliato che devo fare?»
Francesco tentò di rispondere, protendendo l'indice verso di me, ma lo lasciò a mezz'aria rimanendo con la bocca semi-aperta. La richiuse un paio di volte per poi riaprirla e sbatté le palpebre.
Aveva ragione la Campetti, la professoressa di filosofia: avevo del potenziale, solo che ero sempre stato troppo pigro per applicarmi adeguatamente. E lo Scempia aveva completamente sbagliato animale: non ero un asino ragliante, ma uno stanchissimo bradipo. E la mia dialettica, il modo naturale che avevo per zittire le persone lo dimostrava.  Abbozzai un sorriso, compiacendomi delle mie stesse parole.
Sole si avvicinò a noi, afferrando per un braccio Francesco e allontanandolo da me. Gli rivolse un'occhiata, prima di donare i suoi occhi splendenti a me.
«Non, non immaginavo di trovarti qui» disse, stringendosi nelle spalle.
«Nemmeno io» concordai, tenendo d'occhio Francesco che scalpitava alle spalle di Sole, forse geloso delle attenzioni che mi stava rivolgendo la sua ragazza «Però, insomma, è bello ritrovarsi dopo tutti questi anni» continuai, mordicchiandomi il labbro inferiore «Era da tanto che volevo rivederti»
Sole arrossì vistosamente ed abbassò il viso per mascherare il suo imbarazzo. Tossicchiò per schiarirsi la voce e parlò senza alzare lo sguardo da un punto imprecisato sul terreno.
«Già, anche io» mi confidò, stretta nelle spalle.
Tutti i secondi passati lontani, tutti i giorni che ci avevano tenuti distanti e, soprattutto Francesco, non avevano intaccato nulla della splendida persona alla quale avevo detto addio una sera di pioggia sul ponte Milvio. Quello era stato forse il giorno peggiore della mia vita. Avevo calpestato lei ed il suo cuore, ma allo stesso tempo avevo distrutto il mio lasciandola lì, fradicia come un pulcino indifeso, con il peso opprimente di una bugia che gravava su di lei. Le avevo detto di non amarla, che era stata solo un passatempo per me ma non era così, non lo era mai stato e speravo con tutto il cuore che lei avesse capito quanto l'amassi, nonostante non avessi mai avuto il coraggio di dirle Ti amo.
«A-A Milano…» domandò e il suo mi sembrò solo un diversivo per cambiare argomento. Decisi che era meglio per entrambi rimanere il più distaccati possibili dal nostro passato, perché era troppo doloroso ripensare agli ultimi giorni trascorsi insieme a lei «…ti trovi bene?»
«Sì, più o meno» sospirai, scrollando le spalle «Città bellissima, ma non è casa mia». Per quanto avessi desiderato così ardentemente lasciare la mia città, Roma era parte di me, la custodivo gelosamente nel mio cuore e lei si era impossessata di gran parte della mia anima. Quando passeggiavo per le strade della città eterna, mi sentivo a casa, sentivo di appartenerle, così come lei era un pezzo di me. E la stessa sensazione non me la davano le strade nebbiose e grigiastre di Milano, nonostante la città del Berlusca mi avesse fatto amare dopo così tanto tempo.
«Beh, l'importante è che sei libero, finalmente, che non sei più incatenato ad una famiglia che non reputi tale» disse saggiamente Sole. Lei era sempre stata la mia coscienza, una specie di grillo parlante – meno petulante dell'insetto di Pinocchio – che sapeva sempre cosa dire e quando dirlo «E che lavoro hai trovato?» chiese incuriosita.
Deglutii a fatica, ricordando quello che avevo fatto per campare più di tre anni. Quello era sicuramente un particolare da omettere. Già la mia reputazione era rasente allo zero, se avessi detto che ero stato un prostituto sarei sceso nella scala dei numeri negativi.
«Presento un programma su radio Deejay» risposi semplicemente, con un sorriso stiracchiato.
«Ma pensa un po'!» esclamò stupita Sole, annuendo forse a se stessa. C'era distacco tra di noi, lo percepivo. Era come se entrambi avessimo eretto un muro per proteggerci dallo sguardo dell'altro, quasi avessimo paura di ricadere di nuovo nella trappola del nostro amore passato.
«Sì, sì, molto interessante» borbottò il biondino, intervenendo nella discussione infastidito «'ndo sta la tua ragazza?» domandò, ricordandosi il nostro breve incontro al bar. Stava cercando di distogliere la mia attenzione da Sole e ci era riuscito. Mi voltai, guardandomi a destra e a sinistra come se Alice potesse spuntare da un momento all'altro. Mi ero intrattenuto a parlare con Sole e non avevo minimamente pensato che la mia piccola fosse da sola chissà dove, incavolata perché l'avevo lasciata come una stupida.
«Hai una ragazza?» mi chiese Sole, aggrottando le sopracciglia.
«Sì!» esclamai felice, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio «Si chiama Alice. Ed è la mia vita» dissi, guidato dal mio cuore piuttosto che dal cervello. L'amore rincoglioniva, ormai lo avevo capito. Sparavo cazzate e cose romantiche a raffica, senza che me ne accorgessi, ma mi piaceva essere rincoglionito e drogato di Alice.
«E com'è?»
Per la prima volta, da quando avevo conosciuto Alice, mi ritrovavo a dover dare una sua descrizione. Non mi ero mai posto la domanda, per me lei era sempre stata la mia piccola, anche quando ancora io non me n'ero reso conto o non volevo rendermene conto. Era la ragazza che aveva cambiato la mia vita e, per quanto mi sforzassi di trovare le parole per condensare tutto il suo splendido essere, non ci riuscii. Ogni singola parola mi sembrava riduttiva, gli aggettivi sembravano così poveri paragonate alla mia Alice.
«Lei è... lei è...» tentai di rispondere, guardando le bollicine dello spumante risalire il calice «...dolce, è bella, è meravigliosa. Purtroppo le parole non sono sufficienti per descriverla» scrollai le spalle di fronte alla realtà di ciò che avevo appena detto.
«Sei proprio innamorato» osservò Sole con un sorriso tirato.
«Già» sospirai, guardandomi la punta delle scarpe di vernice «Sono pazzo di lei»
E proprio mentre dicevo quelle parole, sentii la voce della mia piccola chiamarmi. Mi voltai verso di lei, incontrando il suo sguardo furente e il suo broncio. Ed era stupenda, nonostante tutto. La afferrai per un braccio e la trascinai verso di me, stringendola, cibandomi avido del suo calore. Ed era maledettamente vero che quella piccola ragazza, che stringevo nelle mie braccia, mi aveva sconvolto la vita.
 
La serata stava andando relativamente bene, nonostante il piccolo e breve diverbio che avevamo avuto io ed Alice. La mia piccola era gelosa di Sole, lo era sempre stata, da quando gliela avevo nominata la prima volta durante il ballo di San Valentino. Magari ero stato un po' ambiguo nei suoi confronti, avevo dimostrato troppo interesse verso la mia ex fidanzata. Ma erano tanti, troppi anni che avevo voglia di rivederla e magari chiarire la situazione con lei, aprendole il mio cuore una volta per tutte. Non sarebbe cambiato nulla e non volevo che cambiasse niente, perché oramai amavo la piega che aveva assunto la mia vita ma Sole meritava di sapere la verità, doveva sapere quanto l'avessi amata.
Infatti, la serata stava andando relativamente bene finché non era arrivato Mauro a rompere l'armonia. Lui era sempre la nota discordante, un tamburo in un'orchestra fatta solo di violini, un urlo fastidioso in un silenzio placido e tranquillo. Doveva sempre parlare a sproposito, intromettersi tra me e i miei sentimenti, insinuare dubbi inutili nella mente di Alice. Era insostenibile mio fratello e più passava il tempo, più non lo sopportavo. Doveva sempre distruggere quello che cercavo di costruire giorno per giorno, lo trovava divertente. Per me, invece, era frustrante dover stare sempre ad ascoltarlo, umiliarmi con le sue parole davanti alle due persone più importanti per me.
Perciò, l'unico modo che avevo per stare da solo con Sole era allontanarmi dal nostro tavolo e da mio fratello. Molto probabilmente quello non andò molto giù ad Alice che mi fulminò con lo sguardo quando le avevo chiesto se potevo andare a ballare con Sole, ma sapevo che avrebbe capito. La mia piccola stava crescendo, stava maturando, per cui ero fiducioso.
La pista da ballo era sovraffollata, soprattutto da coppiette avvinghiate che ballavano le canzoni d'amore che il cantante stava intonando per lui. Cinsi i fianchi morbidi di Sole e lei allacciò le braccia dietro al mio collo, stabilendo un contatto visivo con me. I suoi occhi mi infondevano tranquillità, serenità e un calore inspiegabile all'altezza del petto, proprio in quella parte di cuore che era dedicata a lei.
«Sempre simpatico Mauro» borbottai, scocciato.
«Come al solito» rispose con un sorriso stiracchiato, lasciandosi guidare dai miei passi in una danza lenta e scoordinata «Pensavo che con il tempo cambiasse, maturasse» scosse la testa.
«E invece...» sbuffai «È ancora più antipatico di prima»
Ridacchiammo entrambi, ma subito dopo quel breve scambio di battute ci fu un attimo di silenzio imbarazzante. Entrambi percepimmo il disagio dell'altro e insieme abbassammo lo sguardo verso il pavimento lucido del castello, per poi rialzarlo all'unisono e naufragare nelle iridi dell'altro.
«Sai, non ci speravo più di rivederti» fu lei a spezzare il silenzio, anche se solo con un sussurro.
«In effetti, è una sorpresa anche per me» risposi con il suo stesso tono di voce «Pensavo che quello sul ponte Milvio fosse un addio definitivo a te, a Roma, alla mia vita passata. Non credevo di ritornare nella mia città natale e di ritrovarti»
«Brutti ricordi» disse solamente, fuggendo dal mio sguardo e puntandolo sui cerchi di luce soffusa che si stagliavano sul pavimento.
«Spesso ho avuto la tentazione di chiamarti» le confidai.
«Ma non l'hai mai fatto» mi fece presente lei, senza tradire la sua estrema dolcezza.
«Da stupido quale sono» ribattei, con una leggera risata per stemperare la tensione che mi stava contraendo tutti i muscoli corporei «Ho sempre avuto paura di farlo, che tu non accettassi le mie chiamate, che mi rifiutassi e non avrei resistito ad una cosa del genere»
Sole aggrottò le sopracciglia, stiracchiando le labbra e scuotendo la testa.
«Pensavo di averti capito molto tempo fa» disse «Ed invece ad ogni passo che faccio avanti, sono cento che mi rimandano indietro»
Sapevo di avere un carattere non facile, di essere lunatico e di essere un enigma anche per me, alle volte. E questo perché non avevo mai trovato coraggio di mostrare i miei sentimenti. Avevo sempre preferito tenermi tutto dentro, interiorizzare le emozioni. Ciò aveva fatto soffrire tutti, sia me che Sole. L'avevo trattata come uno zerbino, come un pezzo di carta straccia senza valore quando invece, in realtà, era un prezioso diamante raro. E, anche se pensavo una cosa del genere, non era mai riuscito a farglielo capire. Speravo solo che Francesco fosse un fidanzato migliore di quanto non lo fossi stato io, che le desse ciò che realmente meritava, la felicità che spettava ad una persona come lei.
«Tu sei stata una delle poche che mi abbia mai capito, Sole» la rassicurai «Sono io che cerco sempre di nascondermi dietro pareti invisibili. Quanto sono stupido!»
«Sei cambiato, Dario» disse Sole, con un sorriso «O almeno, hai capito finalmente che non devi aver paura dei giudizi altrui»
«Merito di tutti gli errori che ho commesso e delle scelte che questi mi hanno portato a fare» risposi in tutta onestà. Anche io mi ero accorto del mio cambiamento e se quello era avvenuto era anche grazie a Sole, al suo ricordo costante che mi aveva fatto crescere e diventare un uomo.
«Che tipo si scelte?» domandò e non seppi resistere al suo sguardo curioso, alle sue lentiggini color caffè che ancora contornavano il suo viso.
«È meglio parlarne fuori» dissi solamente, prendendola per mano e trascinandola fuori dal castello, il più lontano possibile da lì. Il lago di Bracciano sarebbe stato una miglior cornice per il nostro dialogo, avrebbe creato l'atmosfera giusta per aprirle, finalmente, il mio cuore.
 
***
 
Vado punto e a capo così,
spegnerò le luci e da qui sparirai.
 
Le mani di Dario erano proprio come me le ricordavo, forse un po’ più grandi e più ruvide. Le mani di un uomo, ormai. I miei sandali impattarono con la ghiaia fuori dal castello, rumoreggiando nel silenzio di quella notte incastonata di stelle.
Non mi sarei mai aspettata di rivederlo, anzi, non ci avrei mai sperato. Ricordavo ancora il giorno in cui mi aveva detto addio, quando c’era soltanto la città a farci da sfondo e un silenzio intervallato unicamente dal rumore della pioggia che s’infrangeva sull’asfalto. Il ricordo peggiore della mia vita, forse più brutto di quando venivo derisa, presa in giro e maltrattata dal mio stesso migliore amico – amante – a scuola.
Quel Dobbiamo parlare riecheggiò nella mia mente, lasciandomi in bocca il sapore amaro di un momento che avrei voluto tanto dimenticare, insieme a quelle mani che mi stringevano, proprio come in quella sbiadita memoria di ragazzina che ora galleggiava nella mia mente come una vecchia fotografia. L’ultima volta che Dario aveva voluto parlarmi, mi aveva lasciata per sempre.  Nessuna spiegazione, poche parole e soltanto un grande vuoto che separava sempre più consistentemente il suo cuore dal mio.
Avevo paura in quel presente, paura che tutto mi sfuggisse di nuovo dalle mani, mi scivolasse lontano come sapone sulle dita. Ora che la mia vita aveva finalmente preso una giusta piega, adesso che mi sentivo in pace con me stessa, che ero accettata ed amata senza che nessuno mi nascondesse, quasi come se fossi un fenomeno da circo.
Non è stata colpa sua, lo sai bene.
Sì, ne ero conscia. Avevo avuto cinque anni per riprendermi, per riflettere, per riaprire di nuovo il mio cuore al mondo e ricominciare a fidarmi dei ragazzi. Finalmente mi ero messa nei suoi panni, nelle vesti di un sedicenne rifiutato dalla propria famiglia, sostanzialmente solo. Dario avrebbe voluto soltanto essere amato, nient’altro.
«Dove andiamo?» gli chiesi, cercando di stare al passo.
Lui si voltò e nella penombra della notte lo vidi sorridere. «In un posto speciale» rispose, continuando a camminare.
Da quant’era che non lo vedevo sorridere così? Mesi? Anni?
Eri tu a farlo sempre ridere.
Com’era vero quel pensiero egoistico che per un momento mi era saettato nel cervello, sfuggendo al mio buonsenso. Quando aveva introdotto il nome di quella ragazza, Alice, gli si erano illuminati gli occhi come mai era successo in tutta la sua vita. Mai. Nemmeno con la Campanella che era stata la sua ossessione del liceo, e il mio incubo.
Soltanto con me.
Il suo primo sorriso lo aveva regalato alla sottoscritta, tanti anni fa, in quel cortile polveroso della scuola materna, quando ci eravamo difesi entrambi, appoggiandoci l’un l’altra, facendoci forza contro il mondo che ci voleva fare soltanto del male. Poi il male si è impossessato di lui.
«Ci sei?» mi chiese, voltandosi e rallentando il ritmo.
Abbassai lo sguardo, incapace di sostenere il suo dopo tutto quel tempo. Mi sembrava quasi un estraneo, come se le fattezze del suo viso fossero diverse da come ricordavo. Avrei voluto allungare una mano verso di lui, sfiorarlo, sentire la pelle sotto i polpastrelli soltanto per dare concretezza a quello che ormai mi sembrava soltanto un sogno ad occhi aperti.
«Sì» soffiai imbarazzata, sentendo che le guance s’imporporavano senza che io avessi il controllo di me stessa.
Con Dario era come tornare indietro nel tempo, come se tutte le mie certezze, le sicurezze acquistate in questi anni crollassero e si dissolvessero come fumo. Era tutto reale quello che stavo provando, non frutto di un sogno. Lui era davanti a me, mi teneva per mano e la sua stretta si era fatta più salda, quasi avesse paura che gli potessi sfuggire.
«Fidati di me» mi disse, forse perché notò il mio disagio.
Alzai lo sguardo solamente per rimanere intrappolata nell’oscurità dei suoi occhi neri, più avvolgenti e cupi di quanto ricordassi, ma sicuramente non più tristi come cinque anni fa. C’era qualcosa di nuovo in fondo a quelle iridi, come se la fiammella di una candela avesse cominciato a bruciare lo stoppino e si stesse lentamente accendendo. La vedevo debole e fioca, ma non per questo rischiava di spegnersi.
«Andiamo» dissi con sicurezza, alzando lo sguardo e scacciando via la vecchia Sole che spingeva per tornare ora che Dario era di nuovo con me.
Continuammo a camminare nella notte, le nostre mani intrecciate e il silenzio rotto solamente dal rumore della musica in lontananza e dai passi che ci accompagnavano. C’era il lago che si apriva immenso di fronte al nostro sguardo, nero e profondo, pronto ad inghiottire le mie paure e a farmi andare avanti.
Quel matrimonio era diventato per noi teatro di confessioni, di momenti che non avevamo mai voluto affrontare tempo fa, ma che esigevano di essere chiariti.
Camminavo al suo fianco adesso, dopo che il suo passo si era fatto più cadenzato, ma le nostre mani erano ancora intrecciate. Avvertivo del disagio nel stare mano nella mano con qualcuno che non fosse Francesco, il mio ragazzo, ma Dario non era un semplice qualcuno.
Ne avevamo passate così tante che c’era una specie di forza che m’impediva di sciogliere quell’intreccio di dita, non riuscivo a stargli distante dopo tutto il tempo che avevamo passato separati.
«Che ne dici?» mi suggerì, indicando con lo sguardo un grande gazebo di legno arroccato proprio sulla sponda del grande lago.
Aveva il tetto spiovente ed era a forma esagonale, ricoperto completamente di luci bianche che serpeggiavano sino alla passerella. Era come se ci indicasse il cammino, come se ci suggerisse anche lui che quello era il posto adatto per parlare, per porre finalmente la parola Fine alla nostra storia.
«È perfetto» asserii, dando un fuggevole sguardo a Dario che aveva l’attenzione fissa all’orizzonte. Era sempre stato la mia colonna portante, l’unico cui potessi appoggiarmi nei giorni più bui della mia vita.
Mi sarei sempre fidata di Dario, anche dopo tutto quello che mi aveva fatto.
Nel cielo non c’era una nuvola all’orizzonte e le stelle brillavano così intensamente che l’inquinamento luminoso non riusciva ad oscurarne lo splendore. Ci incamminammo lungo la passerella, fianco al fianco, mentre i suoni ovattati della musica ci raggiungevano ormai a malapena.
Francesco era lì, sulla pista da ballo, da solo ed io non riuscivo a sentirmi in colpa per averlo lasciato. Era come se il mio inconscio stesso sentisse il bisogno di chiarimenti. Dopo cinque lunghi anni, forse, avrei saputo il perché.
«Come va?» mi domandò Dario, rivolgendomi un radioso sorriso.
«Giusto un po’ d’umidità» mormorai, riferendomi alla temperatura vicino al lago.
Dario scoppiò in una fragorosa risata, allargando le braccia e sciogliendo il nostro intreccio di mani. «Mi era proprio mancata la tua ingenuità».
Sprofondai nel completo imbarazzo e sentii chiaramente le guance diventare color pomodoro maturo. «S-Scusa» soffiai, torturandomi le mani.
Lui smise di ridere e mi guardò stupito. «Scusarti di cosa?».
Inghiottii a vuoto, presa in contropiede. «N-Non lo so…» ammisi, ancora più in imbarazzo.
Di slancio Dario mi passo un braccio attorno alle spalle e mi attirò a sé, ridendo ancora della mia ingenuità, ma quando il mio viso si scontrò con la camicia bianca del suo completo elegante, sotto gli strati di profumo e di dopobarba, riuscii per un attimo a percepire quell’odore.
Vaniglia.
«Intendevo come va nella vita, in generale» sghignazzò, allentando la presa e lasciandomi libera di respirare. Una nuvola gravida di pensieri si addensò nella mia mente confusa, ancora annebbiata dall’intensità di quel profumo che portava con sé tutti quei ricordi che avrei voluto lasciar andare, in un angolo della mia mente.
«A-Ah…» realizzai, sempre imbarazzata.
Con un gesto istintivo, mi allontanai dal suo corpo, liberandomi da quell’abbraccio che stava diventando troppo equivocabile. Ci fu un attimo di silenzio in cui i nostri sguardi s’incrociarono e sembrò che Dario fosse quasi tradito da quel mio allontanamento. «Va tutto bene» continuai. «A Giugno mi sono laureata e tra una settimana partirò per un Erasmus».
Dario si lasciò sfuggire un’espressione piuttosto sorpresa. «Bello» disse. «Non avevo dubbi che avresti fatto grandi cose nella vita, sei sempre stata tu la secchiona tra noi due».
Mi strappò una risata sincera, al ricordo di tutti quei pomeriggi passati a studiare chiusi nelle nostre stanze, mentre il timore dell’interrogazione o del compito in classe ci costringeva a svolgere esercizi che, il più delle volte, dovevo ripetergli.
«E dove te ne vai?» mi domandò, ricominciando a passeggiare verso il gazebo.
Nervosamente mi spostai una ciocca di capelli sfuggita all’acconciatura dietro l’orecchio, poi gli sorrisi. «Andrò a Bali, nella penisola Indonesiana» poi abbassai lo sguardo quel tanto da sbirciare attraverso le ciglia il cambiamento della sua espressione. Anche Francesco non l’aveva presa bene, anzi, avevo quasi rischiato di perderlo per quel motivo. «Per un anno» aggiunsi. «Starò via per un anno intero».
Ed ecco l’espressione di puro stupore che permise agli occhi neri di Dario di allargarsi e alle sue labbra di schiudersi incerte, rallentando il passo della nostra passeggiata. «Un anno?».
Stirai un sorriso ed annuii. «È un progetto cui tengo molto. Ho lavorato sodo per meritarmi questa opportunità».
Raggiungemmo il gazebo in silenzio, sedendoci su una delle panchine di legno e guardando le placide onde del lago che bagnavano la spiaggia di fango. Era magico quel posto, quasi surreale, soprattutto quando un leggero velo di nebbia si addensò sulla superficie dell’acqua, vorticando come un fantasma dall’animo inquieto.
Avrei voluto dire qualcosa, almeno per interrompere quel silenzio imbarazzante che si era creato dopo la mia piccola rivelazione.
«E…» iniziò Dario, anticipandomi. «E… coso?».
«Coso?» domandai confusa.
«Sì» insistette lui, cominciando a gesticolare nervosamente. «Quello».
Arrivai alla risposta con un sorriso, dopo aver letto l’espressione sul viso di Dario e mi accorsi che, nonostante il tempo lo avesse maturato, riuscivo ancora a decifrare le sue emozioni. «Intendi Francesco» ridacchiai.
Dario annuì con convinzione. «Eh, il biondino con la puzza sotto il naso» aggiunse, storcendo la bocca.
Rimasi sorpresa in quel momento, soprattutto perché avevo sempre avuto il terrore di essermi innamorata di Frà soltanto perché somigliava in modo impressionante a Dario. Avevo sempre pensato che fosse una sua copia, la mia seconda occasione per rimediare, per correggere i miei sbagli e poter, finalmente, vivere il mio lieto fine. Invece, per quanto potessi sforzarmi di trovare delle similitudini tra di loro, ben presto mi accorsi che c’era una netta differenza e che Francesco aveva rinunciato a tutta la sua vita per me.
«Verrà con me» risposi brevemente, sapendo quanto quelle parole lo avrebbero ferito.
Era la verità in fondo, non avrei potuto mentirgli. Anche se sapevo che la storia tra di noi non era ancora stata chiarita, era giusto fargli capire quanto Francesco, adesso, fosse parte della mia vita.
Dario prese un respiro profondo e stavolta fu il suo turno di puntare l’attenzione altrove. Gli avevo inferto una stilettata al cuore, ma forse era giusto così.
«Caspita» sospirò, torturandosi il lembo della giacca. «Pensavo che fosse un damerino, invece ha le palle quadrate».
Fui sorpresa da quel repentino cambio di rotta, così mi lasciai andare ad una risata libera e genuina. «Sai, Francesco è un po’ come te» mi ritrovai a confessargli.
Dario sgranò gli occhi sorpreso. «Non credo proprio!» e mise subito le mani avanti. «Premetto che non lo odio, ma c’è qualcosa nel modo in cui mi guarda che mi fa venire la voglia di prenderlo a sprangate in faccia, ma sia ben chiaro, non lo farei mai. È solo che te ne potevi scegliere uno meno stronzo» concluse, incrociando le braccia al petto.
«Uno come te?» lo punzecchiai, costringendolo a voltarsi ancora verso di me.
Era quella la verità cui volevo farlo arrivare, come quando cercavo di cavargli le risposte di un’interrogazione di bocca. Ce la doveva mettere tutta e contare solo sulle sue forze.
Il sorriso sghembo che tanto mi aveva fatto battere il cuore in passato, comparve galeotto sul suo viso e mi fece perdere un battito. «Sai che di stronzi come me ce ne stanno pochi» affermò, quasi come se fosse un vanto.
Gli posai una mano sul petto e lo spinsi lievemente all’indietro. «Ma smettila che ti ho visto con quella ragazza, prima» sghignazzai, prendendolo in giro. «Avevi occhi solo per lei e se ti avesse chiesto di buttarti giù dal Tevere, lo avresti fatto! I tempi del Moro sono finiti, ormai» sentenziai, quasi come se stessi leggendo un proclama che annunciava l’abdicazione del re.
Nonostante l’oscurità, vidi le guance di Dario imporporarsi lievemente e quel particolare non poté altro che sorprendermi. Ero sempre stata abituata a combattere con le sue due personalità distinte, una che mi rendeva la vita un inferno e l’altra che passava interi pomeriggi a consolarmi sulle cattiverie che lui stesso mi diceva. Adesso sembrava che il Dottor Jekyll e il Mr. Hyde di Dario avessero trovato un compromesso e convivessero armoniosamente all’interno di un solo corpo.
«La mia piccola» sospirò, riferendosi alla giovane ragazza che avevamo visto al ricevimento. Un grande sorriso gli si allargò sul volto, dove un velo di ispida barba stava lentamente crescendo e indurendo i tratti che un tempo erano stati quelli del ragazzino di cui ero innamorata. «Credo che il merito di questo mio cambiamento sia stato soprattutto di Alice. Senza di lei, mi sarei ancora comportato come l’arrogante spaccone di un tempo e chissà quante altre persone avrei ferito. Le devo tutto».
Avvertii qualcosa in fondo allo stomaco, come se un animale si stesse lentamente risvegliando dall’intorpidimento del sonno. C’erano sempre state delle piccole cose tra di noi, dei gesti che mi permettevano di credere che Dario fosse davvero la mia anima gemella. Il suo sorriso era uno di quei ricordi che conservavo gelosamente nel cassetto della mia memoria, pensando e credendo che soltanto io ero stata in grado di vederli, perché erano così rari, quasi come un’eclissi, e altrettanto meravigliosi, ma in quel momento mi resi conto che quel piccolo angolo di paradiso non era più soltanto mio, apparteneva alla ragazza che lo aveva salvato, che era riuscita laddove io avevo fallito.
«È molto bella, Alice» dissi, sorridendogli.
«Sì» ammise lui, con la voce che gli tremava dall’emozione. «Con lei sono tornato ad amare dopo tanto tempo».
Era sbagliato sentire del disagio in quelle sue parole, soprattutto quando cinque anni fa avrei dato tutto pur di essere al posto di quella ragazza. Perché di Alice, Dario non si vergognava, non aveva avuto alcun bisogno di nasconderla, perché lei aveva conosciuto soltanto la sua parte buona. A me era toccato il compito di limare quegli spigoli del suo carattere, combatterlo giorno dopo giorno e il più delle volte, tornando a casa sconfitta per leccarmi le ferite.
Non avrei dovuto essere gelosa di lei perché gli aveva ridato la gioia di vivere e aveva finalmente trascinato Dario lontano da quel tunnel buio che era la sua famiglia. Avrei dovuto essere contenta, ma non riuscivo a pensare ad altro che non fosse un’ingiustizia nei miei confronti da parte del destino. Alice non aveva idea di quante ne avessimo passate io e Dario, soltanto il tempo e la memoria erano testimoni di quella storia.
«Perché? Hai mai amato?» mi ritrovai a domandargli, forse spinta da quell’animale che si risvegliava in fondo al mio stomaco e permetteva alla gelosia di fluire incontrollata.
Lui rimase interdetto a quella mia domanda, poi si rilassò e sorrise. «Nella mia vita ho amato molto poco, Sole. Dovresti saperlo».
E fu dopo quelle parole che ricordai un paio di occhi azzurri e un corpo fasciato da maglioncini sempre troppo aderenti. Sapevano tutti quello che era successo, lo scandalo che aveva colpito il liceo Montale. «La Campanella, giusto?» chiesi, quasi sicura di aver indovinato.
Dario sgranò gli occhi e tentò di leggere l’espressione corrucciata del mio viso. Dopo nemmeno cinque secondi, scoppiò di nuovo a ridermi in faccia ed io mi sentii una vera deficiente. Che avessi il naso da Clown? Oppure della verdura in mezzo ai denti? Possibile che mi ridesse sempre addosso?
«Oddio Sole, non sei cambiata per niente!» sghignazzò, posandomi una mano grande sulla spalla.
«Tu invece sì» dissi. «E tanto».
Dario smise di ridere e mi guardò. «Spero in meglio».
Certo che era cambiato da quel punto di vista, altrimenti non mi avrebbe nemmeno rivolto la parola alla festa. Una serie di brutti episodi del passato mi ritornarono alla mente e non riuscii a fare a meno di rattristarmi.
Sentii una mano incorniciarmi il viso e due dita grandi e ruvide che mi costrinsero ad alzare lo sguardo verso due enormi pozzi di petrolio. «Eri tu, scema» disse, senza staccare il suo sguardo dal mio.
«I-Io cosa?» balbettai confusa, cominciando a sentire caldo.
Fu a quel punto che Dario mi avvicinò al suo petto, e mi lasciò accoccolare contro, come facevamo un tempo. Mi sentii di nuovo persa tra quel profumo di vaniglia e a contatto con quel corpo che era sempre stato mio.
«Ero innamorato di te, Sole. Credevo te ne fossi accorta» smozzicò, mentre sentivo la sua voce vibrare attraverso il petto ampio.
«Pensavo ti vergognassi di me» mormorai, riferendomi a tutte le angherie che avevo dovuto subire in sua presenza.
La sua mano risalì dalla spalla e andò ad accarezzarmi distrattamente i capelli. «A quel tempo mi comportavo da vero idiota, me ne rendo conto. Ti ho fatto soffrire inutilmente, nonostante fossimo amici, eppure non avevo il coraggio di confessarti quello che provavo per te».
«Eri spaventato, lo capisco. In fondo non sono mai stata una gran bellezza» soffiai, continuando a fissare il lago con il rumore del suo cuore che tamburellava nel mio orecchio.
«È vero, avevo paura, ma era un timore ingiusto. Ero terrorizzato dal perdere i miei amici, il rispetto della scuola, l’unico affetto che potessi ricevere dal mondo, visto che la mia famiglia era solo un optional. Comportandomi così, invece, ho perso l’unico vero amore di cui avevo bisogno ed era il tuo, Sole. Sono sempre stato codardo per ammetterlo, nonostante ti avessi costretta… beh… a fare quelle cose…» e lì calò l’imbarazzo.
Come dimenticare tutti quei nostri esperimenti? I giochi, le carezze, il piacere di scoprirci l’un l’altro ed imparare a fare l’amore insieme, attimo dopo attimo, come se fossimo un’unica entità.
«Non mi hai costretta» lo interruppi subito, scostandomi da lui per cercare i suoi occhi. «C’ero anche io quando me lo hai chiesto ed ho acconsentito, quindi non fare la vittima».
Dario mi sorrise più leggero, capendo finalmente quanto fossimo cresciuti rispetto al liceo e quanto la vita e le circostanze ci avessero cambiati.
«Nemmeno io ho avuto il coraggio di dirtelo» gli confessai. «Avevo paura di perderti, di interrompere quello che c’era tra di noi e avrei preferito mille volte essere la tua bambola e averti vicino, piuttosto che affrontarti col rischio di non rivederti mai più. Mi sono comportata proprio da stupida».
«Eravamo ragazzi, non stupidi» mi corresse lui. «Col senno di poi è facile parlare. Adesso che entrambi siamo cresciuti, che abbiamo cominciato a camminare con le nostre gambe, ora che non abbiamo più bisogno l’uno dell’altra, finalmente abbiamo capito gli errori».
«Hai ragione».
I nostri sguardi s’incrociarono ancora. «Tu eri il mio sbaglio, Sole, ma io l’ho voluto commettere lo stesso e senza di te sono sicuro che adesso non sarei l’uomo che sono. Non avrei avuto l’esperienza alle spalle per riuscire a rituffarmi in un’altra storia e non avrei avuto Alice. È tutto merito tuo se sono felice, ora».
Arrossii senza alcun motivo, torturandomi il lembo del vestito color lavanda. «È lo stesso per me» ammisi, pensando a Francesco, alla scommessa e a tutto quello che avevo passato. «Dario, tu sei stato il mio errore e senza di te non avrei avuto il coraggio di innamorarmi nuovamente, di perdonare e di riuscire a cambiare qualcuno».
Era un placido ringraziamento quello che si stava consumando sotto il tetto di quel gazebo. Finalmente il tempo si era messo dalla nostra parte e aveva permesso a Dario e a Sole di chiarirsi, di rimediare agli sbagli e di potersi dare, forse un giorno, una seconda possibilità.
«Ti chiedo scusa, Sole» continuò lui, stavolta cercandomi con lo sguardo. «Scusa per averti lasciato da sola, scusa per averti abbandonata senza dirti la verità, per averti fatto passare i peggiori cinque anni della tua vita e per non essere stato abbastanza coraggioso per rimanere» tirò un sospiro e attese qualche secondo. «Se non avessi lasciato Roma, se fossi stato meno egoista, forse adesso…» ma non riuscì a finire la frase.
Gli presi la mano e la strinsi tra le mie, constatando quanto fosse grande rispetto a quella che ricordavo. «La vita non è fatta di Se e di Ma, di Ero e di Potevo» gli dissi, sperando capisse dove volessi arrivare. «Tutti i passi che abbiamo percorso durante questo cammino ci sono serviti ad arrivare dove siamo oggi, ci hanno fatto crescere, ti hanno fatto diventare un uomo degno di stare al fianco di una ragazza speciale come Alice e a me hanno regalato la dolcezza di Frà».
Dario sorrise, stavolta senza nessuna amarezza. «Su quel ponte, cinque anni fa, avrei dovuto dirti che ti amavo. Questo è il più grande rimpianto della mia vita» ammise tremando.
Allungai una mano d’istinto, verso il suo viso e gli regalai una carezza. Dario aveva sempre avuto bisogno più dei gesti che delle parole e forse non era cambiato poi tanto dai tempi del liceo.
«In fondo al mio cuore, è come se lo avessi sempre saputo» gli confessai. «Non devi scusarti perché quel giorno, il tuo sguardo, ha parlato per te».
Come dimenticare quegli occhi? Anche se avessi forzato la mia mente ad obliare quel particolare, non ci sarei mai riuscita. Era forse il più vivido ricordo di tutta la mia adolescenza, insieme al corpo di Dario fradicio di pioggia.
Ridacchiò sommessamente. «Sono proprio uno stupido romanticone, mi hai contagiato alla fine».
«Lo sei sempre stato, solo che non volevi ammetterlo» lo corressi, inquinata da quel suo buonumore. «Ricordi l’odore della pioggia?».
Dario spalancò quei grandi occhi neri, inghiottendomi nel vortice delle sue emozioni. Forse se fossi stata ancora una sedicenne, mi sarei innamorata di nuovo di lui o forse… non avevo mai smesso di amarlo.
«Sì, come posso dimenticarlo?».
Quello era il nostro più bel ricordo, perché la pioggia aveva sempre accompagnato la vita di Dario e, insieme a quella, gli attimi della nostra storia. Quel tuffo nel passato era stato doloroso, magari evitabile, ma ci aveva permesso finalmente di andare avanti, liberandoci dai fantasmi del passato.
«Ricordi quando giocavamo in giardino?» iniziò Dario, lasciandosi trasportare dal viale dei ricordi. «Quando Suor Benedetta cercava di riacchiapparci ovunque…».
«…e noi ci nascondevamo sull’albero di albicocche!» lo anticipai, senza il bisogno di sforzarmi per associare quella memoria.
Dario scoppiò a ridere. «Rimanevamo lì per tutto il pomeriggio, fino a quando non suonava la campanella e ce ne ritornavamo a casa!».
«Sì, e Consuelo ci preparava la merenda».
«E Mauro rompeva le palle!» sghignazzò ancora, riferendosi a quel mostro che aveva per fratello.
D’improvviso mi ricordai un particolare. «Quando gli abbiamo rotto quell’affare? Ricordi?» gli chiesi, sperando non avesse dimenticato.
«Il narghilè?» specificò lui.
«Sì, sì! Si era infuriato a morte!».
Dario cominciò a ridere e si tenne la pancia per non soffocare. «È stato bellissimo! Mi ricordo perfettamente che avevi dato una botta alla sua scrivania e lo hai fatto crollare a terra, riducendolo in mille pezzi».
Immediatamente mi sentii in dovere di dissentire. «No! Sei stato tu che mi hai spinta, come tuo solito, ed io sono andata a sbattere contro la scrivania, quindi è stata colpa tua!».
I nostri sguardi s’incrociarono, estremamente seri. «Sei stata tu» e mi diede un leggero colpetto alla spalla.
«No tu!» sorrisi, compiendo quel suo stesso gesto.
«Tu!» rise lui, alzandosi in piedi e spingendomi delicatamente all’indietro, poi cominciò a correre sulla spiaggia di fango.
«Ehi!» protestai, muovendo dei passi e appoggiandomi con la mano ad una delle colonne di legno del gazebo. Lo vidi scendere le scalette di corsa e fermarsi poco lontano da dov’eravamo, voltandosi e regalandomi uno dei suoi più sinceri sorrisi.
Mi sembrò di tornare a un giorno di cinque anni fa.
Aprì le braccia e mi chiamò silenziosamente, soltanto con un gesto, con un semplice sguardo perché noi non avevamo mai avuto bisogno delle parole. Niente pensieri, nessun rimorso o rimpianto. Mi tolsi i sandali e li abbandonai sul legno del parquet, per poi cominciare a correre verso di lui.
«Non riuscirai mai a prendermi!» mi urlò, voltandosi e facendo qualche passo all’indietro.
Era logico che non ne sarei stata capace. Lui era più alto, più agile e sicuramente più in forma di me, perciò sarebbe stata una lotta impari, ma ciò non m’impediva di provarci. In fondo era un gioco.
«Attento a te!» sorrisi, sollevandomi i lembi del vestito per migliorare i movimenti.
Proprio quando Dario pensava di darmi lo stacco finale, non si accorse di un vecchio pezzo di legno marcio abbandonato sulla riva. Vi ci inciampò sopra e rotolò nella sabbia di fiume, inzaccherandosi il vestito.
Lo raggiunsi preoccupata, chinandomi a vedere se si era fatto male. «Tutto bene?» chiesi.
Dario aprì gli occhi e non la smise di ridere come uno scemo. «Sei riuscita a prendermi. Che tonto che sono».
Era sempre così con lui e non sarebbe mai cambiato. Forse era vero che eravamo anime gemelle, che il destino ci aveva fatti incontrare dopo così tanto tempo soltanto per permetterci di chiarire e andare avanti con le nostre vite senza nessun rimorso.
«Ora tocca a te» gli sorrisi, poi mi alzai e cominciai a correre nuovamente verso il gazebo, prendendomi un bel po’ di vantaggio.
«Non vale!» lo sentii urlare alle mie spalle, mentre si rialzava e percepivo distintamente i suoi passi avvicinarsi.
Il cuore mi batteva forte e lo sentivo martellare sin dentro le orecchie. Avevo il fiato corto, l’adrenalina che scorreva veloce e mi dava il senso di poter affrontare qualsiasi cosa. Ora non avevo più paura perché sapevo che Dario mi aveva amata, che non si era dissolto tutto nel nulla e che forse non ero del tutto da buttare via. Era come se da quella corsa dipendesse tutto, come se arrivare al traguardo significasse finalmente mettere una pietra sopra il passato e ricominciare a vivere.
I fantasmi erano spariti, il dolore si era dissolto, perché finalmente per Dario e Sole, forse, in un angolino della loro vita, si poteva sbirciare uno spiraglio di lieto fine.
«Arrivo!» mi urlò da vicino, afferrandomi per un braccio.
Ruzzolammo sull’erba poco distante dalla spiaggia, come due bambini, mentre non c’importava se i vestiti si sarebbero rovinati o se le acconciature sarebbero saltate. Ci ritrovammo uno sopra l’altra, come due gocce di pioggia, e rivolsi un fuggevole sguardo al cielo muto di una notte di Luglio.
Il silenzio era intervallato unicamente dal rumore del nostro respiro, dal petto di Dario che si alzava e si abbassava sopra il mio e il suo sguardo che bruciava come un fuoco d’artificio. Avevamo finalmente finito di soffrire, l’uno per l’altra, l’uno con l’altra, e forse avremmo dovuto fermarci e riflettere, prima di commettere qualsiasi cosa che avrebbe rovinato quel delicato equilibrio.
Ora c’erano altre due persone nelle nostre vite, due persone che non meritavano tutto quello.
Dario e Alice.
Sole e Francesco.
Dario… e… Dario e Sole.
Eravamo l’uno l’anima dell’altro, perché ci eravamo appartenuti un tempo e forse, quel tempo, non era ancora finito. Un errore che eravamo disposti a compiere, tutto era cominciato con quello sbaglio. Avevamo bisogno di un’ultima occasione, prima che ogni cosa potesse finire.
 
Inizia tutto con te,
non ci serve un perché.
 
No, non ci serviva alcun perché, ci eravamo ritrovati dopo tanto tempo e in quell’angolino di pace e di silenzio avremmo potuto rivivere quella che era stata la nostra favola.
Le labbra di Dario erano sul mio viso, talmente vicine che potevo sentire il suo respiro infrangersi contro il mio e mischiarsi, diventando una cosa sola. Teneva le braccia ai lati del mio viso, per non gravarmi addosso con tutto il suo peso, ma non accennava a spostarsi. Furono attimi di silenzio quelli, perché le parole erano di troppo.
Lui era in ogni parte di me, qualsiasi ricordo della mia vita era legato a Dario, che fosse bello o brutto, perché tra di noi c’era qualcosa di grande, inspiegabile, che nessun altro avrebbe potuto capire. Non era amore, non era amicizia, né simpatia ma qualche strana alchimia che ci teneva uniti come da un sottile filo di rame.
Dario si abbassò lievemente, dischiudendo le sue morbide labbra e catturando il mio respiro. Avrei voluto dargli la colpa di tutto, maledire il suo viso e quegli occhi che mi avevano costretta a cedere, purtroppo non era così.
Eravamo innamorati, veramente, di altre due persone, ma tutto era iniziato con noi e doveva finire quella notte.
«Dovremmo fermarci…» sospirò, incapace di smettere di avvicinarsi.
«Sì, dovremmo» gli risposi, facendo scivolare una mano tra i nostri due corpi troppo vicini e andandogli ad incorniciare il viso. Era illuminato dalla luce fioca dei lampioni e riuscivo solamente a pensare quanto fosse incredibilmente bello.
Era cresciuto, maturato, c’era un uomo tra le mie braccia ormai. La linea dura della sua mascella e l’accenno di barba erano così diversi da quelli di Frà, che aveva i lineamenti più femminili. Un angelo e un diavolo. Uno diverso dall'altro ma incredibilmente simili nel carattere, tanto da confondermi.
«Amo Alice, con tutto me stesso» soffiò, a pochi centimetri dalle mie labbra.
«Ed io amo Frà, più della mia vita» ripetei convinta, dando voce ai miei pensieri.
Eravamo ad un soffio l’uno dall’altra, convincendoci che tutto quello era sbagliato, che forse avremmo fatto bene a tornare sui nostri passi, ripercorrerli e tornare da quello che era ormai il nostro futuro. Per noi c’era stata un’occasione, ma l’avevamo perduta.
Il tempo di Sole e Dario era finito.
«Siamo ancora in tempo» disse ancora, sempre meno convinto.
Non seppi dire se fu colpa del lago, dell’atmosfera quasi fatata, delle luci o del silenzio che ci avvolgeva, ma fu come se il destino ci avesse ritagliato un angolo di paradiso e lo avesse messo a disposizione per noi.
Un’ora sola, un minuto, oppure un secondo. Ci avevano dato un’altra possibilità, una seconda occasione.
 
Siamo carne e fiato.
 
E non ci volle molto perché le nostre labbra s’incontrassero e i nostri respiri finalmente diventassero una cosa unica. Pochi attimi, oltre la nebbia che si alzava, c’era una notte limpida che ci aspettava, ci cullava tra le sue braccia accoglienti, calde come quelle di Dario che mi tenevano stretta a lui. Le mie labbra si dischiusero e accolsero la sua lingua che s’intrecciò alla mia, sfiorandola, inseguendola, bramandola come in quelle notti di tanti anni fa. Non era giusto quello che stavamo facendo, non era giusto nei confronti di due persone che ci avevano aperto il loro cuore, che ci avevano permesso di amare di nuovo, oltre tutto quello che ci era successo, ma c’era una forza che ci impediva di fermarci.
Dario mi regalò un bacio a fior di labbra, poi mi guardò. «Dio come mi eri mancata, Sole» soffiò, con il volto travolto dalla passione e gli occhi neri così liquidi da inghiottirmi.
«Ti ho aspettato tanto» gli confessai, cercando di ricacciare indietro le lacrime che premevano per uscire, spinte fuori da anni passati a struggermi per lui.
«Non smetterò mai di ripeterti quanto mi dispiace» mormorò, baciandomi di nuovo.
Posò le sue labbra sui miei occhi, catturandone una lacrima, poi scese sulla guancia, all’angolo delle mie labbra ed infine sulla bocca. Intrecciai le dita nei suoi capelli e finalmente lasciai il mio cuore libero di battere per lui, di nuovo.
«Sarà il nostro segreto» gli confessai, costringendolo a cercare i miei occhi. Gli accarezzai quel viso così ruvido, così diverso da quello che ricordavo. «Promettimi che non lo saprà nessuno e che non accadrà più».
Mi stavo comportando da egoista, mi ero trasformata in una Sole che detestavo ma che sembrava avere il sopravvento sulla razionalità. Non desideravo altro che un momento con Dario, senza le bugie, senza i sotterfugi, soltanto io e lui.
«Va bene» rispose convinto. «Una volta e poi sarà un addio».
Lo scostai delicatamente, quel tanto da alzarmi i lembi del vestito e sfilarmi con velocità gli slip. Il tempo era poco e la fortuna non era mai stata dalla nostra parte. O adesso, oppure mai più.
 
***
 
Io e Sole distesi sul prato, a pochi passi dal lago, baciato da timidi raggi lunari che si facevano strada tra la coltre nera di quella sera di metà Luglio. Non era un sogno, nemmeno una delle mie tante fantasie da adolescente, ma la realtà. Sole era davvero insieme a me in quel momento, stavo accarezzando di nuovo quel corpo morbido e caldo che avevo bramato per quasi tutta la mia vita, che avevo prima sfiorato timidamente e che poi era diventato mio, dieci, cento, mille volte mio. Lo avevo sentito ardere sotto di me, l'avevo incendiato con i miei tocchi da inesperto, lo avevo scoperto a poco a poco e lo avevo amato con tutto me stesso, con tutto il cuore e l'anima, anche se i miei sentimenti erano sempre rimasti nascosti dietro ad una stupida scusa.
Quella sera, però, non erano implicati giochetti erotici, non dovevo fare esperienza per fare colpo sulla Campanella, no. Quella sera eravamo soltanto noi due, maturati, adulti ormai, privi di quegli spilli conficcati nei nostri cuori che erano le parole non dette, i sentimenti mai dichiarati, le paure celate dietro ghigni di scherno, gli sbagli mai ammessi. Ora eravamo stati in gradi di sfilare quegli aghi acuminati che ci avevano fatto sanguinare per lungo tempo, che ci avevano fatto soffrire inutilmente e così a lungo.
Eravamo liberi. Liberi dalle costrizioni che io stesso avevo imposto per non rovinarmi la reputazione, liberi dalle catene che ci avevano impedito di amarci pienamente, liberi da maschere e finte personalità. Liberi, finalmente, di essere noi stessi.
Entrambi, oramai, avevamo capito cos'era realmente l'amore. C'erano voluti anni prima che lo affrontassimo, piuttosto che nasconderci come dei vigliacchi da esso. Ed era grazie ad Alice e Francesco se questo era stato possibile. Molto probabilmente stavamo sbagliando in quel momento, anzi, sicuramente stavamo commettendo un errore. Stavamo per tradire le persone che ci avevano aperto gli occhi, che avevano scacciato i fantasmi del nostro passato e che ci avevano catapultati nel presente, obbligandoci a viverlo come se fosse un dono, attimo per attimo, senza rivangare il passato, quello che era stato e che non sarebbe tornato mai più.
Eppure non riuscivo a fermarmi, non riuscivamo a smettere di sfiorarci, di spogliarci lentamente l'un l'altro, per unire le nostre labbra in lenti ed infuocati baci che sapevano finalmente di noi, di Dario e Sole. Perché, lo sentivo, quello era il nostro momento. Lo avevamo atteso per anni, ore e giorni interminabili ad attendere che questo arrivasse mentre il nostro cuore sanguinava per le troppe ferite che io stesso avevo inflitto ad entrambi. Finalmente avevamo l'opportunità di vivere il nostro amore, di sentirlo scorrere nelle vene, nelle arterie, di sentirlo riempirci i polmoni e guarire le cicatrici della nostra anima.
Era da sciocchi, forse, pensare che fosse stato il destino a regalarci quell'attimo di puro incantesimo, ma era come se la sorte, spettatrice per anni del nostro tacito amore, ci avesse dato l'occasione di viverlo, di goderlo, di farci travolgere da quel flusso di sentimenti, senza scudi, senza dighe che impedissero al nostro amore di fluire indisturbato. Per cui non potevo fermarmi, di nuovo, e non percorrere fino alla fine la strada che il destino aveva costruito per me e Sole. Eravamo stretti, mano nella mano, e finalmente avremmo finito il percorso insieme, così come lo avevamo cominciato. Se non l'avessi fatto, non mi sarei mai sentito completo, avrei sempre percepito un vuoto, un buco nero dentro di me che avrebbe risucchiato qualsiasi mio sentimento, qualsiasi mia emozione. E tutto sarebbe finito quella notte, anche se il noi sarebbe rimasto per sempre. Perché nulla, nemmeno il tempo, sarebbe mai stato in grado di cancellarci, di dissolvere quel filo che ci teneva uniti da quando eravamo piccoli, da quando ci eravamo incontrati nel giardino della scuola elementare.
Mi sollevai, inginocchiandomi tra le gambe nude di Sole per togliermi la giacca di troppo e slacciarmi i pantaloni eleganti, poi tornai ad avventarmi sulle sue labbra che avevano lo stesso dolce sapore di due fragole rosse e mature. Le sue mani strinsero alcune ciocche dei miei capelli, spingendomi ancor più verso di lei. Era ancora la stessa, ingenua Sole di qualche anno prima, solo con un pizzico d’intraprendenza in più. Forse era anche un po' merito mio e dei miei insegnamenti, per cui mi ritrovai a gongolare nel mio piccolo. Le accarezzai le cosce con entrambe le mani, percorrendo le sue gambe per tutta la loro lunghezza. Tremavamo entrambi, forse perché ad ogni mia carezza, ad ogni nostro respiro, a tutti quei brevi e fugaci sguardi, ai baci rubati tra un ansimo e l'altro erano legati ricordi del nostro passato. In fondo, le nostre vite erano sempre dipese dall'altro, la sua esistenza era la mia, così come un pezzo della sua anima, incastonata per sempre in un angolo del mio cuore.
Feci perno su entrambe le braccia e mi sollevai, spinto da una voglia irrefrenabile di vedere il viso di Sole. Era buio e la luce della luna e delle stelle si rifletteva nelle sue iridi perlacee. Era bellissima con i capelli scompigliati e gli occhi spalancati per lo stupore di tutto ciò che stava accadendo. Entrambi eravamo stati colti di sorpresa, nessuno dei due si aspettava che, sulla riva del lago, si annidavano ancora piccole scintille della nostra passione, che incendiarono tutto ciò che ci circondava con un'ultima ed intensa fiamma, prima di spegnersi per sempre.
Mi abbassai di nuovo verso di lei, ma preferii il suo seno alle sue labbra. Affondai il viso tra le sue perfette rotondità, baciandola e rubandole qualche gemito appena accennato. Stavo indugiando, me ne rendevo conto e il tempo, in un momento come quello, era prezioso quanto una gemma rara. Se fossimo stati fuori troppo tempo, la gente avrebbe potuto insospettirsi della nostra assenza prolungata. Per di più, qualcuno poteva sorprenderci da un momento all'altro, mandando all'aria non solo gli ultimi attimi che vivevo con Sole, ma anche quelli che ancora dovevo vivere con Alice.
«Il tempo non ci è amico» ridacchiai, sistemandomi al meglio tra le sue gambe.
«Il destino lo è stato» rispose lei, con un sorriso «Ci ha dato questa opportunità»
«E ne sono felice» dissi, ipnotizzato dalla luce fioca che si specchiava negli occhi color perla di Sole. Le accarezzai la guancia con il dorso della mano, sentendo il suo viso caldo ed intuii che fosse arrossita. Intrappolai di nuovo le sue labbra in un bacio che sapeva di fragola e di vaniglia, un susseguirsi di lingue bramose che lambivano ogni millimetro di quella dell'altro.
Le mani di Sole mi accarezzarono la schiena, fermandosi sul lembo dei pantaloni. Intuite le sue intenzioni, mi sollevai quel tanto che bastava per abbassarli insieme ai boxer. Sole alzò il busto, affondando una mano tra i miei capelli e spingendomi verso di lei, per stenderci di nuovo sul prato.
«Aspetta!» la fermai, prima che ci ritrovassimo ancora uno sopra l'altro.
«Ho, ho fatto qualcosa di sbagliato?» domandò timidamente, fuggendo dal mio sguardo.
Sogghignai per la sua ingenuità fanciullesca e le baciai la punta del naso.
«Ma no, stupidotta!» ghignai e la vidi incupirsi «Non voglio rischiare di diventare padre ancora una volta» spiegai, facendole un buffetto sulla guancia paffuta.
Presi dalla tasca posteriore dei pantaloni il portafoglio e afferrai il preservativo dalla taschina interna. Glielo mostrai, con un sorriso sghembo, mentre le sue pupille si dilatavano per lo stupore e l'imbarazzo.
«Lezione numero due. Usare le precauzioni» le ricordai e Sole sorrise, scuotendo la testa.
«A te non è servita poi granché» si burlò di me, riferendosi implicitamente all'incidente accaduto con la Campanella.
Finsi di imbronciarmi e la strinsi di nuovo, spingendola verso il terreno. Mi avvicinai al suo collo e cominciai a mordicchiarlo, solleticandola con la mia barba e facendola ridere. Il suono della sua risata riempì quel piccolo spazio che ci eravamo ritagliati sulla riva del lago, in quella gabbia di cristallo e luce in cui eravamo stati rinchiusi e mosse le corde del mio cuore. I leggeri morsi, presto, diventarono piccoli e sporadici baci sulla sua pelle che sapeva di dolce.
Mi allontanai per qualche secondo dal suo corpo e indossai le precauzioni. Tutto era pronto per quel magico momento, per quell'addio, per percorrere fino in fondo il sentiero del nostro amore. Scivolai lentamente dentro di lei, facendomi avvolgere dal suo calore, dal suo profumo che era sempre più intenso, dalla nebbia che, leggiadra, volteggiava come fumo in balia del vento. Mi mossi dentro di lei, intrappolando di tanto in tanto le sue labbra con le mie, quando gli ansimi e i gemiti lo permettevano. Era tutto perfetto. Quella fantastica atmosfera surreale, quasi uscita da un libro di Tolkien, lo sciabordio dell'acqua del lago che si mischiava alle nostre voci, noi due stretti, diventati ancora una volta un tutt'uno.
Qualcosa, però, ruppe quell'equilibrio, uno strano fruscio che udii nonostante fossi concentrato sul corpo di Sole. Mi sollevai su un braccio per guardarmi intorno, senza però sciogliere il nostro intimo legame. Cercai con gli occhi qualcosa o qualcuno. Era come se ci stesse osservando, come se due occhi dall'indefinito colore stessero scrutando attentamente quello che stava succedendo e che sarebbero diventati custodi del nostro segreto.
«Co-cosa c'è?» domandò Sole, spaesata, strizzando gli occhi per una scossa di piacere.
«Nulla» risposi.
In giro non c'era nessuno. Magari ero solo io che mi immaginavo le cose, era la mia morale che si stava ribellando e che mi provocava strane allucinazioni. Quello che stavamo facendo era sbagliato, lo sapevo bene e lo sapeva anche la mia coscienza, e forse, appena avremmo concluso, mi sarei sentito in colpa nei confronti di Alice per averla tradita, ma era così che tutto doveva finire, era così che il mio cuore si sarebbe risanato, solo così potevamo dirci veramente Addio.
 
 *°*°*°*°

Non ho molto da dire su questa shot, salvo che si riallaccia al capitolo 27 de Il meraviglioso mondo di Alice ''Viva gli sposi'', dategli un'occhiata se non lo avete già fatto. Ringrazio la mia lOver che ha scritto e descritto meravigliosamente il PoV di Dario, per un'allegra rimpatriata tra ex e ne abbiamo viste proprio delle belle. Spero solo che possa piacervi e che, nonostante tutto, capiate quanto queste due persone si sono amate in passato e forse, l'eco di questo amore, potrà giustificare il loro gesto anche solo in minima parte.
Grazie a chiunque leggerà

   
 
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