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Autore: Hayley Black    11/01/2012    4 recensioni
Holmes/Watson | One shot, slash | Romantica, generale
C’erano troppe cose nella mente di Sherlock Holmes, e fra tutte torreggiava la figura imponente del dottor John Watson; figura che, nei suoi incubi, era sempre affiancata da quella di una giovane e bella donna dai capelli biondi e il viso angelico. Alla fine di quei sogni oscuri Holmes si risvegliava sudato e affannato, nel groviglio di coperte che di lì a poco sarebbe diventato la sua tomba – e no, non era troppo melodrammatico
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gentleman, what seems to be the problem?

Ovvero, di quando Holmes volle trattare un matrimonio e Watson gli sorrise

 

Sherlock Holmes era sempre stato un uomo rispettabile.
Sebbene non uscisse quasi mai di casa, limitandosi a passeggiate frettolose, la sua figura aleggiava tra i cittadini come una leggenda d’altri tempi, e il suo nome veniva sussurrato con timore reverenziale: l’investigatore si beava, nel filo che divide la vanità dalla modestia, del mito che le dicerie avevano costruito intorno alla sua nobile persona, e certe volte diventava così insopportabile che la povera domestica era finita a letto per una settimana a causa di una crisi di nervi.
Ma, da uomo rispettabile qual era, aveva sempre negato, in pubblico, le fantastiche e strepitose avventure che secondo la mitologia popolare lo vedevano protagonista; perché Sherlock Holmes era anche – e principalmente - un uomo onesto.
Un vero gentleman, di quelli che ti fanno venire il voltastomaco a forza di buone maniere. Una mente sempre all’erta, sempre in azione, pronta ad analizzare tutto: il più piccolo dettaglio era essenziale per la riuscita di un caso, ma forse il suo fanatismo – alimentato dai liquidi medici che assumeva normalmente – stava raggiungendo vette altissime; sarebbe impazzito al più presto.
Anche suo fratello Microft aveva cominciato a mandargli telegrammi per dissuaderlo, scrivendo che magari una bella vacanza nella sua lussuosa casa gli avrebbe fatto bene; ma Holmes sapeva che Watson e quel traditore si erano messi d’accordo per fargli il lavaggio del cervello.
Non aveva risposto a nessun telegramma. Anzi, erano finiti tutti bruciati nella sua stanza che odorava di muffa; lui non voleva svagarsi, aveva troppe cose a cui pensare: i piani di Moriarty, i pacchi bomba, gli anarchici, l’aria tesa tra Francia e Germania. Come avrebbe potuto festeggiare quando attorno a loro il mondo si stava capovolgendo?
Ma se c’era qualcosa che distingueva Sherlock Holmes dagli altri uomini era, soprattutto, l’intelletto fino: non molti potevano vantare una memoria di ferro e un’intelligenza così acuta, una mente calcolatrice capace di risolvere anche i casi più intricati – proprio come una ragnatela, una fitta ragnatela di pensieri e parole.
Non era mai stato troppo difficile, per lui, capire chi ne incrociasse i fili.

***

Quella mattina, mentre la vita londinese scorreva tranquilla, alcuni rumori assordanti provenivano dal 221B di Baker Street. Nessuno sembrava accorgersene, però, e tutti risolvevano indisturbati le proprie faccende; Sherlock Holmes, sorseggiando un liquido per l’imbalsamazione, ignorava i colpi alla porta del dottor Watson, probabilmente l’unico disturbato dalle sue sperimentazioni. Vuotò il bicchiere e lo ripose su un tavolo traballante, afferrando il pesante martello che aveva ritrovato dopo giorni e giorni di ricerche: doveva perfezionare la sua automobile per rimuovere un fastidioso ed irritante rumore, ma evidentemente qualcuno non gradiva il suo lavoro.
Fece girare la chiave nella serratura, che scattò con un suono metallico, e aprì la porta con aria saccente. «Mi dica, dottor Watson, sono tutt’orecchi» annunciò Holmes, inarcando un sopracciglio alla vista del suo caro amico conciato in quel modo. «Dormito male?».
Sul volto di Watson si aprì un sorriso amaro. «Al contrario, Holmes, io ho dormito benissimo; il risveglio è forse stato un po’ brusco» fece, cercando di spiare dietro di lui. «Che diavoleria sta architettando, stavolta?».
Holmes sorrise sufficiente, facendosi da parte per farlo entrare; richiuse la porta alle proprie spalle e si accinse a spiegare il suo magnifico piano.
«Mio caro Watson, ricorda il fastidioso rumore dell’automobile?» esordì, incrociando le braccia dietro la schiena.
«Intende quello che produce passando su fosse e strade malmesse?». L’investigatore annuì compiaciuto, accennando ai vari pezzi di ferro sparsi in modo disordinato su un tavolo.
«Ha sfasciato l’automobile?» constatò il dottore, sconvolto, posando gli occhi aperti a dismisura sull’amico che, intanto, giocherellava con il manico del martello.
«Non l’ho sfasciata. L’ho perfezionata» lo corresse Holmes, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «E poi devo ancora aggiungere qualche ritocco, non ho concluso il lavoro».
Non gli piacque molto l’espressione sarcastica sul viso del suo caro compagno Watson, ma procedette ugualmente e si versò dell’altro alcol nel bicchiere.
«Sa che questi liquidi le fanno molto male, Holmes?» sbottò d’improvviso Watson, corrugando la fronte, l’istinto medico che si faceva largo in lui. «Un giorno ci resterà secco» aggiunse, dopo aver constatato che le sue parole non l’avrebbero fermato.
«Lo faccio perché così, quando morirò, voi medici sarete avvantaggiati nella mia imbalsamazione» spiegò Holmes con aria saccente, posando con un tonfo il bicchiere e soppesando tra le mani il pesante martello.
Gradiva molto la compagnia del dottor Watson, sebbene qualche volta gli sembrasse un po’ troppo puntiglioso: questo è folle, questo non si fa, deve essere più prudente, Holmes!
Lui seguiva i suoi consigli tutte le volte che poteva, ma talvolta non poteva rinchiudere il proprio genio ribelle in una delle costrizioni del dottor Watson: nessuno poteva mettere in dubbio che, però, anche il caro John si era lanciato assieme a lui in imprese spericolate.
«È da molto tempo che non esce di qui, vero?» gli chiese Watson, contemplando sovrappensiero la bottiglia di cristallo mezza vuota. «Ha bisogno di una boccata d’aria» aggiunse.
«Io sto benissimo, caro Watson» si difese Holmes. «Lei, al contrario, mi sembra un po’ giù di tono».
Watson lo fissò a lungo, con un’espressione che l’investigatore definì una metà tra il sarcasmo e lo stupore: forse il dottore era bravo a mascherare quello che aveva dentro con sua moglie, o con gli altri abitanti, ma avrebbe dovuto sapere che Holmes era capace di scavare nei suoi occhi per trovare tutte le preoccupazioni che gli infestavano lo spirito.
Si maledisse per non averlo capito subito, un occhio scaltro come il suo avrebbe dovuto captare quei segnali a partire dall’abbigliamento trasandato, l’andamento un po’ stanco e incerto, la mano magra e smunta che stringeva il manico del bastone come se si aspettasse di cadere ad ogni passo.
Sì, Watson era decisamente diverso dal solito, quella mattina, e il perché l’avrebbe capito di lì a poco.
«È solo un po’ di stanchezza, Holmes, niente di cui preoccuparsi. Se magari lei la smettesse di far baccano all’alba…» cercò di spiegare il dottore, ma Holmes lo interruppe con un sorriso ilare.
«No, Watson, è il lavoro. Forse anche lei ha bisogno di una boccata d’aria fresca, non trova?». Watson, corrugando la fronte, si strinse al bastone animato.
«Non trovo».
Holmes accettò con indifferenza quell’affermazione, rimuginando dentro di sé, e diede le spalle al dottore occupandosi finalmente dei pezzi dell’automobile. Sul tavolo c’era un ammasso di ferraglia, che lui aveva trattato con estrema cura, e mentre lanciava uno sguardo a Watson afferrò il foglio su cui aveva appuntato tutte le imperfezioni da correggere. Non aveva lavorato spesso con le automobili, e a dirla tutta non gli stavano neanche simpatiche, ma era stanco di sentire quel rumore fastidioso ogni volta che sedeva al volante.
Aveva supposto che probabilmente quel suono proveniva dalle ruote, forse bucate, o dal motore che si era danneggiato; non l’aveva ancora capito con certezza, dato che la macchina era un’invenzione piuttosto recente e poco studiata, ma mal che andasse ne avrebbe comprata una nuova con i soldi messi da parte per una nuova scorta di cocaina.
«È sicuro di volerlo fare?» esordì Watson, lievemente preoccupato alla vista del suo braccio che, le dita che stringevano il manico del martello, era pronto ad abbassarsi. «Non lo trova eccessivo?» aggiunse, la voce incrinata.
«Niente è eccessivo, Watson, se aiuta a migliorar…».
Un rumore assordante s’impossessò della stanza, e un denso fumo grigio si riversò attorno a loro: sembrava provenire da un aggeggio stravagante che saltellava e si dibatteva, cigolando. Il martello tra le mani di Holmes cadde, aggiungendosi alla marea di suoni che aggredivano le loro orecchie, e Watson si rizzò in piedi chiedendo – urlando – spiegazioni.
«Credo qualcosa sia andato storto» pensò ad alta voce Holmes, grattandosi il mento in tutta calma, dirigendosi verso il marchingegno impazzito che continuava a vomitare fumo. Tossendo e strabuzzando gli occhi trafficò con delle leve e dei pulsanti, mentre Watson teneva schiacciato sulla bocca un fazzoletto inumidito con dell’acqua.
«Ho quasi risolto» borbottò Holmes, sperando di riuscire a calmare il dottore, e tirando un’ultima leva il trambusto cessò. «Dovrei perfezionare anche la mia macchina per il fumo, dottor Watson, è per le mie sperimentazioni».
Pregando che Watson non facesse domande aprì una finestra per fare uscire l’aria ormai inquinata, e con sufficienza si versò un’altra dose di liquido per l’imbalsamazione.
«Non trova che questa sia una mattinata particolare, dottor Watson?» disse, stralunato, sorseggiando il contenuto del bicchiere. Watson, accigliato, scosse la testa.
«Cos’era quello?» chiese, indicando l’ordigno all’altro capo della stanza.
«Niente di importante, Watson, niente di importante. Di cosa parlavamo?» fece Holmes, constatando con dispiacere che la bottiglia era quasi vuota.
«Parlavamo del fatto che lei beve troppo, Holmes» sbottò Watson, strappandogli la brocca dalle mani. «E che ha bisogno di uscire da questo posto».
Holmes inarcò le sopracciglia, sfiorando il bordo del bicchiere con sguardo vacuo. Poi sembrò riscuotersi, e rivolse un gigantesco sorriso al suo collega. «Allora facciamo stasera alle otto?» chiese.
Watson ripose il fazzoletto nella tasca della giacca con movimenti meccanici, quindi posò gli occhi su di lui. «Per me va benissimo» rispose, ricambiando l’espressione gioviale. Holmes constatò, con una profonda allegria interiore, che non c’erano incomodi.
Il dottore zoppicò verso la porta, stringendo saldamente il bastone, e prima di uscire dalla stanza si girò verso di lui.
«Ah, Holmes, dimenticavo: stasera viene anche Mary».

***

Sherlock Holmes era sempre stato un uomo estremamente puntuale.
Si era presentato al ristorante dove usavano cenare di solito alle otto in punto, varcando la soglia con appena tre secondi di anticipo. Cercando di non pensare troppo al fatto che quella sera ci sarebbe stata anche Mary si sedette ad un tavolo posto al centro della stanza, per avere così l’opportunità di osservare le persone intorno a loro, e aveva infilato l’orologio in tasca con aria indifferente.
Aveva attirato non pochi sguardi e doveva sembrare il più normale possibile, senza dare troppo nell’occhio, e sperò che quell’intento gli sarebbe riuscito; dopotutto era un semplice gentleman che si recava a cena con la sua coppia di amici.
Quando la sua mente sfiorò il pensiero del viso angelico di Mary, o delle sue mani lisce e pallide che stringevano quelle di Watson, tentò in tutti i modi di scacciarle: il dottore era profondamente innamorato della bionda istitutrice, e non sarebbe stato di certo lui a fargli cambiare idea. Ma da pochi mesi a quella parte, nel petto di Holmes, si rincorrevano sentimenti contrastanti che avevano peggiorato la sua situazione mentale; era una cosa che non riusciva a spiegarsi, l’unica di tutta la sua carriera, e aveva cercato la risposta alle sue domande in bicchieri e bicchieri di alcol ammassati ora sotto il letto.
Aveva cominciato a paragonarsi a lei, ad immaginare come potesse essere, a letto, guardare la schiena di Watson invece della solita parete spoglia; ma era evidente, Holmes l’aveva capito: stava impazzendo.
Semplicemente perché la mancanza di casi da risolvere lo stava portando alla follia - follia che non riusciva a sfogare con l’isolamento nell’appartamento di Baker Street.
Allontanando quei pensieri nefasti con un gesto di stizza notò che il dottore e la sua fidanzata stavano varcando, romanticamente a braccetto, la porta del ristorante, gettando lo sguardo sulle persone ai tavoli per cercare di trovare Holmes.
Con un colpo di tosse l’investigatore li avvertì della propria presenza e l’amorevole coppia lo raggiunse; Mary gli rivolse un sorriso radioso, forse dimentica del loro ultimo incontro, e Holmes si alzò per farle un elegante baciamano. Notò quanto fosse affascinante la donna, quella sera, e quanto Watson stringesse le sue dita sottili, come preoccupato che potesse volare via al primo refolo di vento.
Il dottore gli rivolse un cenno di saluto, sedendosi accanto a lui, e la sua fidanzata lo imitò in uno svolazzo di pizzi e balze.
Holmes, ignorando i pensieri nefasti che gli assalivano il petto, si passò le mani sulle ginocchia e versò dell’acqua nel proprio bicchiere, la gola improvvisamente secca.
«E’ un piacere rivederla, signorina Mary» disse, cercando di tirar fuori l’espressione più gioviale del suo repertorio. «La trovo ogni secondo più bella».
Il lieve rossore che comparve sulle guance di Mary fece sorridere Watson, che aumentò la presa sulle sue mani pallide.
«Piacere mio, signor Holmes. La trovo davvero molto bene» lo elogiò lei, il suono della sua voce era delicato quanto la stoffa della stuoia che teneva sulle spalle: seta, di quella pregiata che ogni nobildonna vorrebbe possedere nel proprio guardaroba.
«Come procede il suo lavoro, signor Holmes?» gli chiese Mary, spostando una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Watson mi aveva parlato della momentanea stabilità dei suoi casi».
Holmes la guardò intensamente, catturando ogni dettaglio del suo aspetto impeccabile. «Il lavoro procede molto bene» rispose, «anche se ultimamente Londra è piuttosto noiosa».
In effetti la vita di Londra, spesso movimentata e pane per i denti di un investigatore dalla mente bisognosa di essere sempre all’opera, si era acquietata come il mare dopo la tempesta; non aveva più ricevuto notizie del professor Moriarty o dei pacchi bomba, sebbene sapesse che un nuovo agguato sarebbe arrivato presto. Ad alimentare la sua esistenza ormai ridotta a bicchieri di alcol e cocaina, però, c’erano le lievi tensioni – che nessuno aveva ancora captato – a disturbare l’equilibrio dell’Europa.
Holmes aveva cominciato a racimolare giornali nelle sue veloci e repentine passeggiate, nascosto sotto impermeabili e cappelli, e dopo aver compreso che quegli equilibri sarebbero presto saltati si era messo all’opera per cercare di mettere loro i bastoni tra le ruote.
«Sembra che le acque si siano calmate» constatò Watson senza guardarlo.
«Già, sembra» ribatté Holmes sarcastico, offeso per la mancanza di attenzione da parte del dottore: quella cena stava prendendo il verso sbagliato.
«Sa, Holmes, io e Mary abbiamo deciso di sposarci».
Appunto.

***

Sherlock Holmes si rigirò nel proprio letto, irritato dalla luce della luna che gli feriva gli occhi; la serata era andata liscia come l’olio ma, per un fenomeno inesplicato e inesplicabile, l’investigatore era diventato silenzioso come un morto – che paragone assurdo, pensò.
Si era chiuso in se stesso dopo la lieta novella del matrimonio, aprendo bocca solo se interpellato, e aveva lasciato ai giovani innamorati tanti dubbi; offeso, assomigliando ad un bambino al quale la madre non dedica tante attenzioni perché occupata con il fratello, aveva lanciato taglienti sguardi a Watson – sguardi bellamente ignorati dal dottore, che aveva continuato a regalare sorrisi a Mary come se lui, Sherlock Holmes, non esistesse.
Insomma, si sentiva tradito: un legame così lungo e forte come il loro era stato distrutto dalla prima ragazzina incontrata per strada, e buonanotte al caro buon vecchio Holmes, diventato solo un pazzo ossessionato da strane bevande alcoliche.
Ma in quel momento, avvolto da lenzuola bollenti che sembravano risucchiarlo, il rinomato investigatore e gentleman di Londra non riusciva ad addormentarsi, il sonno disturbato dai soliti pensieri nefasti – gli piaceva molto quel termine, nefasto – e da lei, il suo problema più grande: Mary Morstan.
Il vero problema, però, era che non riusciva a concepire il pensiero del dottor Watson insieme a qualcuno che non fosse lui; quando aveva cominciato a guardare il suo fedele amico in modo diverso si era sentit, sbagliato e inconcepibile. La ruota bucata del carro, la pecora nera del gregge, la nota stonata dello spartito: erano tutti paragoni assurdi che si susseguivano veloci nella sua testa, mentre affogava il dispiacere in bicchieri su bicchieri di alcolici e pensava a quanto fossero stupide quelle parole; lui non era né una ruota né una pecora e tantomeno una nota.
Ma evidentemente erano solo supposizioni dettate dalla mente annebbiata dal troppo bere, e anche dal troppo pensare: troppi perché, troppi ma, troppi forse.
C’erano troppe cose nella mente di Sherlock Holmes, e fra tutte torreggiava la figura imponente del dottor John Watson; figura che, nei suoi incubi, era sempre affiancata da quella di una giovane e bella donna dai capelli biondi e il viso angelico. Alla fine di quei sogni oscuri Holmes si risvegliava sudato e affannato, nel groviglio di coperte che di lì a poco sarebbe diventato la sua tomba – e no, non era troppo melodrammatico.
L’investigatore, stanco di restare a letto succube dei suoi pensieri malati, scostò le lenzuola pregne di sudore e si alzò barcollando, stropicciando gli occhi assonnati. La luce pallida della luna rischiarava appena una parte della stanza e gli rese più semplice trovare e accendere una lampada: nel caos che regnava sarebbe stato impossibile scovare qualcosa con quel buio – ma anche con il sole era molto complicato, a sentire i lamenti della sua domestica.
Fece scattare la serratura della porta e la chiuse dietro le proprie spalle, cercando di fare il meno rumore possibile; l’appartamento di Baker Street dormiva profondamente, come avrebbe dovuto fare anche lui, e non sarebbe stato difficile raggiungere la stanza del dottor Watson passando inosservato.
Brandendo la lampada come fosse una pistola rischiarava l’ambiente che gli sfilava davanti, facendo attenzione a non inciampare mentre scendeva la rampa di scale che lo separava dalla meta. Avrebbe messo fine a tutti i pensieri che aveva per la testa, acquietando il rumore incessante della sua mente una volta per tutte – non ne poteva più del sonno perso.
Si lasciò l’ultimo gradino alle spalle e raggiunse la porta bianca degli alloggi del dottor Watson; d’improvviso una folle paura gli assalì lo stomaco e in un gesto estremo, mandando all’aria la segretezza adoperata per quella missione strampalata, bussò.
Il rumorio che proveniva da dietro l’uscio si acquietò, ma dopo una manciata di secondi riprese: sembrava una macchina da scrivere e Holmes già immaginava le dita di Watson che premevano i tasti velocemente, passandosi di tanto in tanto una mano sugli occhi stanchi.
Diede di nuovo un colpo alla porta e, stavolta, il rumore meccanico fu sostituito da quello di passi che si avvicinavano. Una chiave infilata nella serratura, il metallo stridente e la mano appoggiata al pomello: la luce che proveniva dalla stanza, immersa nella semi oscurità, bastava quel tanto al dottore per leggere gli scritti che lo occupavano anche la notte. Fogli su fogli ricoprivano il pavimento e Holmes li guardò sorpreso, non aveva mai conosciuto il lato disordinato del suo fedele amico: posò gli occhi sulla figura imponente di Watson che si stagliava contro la porta e sorrise, nascondendo la lampada dietro la schiena.
«Signor Holmes, qual è il problema?» chiese il dottore, mal celando uno sbadiglio. «E’ molto tardi, dovrebbe essere a letto».
«Non mi tratti come un bambino, Watson, quando anche lei è ancora sveglio» ribatté l’investigatore con aria saccente, facendogli intendere di voler entrare. «Volevo scambiare due chiacchiere con lei dopo la cena» aggiunse sbrigativo.
Watson, non ancora del tutto convinto, si fece da parte per lasciarlo entrare e chiuse la porta con movimenti stanchi; calciò un foglio appallottolato e lo invitò a sedersi, garbatamente, prendendo posto sulla vecchia poltrona di fronte alla macchina da scrivere.
«Mi dica tutto» esordì, intrecciando le dita. Sembrava, almeno, minimamente interessato ad ascoltare le sue parole, e Holmes gliene fu silenziosamente grato.
«Sono qui per trattare il suo matrimonio» disse risoluto, soffermandosi sull’evoluzione dell’espressione del dottore; da scioccato passò a divertito ed esasperato, tanto che si lasciò scappare una risata. «Non era una battuta».
«Holmes, credo che il troppo bere stia compromettendo la sua salute: posso prescriverle qualche medicinale, ne ha bisogno» fece Watson con fare scientifico, cercando un foglio bianco.
«Non mi sta prendendo sul serio, Watson» Holmes corrugò la fronte. «È sicuro della scelta che ha fatto, di aver trovato la persona giusta?».
Il dottore lo guardò di sbieco, riponendo carta e penna; l’investigatore lo ritenne stanco, troppo stanco, e si chiese ancora una volta cosa lo tenesse impegnato così tanto: era seriamente preoccupato riguardo la sua salute.
Profonde occhiaie gli solcavano il viso, pallido e magro, andando a peggiorare gli occhi leggermente iniettati di sangue; il suo abbigliamento, inoltre, appariva trasandato e malaticcio, qua e là macchiato di caffè – che prendeva, evidentemente, per sopprimere il sonno perduto. L’uomo che aveva di fronte non gli ricordava quasi niente del John Watson che conosceva, celato sotto quegli strati di fogli che ricoprivano il pavimento.
Ma qual era il motivo per cui si era ridotto in quel modo? Il matrimonio? Se erano già alle prese con i preparativi l’esistenza di Holmes non si sarebbe di certo migliorata: alcune delle domestiche, quelle che avevano il coraggio di ripulire il suo alloggio disordinato, gli rinfacciavano spesso che sarebbe morto solo come un cane. Lui non aveva mai avuto buoni rapporti con matrimoni e fidanzamenti, in generale con l’amore, specialmente se questi erano veloci e insignificanti come cotte giovanili; che bisogno aveva Watson di sposarsi?
Scacciò quei dubbi e si concentrò; il dottore riprese la parola.
«Certo che sono sicuro, Holmes. Ne abbiamo già parlato» rispose, premendosi le dita sugli occhi. «Voleva chiedermi solo questo? Ho molte cose da fare» aggiunse, fissandolo intensamente.
«Era anche questa una delle cose che volevo chiederle, caro Watson. Cos’è che le toglie il sonno? La trovo davvero stanchissimo, ultimamente» disse Holmes con aria preoccupata, notando che Watson aveva cominciato a sentirsi a disagio.
«È il lavoro, Holmes, non deve preoccuparsi».
«Non sono stupido, e lei sa che mentire non è la scelta giusta». Holmes si alzò, attratto da una serie di armi affisse alla parete: «C’è qualcosa che la turba?» chiese ancora, facendo scorrere le dita sulla lama di una spada; neanche un granello di polvere.
«Sembra che lei curi più queste armi che il proprio aspetto» sbottò, girandosi verso di lui e incrociando le braccia.
«Mi dice dove vuole andare a parare?» mormorò Watson, leggermente irritato, chiudendo gli occhi per qualche secondo. «Non avrei voluto dirglielo in questo modo, Holmes, ma io devo trasferirmi».
Holmes girò la testa verso di lui, inarcando le sopracciglia. «Trasferirsi?» ripeté, soppesando quella parola sulla lingua come fosse un macigno. Gettò lo sguardo sulla scrivania imbrattata di fogli e inchiostro, domandandosi come avesse fatto a non capirlo prima: quella carta fitta della sua calligrafia non era altro che una serie di pratiche, blocchi di scritti che avevano rubato il sonno al dottore; firme su firme riempivano gli spazi bianchi, contratti ingialliti ricoprivano il resto del piano di lavoro creando un mosaico di lettere che si intrecciavano tra loro.
«Sì, Holmes. Mi trasferirò appena dopo il matrimonio: andrò a vivere con Mary» spiegò Watson, come se si fosse tolto un peso dallo stomaco, distendendo le gambe con l’ennesimo sbadiglio. «E’ questo che mi tiene sveglio la notte».
Stupido Holmes: come aveva potuto, una mente come la sua, non capire una cosa tanto evidente? Si maledisse più volte, torturandosi le mani, e diede nuovamente le spalle al dottore: fissò la serie di spade davanti a lui, perso nei propri pensieri.
Un errore imperdonabile, per un uomo come lui, lasciarsi andare alle tentazioni: ma amava il rischio e non gli importava minimamente la serie di conseguenze che ne sarebbe scaturita. Sorrise, mentre un brivido gli attraversava la schiena, e sentì il respiro pesante di Watson che si alzava dalla poltrona consunta.
«Credo sia ora di andare a dormire, signor Holmes: anche lei ne ha bisogno» disse, appena dietro la sua schiena. Holmes calcolò il tempo e le distanze, il cuore che gli batteva forte nel petto: era davvero un errore imperdonabile, quello che stava per commettere, ma era la sua ultima opportunità e non andava sprecata. Era sicuro che, dopo, il dottor Watson si sarebbe chiuso nella sua normale vita coniugale assieme alla propria moglie, lasciandolo solo come un cane a marcire nell’appartamento di Baker Street; c’erano troppe cose che non aveva detto e che non aveva fatto, constatò, girandosi con un sorriso.
E fu tutto in una manciata di secondi: Holmes premette le labbra su quelle del dottore stringendogli la camicia sottile, serrando gli occhi e beandosi delle figure multicolori che sfilavano dietro le sue palpebre; Watson, stupito, infilò le mani nei suoi capelli e allacciò le dita alle ciocche scure, tirandole con l’intento di provocargli dolore.
Sentiva il suo odore dappertutto, come se fosse diventato il centro della sua esistenza: lo percepiva insinuarsi nei vestiti, nella pelle, quell’aroma che sapeva di caffè, di inchiostro, di pioggia mattutina; di fogli di giornale, lenzuola pulite, medicinali aspri, fiori di lavanda, salsedine.
Watson sapeva di tutte quelle cose messe assieme e lui non se n’era mai accorto, vittima dell’ovvietà che lo circondava, vittima della monotonia che caratterizzava la sua vita; forse Mary se n’era accorta e aveva avuto la bella idea di accaparrarselo per primo, assieme al concentrato di odori capace di mandargli in fumo il cervello, ma ad Holmes bastava qualche minuto, qualche manciata di secondi, lui si beava di ogni minimo dettaglio.
Perché era lui il primo a comprendere la momentanea malinconia di Watson, il suo scontento, la sua stanchezza, i suoi tormenti, i suoi incubi più remoti e profondi; era lui il primo a vederlo la mattina, a sorridergli impercettibilmente, a notare che la cravatta era annodata male e che i guanti erano stati infilati al contrario.
Era lui che, in quel momento, si staccava con violenza allo scadere del tempo programmato, senza smettere di stringere il polso del dottore; era lui che, in quel momento, si rendeva conto che gli errori andavano fatti e che quello, probabilmente, era l’errore imperdonabile migliore della sua carriera.
Era lui che, come al solito, pensava troppo anche quando non avrebbe dovuto.
«Lei è completamente pazzo, Holmes» mormorò Watson frastornato, sbattendo le palpebre come per verificare che quello non fosse frutto della sua mente e dell’insonnia; l’uomo, dal canto suo, sorrise.
«Lo consideri come un regalo di nozze» commentò, ilare. «Avrebbe dovuto dirmi del trasferimento» aggiunse offeso. Si accorse solo dopo di avere sulla bocca il sapore dolciastro delle labbra di Watson, e un nuovo sorriso si aprì sul suo volto stanco.
«Lei… lei…» balbettò il dottore, indicandolo senza guardarlo.
«È lei il mio problema, Watson» disse Holmes, sfiorando con gli occhi una delle cicatrici che gli solcavano la pelle del viso. «E probabilmente questo sarà l’unico passo falso della mia carriera di investigatore. Ma c’è un ma: ho scoperto che gli errori vanno fatti» sospirò, passandosi una mano sulla faccia.
«Io devo sposarmi, Holmes. Non posso rincorrere un amore che lei ha sempre evitato, non adesso» fece Watson fissando i fogli appallottolati sul pavimento. «Ed è inutile continuare a comportarci come dei ragazzini alle prese con le prime cotte; vada a dormire» aggiunse, la voce incrinata.
Holmes, dal canto suo, si grattò il mento.
«Scommetto che non è ancora disposto a trattare il matrimonio» disse. Il dottore non si girò nemmeno:
«No, e non lo sarò mai».
«In questo caso, spero che il regalo di nozze le sia piaciuto» sorrise, il cuore che batteva ancora veloce come un treno in corsa.
Watson si volse finalmente verso di lui e ricambiò il sorriso, stringendo tra le mani una decina di fogli di carta: non proferì parola, allungando il silenzio calato tra di loro, e Holmes, in qualche modo, gliene fu grato.
«E, aggiungerei, io non ho mai evitato niente» aggiunse l’investigatore, aiutandolo a mettere ordine nella stanza. Non era la cosa migliore da fare, dopo quello che era successo, ma loro erano fatti così: comunicavano a piccoli gesti, nascosti e apparentemente futili, chiusi nel proprio universo di confusione e pensieri disparati.
Watson, a un certo punto, alzò il capo puntando gli occhi nei suoi.
«Allora che fa, rimane?» chiese, vago.
«Io rimarrei anche per sempre, caro Watson, ma le avversità della vita sono dietro ogni angolo e noi non possiamo fare altro che attutire il danno» rispose Holmes, con altrettanto dubbio nella voce. «Io il mio modo di attutire il danno l’ho trovato, e lei?».

***


Il giorno dopo Holmes appoggiò la fronte al vetro freddo della finestra, il viso accarezzato dai raggi del sole mattutino, e guardò la schiena del dottore allontanarsi velocemente verso la fine della strada; si girò per una frazione di secondo, puntando gli occhi nei suoi.
E sorrise.

 

AngolodiHayleycheapprodainquestofantasticofandom!

Ehm *_* Per prima cosa, dato che sono nuova, buongiorno buonpomeriggio e buonasera, a seconda di quando abbiate finito di leggere questa one shot; in questo momento è sera, ho appena finito di scrivere un tema del cavolo per domani e mi accingo a finire le note d'autore. Sì, beh, ma non vi interessa e_e 
Per seconda cosa, io sono Hayley! *stringe mano a tutti* È il mio primo fantastico approdo su questo fandom che mi ispira davvero tantissimo ma, ahimè, non ho ancora letto i libri di Sherlock Holmes. *prende a testate il monitor* ma provvederò molto presto X°D Ormai, nella mia testa, Robert Downey Jr. è Sherlock Holmes e Jude Law è John Watson, nessuno riuscirà mai a scollarmi questa loro immagine dalla mente: ce li vedo così azzeccati - anche a romanticheggiare e ad avere tresche di nascosto - che sono loro, punto. è_è ma sto divagando quando invece dovrei parlare della storia XD
Dunque, dunque. E' ambientata dopo il primo film e prima del secondo - ma va? -, ed ho immaginaaaato che Watson dicesse in questo modo a Holmes di doversi trasferire e sposare; e il povero investigatore, cucciolo di mamma, ci rimane male ;_; Però ho voluto dare alla storia una vena comica tipica di Holmes, o dell'interpretazione di Robert D. Jr., ma sta di fatto che io me lo immagino davvero così LOL
Il titolo, "gentleman, what seems to be the problem?", è una celeberrima citazione di Pinhead, il cenobita della serie horror "Hellraiser" che è davvero stupenda *_* e che appartiene ai suoi creatori, così come appartengono al proprio creatore Holmes e Watson *li cede, tristemente, a Doyle che la prende a padellate in faccia* Oh, beh, mi sarei aspettata delle note più lunghe: per qualsiasi cosa, perchè avrò dimenticato SICURAMENTE di accennare qualche particolare o boh, per qualsiasi domanda chiedete nelle recensioni o per MP, e io vi risssponderò. *si inchina* Sono molto soddisfatta questa raccolta, e ringrazio centomila volte AliH che me l'ha betata e che ne è rimasta molto contenta: il suo parere è importantissimo per me. 
Ora mi dileguo, spero che la storia vi sia piaciuta e che la prossima volta non mi lancerete pomodori *_* Che, per la cronaca, sono in fondo a destra.
 

Alla prossima!

   
 
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