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Autore: TonyCocchi    17/01/2012    7 recensioni
Perché le nazioni, come tutti, hanno i loro brutti segreti, i loro scheletri nell’armadio; perché le nazioni sono fatte di uomini, e gli uomini hanno il male dentro; e se non ci ricordiamo che può uscire fuori, come faremo a impedire accada di nuovo?
Genere: Dark, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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La stanza è buia.

Il lampadario è acceso, e solo la sedia posta sotto di esso si staglia chiara, il resto deve accontentarsi di una fredda penombra.

Quella luce infatti non è lì per illuminare.

Non deve rischiarare l’oscurità, deve mostrarla, per far sì che tutti la vedano.

Sei persone aspettano appoggiate alla parete, silenziose, ma non ancora per molto; tra poco, si siederanno su quella sedia, e sarà la loro oscurità ad essere mostrata a tutti.

 

Si fa avanti il primo, è basso, ha i capelli castani e chiari, e si avvia con passo incerto e dinoccolato, sedendosi poi scompostamente.

 

<< Il mio nome è Italia.

Tutti dicono di me che sono simpatico, ma ingenuo e sempliciotto. Però, se la situazione lo richiede, so fare il serio, lo giuro.

Durante la guerra, i nemici sterminarono molta della mia gente, a volte interi paesini. Ci raccolsero a caso dalle nostre famiglie per ucciderci nelle Fosse Ardeatine.

Gli Yugoslavi fecero lo stesso con le foibe.

Poi la guerra finì, e io fui di nuovo libero di rifarmi una vita migliore, e di richiedere il conto che spettava a quelli che avevano sofferto.

E sapete che ho fatto?

Niente.

Sono stato io a non voler indagare, sono stato io a chiedere alla Germania di insabbiare le indagini su quei suoi criminali che mi avevano ferito.

In fondo, anche tra i miei c’erano criminali di guerra che mi avrebbero richiesto indietro, una mano lava l’altra, no?

Me l’avevano suggerito l’Inghilterra e l’America, e loro come stati hanno di certo più esperienza di me.

Dovevo farlo! La Germania sarebbe stata importante per il futuro dell’Europa e del mondo, non potevamo accanirci di nuovo su di lei! Dovevamo averla dalla nostra, i comunisti erano alle porte! Anche alle mie!

E poi… tanto nel mio paese ce ne sono comunque moltissime di famiglie che piangono perché i colpevoli delle stragi sono ancora là fuori, felici e contenti.

Lo ammetto, la giustizia non è mai stata il mio forte…
Ma non potevo fare il sempliciotto! Dovevo dimostrarmi razionale, ne andava di cose molto importanti… Non potevo permettere che i comunisti avanzassero, gli altri contavano su di me!

Ho fatto bene, giusto?
Giusto? >>

 

Si rialza e va via a passo svelto, col capo chino di vergogna.

 

Il secondo arriva poco dopo.

Ha i capelli scuri, selvaggi di ricci, e la carnagione abbronzata dal sole. Appena giunge sotto il lampadario per sedersi, sul petto gli brilla il crocefisso tutto d’oro che porta al collo, tempestato di pietre preziose, rosse come il sangue.

 

<< Il mio nome è Spagna.

Fui io a scoprire quello che allora era il “Nuovo Mondo”, a spezzare le catene della superstizione e ad aprire il mondo all’umanità. L’umanità d’Europa almeno.

Vi trovai ricchezze smisurate, abbastanza da rendere me la nazione più potente sulla terra, almeno per qualche secolo.

E trovai anche popoli, molti popoli, con la loro cultura, la loro arte, il loro oro.

E io lo presi, e li uccisi.

Erano come bestie in confronto a me. Io avevo la tecnologia, io avevo la ragione.

Loro non avevano nemmeno dio… Beh, almeno non il mio di dio.

Ho cercato di portarglielo. Ma che lo volessero o meno, li ho fatti schiavi.

Li ho fatti morire di fatica. E li ho lasciati a crepare con le malattie che io stesso ho portato loro.

Beh, l’hanno fatto anche gli altri miei degni “compari”, che mi sono venuti dietro.

L’ho avuta io la fetta più grossa all’inizio. Poi l’oro e finito e pazienza, è stato bello finché è durato.

Forse con quei poveracci ho calcato troppo la mano. Ma se non avessi mai visto al di là del mare, il mondo non sarebbe quello che è oggi. Non ci sarebbe stata forse un America in grado di salvarci quando ce ne fu bisogno.

Forse è stato il prezzo da pagare alla storia, tutto quel sangue, tutta quella distruzione…

Erano come bestie, lo giuro.

Selvaggi. >>

 

Nell’alzarsi stringe la croce, ma sembra più che altro voglia nasconderla.

Circospetto, si allontana.

 

Il terzo è alto ed ha un lungo cappotto, una sciarpa, e al centro del viso pieno un bel naso rubicondo.

Gli occhi però sono azzurro freddo, freddo e insensibile, glaciale come la sua voce.

 

<< Il mio nome è Russia.

A causa mia il mondo è rimasto diviso in due da una cortina di odio e diffidenza per quasi cinquant’anni. O così dicono.

Se i blocchi erano due, perché dare la colpa solo a me?

Inseguivo un sogno, un sogno rosso e meravigliso, di pace, armonia ed uguaglianza.

Pur di raggiungerlo, non mi importava di renderlo rosso di sangue. A pensarci bene, divenne un incubo, anche per coloro che all’inizio ci avevano creduto.

Sapete, sono stato un cattivo maestro: quando uno dei miei alunni sbagliava o mi contraddiva, non esitavo a dargli uno schiaffo. Come quando Praga rifiutò di sedersi al suo posto, pensava ancora di poter fare come gli pareva.

Ma tornando a quel sogno, dicevo, per realizzarlo ho dovuto epurarmi da coloro che si opponevano, ma così sono finiti sotto terra anche molti che non c’entravano. Paradossalmente, ho fatto morire o scappare molta gente che mi avrebbe aiutato sul serio a realizzare i miei progetti…

Però ad alcuni è andata peggio.

Li ho spediti in Siberia. Fa molto freddo laggiù, sapete?

Lì ho mandati lì, a sgobbare nei gulag, nel freddo insostenibile, e lì sono crepati, senza mai più rivedere i loro amici, parenti, mogli e figli fino alla fine dei loro giorni.

Comunque, ora quel sogno è svanito.

Adesso sto cercando di comportarmi un po’ meglio. Ma non vi prometto niente.

Ah, e se vedete Germania, ditegli che mi dispiace per tutte quelle migliaia e migliaia di donne e ragazzine stuprate a Berlino. >>

 

Si rassetta la sciarpa dietro al collo e, sospirando melanconico, se ne va.

 

Il quarto ha gli occhi a mandorla, un portamento e uno sguardo che trasudano onore, dignità, valori in cui credere ciecamente fino alla morte. Al fianco ha legata, in un fodero scuro laccato, una lunga spada.

Ogni suo passo e il modo di sedersi sono rivolti al raggiungimento della perfezione.

 

<< Il mio nome è Giappone.

Sono sempre stato un tipo preciso, controllato, disciplinato, tranquillo. Un po’ scostante. Tutti mi ritengono per questo affidabile e ricco di fascino.

Ma io vi voglio mettere in guardia.

È proprio dai tipi come me, che dovete guardarvi. Non avete mai sentito che sono sempre i più insospettabili, che proprio per la misura a cui rigidamente si sottopongono, tirano fuori le cose peggiori quando il coperchio salta?

Il male, nella sua più vera forma.

L’ordine, l’efficienza, il rigore, sono il preludio della follia più pericolosa, proprio perché non te l’aspetteresti mai.

Non mi credete?

Nanchino, millenovecentotrentasette.

Sei settimane di saccheggio, sei settimana di massacro. Cinesi uccisi a baionetta uno dopo l’altro, come carne da macello, uomini, donne e bambini.

Senza motivo.

Familiari costretti a guardare gli stupri dei loro congiunti.

Figli costretti a stuprare le loro madri.

E varie altre perversioni che all’epoca mi dilettavano.

Unità settecentotrentuno.

Reparto scientifico incaricato di studiare la guerra batteriologica.

Su cavie umane. Sempre civili cinesi ovviamente.

Uomini, donne, anche incinte, bambini e neonati vivisezionati, mentre erano ancora svegli.

Fatti infestare da parassiti e ammalare dei peggiori morbi.

Lanciafiamme provati su gente legata a pali.

Lasciati senz’acqua e cibo per vedere quanto si può resistere senza prima di morire.

E molto, molto altro.

Forse avevo solo bisogno di sfogarmi un po’.

Ora, siete convinti di chi bisogna veramente avere paura? >>

 

E perfetto com’era entrato, senza incrociare nessun altro sguardo, va via anche lui.

 

Il quinto è biondo, possente, sicuro di sé nei suoi abiti vistosi, sfavillante dalla testa ai piedi.

Si fa avanti col petto in fuori, si siede, ripone nel taschino della giacca gli occhiali scuri e si sgranchisce il collo prima di parlare.

 

<< Il mio nome è America.

In quest’epoca, io sono il più grande. Per la mia gente, io sono il paladino, l’eroe, l’aquila che vola alta e guida il mondo verso il futuro più radioso, senza macchia e senza paura.

L’immagine è molto importante per una nazione, l’ho sempre detto.

Cominciamo col dire che il tanto bel parlare di diritti e libertà vale più che altro per me, e anche in me, non vale per tutti.

Sono nato scacciando chi c’era già: un popolo fiero, rispettoso del mondo, libero sul serio da qualunque catena, vera o allegorica, come quella dell’avarizia che non vuol saperne di schiodarsi dal mio posto.

Li ho chiamati barbari e selvaggi, e li ho mandati via, ristretto il loro spazio vitale, sempre di più, fiaccato i loro eroici tentativi di resistermi malgrado non potessero competere, fino a rinchiuderli nei recinti da me generosamente offerti in cambio di ciò che era sempre stato loro.

E quando gli ultimi hanno cercato di tenere vivo il ricordo ciò che erano stati, li ho uccisi dal primo all’ultimo, semplicemente perché volevano ballare, ancora, come avevano sempre fatto.

Da allora ne sono successe di cose, fino a farmi diventare il re del mondo.

La verità? Sono un prepotente, ho la forza e pertanto spadroneggio, compio il bene è vero, basta che me ne venga qualcosa in tasca.

Anche i paladini devono trovar di che vivere, no?

Almeno condivido i miei successi con gli altri miei amici: non manco mai di trascinarmeli dietro. Mal comune, mezzo gaudio, no?

In Iraq i miei bombardamenti hanno ucciso civili inermi, i miei soldati hanno umiliato col riso sulle labbra i prigionieri, e i miei tanto decantati marines hanno orinato sui nemici uccisi.

Ma in fondo, perché mai dovrei chiedere scusa? Che bisogno ce n’è?

Io sono il paladino. Io sono il più grande, in quest’epoca.

Chi mai mi verrà a rimproverare, quindi, che bisogno ce n’è? >>

 

Si rialza, spazzando via un po’ di polvere dai suoi vestiti.

 

<< Ops, mi sono dimenticato di quella faccenda del Vietnam… Oh, beh… >>

 

Facendo spallucce esce di scena; tanto ormai si era già alzato.

 

L’ultimo, è un uomo in divisa militare, una divisa nera.

Si avvia verso la sedia marziale, le suole delle sue scarpe battono cadenzate come un tamburo sul pavimento della stanza in cui è rimasto ora da solo. Incute autentico timore.

Ha gli occhi azzurri, i capelli biondi nascosti da un cappello nero, decorato sul davanti con un teschio argentato e due ossa incrociate.

Al braccio, in bella mostra, porta una fascia col triste e noto simbolo della croce uncinata.

Si siede piano, ripone il capello sulle ginocchia.
E sorride, affabile, verso il pubblico che non c’è.

 

<< Io sono Germania.

Che cosa ho fatto lo sanno tutti, no? Lo studiate sui vostri liberi di storia, lo mostrate nei documentari, lo ricordate e ancora ci piangete su.

Quindi, mi risparmio il racconto delle mie discutibili gesta.

Però, c’è un punto interessante che vorrei sollevare: perché solo io?

Perché vi ricordate solo di me?

Sarà che la storia è scritta dai vincitori, e che a questi a volte fa comodo additare soltanto un capro espiatorio, e nascondersi dietro le proprie glorie.

Ora però, che la nostra confessione è terminata, spero che voialtri possiate ricordare molto di più di quanto la “maestra di vita” pretenda di insegnarvi.

In conclusione, ora che avete ammirato l’orrenda magnificenza degli scheletri negli armadi degli altri, lasciate che mi tolga una piccola soddisfazione. >>

 

L’uomo si toglie la fascia che tiene al braccio e, continuando a sorridere, la mostra, badando che il simbolo sia bene in vista.

Dopodiché scandisce le parole della sua rivalsa.

 

<< Voi non siete nessuno per giudicarmi. >>

 

Detto ciò, getta a terra la fascia col simbolo.

 

Si alza e ripone il cappello sulla sedia.

 

Il tocco delle suole batte sul pavimento, ancora un po’ di volte; poi apre la porta e uscendo, spegne la luce.

 

 

 

 

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