La
stanza è buia.
Il
lampadario è acceso, e solo la sedia posta sotto di esso si staglia chiara, il
resto deve accontentarsi di una fredda penombra.
Quella
luce infatti non è lì per illuminare.
Non
deve rischiarare l’oscurità, deve mostrarla, per far sì che tutti la vedano.
Sei
persone aspettano appoggiate alla parete, silenziose, ma non ancora per molto;
tra poco, si siederanno su quella sedia, e sarà la loro oscurità ad essere
mostrata a tutti.
Si
fa avanti il primo, è basso, ha i capelli castani e chiari, e si avvia con
passo incerto e dinoccolato, sedendosi poi scompostamente.
<<
Il mio nome è Italia.
Tutti
dicono di me che sono simpatico, ma ingenuo e sempliciotto. Però, se la
situazione lo richiede, so fare il serio, lo giuro.
Durante
la guerra, i nemici sterminarono molta della mia gente, a volte interi paesini.
Ci raccolsero a caso dalle nostre famiglie per ucciderci nelle Fosse Ardeatine.
Gli
Yugoslavi fecero lo stesso con le foibe.
Poi
la guerra finì, e io fui di nuovo libero di rifarmi una vita migliore, e di
richiedere il conto che spettava a quelli che avevano sofferto.
E
sapete che ho fatto?
Niente.
Sono
stato io a non voler indagare, sono stato io a chiedere alla Germania di
insabbiare le indagini su quei suoi criminali che mi avevano ferito.
In
fondo, anche tra i miei c’erano criminali di guerra che mi avrebbero richiesto
indietro, una mano lava l’altra, no?
Me
l’avevano suggerito l’Inghilterra e l’America, e loro come stati hanno di certo
più esperienza di me.
Dovevo
farlo! La Germania sarebbe stata importante per il futuro dell’Europa e del
mondo, non potevamo accanirci di nuovo su di lei! Dovevamo averla dalla nostra,
i comunisti erano alle porte! Anche alle mie!
E
poi… tanto nel mio paese ce ne sono comunque moltissime di famiglie che
piangono perché i colpevoli delle stragi sono ancora là fuori, felici e
contenti.
Lo
ammetto, la giustizia non è mai stata il mio forte…
Ma non potevo fare il sempliciotto! Dovevo dimostrarmi razionale, ne andava di
cose molto importanti… Non potevo permettere che i comunisti avanzassero, gli
altri contavano su di me!
Ho
fatto bene, giusto?
Giusto? >>
Si
rialza e va via a passo svelto, col capo chino di vergogna.
Il
secondo arriva poco dopo.
Ha
i capelli scuri, selvaggi di ricci, e la carnagione abbronzata dal sole. Appena
giunge sotto il lampadario per sedersi, sul petto gli brilla il crocefisso
tutto d’oro che porta al collo, tempestato di pietre preziose, rosse come il
sangue.
<<
Il mio nome è Spagna.
Fui
io a scoprire quello che allora era il “Nuovo Mondo”, a spezzare le catene
della superstizione e ad aprire il mondo all’umanità. L’umanità d’Europa
almeno.
Vi
trovai ricchezze smisurate, abbastanza da rendere me la nazione più potente
sulla terra, almeno per qualche secolo.
E
trovai anche popoli, molti popoli, con la loro cultura, la loro arte, il loro
oro.
E
io lo presi, e li uccisi.
Erano
come bestie in confronto a me. Io avevo la tecnologia, io avevo la ragione.
Loro
non avevano nemmeno dio… Beh, almeno non il mio di dio.
Ho
cercato di portarglielo. Ma che lo volessero o meno, li ho fatti schiavi.
Li
ho fatti morire di fatica. E li ho lasciati a crepare con le malattie che io
stesso ho portato loro.
Beh,
l’hanno fatto anche gli altri miei degni “compari”, che mi sono venuti dietro.
L’ho
avuta io la fetta più grossa all’inizio. Poi l’oro e finito e pazienza, è stato
bello finché è durato.
Forse
con quei poveracci ho calcato troppo la mano. Ma se non avessi mai visto al di
là del mare, il mondo non sarebbe quello che è oggi. Non ci sarebbe stata forse
un America in grado di salvarci quando ce ne fu bisogno.
Forse
è stato il prezzo da pagare alla storia, tutto quel sangue, tutta quella
distruzione…
Erano
come bestie, lo giuro.
Selvaggi.
>>
Nell’alzarsi
stringe la croce, ma sembra più che altro voglia nasconderla.
Circospetto,
si allontana.
Il
terzo è alto ed ha un lungo cappotto, una sciarpa, e al centro del viso pieno un bel naso rubicondo.
Gli
occhi però sono azzurro freddo, freddo e insensibile, glaciale come la sua
voce.
<<
Il mio nome è Russia.
A
causa mia il mondo è rimasto diviso in due da una cortina di odio e diffidenza
per quasi cinquant’anni. O così dicono.
Se
i blocchi erano due, perché dare la colpa solo a me?
Inseguivo
un sogno, un sogno rosso e meravigliso, di pace, armonia ed uguaglianza.
Pur
di raggiungerlo, non mi importava di renderlo rosso di sangue. A pensarci bene,
divenne un incubo, anche per coloro che all’inizio ci avevano creduto.
Sapete,
sono stato un cattivo maestro: quando uno dei miei alunni sbagliava o mi
contraddiva, non esitavo a dargli uno schiaffo. Come quando Praga rifiutò di
sedersi al suo posto, pensava ancora di poter fare come gli pareva.
Ma
tornando a quel sogno, dicevo, per realizzarlo ho dovuto epurarmi da coloro che
si opponevano, ma così sono finiti sotto terra anche molti che non c’entravano.
Paradossalmente, ho fatto morire o scappare molta gente che mi avrebbe aiutato
sul serio a realizzare i miei progetti…
Però
ad alcuni è andata peggio.
Li
ho spediti in Siberia. Fa molto freddo laggiù, sapete?
Lì
ho mandati lì, a sgobbare nei gulag, nel freddo insostenibile, e lì sono
crepati, senza mai più rivedere i loro amici, parenti, mogli e figli fino alla
fine dei loro giorni.
Comunque,
ora quel sogno è svanito.
Adesso
sto cercando di comportarmi un po’ meglio. Ma non vi prometto niente.
…
Ah,
e se vedete Germania, ditegli che mi dispiace per tutte quelle migliaia e
migliaia di donne e ragazzine stuprate a Berlino. >>
Si
rassetta la sciarpa dietro al collo e, sospirando melanconico, se ne va.
Il
quarto ha gli occhi a mandorla, un portamento e uno sguardo che trasudano
onore, dignità, valori in cui credere ciecamente fino alla morte. Al fianco ha
legata, in un fodero scuro laccato, una lunga spada.
Ogni
suo passo e il modo di sedersi sono rivolti al raggiungimento della perfezione.
<<
Il mio nome è Giappone.
Sono
sempre stato un tipo preciso, controllato, disciplinato, tranquillo. Un po’
scostante. Tutti mi ritengono per questo affidabile e ricco di fascino.
Ma
io vi voglio mettere in guardia.
È
proprio dai tipi come me, che dovete guardarvi. Non avete mai sentito che sono
sempre i più insospettabili, che proprio per la misura a cui rigidamente si sottopongono,
tirano fuori le cose peggiori quando il coperchio salta?
Il
male, nella sua più vera forma.
L’ordine,
l’efficienza, il rigore, sono il preludio della follia più pericolosa, proprio
perché non te l’aspetteresti mai.
Non
mi credete?
Nanchino,
millenovecentotrentasette.
Sei
settimane di saccheggio, sei settimana di massacro. Cinesi uccisi a baionetta
uno dopo l’altro, come carne da macello, uomini, donne e bambini.
Senza
motivo.
Familiari
costretti a guardare gli stupri dei loro congiunti.
Figli
costretti a stuprare le loro madri.
E
varie altre perversioni che all’epoca mi dilettavano.
Unità
settecentotrentuno.
Reparto
scientifico incaricato di studiare la guerra batteriologica.
Su
cavie umane. Sempre civili cinesi ovviamente.
Uomini,
donne, anche incinte, bambini e neonati vivisezionati, mentre erano ancora
svegli.
Fatti
infestare da parassiti e ammalare dei peggiori morbi.
Lanciafiamme
provati su gente legata a pali.
Lasciati
senz’acqua e cibo per vedere quanto si può resistere senza prima di morire.
E
molto, molto altro.
Forse
avevo solo bisogno di sfogarmi un po’.
Ora,
siete convinti di chi bisogna veramente avere paura? >>
E
perfetto com’era entrato, senza incrociare nessun altro sguardo, va via anche
lui.
Il
quinto è biondo, possente, sicuro di sé nei suoi abiti vistosi, sfavillante
dalla testa ai piedi.
Si
fa avanti col petto in fuori, si siede, ripone nel taschino della giacca gli
occhiali scuri e si sgranchisce il collo prima di parlare.
<<
Il mio nome è America.
In
quest’epoca, io sono il più grande. Per la mia gente, io sono il paladino,
l’eroe, l’aquila che vola alta e guida il mondo verso il futuro più radioso,
senza macchia e senza paura.
L’immagine
è molto importante per una nazione, l’ho sempre detto.
Cominciamo
col dire che il tanto bel parlare di diritti e libertà vale più che altro per
me, e anche in me, non vale per tutti.
Sono
nato scacciando chi c’era già: un popolo fiero, rispettoso del mondo, libero
sul serio da qualunque catena, vera o allegorica, come quella dell’avarizia che
non vuol saperne di schiodarsi dal mio posto.
Li
ho chiamati barbari e selvaggi, e li ho mandati via, ristretto il loro spazio vitale,
sempre di più, fiaccato i loro eroici tentativi di resistermi malgrado non
potessero competere, fino a rinchiuderli nei recinti da me generosamente
offerti in cambio di ciò che era sempre stato loro.
E
quando gli ultimi hanno cercato di tenere vivo il ricordo ciò che erano stati,
li ho uccisi dal primo all’ultimo, semplicemente perché volevano ballare,
ancora, come avevano sempre fatto.
Da
allora ne sono successe di cose, fino a farmi diventare il re del mondo.
La
verità? Sono un prepotente, ho la forza e pertanto spadroneggio, compio il bene
è vero, basta che me ne venga qualcosa in tasca.
Anche
i paladini devono trovar di che vivere, no?
Almeno
condivido i miei successi con gli altri miei amici: non manco mai di
trascinarmeli dietro. Mal comune, mezzo gaudio, no?
In
Iraq i miei bombardamenti hanno ucciso civili inermi, i miei soldati hanno
umiliato col riso sulle labbra i prigionieri, e i miei tanto decantati marines
hanno orinato sui nemici uccisi.
Ma
in fondo, perché mai dovrei chiedere scusa? Che bisogno ce n’è?
Io
sono il paladino. Io sono il più grande, in quest’epoca.
Chi
mai mi verrà a rimproverare, quindi, che bisogno ce n’è? >>
Si
rialza, spazzando via un po’ di polvere dai suoi vestiti.
<<
Ops, mi sono dimenticato di quella faccenda del Vietnam… Oh, beh… >>
Facendo
spallucce esce di scena; tanto ormai si era già alzato.
L’ultimo,
è un uomo in divisa militare, una divisa nera.
Si
avvia verso la sedia marziale, le suole delle sue scarpe battono cadenzate come
un tamburo sul pavimento della stanza in cui è rimasto ora da solo. Incute
autentico timore.
Ha
gli occhi azzurri, i capelli biondi nascosti da un cappello nero, decorato sul
davanti con un teschio argentato e due ossa incrociate.
Al
braccio, in bella mostra, porta una fascia col triste e noto simbolo della
croce uncinata.
Si
siede piano, ripone il capello sulle ginocchia.
E sorride, affabile, verso il pubblico che non c’è.
<<
Io sono Germania.
Che
cosa ho fatto lo sanno tutti, no? Lo studiate sui vostri liberi di storia, lo
mostrate nei documentari, lo ricordate e ancora ci piangete su.
Quindi,
mi risparmio il racconto delle mie discutibili gesta.
Però,
c’è un punto interessante che vorrei sollevare: perché solo io?
Perché
vi ricordate solo di me?
Sarà
che la storia è scritta dai vincitori, e che a questi a volte fa comodo
additare soltanto un capro espiatorio, e nascondersi dietro le proprie glorie.
Ora
però, che la nostra confessione è terminata, spero che voialtri possiate
ricordare molto di più di quanto la “maestra di vita” pretenda di insegnarvi.
In
conclusione, ora che avete ammirato l’orrenda magnificenza degli scheletri
negli armadi degli altri, lasciate che mi tolga una piccola soddisfazione.
>>
L’uomo
si toglie la fascia che tiene al braccio e, continuando a sorridere, la mostra,
badando che il simbolo sia bene in vista.
Dopodiché
scandisce le parole della sua rivalsa.
<<
Voi non siete nessuno per giudicarmi. >>
Detto
ciò, getta a terra la fascia col simbolo.
Si
alza e ripone il cappello sulla sedia.
Il
tocco delle suole batte sul pavimento, ancora un po’ di volte; poi apre la
porta e uscendo, spegne la luce.
TONYCOCCHI