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Autore: Gwen Chan    17/01/2012    1 recensioni
La chiamano la "torta del ricordo", il dolce-albero composto da strati d’impasto e di memorie. Perché Gilbert ormai da tre ore rumoreggia, pretendendo a gran voce qualcosa per la merenda, nonostante il pranzo recente sia stato più che abbondante e lui debba ancora digerire il dolce; Roderich, da parte sua, seppur trovi tale atteggiamento veramente infantile, ritiene sia più economico e utile accontentarlo piuttosto che continuare a sorbirsi le lamentele del coinquilino, per non parlare del fastidiosissimo borbottio del suo stomaco.
[Seconda Classificata al contest [Hetalia] D~ is for Dorian's quote // «definire è limitare» indetto da pucchykø_girl]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo. Una parte di me: ricordi condivisi
Autore. Gwen Chan 
Rating. Giallo
Genere. Slice of life, malinconico
Personaggi. Austria/Roderich Edelstein; Prussia/Gilbert Beilschmidt. 
Avvertimenti. One-shot, shonen-ai
Citazione scelta. “Dietro ogni cosa squisita c'è sempre qualcosa di tragico” (n°16)
Dedica. A Nemeryal perché le sue storie mi hanno ispirato. E, soprattutto, perché ha ottenuto un meritatissimo primo posto al concorso [Hetalia] D-is for Dorian’s quote// "definire è limitare" indetto da pucchykø_girl
Eventuali note.
Il tema della baumtorte come torta del ricordo è tratto dal romanzo “Un perfetto gentiluomo” di Natasha Solomons. 
Devo anche rendere conto dell’ispirazione di tutte le fantastiche PrusAus di Rota e Nemeryal, che, volente o nolente, mi hanno di certo influenzato.
Mi sono concentrata più sulla parte emotiva che sulla correttezza storica che credo ci sia, ma non è il fulcro della fan fiction.
Note post concorso. Felice del mio secondo posto, ho modificato la ff seguendo tutti i preziosi consigli di pucchykø_girl.
 
 


 
 
UNA PARTE DI ME: RICORDI CONDIVISI
La chiamano la "torta del ricordo", il dolce-albero composto da strati d’impasto e di memorie. Perché Gilbert ormai da tre ore rumoreggia, pretendendo a gran voce qualcosa per la merenda, nonostante il pranzo recente sia stato più che abbondante e lui debba ancora digerire il dolce; Roderich, da parte sua, seppur trovi tale atteggiamento veramente infantile, ritiene sia più economico e utile accontentarlo piuttosto che continuare a sorbirsi le lamentele del coinquilino, per non parlare del fastidiosissimo borbottio del suo stomaco.
Austria stende il primo livello di pastella, quello che farà da base, destinato al passato più remoto, alla lontana infanzia. Mescola con fermezza e, per un attimo, ritorna bambino.
Coperto di lividi e graffi, è fuggito per l'ennesima volta da una guerra per la quale è ancora immaturo, troppo piccolo per tener salda la pesante spada che gli hanno messo fra le mani minute; il mantello verde ha i bordi sporchi di fango e sangue: una nazione non è mai troppo giovane per uccidere. I capelli castani coprono a ciuffi gli occhietti stanchi e le manine si cingono attorno al collo di Svizzera che sbuffa.
Gli piaceva il contatto della propria guancia sulla casacca ruvida dell'amico, amava udirne i borbottii e il rumore delle scarpe tra le umide foglie del sottobosco; sonnecchiava tranquillo, cullato dai passi di un Vash bimbo come lui, eppure già più maturo. 
E poi un giorno Svizzera si era trasformato in un nemico, in uno dei tanti domini degli Asburgo, da comandare, da sfruttare e reprimere se necessario. Roderich aveva pianto di nascosto, aveva pregato con fervore, inginocchiato sul gelido pavimento della chiesa, fin quasi a bruciare di febbre… Infine era crollato per la stanchezza.  Si era risvegliato un pochino più adulto, la spada un po' meno pesante. Questa volta nessuno sarebbe venuto a salvarlo, non erano ammessi errori. A combattere era stato un uomo.
 
Prussia deve avere nella pancia una molla, di quelle che stanno dentro certi giocattoli perché si muovano a scatti se caricati con l’apposita chiave, poiché proprio non riesce a stare fermo. Passeggia avanti e indietro per il salotto, sale e scende le scale, spalanca le finestre, entra con foga esagitata in cucina, gli strappa il cucchiaio dalle mani, glielo restituisce, gli passa un dito sulla guancia, dove è rimasto un baffo d’impasto. Apparentemente soddisfatto, si dilegua. 
Non è soltanto un voler essere fastidioso, non prova gioia nel disturbare gli altri spesso e volentieri nel momento meno opportuno. Austria questo ha imparato a comprenderlo in secoli di contrasti e punzecchiature. È solo una disperata paura della solitudine, sebbene l’altro non perda occasione per esaltare i vantaggi dell’isolamento volontario. Perché ha bisogno di essere notato, di avere la conferma del suo essere vivo, soprattutto ora che sta scomparendo. Chi sia non ha importanza, è sufficiente che qualcuno si accorga che esista.
È la stessa solitudine che Roderich ha assaporato da ragazzino.
 Ha la sensazione che Gilbert saprà gustare il primo strato col giusto spirito.
 
Il secondo livello contiene un palazzo immenso e una donna coraggiosa. Teresa da fanciulla aveva la grazia di una rara stella alpina, la forza di un torrente in piena e la tenacia di una montagna. Austria se la ricorda giovinetta, seduta composta davanti al pianoforte, tutta pettinata e agghindata con i nastri fra i capelli, in posa mentre veniva ritratta - era tanto graziosa!- o dritta e fiera vicino all'imperatore Carlo VI, che in lei aveva riposto le sue speranze, tormentato nella ricerca di una soluzione che impedisse alla dinastia asburgica di estinguersi e proteggesse il trono austriaco dalle avide mani delle famiglie reali d’Europa. 
Vuole che dal gusto della torta traspaiano la paura intravista negli occhi limpidi della principessina il giorno dell'incoronazione, la fiducia reciproca, la passione profusa dalla sovrana illuminata per il miglioramento della nazione. Desidera che Prussia abbia una visione a tutto tondo dell'imperatrice contro la quale per anni ha combattuto.
Quando Teresa lo convocava in camera la sera, per discutere faccia a faccia e confessargli tutti i dubbi e le indecisioni; nonostante fosse ormai grassa e sfiorita a causa delle gravidanze continue, per Austria rimaneva la sua stupenda regina. 
 
Un rumore lo fa voltare di scatto, col rischio di rovesciare la ciotola tenuta semi inclinata sul ripiano di legno. Prussia, di ritorno da chissà quale caccia al tesoro in soffitta, sbatte sul tavolo un pesante e muffito librone. Austria ha il forte dubbio, quasi la certezza, che l'albino soffi apposta la polvere nella sua direzione, cosa talaltro davvero poco igienica, e lo faccia starnutire.  
"Dio, quanto eri buffo!" gracchia il prussiano nello studiare la versione in miniatura di un vecchissimo ritratto a olio, in cui un Roderich adolescente vestito con ricercati abiti settecenteschi fa capolino in mezzo ai membri della famiglia reale.
"Prussia, sarebbe un grande fastidio per te permettermi di lavorare senza disturbarmi?" ribatte, pacato.
Segue il silenzio prima che Gilbert stabilisca che il damerino, dopotutto, può anche essere privato per una mezz'ora della sua Magnifica presenza senza il rischio che entri in crisi di astinenza. Sbuffando, stringe tra le braccia l’album, prende a pedate la porta, poco educatamente, ma del resto ha le mani occupate, ed esce. Un'immagine scivola fuori dalle pagine, metà per caso, metà per volontà, e si posa ai piedi di Roderich. Si china a raccoglierla: da oltre le nebbie del tempo, Teresa gli sorride.
 
Il terzo strato racconta di tante principesse, tutte farfalle volate via; del resto era il loro dovere: essere strumenti di scambio per ricamare un elaborato pizzo di potenti alleanze. Tutte avevano “Maria” nel nome. Quanta confusione se ne chiamava una e accorreva trafelata un’altra!
Tutte, dalla più grande alla più piccina, avevano danzato il valzer volteggiando spensierate tra le sue braccia negli immensi, scintillanti, saloni dello Schönbrunn. Di ritorno dalla battaglia, era accolto dai loro volti ridenti, si ritrovava circondato da un fruscio di gonne e parrucche vezzosamente incipriate e acconciate in pericolanti impalcature. Distaccato, sorrideva di nascosto quando le udiva spettegolare tra loro e con Ungheria; in camicia da notte le principessine vagavano a piedi nudi tra i corridoi del palazzo immersi nell'oscurità, s’infilavano timidamente nelle sue stanze private e pretendevano il bacio della buonanotte. Tutte così frivole, così ingenue, così ignare! Una dopo l'altra avevano incontrato il loro destino. Tra loro c'era Antonietta.
Le speranze dell'imperatrice di unire la casata ai Borbone di Francia si erano tinte di sangue. Austria non aveva spezzato il suo contegno con inutili lacrime. Non sarebbe stato un comportamento consono. 
Era ancora solo una ragazzina, capricciosa, ignara del mondo, persino viziata, ma poco più che una bambina. No, alla sua partenza per andare in sposa al Delfino di Francia, Roderich con Teresa non aveva sollevato obiezioni.
 
La musica- se il pestare i tasti a caso può essere considerato tale- che proviene dal salotto lo informa che Prussia ha trovato l'ennesima via per infastidirlo. Le note martellanti stridono in maniera terribilmente irritante e Austria si appunta mentalmente di insegnargli alla prima occasione qualche melodia semplice, ma che sia almeno orecchiabile. Sdeng, sdeng, sdeng… vorrebbe avere quattro mani per potersi tappare le orecchie e continuare a impastare.
Eppure in quella strana, acida, composizione improvvisata riscopre espresse le proprie emozioni, risente la sinfonia dello strazio e del rimpianto. 
 
Austria era ben consapevole che il suo sarebbe stato un matrimonio di convenienza, anzi un’unione politica, stabilita dalla famiglia imperiale per tenere a bada una nazione animata anch’essa dal fervore della libertà. Eppure, mentre si preparava per il gran giorno, indossando con ansiosa tranquillità la divisa da alto rango bianca, che la servitù gli aveva fatto trovare nello spogliatoio, non riusciva a evitare di fremere di una gioia discreta al solo pensiero. Si mormorava che fosse un matrimonio di Stato, ma come poteva la gente conoscere i suoi sentimenti più profondi, quelli che serbava nel cuore? Roderich amava Elizavetha; l’aveva ammirata da lontano da bambini, l’aveva accolta nella sua dimora, si era stupito nel vederla sbocciare da bambinetta cenciosa in donna fiera e stupenda. 
Ungheria apparve sulle porte della cattedrale degli Agostiniani, illuminata alle spalle dalla pallida luce del sole mattutino. Il semplice abito candido le fasciava il seno in maniera quasi provocante; la ragazza, memore del proprio trascorso da nomade cavallerizza, aveva rifiutato qualunque fronzolo I lunghi capelli castani, acconciati in una morbida treccia avvoltolata attorno al capo, le ombreggiavano il viso, appena imporporato, con un lungo ricciolo ribelle.
Gli occhi di smeraldo luccicarono d’imbarazzo misto a felicità non appena incrociarono quelli dello sposo. 
Attraversò la navata ad ampie falcate, sebbene le avessero raccomandato più e più volte di camminare con calma, a piccoli passi, come si addiceva a una vera dama. Tanto grande era la sua impazienza di unire la propria vita a quella dell’austriaco.
“Per sempre indivisibili e inseparabili.” sussurrò Roderich, facendo scivolare la fede sul dito della ragazza.
 
Nel frattempo Gilbert prosegue imperterrito nella sua musica da autodidatta. 
Quanto sta suonando potrebbe somigliare a una marcia nuziale, se non fosse così distante dalla versione originale da risultare irriconoscibile a un qualsiasi orecchio che non sia allenato e fine come quello di Austria. Soltanto lui che è capace di cogliere anche le melodie più timide, celate dietro al frastuono e alla cacofonia. Tuttavia non riesce a comprendere perché Prussia si ostini a tormentare il pianoforte- il suo amato e costoso pianoforte!- quando ha già dimostrato uno spiccato talento per altri strumenti. Primo fra tutti spicca quel flauto che Roderich ha ascoltato cantare note limpide e notturne, che il giovane, chiuso nella sua camera, preda dell’insonnia e forse della malinconia, ha modulato con le dita pallide, sicuro di non essere scoperto. 
 
Il signor Edelstein impasta immagini di guerra.
 Prima viene il lungo conflitto contro la Prussia a difesa della propria sovrana, poi le ripetute battaglie e le repressioni nei confronti di uno Stato debole, eppure determinato a rendersi indipendente e che, ingrato per i secoli di protezione, puntava la baionetta contro le truppe austriache. Infine uno sparo squarcia la quiete di un giorno di festa, uno studente serbo fugge, l’arciduca si accascia, ed ecco una nuova guerra, tremenda, folle, che ancora lo assorda col rumore delle bombe. Dove non si trovavano né vinti né vincitori, solo cadaveri, montagne di cadaveri, ammucchiati in una terra detta "di nessuno" e per cui tutti si scannavano.
Trento, Trieste, Caporetto, le marce sfiancanti, la disfatta, i bagliori dei razzi segnalatori, il gas, gli occhi che bruciavano, le urla, la fame, i vermi, gli ospedali da campo sudici, le infezioni, gli storpiati, il fragore delle mitragliatrici, tutto si mescola in un’accecante girandola e il cucchiaio gira, gira. 
Quando lui, abituato alla raffinatezza e all'eleganza, aveva dovuto sopportare il sangue secco sulle mani ruvide e coperte di vesciche e il brulicare dei pidocchi nei capelli e la puzza dei vestiti indossati per settimane. Quando, debole e paralizzato sulla sedia a rotelle, la momentanea sordità lo aveva privato persino della consolazione della musica. Quando gli avevano strappato Elizavetha, la sua amata sposa, e il suo Impero si era sgretolato.
Gilbert ha per fortuna abbandonato il tentativo di violentare il pianoforte; nel compenso si è buttato a capofitto sul canto. Modula a gran voce, perché chiunque nel raggio di due chilometri sappia quanto sia magnificamente pieno di talento, note ruvide, quasi stonate, amare, in una triste canzone di guerra, di quelle sussurrate in trincea per trovare nel loro ritmo cadenzato calore e coraggio. Anche Roderich la conosce, spesso l’ha intonata lui stesso. 
Per una volta lui e Prussia erano stati alleati. Durante la conferenza di Berlino, da una parte il vecchio Francesco Giuseppe gli aveva dato un colpetto sulla spalla, dall'altra il Cancelliere Bismarck aveva ripetuto il gesto con Gilbert e le due nazioni erano state costrette a stringersi la mano. 
"Non puoi fare a meno di me, eh, damerino!"
 
L’ultima parte di torta prima che questa sia infornata narra di un’altra guerra, ancora più sanguinosa, più orribile, più tremenda, nata dalle ceneri dell'ingiustizia, della superficialità, dell'odio che è padre della vendetta. Una guerra che avrebbe dovuto essere l'ultima se non fosse per la bestialità degli uomini. Segreti impronunciabili sono gli ingredienti del dolce, orrori nascosti a pochi chilometri da Vienna, contro i quali Austria aveva potuto solo chinare la testa davanti al nuovo occupante, limitandosi a fingere, a tediarlo come una “mogliettina adirata”, a sprangare le finestre e a suonare con tutta la propria disperazione.  La musica era l’unica via che conosceva per espiare.
Se, pistola alla mano, lo costringevano a visitare quei luoghi, nascondeva il proprio turbamento dietro a una maschera di freddo distacco; non era altezzoso, solo terribilmente disgustato. Se gli ordinavano di uccidere, sparava, non aveva altra scelta. Se si ritrovava piegato in due a rigettare l’anima, nessuno doveva accorgersene.
 Anche Prussia, persino lui, era stato immerso sino al collo in quel marciume, era rimasto invischiato nella pece del male e Austria questo non sarebbe riuscito a cancellarlo dalla propria memoria.
Ci sarebbe tanto altro da raccontare, tante altre memorie da aggiungere, ma la baumtorte è già sufficientemente alta e dubita che Prussia possa ancora aspettare.
 
Mani eleganti poggiano sul tavolino del salotto un raffinato piattino bordato d’oro su cui traballa una grossa fetta di dolce a strati. Prussia si sfrega le palme soddisfatto, passa la lingua sulle labbra e, affamato, quasi gli strappa il piatto, col rischio di provocare un disastro di briciole sul tappeto persiano.
“Ce ne hai messo di tempo, eh, damerino!” commenta durante l’assalto alla fetta, che cerca, senza troppo successo, anzi quasi slogandosi la mandibola, di ingoiare in un unico enorme boccone. 
“Buona!” afferma mentre mastica, con la conseguente visione, ovviamente non voluta e alquanto disgustosa, da parte di Roderich dell’intenso lavoro di denti e lingua che sta avvenendo nella bocca del prussiano. Infine si lecca letteralmente le dita e ripulisce il piatto dai rimasugli di dolce.
La torta non è solo squisita, come solo Austria, il viziato damerino, è capace di renderla; non ha solo una consistenza che si sbriciola deliziosamente sotto il palato, c’è qualcosa di più, quasi contenga un ingrediente segreto che è necessario afferrare per goderne appieno il sapore. Gilbert si mordicchia l’interno delle guance e riflette, nel tentativo di comprendere il motivo della bontà della baumtorte e della tristezza che di botto l’ha invaso. Che cos’è questa malinconia che ora gli stringe lo stomaco?
Si lambicca il cervello, esprime rumorosamente il proprio disappunto pestando gli stivali sul pavimento di marmo, senza complimenti si serve un altro pezzo di dolce e un altro ancora finché, quando ormai metà torta si è volatilizzata, l’uomo è investito da una lunga serie di ricordi, memorie non sue, ma non per questo meno coinvolgenti. La bocca si riempie col retrogusto amaro del senso di colpa.  
Roderich, paziente, si sporge verso di lui e gli passa un tovagliolo candido sulle labbra sottili; Gilbert- in fondo sarebbe stato dovere dell’austriaco aspettarselo- lo afferra per il colletto della camicia, lo scruta con gli occhi color carminio, rosso che si specchia nel viola, ne approfitta per strappargli un rapido, casto bacio e tutto finalmente acquista un senso: dietro ogni cosa squisita c’è sempre qualcosa di tragico.
 
Questo è il giudizio lasciato al contest
 
Innanzitutto: ho trovato la storia molto originale, in particolare per come l’idea della Baumtorte come torta della memoria calzasse alla perfezione con la citazione da te scelta; rende in maniera perfetta la mia visione dello sviluppo di citazioni e di prompt – ma su questo punto avevate carta bianca – si prende una frase, la si legge e da lì nascono le idee. 
Perlomeno, questa è stata la mia sensazione leggendo la storia. 
Mi è sembrata quasi una struttura circolare, il cui inizio è il concetto centrale che solo nel finale esplica se stesso, nel rendere la citazione una parte integrante se non la chiave di lettura di tutta la storia. 
Sono una persona parecchio pignola, in particolare quando si tratta di fluidità e scorrevolezza del testo, per cui ti ho annotato suggerimenti e correzioni qua e là nel racconto, in particolare in alcuni punti di passaggio: ho visto che hai la tendenza a non dividere i diversi blocchi logici, e questo alle volte può inficiare la fluidità e interrompere bruscamente la lettura; la cosa è fastidiosa, in particolare se uno è nel momento clou e vede interrompersi il punto saliente sul più bello. 
In alcuni punti ho trovato delle improprietà linguistiche, legate più che altro a questioni di correlazioni tra subordinate e indipendenti – nello specifico: c’è un uso poco chiaro o alle volte addirittura completamente errato delle consecutive e delle rispettive antecedenti. 
In generale, comunque, ho trovato il racconto nel suo complesso sufficientemente fluido, senza eccessivi giri di parole, benché il linguaggio non fosse propriamente “terra-terra”; d’altro canto, sminuire oltremodo il livello linguistico non avrebbe a mio avviso reso giustizia all’intera storia. 
Mi è piaciuta molto la struttura che hai scelto, che, se da un certo punto di vista sembra quasi scontata, dall’altra non credo lo sia completamente: scegliere un ricordo per ogni piano della torta è qualcosa che, oltre ad essere logico, è anche un po’ “automatico”, ma la scelta nel particolare dei singoli eventi, costituisce una singolarità. 
In particolare nel costituire un climax drammatico che si conclude con l’Anschluss del ’38 e la Seconda Guerra Mondiale, che – condivido – è forse il momento peggiore non solo della storia austriaca, ma anche di quella europea. 
Mi sono sentita molto coinvolta dall’enfasi con cui hai raccontato i ricordi di Roderich, usando tra l’altro un espediente che io apprezzo molto: l’indiretto libero; un filtro dei pensieri di Austria che ai miei occhi è risultato molto Verghiano, ma anche molto sulla falsa riga del flusso di pensieri di Joyce e Schnitzler e, sì, se non s’era capito—ho apprezzato davvero molto. 
Ho trovato la tua descrizione dei personaggi veramente calzante, e non solo quella di Austria su cui – essendo il protagonista, del resto – hai sicuramente sprecato più parole, ma anche quella che hai attribuito a Gilbert, che se in un primo momento sembra solo una presenza di poco conto, poi si rivela più importante, man mano che il climax di ricordi cresce. 
Gilbert che è un po’ una costante della vita di Austria fino a quel momento, e continua ad esserlo anche quando Roderich esprime la volontà deliberata di mettere – letteralmente – tutto se stesso in quella torta. Questa dinamica tra i due è qualcosa che mi ha affascinato e coinvolto davvero tanto, e credo anche sia una grande nota di merito per la storia. 
Dall’altra parte, però, ho trovato il finale un po’ eccessivamente sbrigativo, soprattutto dopo che si è calcata la mano sulla presenza di Gilbert nei ricordi di Roderich; avrei preferito una riflessione fluida e ragionata quanto tutte le singole precedenti, invece sono rimasta un poco delusa dal finale che, sì, è ad effetto, ma riduttivo rispetto ad una storia fino a quel momento carica di pathos. 
In alcuni punti, mi ha un attimo disturbato l’uso di termine “da coiffeur”, nel particolare – credo tra l’altro l’unico che hai utilizzato – “l’albino” in forma pronominale per Gilbert; sono conscia che spesso l’utilizzo di dati aggettivi per non ripetersi in continuazione possa derivare da una deformazione anglofona (non so se è il tuo caso), ma dall’altra sono dell’idea che le perifrasi siano un grande punto di forza della nostra lingua, per cui non trovo troppo logico scegliere di non usarle, soprattutto nel caso della tua storia, il cui testo non è per nulla pesante o troppo ridondante – a parte rari casi che ti ho segnalato nel testo – da permetterti ‘qualche parola in più’. Inoltre denotare una persona con termini quali “il biondo”, “il moro”, sembra dare ad essi un’accezione quasi spregiativa, e disumanizzante che a me personalmente non sfizia molto. 
Sottolineando, poi, come ti ho scritto anche direttamente sul testo, che l’albinismo è una malattia genetica, e anche se a tratti somatici Gilbert potrebbe rientrarci pienamente, credo comunque sia un termine improprio da attribuirgli. 
Posti questi aspetti, la storia nel complesso mi è molto piaciuta, sia per i motivi che ti ho già illustrato in precedenza, sia perché credo tu abbia il grande dono di saper coinvolgere le persone tramite un’astuta scelta di termini. Ho apprezzato anche il ritmo lento e cadenzato – proprio quello di un “flusso di coscienza”, di “fotogrammi di memoria” – che hai voluto dare alla storia e che sicuramente hanno aiutato, mentre cercavo di figurarmi le immagini che ritraevi: mi immagino proprio Roderich con questo sorriso dolceamaro preparare la Baumtorte, i ricordi che si affollano nella mente, Gilbert che condisce con il suo disturbante sottofondo ogni movimento… 
Li ho trovati molto “loro” in questo aspetto, ma come ti ho già sottolineato qualche riga prima, credo che questa caratteristica – nonché forza portante della storia – si perda un po’ nel finale. 
Anche se sulla storia ti ho segnato molte cose – che, sottolineo, sono più che altro consigli, non regole rigide e ferree (se non in casi particolari) e men che meno quel che dico io è oro colato – nel suo insieme l’ho trovata ottima, e penso renda meglio l’idea dirti che mi ha appassionata, benché i due personaggi non siano esattamente i miei preferiti. Più che altro, ti dirò, proprio Austria, per certi versi, mi è un po’ insipido, ma hai saputo renderlo in un’ottica che rinamendo aderente al canon, me l’ha fatto apprezzare un po’ di più. 
Inoltre, sono rimasta piacevolmente colpita dagli accenni storici: sono una nerd in questo frangente, per cui spesso mi ritrovo a storcere il naso su piccole imprecisioni che trovo qua e là in alcuni racconti, ma tu – rimanendo cautamente sul vago in alcuni punti – hai saputo rendere bene quest’aspetto, forse anche in fede di un tacito rapporto tra autore e lettore—con questo intendo dire che: rimanere sul vago, spesso, aiuta a non appesantire troppo la storia e sicuramente a renderla alla portata di tutti (io spesso pecco del contrario, infarcendo i miei racconti di cenni storici che i più giustamente non colgono, perché magari non interessanti all’argomento) ma dall’altra dà per scontato che chi legge sappia cogliere, e quando questo non avviene può nascere un certo disappunto nel lettore o c’è il rischio che non colga appieno il significato della storia; questo, ora, esula un po’ dalla storia in sé, ma consiglio in via di pubblicazione di aggiungere qualche nota, ad inizio o a fine storia. 
Questo non ha inficiato il parere che mi sono fatta di questa storia, sia ben chiaro, è un semplice consiglio che ti butto lì, visto che ho lo spazio per farlo. 
In generale, comunque, il mio è giudizio sicuramente positivo, quello che è mancato alla storia per renderla perfetta è stata la mancata continuità nel tono fluido e semplice (qualche punto era di difficile lettura a causa di mancate concordanze tra le frasi all’interno del periodo, altre frasi erano esageratamente cariche di punteggiatura ed interrompevano bruscamente il ritmo della lettura) e il finale che a mio avviso non rende pienamente giustizia ad una storia che per tutta l’idea che vi è dietro trovo molto interessante e originale.
   
 
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