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Autore: Glory Of Selene    19/01/2012    1 recensioni
"È qualcosa di talmente toccante – suonato qui, ora, da un uomo ormai sfinito dal dolore – che mai si vorrebbe che finisse; ma le note si interrompono di colpo, sgradevolmente. Il suonatore si è accasciato sul proprio strumento, come si affloscerebbe un bimbo perduto e spaventato sul petto della madre, incapace di trattenere le lacrime."
E' Tuomas Holopainen l'uomo che si ritrova a piangere disperatamente al'interno di una buia soffitta. Viene però irrimediabilmente disturbato nella sua intimità da un uomo, venuto lì dal nulla. Senza volerlo, il musicista si ritroverà a raccontargli le vicende della sua vita che l'hanno portato a quella soffitta polverosa. Tutte legate alla figura di una donna, che ha ispirato tante delle sue canzoni...
Allora, avevo intenzione di descrivere i momenti struggenti di un intenso amore di Tuomas, ma nello scrivere non so perchè mi è venuta una storia così malinconica! Sono soddisfatta della trama, ma credo che tutta questa malinconia di fondo vi faccia scappare via xD Mi raccomando di recensire :P
Genere: Malinconico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tuomas Holopainen
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

Il pianto di un uomo. Che cosa, tra i tanti fenomeni che esistono al mondo, può esprimere meglio l’immenso dolore di una voragine scavata nei propri sentimenti?
Un pianto. Un pianto disperato, singhiozzi talmente potenti da riuscire a scuoterne il corpo, eppure non riescono ad eguagliare la forza dell’emozione trafugata che ora piange quest’uomo.
Egli è inginocchiato a terra, reclinato su sé stesso come a proteggersi da un pericolo esterno – quando invece tutto ciò da cui si dovrebbe guardare è una malattia che famelica si sta facendo strada verso il suo cuore –, le braccia si stringono a vicenda e la fronte, appoggiata al terreno sporco, è nascosta dalle lunghe ciocche dei suoi spettinati capelli neri. La sua schiena, unica cosa ben visibile, è violentemente scossa da quei singhiozzi che non si vogliono fermare, che lo stanno sfinendo uno dopo l’altro, come i tuoni della pioggia che appena si riesce ad intravedere fuori da una finestra dal vetro troppo sporco.
E l’unica malattia di quest’uomo, e l’unica sua maledizione – una terribile, terribile maledizione invero –, è stata l’amore. E le mani che gli stanno scavando nel cuore e nel petto appartengono ad esseri che, ora persi nella perversione del loro sadismo, vengono chiamati ‘ricordi’.

«Tu. Sì, tu ragazzo.»
A lui, irrimediabilmente disturbato nello sfogo di un dolore così intimo, non rimane che alzare di scatto la testa e piantare lo sguardo degli occhi chiari, arrossati dal pianto insistente, sull’inaspettato interlocutore.
Egli non è null’altro che un uomo dall’aspetto ordinario, e la descrizione di un simile soggetto – che quasi salta all’occhio nella sua banalità – parrebbe solo sprecata.
«Perché questo?»
Togliendosi dagli occhi le tracce delle sue ultime lacrime – con la stessa rabbia di un bambino orgoglioso sorpreso a piangere per un futile motivo –, egli lo guarda senza capire.
«Perché ti trovi qui, rimani di fronte a me, in un atteggiamento tanto umiliante?»
Sì, questa volta ha ben capito la domanda, ma non ha alcuna intenzione di rispondere. E non gli importa chi sia quel tizio, mai visto in vita propria questo è ovvio, non gli importa nemmeno come abbia fatto a trovarlo lì, ad arrivare fino a lì, quando avrebbe giurato che non ci fosse stato nessuno. Questo perché, con le sue sciocche domande, quella persona ha osato fare un gesto davvero riprovevole.
Non si disturba un uomo nell’atto sacro di sentirsi fragile e precario come un bambino appena nato.
«Come ti chiami?» chiede alla fine.
Un altro attimo di esitazione.
«Tuomas.»
Il nome, almeno, può concederglielo.
«Tuomas. Che cosa fai per vivere? Hai un lavoro? È per questo che piangi?»
È un rapido sguardo assassino quello che ora fulmina l’indesiderato intruso. Vorrebbe urlargli di non trattarlo come uno stupido bambino piccolo, di andarsene da lì. Di lasciarlo solo…
Ma non è quello che farà. Si alza invece, si toglie la polvere dai pantaloni – da quanto tempo si trova inginocchiato lì per terra? – e decide di sedersi su un oggetto, non meglio identificato tra tutta quella polvere. Non incrocia lo sguardo dell’uomo misterioso però, no, non è benvoluto, è uno spiacevole estraneo al dolore che gli dilania l’anima.
Perché i ricordi sono ancora lì, stanno ancora scavando, stanno ancora ridendo del dolore che gli stanno provocando.
E tutto ciò che lui vuole è essere nuovamente lasciato solo, per potersi di nuovo sfogare, per potersi sfogare per sempre. Intanto, tutto quel malsano sentimento si raggruppa sul fondo dei suoi occhi – che ora come ora sono grigi, grigi come il mare in tempesta, negli abissi dei quali si trova il mostro oscuro dell’odio e del dolore –.
«Sono un musicista.»
Il tono è piatto, incolore, forse è stato divorato da quei singhiozzi così violenti.
«Un musicista! È esattamente quello che ci vuole in una giornata come questa.»
Come a sottolinearne le parole, un lampo ora illumina la stanza, destinato a spegnersi veloce com’è apparso. E ora rimane solo il febbricitante tempo dell’attesa, prima che il cielo urli tutta la propria rabbia.
«Sai suonare il pianoforte?»
Il cupo silenzio di Tuomas e il suo gelido isolamento viene momentaneamente interrotto da uno sguardo stupito, un’ombra di colore nell’espressione svuotata, ma solamente una lieve ombra sbiadita.
Solo ora si accorge di essersi seduto sul vecchio sgabello di un pianoforte, con il cuscinetto una volta di pelle squarciato dal tempo.
Senza neanche respirare, egli si gira, alza il telo bianco che copre lo strumento, ignorando la quantità di polvere che gli si è abbattuta addosso. Adesso non sente neanche più la presenza dell’indiscreto disturbatore, il ritrovamento della sua arte – della sua vita – gli sta risucchiando quelle poche energie che gli rimangono.
Le sue lunghe dita tremanti alzano la copertura di legno scuro che schiude il bianco d’avorio (rovinato dagli anni e dalla mancata manutenzione) di quegli splendidi tasti.
Una lunga nota vibrante riempie ora la stanza.
Tuomas chiude gli occhi, reclina in basso la testa, assaporando in solitudine i propri personali demoni sotto l’insistente sguardo dell’altro uomo.
Le sue dita si muovono da sole, i suoi occhi sono ancora chiusi eppure una dolcissima melodia comincia a danzare a passi lievi per la stanza vuota e abbandonata.
E la melodia continua, ancora e ancora, e la sua dolcezza è inaudita, nessuna parola potrebbe mai descriverla, solo le sue note riescono ad esprimerla sfiorando con timide, struggenti carezze il cuore di chiunque la ascolti.
È qualcosa di talmente toccante – suonato qui, ora, da un uomo ormai sfinito dal dolore – che mai si vorrebbe che finisse; ma le note si interrompono di colpo, sgradevolmente. Il suonatore si è accasciato sul proprio strumento, come si affloscerebbe un bimbo perduto e spaventato sul petto della madre, incapace di trattenere le lacrime.

«Questa canzone… questa canzone si chiama…Ever Dream.»


  
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