Every Step To The Pass
A well-remembered voice
Un
viaggio di mille miglia comincia con un solo passo
[Lao Tse]
John
Watson rimase fermo sul marciapiede di fronte al 221b di Baker Street
per una decina di minuti prima di fare un passo avanti.
E poi un
altro, subito dopo, indietro.
Qualcosa
di bagnato gli cadde sulla guancia e la sua mente a malapena registrò
l'informazione su un probabile imminente rovescio, troppo impegnata
nel far fronte ad un problema decisamente più spinoso.
Perché
dalla pioggia poteva sempre ripararsi, infondo.
Ma da
quello...
Il pensiero di fermare
il prossimo taxi e tornarsene dritto di filato a casa venne
praticamente placcato e messo al tappeto da un altro, più
insinuante e mordace.
Un anno prima quel portone nero, con il
civico dipinto in numeri e lettere dorate sul vetro a mezzaluna e la
pesante maniglia centrale, era l'ingresso di casa sua.
Loro.
Un taxi
nero gli sfrecciò davanti.
Così un altro, due minuti
dopo.
E un altro.
Ma lui continuò a dondolarsi da una
gamba all'altra, con le mani infilate nelle tasche del giubbotto nero
e lo sguardo sempre fisso davanti a sé, che vagava dal portone
di fronte all'asfalto antracite ai suoi piedi. Quando provò a
sollevarlo solo di poco, per mettere a fuoco la finestra del suo
(loro) ex salotto il viso sbiancò e le labbra gli
tremarono cogliendo un'ombra muoversi e poi scomparire dietro le
cortine chiare.
Le mani avevano già preso a sudare
copiosamente, nonostante il freddo pungente di quella mattina, prima
che la sua lucidità, dopo un decimo di secondo di funzionalità
interrotta, tirasse le redini dei suoi pensieri senza controllo e gli
comunicasse che con schiacciante probabilità quell'ombra altro
non era che la signora Hudson impegnata a pulire la stanza.
Chi altri, John?
La
sensazione che seguì, la morte di una speranza repressa da
mesi, di un desiderio incessante che la sua mente ancora non era
riuscita a seppellire sotto il peso dell'evidenza dei fatti, gli
provocarono una ben nota sensazione di fastidio a livello del
petto.
Pungente e acre, quella percezione risalì dal cuore
alla gola, graffiandola e chiudendola in un groppo rigido.
John lo
scacciò via tossendo e distogliendo immediatamente lo sguardo
dalla cornice chiara della finestra.
Chiuse gli occhi, fece
qualche respiro profondo e si ripeté per la centesima volta
che stava andando bene.
Forse, prima di mezzanotte sarebbe
persino riuscito ad attraversare la strada.
Cacciò
fuori l'aria dalla bocca, trasformandola in una nuvoletta chiara, e
si diede dello stupido.
Non era così difficile
infondo.
Bastava mettere i passi uno dietro l'altro, non farsi
investire, avvicinarsi al portone e suonare il campanello.
No?
No.
Il solo
pensiero di rimettere piede nel vecchio appartamento riusciva ad
immobilizzargli i muscoli. Per sei mesi aveva evitato di tornarci,
persino di avvicinarsi a quel quartiere. Non lo aveva fatto
volontariamente o, come avrebbe tenuto a fargli notare la sua
analista, non consciamente. All'inizio, dopo quello che era
successo, aveva solo deciso di prendere una valigia piena dei
suoi vestiti e andarsene via per qualche giorno, in un hotel, per
evitare i giornalisti e tutte le altre rogne.
Per
evitare di intravedere il fantasma di Sherlock disteso sul divano o
in piedi in procinto di suonare il violino.
Aveva dormito nella sua
stanza al 221b solo la prima notte.
Praticamente crollato
sulla poltrona, troppo stanco e troppo sopraffatto.
Era
piombato in un torpore senza sogni, in uno stato di dormiveglia che
si era protratto fino alle prime luci dell'alba, quando aveva aperto
gli occhi, disturbato dal rumore della pioggia e dall'impressione che
la porta d'ingresso avesse sbattuto violentemente, al seguito di
passi frettolosi e famigliari.
"Sherlock!" aveva urlato
alla stanza vuota, spalancando gli occhi e tendendo ogni singolo
muscolo del corpo fino allo spasmo per essere accolto solo da un
fastidioso e incolmabile silenzio vuoto.
La prima di innumerevoli
volte, di lì ai mesi che erano seguiti, in cui un singolo
spiffero d'aria nella sua nuova stanza o un giaccone lungo nella sala
d'aspetto dell'ambulatorio dove aveva ripreso a lavorare avevano
costruito un castello di speranza destinato a crollare in pochi
secondi di consapevolezza.
Quindi aveva deciso di andare via, per
un po' di tempo.
Per far sbollire le acque.
Per ritrovare un po' di
pace.
Ma chi lo spiegava ai suoi sogni che la pace era tutto
quello che voleva?
E quello che assolutamente non voleva era
chiudere gli occhi e rivivere il momento in cui aveva visto la figura
di Sherlock abbandonarsi alla gravità, per ricadere poi con un
terrificante e secco crak al suolo.
Non voleva sognare mai
più i suoi occhi vitrei spalancati, il volto solcato da rivoli
di sangue scuro, la posizione scomposta degli arti...
O la sua
voce bassa e vibrante, dalla sfumatura metallica, che continuava a
ripetergli:
Tieni i tuoi occhi fissi su di me, per favore, puoi
fare questo per me?
[Puoi guardarmi morire?]
Di nuovo la
sensazione gli attanagliò il cuore, lo stomaco e la gola,
stringendoli in una morsa gelida.
Oh Dio no, non di nuovo.
Come
se tutti i giorni da quel giorno avesse provato altro o ricordato
altro.
L'Afghanistan aveva
lasciato dentro di lui parecchie cicatrici dolorose, nella pelle
forse più che nel cuore. Ma la morte di Sherlock era uno
squarcio a cielo aperto nella carne, nei nervi, nei muscoli e fin
dentro le ossa. Fin dentro l'anima.
A John sembrava di non aver
mai compreso a fondo cosa volesse dire l'espressione "strappar
via", prima del momento in cui aveva incespicato malamente sul
marciapiede per raggiungere il suo corpo senza vita.
Non
sapeva neanche bene cosa avesse strappato via Sherlock da...
dal suo posto.
Dalla suo divano, dal suo violino,dai casi, dal
microscopio, da quel salotto, dalla vita di John.
Non lo sapeva e forse
non l'avrebbe mai saputo.
I fatti, quei fatti così
importanti per lui, contavano poco quando tutto il resto era
andato in pezzi.
E tra i danni
collaterali della rottura c'era il fatto che niente da allora aveva
più combaciato a dovere.
Perché non c'era
nessuna vita oltre quella di Sherlock che potesse incastrarsi
perfettamente con la sua.
Incastrarsi e funzionare in modo da non
farlo sentire più solo, ma unicamente vivo.
Come non mai era stato
in tutta la sua vita.
Era come se ci fosse una linea rossa dentro
di lui, un sopra e sotto, come cielo e terra, e ogni sua esperienza,
ogni sua relazione, ogni amicizia, ogni istante della sua vita fosse
sempre fluito sotto, nella normalità, sulla
terra.
Quotidianità. Ordinarietà. Flusso continuo.
Un mare calmo, con
qualche tempesta sporadica.
Poi era arriva Sherlock.
E il
flusso si era alzato, sollevato tutto un tratto, aveva superato
quella linea rossa e invaso la parte sopra. Qualche zona nel
suo cervello, qualche meccanismo che non era mai stato messo in moto,
non spesso almeno. Sherlock gli aveva dato un colpettino ed ecco che
quello aveva iniziato a funzionare. Sopra e sotto si
erano mischiati, fusi, saldati. La linea era scomparsa.
Tutto era
apparso più vivo, per la prima volta diverso, strano,
indescrivibile nella sua complessità, ma completo.
E tutto
era stato incatenato indissolubilmente alla vita di qualcun altro.
Alla convivenza con qualcun altro. Ad un essere umano, il miglior
essere umano che avesse mai incontrato.
Non era un vivere strano
in funzione di, era un vivere davvero legato a...
Un
qualcosa che non era riuscito a spiegare alla sua analista senza, con
tutta probabilità, apparire un gay in pieno coming out.
Perché non era mai facile, per non dire impossibile, chiarire come mai avrebbe passato il resto della sua esistenza a correre dietro i ragionamenti incredibili e la schiena slanciata di Sherlock Holmes senza che non saltassero fuori domande ovvie sulle sue inclinazioni sessuali.
Come se bisognasse
andare a letto con qualcuno per stabilire qualche tipo di connessione
in più. Come se una relazione fosse troppo e
un'amicizia troppo poco per spiegare come mai dopo sei mesi non
riuscisse ancora a rimettere piede nel ripostiglio dei suoi ricordi
senza sentirsi scuoiato vivo.
E il suo ripostiglio era lì
ad aspettarlo, un portone nero e una scalinata ripida come
preludi.
Il cellulare squillò nella sua tasca.
Lo
afferrò e rispose automaticamente, senza controllare il
numero.
"Pronto?"
"John, caro, non rimanga
impalato lì a guardare la porta, sembra un maniaco. Entri, il
tè e quasi pronto. Le lascio la porta aperta."
"
Sì, signora Hudson. Arrivo."
Decisamente la donna lo
stava spiando dalla finestra del piano superiore.
Chiuse la
chiamata e si fece scivolare il cellulare nella tasca.
L'uscio
davanti ai suoi occhi si dischiuse leggermente.
Forse non ci
sarebbe stato bisogno di salire quella scala, quel giorno. Gli
bastava superare la porta, prendere il tè con la signora
Hudson, farsi dare il resto dei suoi vestiti e delle sue cose (
"Li ho già impacchettati io John caro, devi solo venire a
prenderli, i nuovi inquilini arriveranno tra qualche giorno"
aveva cinguettato la sua voce al telefono nemmeno ventiquattr'ore
prima) e poi voltarsi e andar via.
Non le aveva chiesto che
fine avessero fatto le cose di Sherlock, ma conoscendo Mycroft una
squadra di silenziosi uomini in nero, o bellissime segretarie in
tailleur, le aveva catalogate, inscatolate e portate via appena lui
aveva lasciato l'appartamento.
Lo stesso appartamento dove avevano
vissuto insieme, lui e il miglior amico che avesse mai avuto, e che
ora sarebbe diventata la casa, il posto dove tornare, di
qualcun altro.
Un posto che lui aveva perso e mai più
ritrovato.
Chiuse un secondo gli occhi, cercando di focalizzare la
sensazione di normalità e benessere di quando, in quella che
sembrava ormai un infinità di tempo prima, attraversava quel
portone e saliva le scale come se fosse il gesto più naturale
del mondo. La porta del salotto era sempre aperta, e in giro c'era
spesso odore dei solventi chimici. Alcune volte ad accoglierlo c'era
la musica del violino, molto più spesso un caos di fogli,
libri impilati, giornali, tazze di tè vuote o piatti pieni di
briciole. Ma soprattutto il profilo pallido di un uomo con le dita
congiunte, profondamente immerso nei complicati meccanismi della sua
incredibile mente, o profondamente invischiato nella più
estremamente dannosa noia quotidiana.
Dannosa per il muro e per
John, solitamente.
Sorrise leggermente a quel ricordo,
cercando di concentrarsi unicamente su di esso e tralasciando la
parte dolorosa, il vuoto della mancanza, che sempre e
inevitabilmente seguiva quei pensieri.
L'illusione funzionò
così bene che per alcuni secondi decise di continuare ad
ingannarsi e attraversò la strada. Fece un passo avanti e un
altro ancora, decidendo di fingere che non fosse passato tempo, che
niente fosse successo, mentre allungava la mano verso la maniglia
dorata e spingeva verso l'interno.
Finse di stare oltrepassando
quella soglia un giorno come tanti.
Nell'atrio arrivarono
famigliari i rumori della tv della signora Hudson in sottofondo e
l'effluvio caldo e profumato di qualcosa appena sfornato.
E
poi...
L'acuta nota alta
prodotta da uno strumento a corde vibrò nell'aria sopra di
lui, oltre la porta in cima alle scale.
E Il cuore di
John per un attimo venne compresso fino allo spasmo.
La
vista divenne sfocata mentre le gambe scattavano verso i gradini e
gli occhi furono accecati quando spalancò la porta.
La luce
che filtrava dalla finestra aveva il fastidioso e dorato riverbero
del sole riflesso sulle nuvole nelle giornate di pioggia, quella
sfumatura che feriva gli occhi quasi più che guardare il sole
stesso.
Come un'aura sfocava i bordi della figurata alta e sottile
che teneva in mano il violino, in piedi e di spalle.
La musica si
interruppe, lo strumento venne abbassato e l'uomo si voltò
verso di lui.
Volto lungo e pallido, zigomi sporgenti, ricci scuri
e un paio di acuti occhi azzurri fu tutto quello che John si concesse
di osservare sommariamente per un decimo di secondo.
Poi
arrivarono.
Il sollievo,
l'esultanza,
i "lo sapevo",
il fastidio,
la felicità,
la rabbia,
l'incredulità,
la voglia di urlare,
l'impossibilità di aprire bocca,
la scarica di adrenalina,
il battito accelerato nelle orecchie,
la pressione nella testa,
il subbuglio nello stomaco,
la spossatezza negli arti,
la vista completamente nera,
e ancora, ad ondate, di nuovo,
rabbia, gioia, stizza,
la vista che tornava
indignazione, appagamento, rancore
respiro affannato, nodo
in gola
e per ultimi i perché.
Sherlock rimase immobile, senza dire una parola, guardandolo come se non avesse mai smesso di farlo, come se fosse una mattina come tante di un giorno come tanti, in cui lui tornava e ad accoglierlo c'erano quegli occhi, che se non impegnati in qualcosa di estremamente pressante si sollevavano e incrociavano i suoi.
La linea rossa
scomparve in quel momento.
Cielo e terra si confusero di nuovo, e
quella zona nel suo cervello ( che allungava le sue propaggini
fino al cuore), quel meccanismo un po' arrugginito, scricchiolò
e fischio forte, sul punto di animarsi.
Poi la voce che
ricordava così bene riempì, con il suo tono basso e
un po' rauco, l'aria intorno.
Coprì il frastuono dei suoi
pensieri e si insinuò con forza nel respiro immobilizzato nei
polmoni.
“ John...”
Quello fu davvero troppo
da sopportare.
John Watson si voltò e prese a scendere
velocemente le scale.
Aprì il portone, uscì in
strada e a passo di marcia, con le prime gocce di pioggia che gli
bagnavano i il viso e i pugni stretti nelle tasche del giubbotto, si
avviò lungo il marciapiede.
Non smise di camminare nemmeno
un secondo e nemmeno per un secondo si voltò indietro.
La
sua coscienza si confuse con il ritmo dei suoi passi, smembrandosi
nel rumore del traffico congestionato e disperdendosi nel sottofondo
di voci dei passanti.
Esistono
cammini senza viaggiatori.
Ma vi sono ancor più
viaggiatori che non hanno i loro sentieri.
[Gustave Flaubert]
Note della quasi-autrice.
Nuovo
fandom, nuova vita.
Si fa per dire perché non avevo più
ispirazione da un bel po' di tempo e credevo non avrei mai più
scritto su efp... questo naturalmente prima di mettermi a vedere
Sherlock e sperimentare un intenso ritorno di fiamma verso le fanfic.
Ero solita scrivere sui manga, ma ora ho deciso di infestare,
sfortuna vostra, codesto fandom
Sinceramente la decisione è
arrivata dopo la visione dell'ultima puntata della seconda serie, una
vagonata di lacrime e un cestino di kleenex usati ( sì lo
sapevo anche prima di avviare il vlc che era tutto finto, ma si può
non cedere dopo l'ultima scena tra Sherlock e John? No ragazze mie,
no davvero, non si può).
Così eccomi qui.
Sarà
una fic in tre capitoli in cui cercherò di descrivere,
frustrandomi per mantenere più possibile l'ic e il bromance,
l'incontro tra Sherlock e Jhon dopo sei ( inventati da me) mesi di
“assenza” del detective. Il primo atto si è appena
concluso con una clamorosa battuta in ritirata, ma naturalmente è
solo l'inizio.
Ho riletto, cancellato, riscritto, aggiustato,
limato, ri-cancellato e riscritto questo capitolo così tante
volte che non mi stupirei se il pc si animasse da un momento
all'altro mi ordinasse di darmi una calmata.
Il risultato non è il massimo dei miei standard, sia perché è un bel po' che non scrivo sia perché tra le mie varie pecche quando lo faccio c'è una sfortunata aria drammatico romantica ( quando si parla di cose già di per loro non proprio allegre) che spesso oscilla tra l'angst morboso e il tendenzialmente melodrammatico.
È
una tendenza naturale, per il quale mi bacchetto più che
volentieri, ma non è il problema maggiore... perché
quello è il bromance.
Citando Moriarty è per
eccellenza “ il problema tra me e te”... dove “te”
è proprio il bromance.
Perché io e il bromance
abbiamo un problema.
Ora, io sono una yaoista nata.
E una
amante dei racconti di Sherlock Holmes, ancor prima della serie della
BBC, che è comunque stupenda oltre ogni dire.
Prima di
mettermi a scrivere ho aspettato tre giorni per chiarire nella mia
testa come volevo che fosse il rapporto tra i due protagonisti, se
uno slash o, appunto un bromance.
L'istinto e la testa mi dicono
che l'ic vuole un bromance e che nel bromance sta la complessità
e la spiegazione del loro rapporto. Sinceramente non li vedo a fare
l'amore con il corpo i personaggi che la BBC ci ha mostrato, ma
questo non vuol dire che non si amino, in un modo unico e altrettanto
intimo ( e a mio modesto parere reso davvero sublimemente).
[E
naturalmente se qualcuno con qualche bella fic molto ben scritta
volesse farmi cambiare idea sul lato sessuale della faccenda, la mia
anima yaoi/slasher apprezzerebbe molto]
Il problema è che
il bromance non mi viene molto facile, forse per il callo da
yaoista/slasher, quindi per me questa fanfic è soprattutto una
sfida.
Una
sfida che spero poi risulti gradita a voi, naturalmente.
Una
piccola nota finale sul titolo di capitolo, prima di postare la
storia e mettermi seriamente a studiare per i miei esami.
Ho
scelto il passo tratto da “ L'avventura della casa vuota”,
quello in cui per la prima volta il dottor. Watson rivede Holmes che
credeva morto in Svizzera, caduto dalla cascata di Reichembach, in
parte per metterlo in contrasto con l'incontro tra i due personaggi
tratti dalla serie tv... di cui il meeting sarà leggermente
diverso.
In parte, per un piccolo tributo alla penna di Conan
Doyle.
A well remembered voice è l'espressione originale
inglese usata da Watson, riusata poi da me nell'ultima parte del
capitolo, anche se italiano.
Un'altra nota di piccola importanza
riguarda il titolo, scelto con un significato non proprio a caso, su
cui vi illuminerò nell'ultimo capitolo... naturalmente fino ad
allora accetto opinioni a riguardo.
E per finire questa
post-presentazione molto antipatica in bellezza, spero che la fic sia
di vostro gradimento:)
Torno a studiare la biografia di Conan
Doyle.
A presto e
Believe in Sherlock :)
Darseey