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Autore: KikiWhiteFly    22/01/2012    8 recensioni
{Dedicata ad Emiko e Roro}.
"Erano sotto la pioggia, fortunatamente nessuno sembrava averli visti, nascosti dietro una colonna che celava molto più di quanto loro pensassero – oltre quel semplice pezzo di pietra c'erano le insidie, i pregiudizi e l'ignoranza della gente, cose che avrebbero potuto solamente arginare negli anni a seguire.
Nella mente delle persone si rifletterà sempre uno specchio: inutile tentare di guardarsi dentro, il riflesso manderà loro una immagine sempre più vera del reale.
«C-Cosa stai facendo?», disse Arthur, scostandolo forzatamente da sé.
«Non ti stavi opponendo, mi sembra», fu la blanda scusante del compagno.
«Alfred! Siamo... ragazzi, non puoi farlo!», esclamò agitato Arthur, strofinandosi la manica della giacca nuovamente contro le labbra.
«D'accordo, non lo farò più»".
{Alfred/Arthur}.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Tutto il resto del mondo



II.









«Sai, Margareth, preferirei che mi venissi a prendere più tardi», disse d'un tratto Arthur, facendosi accompagnare dalla balia a scuola.

«Ma, signorino, vostra madre non lo permetterebbe e –».

«E non lo saprà mai. Torna a casa solo di notte fonda, ormai», Arthur rabbuiò un po' lo sguardo, disse quella frase con un moto di vergogna.

Margareth non rispose, evidentemente c'erano cose che non poteva rivelargli ancora – ma, pensò Arthur fra sé e sé, non era necessario un genio per intuirne la ragione.

«E va bene», sospirò infine. «Come volete, signorino. Fate attenzione, mi raccomando», mormorò infine, lasciandolo all'entrata.





Non passò molto tempo, invero, Arthur e Alfred diventarono amici.

Il carattere arrogante e pretenzioso di Alfred si era ammorbidito con il tempo o, almeno in presenza di Arthur, pareva essere così. Probabilmente quel tipo di carattere era d'aiuto nella società londinese, ecco perché di fronte agli altri Alfred palesava una certa freddezza.

Non avevano più tirato in ballo ciò che era successo appena una settimana prima, evitavano l'argomento per semplice imbarazzo. O, chissà, Alfred stava semplicemente rispettando il suo rifiuto.

Arthur rimuginava giorno e notte, invece, specialmente quando si trovava da solo: a ripensarci non gli era parso così strano che Alfred avesse poggiato le labbra sulle sue, anzi, ricordava bene le sensazioni che aveva provato.

Quando Arthur si fermava a riflettere, il suo cuore accelerava improvvisamente: i battiti diventavano sempre più frettolosi, martellanti, sentiva la mancanza di quel piacere.

Affrontare il discorso era, in ogni caso, fuori questione: dopo un rifiuto così categorico, Arthur non nutriva assolutamente la pretesa di rivangare la questione.

La sua prospettiva, però, era destinata ben presto a cambiare.

Quel pomeriggio sia Alfred che Arthur vagavano per i vicoli silenziosi di Londra – almeno a quell'ora –, quando Alfred fu attirato da un volantino attaccato su una vecchia colonna di legno.

Recitava una protesta, a primo acchito, sembrava che si progettasse una grande manifestazione. Arthur lo seguì silenziosamente, non era così strano trovare dei volantini in giro per strada: il clima londinese, se non quello internazionale, in quel periodo pullulava di proteste. Sembrava che il mondo avesse qualcosa da dire, si iniziava a sentire un'atmosfera ribelle.

La signora Kirkland si era sempre tenuta a distanza di sicurezza da tutto ciò; nondimeno, aveva pregato il figlio di non prendere mai parte alle forme di protesta.

«Il mondo è fatto così, Arthur: non siamo tutti uguali, sai? Noi siamo di rango superiore, la nostra intelligenza ci permette di distanziarci da quei contadini ignoranti».

Erano fredde le parole di sua madre, erano pronunciate con disprezzo: quando Arthur ci pensava, non vedeva affatto il divarico a cui accennava sua madre.

Gli stessi contadini a cui si riferiva con tanto sdegno erano, in realtà, la fonte del loro benessere: era solo grazie ai loro servitori e, nondimeno, agli agricoltori che suo padre aveva assunto per coltivare i loro immensi appezzamenti di terra, se potevano permettersi un tale stile di vita.

Allorché, Arthur ricordava le sagge parole di suo padre: «Figliolo, non dimenticare mai che proveniamo tutti dalla stessa terra. E che ci tramuteremo tutti nella stessa cenere, indistintamente».

Erano cose sulle quali riflettere, sì, forse troppo grandi per un bambino di appena dieci anni.



«Vieni, Arthur», disse Alfred, sventolando una mano in alto.

Il ragazzino si avvicinò, osservando con attenzione ogni particolare del manifesto: era un foglio di carta leggermente stropicciato, al cui interno c'era una grande foto – a giudicare dall'abbigliamento, si trattava di giovani patrioti di umili origini –, mentre di lato delle cubitali iscrizioni.

«Il mondo che vorrei», Arthur lesse sottovoce il titolo, fermandosi a riflettere un momento sulle parole.

«Nel mondo che vorrei non esistono razzie, non esistono discriminazioni sociali.

Nel mondo che vorrei c'è una sola ragion d'essere: se stessi, senza alcuna vergogna.

Il popolo finora non si è mai lamentato, di questo bisogna prenderne atto, perché non è mai stata data loro la possibilità di farlo.

Se pensavate che le guerre ci avrebbero indebolito, vi sbagliate di grosso. Le guerre hanno ucciso i nostri cari, hanno provocato fame e malcontento, ci hanno privato della libertà e, infine, della vita.

Eppure siamo ancora qui, coi nostri figli, e loro un giorno saranno con i loro figli.

Qui, in questa città, a gridare a tutto il resto del mondo una sola parola: libertà!».



Arthur lesse attentamente quelle parole, temeva che il significato sarebbe potuto sfuggirgli se solo ne avesse tralasciata una. Alfred rimase con le mani in tasca, fissava il volantino con aria seria, Arthur non gli aveva mai visto tale espressione in volto.

Poi, i loro sguardi si incrociarono e sembrava che si parlassero: annuirono silenziosamente, convinti che le parole avrebbero potuto solo essere un peso in quel momento.

Camminarono qualche minuto così, fianco a fianco, conoscevano ambedue la meta da perseguire. Era uno di quei posti comuni, forse un po' fuori zona, tutti i cittadini londinesi si fermavano un minuto – o forse più – di fronte al simbolo dei caduti delle guerre.

Alfred e Arthur avevano appena dieci anni, sì, eppure percepivano l'immensa storia alle loro spalle – e non perché fosse sui libri di storia, no, piuttosto per il fatto che si sentiva nell'aria.

Bastava guardare negli occhi delle persone, invero, per leggere la vera storia.

Poiché gli avvenimenti non erano solo date, cause e conseguenze: anche se non ci si soffermava mai abbastanza, in realtà dietro le guerre altro non c'erano che persone. Vittime, sì, dietro di sé si lasciavano familiari, grida, lacrime e silenzi – le parole, all'epoca, non potevano dir troppo.

Arthur si voltò dalla parte dell'amico e, senza alcun pudore, gli strinse forte la mano; Alfred parve stupito, dopodiché lasciò che le loro dita si intrecciassero e si mandassero un piacevole calore dall'una e dall'altra parte.

Quindi, approfittando di quell'attimo di quiete, Arthur trovò il coraggio di proferir parola.

«Proveniamo tutti dalla stessa terra. E ci tramuteremo tutti nella stessa cenere, indistintamente», sospirò, «mio padre ha ragione, per una buona volta».

Accennò un sorriso, pensando che il genitore sarebbe stato davvero contento di sapere che suo figlio aveva preso con tale considerazione quella frase.

«Sì. Andiamo a casa», disse Alfred, spintonandolo leggermente. «Dovresti lasciarmi andare, altrimenti la gente...», lasciò cadere la frase, Arthur aveva già intuito la conclusione.

«M-Ma io non voglio».

Solo un attimo dopo si accorse di ciò che aveva appena detto, troppo tardi per scusarsi – ormai Alfred aveva sentito, forte e chiaro –, così, non potendo tornare indietro sui suoi passi, Arthur strinse ancor di più la mano del compagno e, anzi, osò addirittura avvicinarsi più del dovuto.

Quindi, con un ultimo slancio, avvicinò timorosamente le labbra a quelle di Alfred: quest'ultimo non arretrò, anzi, approfondì il contatto con maggiore sicurezza. Sicuramente ambedue erano confusi, quella situazione era talmente complicata da costringerli a rinnegare se stessi.

Il mondo in quel momento sarebbe potuto passare di fronte ai loro occhi e loro non l'avrebbero visto, quella era l'unica certezza a cui si aggrappavano saldamente.

Quando, poi, le loro labbra trovarono la forza di liberarsi da quella presa, nessuno dei due disse nulla. Camminarono fianco a fianco, ancora, sino ad arrivare in paese – ma, stavolta, mano nella mano.









La mattina successiva Arthur si alzò di buon mattino, a giudicare dalla luce penetrata nella stanza dovevano essere all'incirca le cinque.

La verità era che non riusciva a dormire, sulle labbra gli era rimasta una strana sensazione: pur folle che potesse sembrare, era come se Alfred non lo avesse mai abbandonato – nemmeno in sogno.

In ogni caso, ormai non riusciva più a conciliarsi con il sonno; quindi, non sapendo bene cosa fare, aprì la porta della camera e scese lentamente le scale. Tuttavia, c'era qualcosa che gli impediva di andare oltre: dal portone principale provenivano dei rumori ovattati, Arthur non riusciva bene a distinguere cosa fossero.

Quindi, agì con prudenza: percorse velocemente il corridoio che lo separava dalla camera dei suoi genitori ma, con sua somma sorpresa, quando aprì la porta non vi trovò nessuno.

Allora si fece forza, in fondo non sapeva ancora cosa aspettarsi al piano di sotto; ma, di tutte le cose che avrebbe potuto immaginare, quella era la peggiore. In un misero ritaglio di luce, Arthur vide sua madre: più si avvicinava, tanto più i rumori ovattati prendevano forma.

Sua madre si stringeva ad un uomo – un altro uomo, più giovane e aitante di suo padre, a prima vista anche abbastanza ricco –, a giudicare dal fatto che non riusciva a reggersi in piedi non doveva essere completamente in possesso delle sue facoltà mentali.

Eppure, osservando con più attenzione, sua madre lo baciava con trasporto – come se già lo avesse frequentato, Arthur temeva che quella storia andasse avanti da molto tempo –, armeggiando distrattamente con la cintura dei pantaloni dello sconosciuto e facendogli cenno di seguirla al piano di sopra.

Arthur, allora, colto il messaggio, si avviò rapidamente nella sua camera e chiuse a chiave la porta.

Nella sua mente, in quel momento, le immagini erano più vivide che mai e il pensiero che sua madre tradisse suo padre lo demoliva psicologicamente, conducendolo ad un pianto liberatorio.



Fu svegliato solo qualche ora dopo, a causa del bussare insistente di Margareth.

«Signorino, vi conviene alzarvi. Arriverete tardi a scuola!».

Arthur, sentendo quelle parole, si destò; l'unico motivo che gli permetteva di alzarsi era proprio il fatto che avrebbe visto Alfred, di lì a breve, magari sarebbe riuscito anche ad aprirsi e confidargli i suoi dissidi interiori.

Quindi, strofinandosi la manica del pigiama sulle guance, fece scattare la serratura ed aprì la porta; poi, oltrepassando la soglia, lanciò uno sguardo alla camera in fondo al corridoio.

Era chiusa, ovviamente, Arthur temeva che non avrebbe visto sua madre nemmeno quel giorno. Ormai ci aveva fatto il callo, sì, sua madre era una donna dall'aria affascinante e dall'aspetto sicuramente seducente, naturale che gli uomini la desiderassero – il fatto che lei non si curasse del suo unico figlio, invece, non riusciva proprio a capirlo.





Quel giorno, però, Londra era diversa: nell'aria si sentiva un'atmosfera particolare, i volantini venivano distribuiti senza alcun pudore, in ogni parte della città vi erano studenti che protestavano e lavoratori che minacciavano un imminente sciopero.

La paura si era trasformata, sì, era diventata coscienza: poiché non era necessaria né una mente dotta né eccelsa per far valere i propri diritti. Se per anni era passato quell'erroneo modello di comportamento, ciò si doveva solo ai governi che si erano imposti.

Ma di quali governi si parlava, invero?

Sarebbe idoneo definire quegli utopici modelli di comportamento delle vere e proprie dittature, in tutto e per tutto: la prima forma di dittatura era quella che imponeva al pensiero liberale di definirsi tale, era la negazione di se stessi.

Quel giorno l'aria si poteva definire consumata, sì: le barbarie che l'umanità aveva subito fino a quel momento, erano destinate ad essere vendicate per sempre. E la miglior vendetta contro il potere assoluto era la libertà incondizionata.

Era il futuro.



Credendo fermamente in quelle convinzioni, Arthur si avviò all'interno dell'edificio e si sedette al suo posto. Cercava Alfred, di solito si sedeva accanto a lui, tuttavia non lo trovò.

Non doveva stupirsi, probabilmente, quel giorno in molti avevano deciso di non andare a scuola: era più che evidente la ragione, non bisognava spaziare molto la visuale per osservare ciò che stava davvero accadendo.

Inutile dire che Arthur non riuscì a concentrarsi, l'unico pensiero che affollava la sua mente era Alfred, avrebbe tanto voluto parlargli e sfogarsi con lui.

Quindi, quando suonò l'ultima campanella, Arthur si diresse all'esterno immediatamente, schizzando come una scheggia; di certo non immaginava il gran trambusto al di fuori del portone, vi era un enorme folla che si dirigeva nella direzione opposta alla sua.

Arthur lo cercava, ovviamente, sperava che il suo profilo spuntasse tra la folla – così, all'improvviso, magari Alfred lo avrebbe preso per mano –, il cuore gli batteva forte in petto e sembrava che lottasse per rimbalzare in gola.

Poi, in mezzo a quel polverone di persone, una mano lo afferrò; Arthur allora respirò a pieni polmoni, la speranza che Alfred lo avesse trovato non sembrava più così effimera.

«Alfred!», esclamò, fabbricando il primo vero sorriso dopo tanto tempo.

«Signorino, finalmente vi ho trovato!», Margareth esalò un enorme sospiro di sollievo, poi prese il volto di Arthur tra le mani – come per assicurarsi che tutto fosse nella norma, in una giornata così imprevedibile come quella chissà cosa sarebbe potuto accadere ad un ragazzino di appena dieci anni.

«Dobbiamo andare», rispose Margareth, in maniera piuttosto agitata.

«Ma io... Alfred...», bisbigliò, indicando un punto nella folla. «Io devo vedere Alfred!», esclamò infine, divincolandosi dalla presa della balia.

Margareth lo seguì, allora, afferrare un ragazzino così gracile come Arthur Kirkland non fu così difficile; lo prese per le spalle, dopodiché lo voltò verso di sé. Si abbassò alla sua altezza, infine, ciò che stava per dire sarebbe stato un duro colpo da assimilare per il ragazzino e tanto valeva offrirgli tutto il suo appoggio.

«Signorino, dobbiamo andare davvero. Via da questa città, via da questa scuola. Sua madre...», abbassò il tono di voce, come se stesse per confessare un peccato, «... Sua madre ha trovato il modo di iscriverla ad una scuola prestigiosa. Dovrebbe esserne fiero», poi gli aggiustò il colletto e gli tirò un buffetto sulla guancia.

«Un modo?».

Aveva l'impressione che quella imprevedibile soluzione avesse a che fare con l'uomo che aveva visto in compagnia di sua madre. Tante domande affioravano nella mente del giovane Arthur, quando provava a farne una otteneva in risposta solo un religioso silenzio.

La sua preoccupazione, però, era rivolta altrove: Arthur si voltava tra la folla, subiva gli spintoni dei passanti – non si curava di chiedere scusa, preso com'era dalla disperata ricerca –, tuttavia non riusciva a scorgere Alfred. Avrebbe voluto salutarlo, almeno, le parole sarebbero venute fuori autonomamente – quello, perlomeno, era l'augurio che si era fatto –, avrebbe voluto fare tante altre cose ancora.







Era una Londra buia quella che Arthur stava lasciando, in tutta sincerità.

Era una Londra tormentata, agitata, sembrava che stesse per rivoltarsi da un momento all'altro.

Era una Londra mite, a primo acchito, in realtà era perennemente fredda.

Era una Londra senza via d'uscita, ove le parole erano plagiate dall'ignoranza.

Era una Londra debole, il che è semplicemente sinonimo di paura – di cosa? Di tutto.

Era una Londra conservatrice quella che si lasciava alle spalle: la paura, improvvisamente, era diventata una persona.

L'individuo modello, nella fattispecie, era la maestra, era la signora Kirkland, era il futuro marito di quest'ultima.

Quella che Arthur si apprestava a lasciarsi alle spalle, in pratica, altro non era che l'inizio di una storia.





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Oh, beh, dovevo aggiornare prima.

Non sapete la fatica che mi è costata questo capitolo: ho tagliato parti, le ho aggiunte, le ho tolte di nuovo e aggiunte nuovamente. Insomma, è stata proprio una faticaccia. XD

Volevo “esaltare” la parte politica/idealistica – è più forte di me, nulla da fare. °w° –, gli anni '60 sono passati alla storia proprio perché sono stati “gli anni della ribellione”. Non me ne vogliate, eh, ma oltre la storia romantica di sottofondo vorrei che questa fan fiction vi lasciasse ben altro. :)

Che fine avrà fatto Alfred? Ed Arthur dove andrà a finire? Oh, beh, scoprirete tutto nel prossimo capitolo... si preannuncia ricco di intrecci, vi avviso. E, dato che lo scoprirete subito, vi annuncio che la storia sarà spostata undici anni dopo, nel 1974 per la precisione.

Vi avevo detto che questa storia avrebbe narrato la storia di Alfred e Arthur a tutto tondo, uhm. v_v



PS: in questo capitolo è importante frase del padre di Arthur: «Figliolo, non dimenticare mai che proveniamo tutti dalla stessa terra. E che ci tramuteremo tutti nella stessa cenere, indistintamente».

In realtà, a titolo informativo, questa era una frase che mi diceva sempre mio nonno. Con termini leggermente diversi, eh, ma il senso era questo. E credo che siano frasi come queste che mi abbiano sempre permesso di mantenere i piedi ben saldi per terra.



Okay, smetto di annoiarvi. XD

Al prossimo capitolo,

Kiki.







   
 
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