Thursday
Era già giovedì.
In realtà, Kurt non teneva neanche più il conto dei giorni, delle ore, aveva
messo via l’orologio che soleva troneggiare in cucina e si era rifiutato di
indossare orologi da polso.
Ma era giovedì di certo. Temeva quel giorno come la morte. Poi arrivava, e
sopraggiungeva quell’angoscia che implodeva in lui, ed era così silenziosa che
nessuno riusciva ad avvertirla dall’esterno.
E lui se ne stava in silenzio, sorrideva, forse trovava un po’ di tranquillità
la sera tardi, quando s’affacciava alla finestra e lasciava che il vento fresco
gli portasse via quelle lacrime che ormai solevano fare capolino dai suoi
occhi. Quando appoggiava le braccia sul davanzale e aspettava che Dave si facesse vedere, che venisse a sorridergli e a farlo
sorridere. Anche riempirlo di insulti andava bene, basta che, insomma, sentisse
la sua voce. Con quello sì, riusciva a tranquillizzarsi. Lo vedeva, gli
parlava, ci rideva, e le lacrime ormai erano asciutte, perché se le prendeva
tutte lui. Era lui ad asciugargliele e a portarsele via, per farlo dormire
tranquillo almeno quella notte.
-Buongiorno, amore.- Mugugnò Kurt nel sonno allungando la mano fredda sulla
parte di materasso alla sua destra, ugualmente freddo. -Ti sei alzato presto
anche stamattina, eh?- chiese poi, probabilmente al vuoto, mentre rotolava su
se stesso e affondava il viso nel cuscino accanto al suo, quasi a volersi
soffocare. Inspirò forte e si disse che sì, quel profumo di dopobarba c’era
ancora e il fatto che in realtà non lo avvertisse non significava niente. C’era
eccome, svaniva lento, ma c’era, anche se non lo sentiva. Alzò il capo muovendo
la bocca impastata dal sonno, poi si mise a sedere e si stropicciò gli occhi
sorridendo al sole che illuminava la stanza coi suoi raggi caldi.
Sì, era giovedì, il suo giorno libero, ma tentava di tenere la mente sgombra e
di non pensarci affatto.
Il cellulare sul comodino vibrò e lo aiutò a distrarsi.
-Kurt, tesoro, buongiorno.- La voce di Mercedes, calda e familiare, lo fece sorridere.
-Ehi, Merc. Vuoi andare a fare shopping anche oggi?- chiese l’altro con gentilezza, e la ragazza fece un risolino.
-Possiamo anche solo vederci per un the, se preferisci.-
disse bonaria. -Ti sento meglio stamattina. Non è che hai preso un’altra di
quelle pillole infernali?-
-No, tesoro, ho buttato tutto come mi hai detto.- mentì Kurt, che in realtà una
boccetta di sonniferi e di qualche altra roba ce l’aveva, lì nei cassetti del
comodino.
-E le braccia come stanno?- chiese ancora la ragazza, e l’altro
sospirò scuotendo la testa. Era sempre così dannatamente apprensiva.
-Stanno bene, mamma.- rispose l’altro ironico.
-Bene, sono contenta…Non fare idiozie, okay? Almeno fino alle tre.- fece Mercedes dopo aver sorriso a Kurt che lo chiamava mamma. Forse stava davvero meglio, adesso.
-Passi a prendermi a quell’ora?-
-Certo, dolcezza. Fatti trovare in tiro, che ti porto in uno
dei bar più chic di Lima.- disse la ragazza di colore
col tono amorevole della migliore amica, che adesso sembrava fargli anche da
mamma e da sorella.
Kurt fece uno dei suoi risolini a bocca chiusa, poi salutò Mercedes e chiuse la
chiamata. Diede un’occhiata all’orologio sul cellulare e vide che non era
neanche tanto presto, alla fine. Anzi, era già ora di pranzo. E in realtà, Kurt
non avvertiva il languore della fame da un bel po’, ma probabilmente avrebbe
messo comunque qualcosa sotto ai denti, così, per abitudine, e per non svenire per
strada dalla debolezza.
Il cellulare vibrò di nuovo, e Kurt si allungò per vedere chi fosse. Sullo
schermo illuminato appariva e scompariva il nome di Finn
con tanto di foto in cui beveva una cola e si strozzava da solo. Ignorò
bellamente la chiamata e buttò la mano sul comodino per prendere una pillola
rimasta lì dalla sera prima. La ingerì senza neanche accompagnarla con l’acqua
e poi si avvolse nella vestaglia, ‘che i brividi di freddo si facevano sentire.
Scese al piano di sotto sbadigliando con discrezione, poi un sorriso apparve
sul suo volto quando vide una schiena immensa impegnata a trafficare con
pentole e pentoline.
-Ehi, femminuccia.- lo chiamò Kurt avvicinandosi a braccia conserte. –Che cucini di buono? La mia donnina di casa.-
-Sta’ zitto.- borbottò quello mentre tagliava quella che sembrava essere una banana.
-Toast francese con banane? Dio, sei così ripetitivo!- esclamò Kurt, che prese posto a tavola, che sembrava apparecchiata tale e quale alla sera prima.
-Questo so fare e questo ti mangi. Se Vostra Maestà non si fosse svegliato a tipo mezzogiorno, a quest’ora si sarebbe fatto il suo bel flambè qualcosa e non mi avrebbe scassato le palle.- rispose Dave acido mentre portava sul tavolo velocemente i due piatti col toast francese e si accomodava di fronte a Kurt.
-Siamo suscettibili oggi, eh?- chiese retoricamente Kurt, che però ancora non riusciva a togliersi dal volto quell’espressione da idiota.
-Hai iniziato tu, fatina. Non avresti dovuto chiamarmi femminuccia. Sono un titano, io.- borbottò quello con lo sguardo torvo. S’era svegliato col piede storto, probabilmente. Kurt lo guardò con il mento appoggiato sul palmo della mano e quando riuscì ad allacciare il suo sguardo, gli sillabò con la bocca un ‘Ti amo, titano.’ E Dave abbassò lo sguardo arrossendo, fece colpi di tosse nervosa e sembrò volersi concentrare sul piatto, ma poi disse un goffo: ‘Anche io, però non rompere per il toast’, e Kurt pensò che quelle pillole che prendeva fossero miracolose, altro che infernali. Lo alleggerivano, gli tenevano gli occhi lucidi, gli lasciavano quel sorriso poco spontaneo sul volto.
-Oggi resti, vero?- chiese Kurt a Dave che se ne stava lì ad arrossire.
-Fatina, non è che oggi è un giorno diverso dagli altri. No che non resto.- fece l’altro, categorico.
-Dimmi perché non possiamo stare insieme.- disse Kurt, e già
il sorriso gli si era spento. Le labbra erano piegate all’ingiù e tremavano. –Sarei
dovuto venire con te, salire su quel maledetto aereo. Adesso saremmo insieme,
avremmo un posto nascosto tutto nostro, in cui riposano quegli amori belli e
impossibili di cui nessuno parla, perché tanto a chi importa di noi, di quanto
ci amiamo?- e a Kurt era sempre piaciuto essere drammatico, ma mai, mai lo era
stato come in quel momento. Aveva guardato il proprio piatto mentre parlava,
poi però alzò lo sguardo e l’angoscia lo assalì quando s’accorse che Dave se n’era già andato, e l’effetto della pillola era già
svanito.
Suonarono alla porta, ma Kurt era già caduto nel suo vortice dai colori scuri
che finiva in un nero inchiostro capace di inghiottirlo ogni volta. Lasciò
cadere la forchetta ancora sporca della cena della sera prima e la fece
tintinnare nel piatto anch’esso sporco, poi scivolò dalla sedia e si strinse i
polsi fasciati mordendosi le labbra e stringendo gli occhi per il dolore.
Lì fuori della porta qualcuno lo chiamava a gran voce, ma Kurt si muoveva
convulsamente a terra, le lacrime che avevano preso a scendere su tutto il viso
veloci e prepotenti, i polsi martoriati che pulsavano e bruciavano, i
singhiozzi che diventavano lamenti disperati.
La porta si aprì, e Kurt sapeva già che era Finn col
doppione delle sue chiavi di casa, ma sapeva anche che non gliene importava
davvero nulla del fratellastro; in realtà non gli importava più di nulla, benché
meno di Finn che si buttava su di lui e lo scuoteva
dalle spalle e lo chiamava urlando e gli diceva di rispondere, di reagire, ‘Kurt, ti prego, Dio, Kurt!’, ripeteva
convulsamente.
-Voglio morire.- mormorava invece Kurt, gli occhi rotolati
all’indietro, il volto completamente bagnato. –Lasciami morire, voglio andare
da lui.-
-Non permetterò che tu lo faccia, Kurt. Reagisci, ti prego!- e Finn urlava disperato, perché da quando l’aveva trovato
tutto nudo rannicchiato accanto alla vasca da bagno impegnato a recidersi i
polsi, col sangue che già colava denso lungo il braccio e gocciolava sulla
coscia bianca, non era stato più capace di riacquistare la calma, e ogni giorno
non faceva che pensare a Kurt, che chiamarlo per sapere come si sentisse, che
entrare in casa sua per recuperarlo dopo che quasi sveniva dal dolore.
Kurt vaneggiò ancora. Disse che era il destino, il destino li aveva fatti
trovare, li aveva resi gli uomini più felici del pianeta, e poi aveva deciso
che forse quegli anni di felicità erano un po’ troppi, qualcosa si doveva pur
fare. E tra tutti quei voli, tra tutti quegli aerei, solo quello di Dave era sparito in mare.
-Non vivo, muoio, io sto morendo, lasciami stare.- blaterava Kurt, e tentò di
liberarsi dalla stretta del fratellastro, che credeva davvero che Kurt
ultimamente si stesse sentendo meglio, stesse tentando di farsene una ragione,
di reagire. E piangeva anche lui mentre si rendeva conto che Kurt stava ancora
peggio, che dopo la morte di Dave era morto anche
lui.
-…Finn.- mormorò Kurt a fatica dopo che probabilmente
s’era liberato per l’ennesima volta di tutta l’acqua che aveva in corpo.
Sentiva la pelle appiccicosa e le lacrime che s’asciugavano lentamente, e Kurt
sapeva che era Dave a pulirle via. –L’amavo così
tanto, e me l’hanno portato via.- disse in un soffio, e Finn
asciugò le proprie lacrime con la manica della giacca, perché vedere il
fratello in quelle condizioni era come essere trafitto da decine di stilettate
in pieno petto. E non sapeva come avrebbe fatto, credeva di non essere in grado
di far tornare il sorriso sul volto di Kurt, un sorriso che non fosse provocato
dai medicinali che ancora si ostinava a prendere di nascosto. Si limitò ad
avvicinarlo al proprio petto e a stringerlo forte sfregando le proprie mani
sulle sue spalle. Come a fargli capire che lui c’era e ci sarebbe sempre stato.
Ma Dave era volato in cielo e non
era più sceso.
Era di nuovo giovedì.
Kurt questa volta s’era svegliato all’alba, ed era più tranquillo del solito.
Se ne stava seduto in equilibrio fuori dalla finestra e sorrideva alle prime
luci dell’alba.
Non guardò neanche un attimo giù. Inspirò e riempì i polmoni di aria fresca,
mentre quel venticello piacevole gli spostava i due ciuffi che ricadevano
scomposti sulla fronte.
Sorrise lieto, e si disse che quello era il giorno perfetto per andare a
trovare Dave e poi rimanere con lui per l’eternità.
§
Mirokia