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Autore: _Shantel    22/01/2012    11 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 14


Colonna sonora: Happy ending_Mika

«Torna alla tua vita da
star, Leonardo, ai campi di calcio e alle modelle. Dimenticati di me, di noi, di quello che c'è stato!»
Se ne andò in quel preciso istante, dopo avermi urlato in faccia le ultime parole che avrei udito dalla sua bocca. Ancora non riuscivo a credere che fosse successo, era accaduto troppo in fretta. Mi ero recato alla festa del francesino con un regalo qualsiasi, ripescato dai miliardi di doni che mi arrivavano per posta dalle fan e mi ero precipitato a quella stupida festa soltanto per salvarmi la faccia.
Chi l’avrebbe pensato che proprio in quel salotto avrei perso il mio lieto fine?
Celeste era entrata in casa come una furia, pretendendo spiegazioni dal sottoscritto, ma già dalla telefonata che mi aveva fatto, avrei dovuto intuire qualcosa.
Sei stato proprio uno stupido.
Me lo sarei dovuto aspettare da una come lei, in fondo non era certo stupida. Anzi, ero ‘sopravvissuto’ fin troppo tempo lontano dalle sue ire e mi chiedevo anche il perché non mi avesse beccato prima. Magari era stato strano per entrambi questo rapporto, sin da quando era cominciato. Quel giorno avevo detto la prima cosa che mi era venuta in mente pur di vedere la reazione di Celeste e mai avrei pensato che da quello spiacevole incontro sarebbe potuto nascere tutto quello.
Tutto, cosa?
Già, non lo sapevo nemmeno io. Prima ancora che mi potessi rendere conto di quello che provavo per Cel, lei già se n’era andata per sempre dalla mia vita. Rimasi a fissare la porta aperta sul corridoio della palazzina, completamente immobile, quando venni riscosso da una serie di mormorii.
Ero ancora alla festa del mangia-lumache, ovviamente. Quel francese aveva architettato tutto, magari aveva anche invitato Celeste per farle scoprire la verità ed io ci ero cascato in pieno, con tutte le scarpe. Mi sentivo un vero cretino, sia perché l’avevo data vinta a quel pezzo di merda, sia perché non avrei più rivisto Cel.
Quella consapevolezza mi fece sprofondare il cuore in un abisso e mi fece sentire strano. Non avevo ancora capito bene come funzionassero queste cose, di certo non ero un esperto, però dovevo ammettere che mi dispiacque perderla. Era strano pensarlo ad alta voce, strano perché il più delle volte passavo intere giornate a litigare con quella ragazza, ma tutto sommato quei momenti mi sarebbero mancati.
«Oh, scusami tanto!» Mormorò una voce alle mie spalle che avrei riconosciuto tra mille. Strinsi i pugni e trattenni la rabbia, perché quello non era né il momento né il luogo per fare una scenata. Ero pur sempre Leonardo Sogno e finalmente potevo smettere di indossare la maschera di Ruben, svelandomi per la persona che ero realmente. «Non sapevo venisse, non mi ero proprio accorto di lei,» e mi posò una mano sulla spalla.
Mi voltai quel tanto da incontrare i suoi occhi azzurri, quelle vispe iridi così diverse da quelle di Celeste. Li avevo stampati bene in mente, ormai, appena appena velati di lacrime e non sarebbe stato facile dimenticarli. Quelli di J. invece non avevano nessun rimorso, nonostante si stesse scusando con un sorriso falso come una banconota da tre euro.
«Toglimi le mani di dosso,» ringhiai, sbattendogli il regalo sul petto e imboccando la porta.
Sinceramente non me ne fregava nulla di quello che avrebbero pensato di me i suoi invitati, i miei Fan, se così si potevano chiamare. In vita mia non avevo mai rinunciato a un bagno di folla, ma quello che era appena successo mi aveva smosso l’animo e sentivo il forte bisogno di starmene da solo.
«Ehi, aspetta!» Mi urlò il francese, ma io lo ignorai uscendo nel corridoio e cominciando a chiamare l’ascensore.
Mi sentivo strano, scombussolato, quasi come se avessi appena perso una partita importante di campionato, come se non avessi dato tutto me stesso in campo. Avevo deluso Celeste, le avevo mentito e lei era pur sempre la mia ragazza, ma da una parte non potevo sentirmi in colpa.
Era nato tutto come un gioco e allo stesso modo era finito.
«Aspetta!» Ripeté ancora il mangia-lumache, fermandolo sulla porta dell’ascensore. Aveva il fiatone per aver corso dall’immenso salone sino al pianerottolo e lo guardava seriamente preoccupato.
«Che cazzo vuoi?» Gli ringhiai contro, fulminandolo con lo sguardo. Non gli bastava avermi portato via Celeste, doveva anche infierire? «Sono venuto alla tua stupida festa, ti ho fatto il regalo, non abbiamo più nulla da dirci,» tagliai corto.
Finalmente l’ascensore arrivò e le porte automatiche si aprirono con un sonoro ‘dlin-dlon’. Ero pronto finalmente a lasciarmi dietro quell’appartamento e quegli occhi azzurri che sin dal primo giorno avevo odiato con tutto me stesso.
Ci avevo visto bene, Jean-coso era davvero una persona subdola e orribile.
«Non era premeditato, lo giuro!» insistette, inframmezzandosi tra le porte dell’ascensore. «Celeste non avrebbe dovuto essere qui…»
«Sì certo, non lo sapevi,» smozzicai ironico. «E io mi chiamo Giuseppe.»
«Te lo giuro!» continuò, ignorando il mio commento di proposito e avvicinandosi.
Col suo corpo, non permetteva che le porte dell’ascensore si chiudessero e mi lasciassero libero di tornare a casa. Avrei dovuto fare chiarezza su quella storia, almeno prima di partire. Sentivo il bisogno di esporre tutta la situazione con Cel, di sperare magari in una seconda possibilità.
Avevo il suo viso a pochi centimetri dal mio. Era un affronto ed io lo sapevo bene, li riconoscevo i tipi come lui. Erano solo figli di papà senza alcuna esperienza di vita alle spalle, mentre il sottoscritto si era fatto da solo, scalando le classifiche della Serie C e B, fino ad arrivare alla tanta agognata Serie A.
«Levati di mezzo, francesino,» sibilai stringendo i pugni e facendomi forza per non spingerlo via dall’ascensore con violenza. «Non vorrei rovinare quel bel visino a suon di cazzotti. Ho da fare, sparisci,» gli intimai.
Lo vidi spalancare gli occhi per lo stupore e per la prima volta mi parve che quell’espressione fosse terribilmente sincera. C’era qualcosa nascosto dietro quelle iridi, un terribile segreto che mi pareva solo di intuire. Non sapevo spiegarlo, ma nemmeno me ne importava. Avrei dovuto raggiungere Celeste, chiarirmi con lei, spiegarle che nonostante le avessi mentito, poca parte di quello che c’era stato tra di noi corrispondeva alla menzogna.
In fondo, avevo unicamente utilizzato un altro nome e mentito sulla mia professione. Nessuno si era ferito o fatto del male, era stato un errore innocente.
«Vuoi che te lo ripeta in quella lingua da frocetto?» Ringhiai, sempre più incazzato.
J. sembrava non aver recepito il mio avvertimento, così avanzai quel tanto da soprastarlo con la mia mole, anche se la sua altezza non era certo inferiore alla mia. Quello che accadde dopo lo recepii in minima parte perché mi spiazzò del tutto.
Avevo sospettato che in quel francese ci fosse qualcosa che non andava, soprattutto dal modo con cui mi lanciava degli sguardi interessati, eppure quando le sue labbra si posarono sulle mie, rimasi totalmente pietrificato. Avevo entrambe le sue mani ai lati del mio viso, saldamente ancorate in modo da non lasciarmi spazio alcuno per sfuggire alle sue labbra.
Sgranai gli occhi confuso e gli posai le mani sul petto per scrollarmelo di dosso. Al terzo tentativo riuscii ad allontanarlo e a bloccarlo prima che mi assalisse di nuovo come un maniaco.
«Fottuta checca, che cazzo vuoi da me?» gli urlai contro.
Jean-Philippe guardò terrorizzato il suo appartamento, temendo che gli altri avrebbero potuto udire le mie parole, ma non mi sarei di certo calmato dopo quello che mi aveva fatto. Mi pulii la bocca schifato, soprattutto per quanto odiassi quel ragazzo dal più profondo del cuore.
Lo vidi allontanarsi e infossare il collo tra le spalle. «Pensavo avessi capito,» si limitò a mormorare.
Capito cosa? Che si fosse invaghito del sottoscritto?
Non avevo altro tempo da perdere e la questione che mi stava più a cuore in quel momento aveva un nome e un cognome che non potevano aspettare. «Non farti più rivedere, capito? Da oggi devi ufficialmente sparire dalla mia vita.»
Dopo quelle parole pigiai sul pulsante T più e più volte, attendendo che il corpo del mangia-lumache si spostasse dalla cella fotosensibile. Lo fissai lapidario, senza muovere un muscolo del mio viso. Non avevo nulla contro gli omosessuali, ma J. era tutto un altro paio di maniche. Mi aveva reso la vita un inferno, aveva fatto di tutto per allontanare Celeste da me, e per cosa?
Perché si era innamorato.
«Devo ripetertelo?» continuai, tenendo basso il tono della voce.
Vidi per un attimo lo stesso sguardo di Celeste riflesso in quello del francese, la stessa delusione che rischiarava i loro volti. Poi ricordai il tono con cui lei aveva espresso quelle parole contro il sottoscritto.
Non era delusione ma rabbia.
In quel momento J. comprese il mio stato d’animo e si scostò, senza mai smettere di fissarmi. In quella giornata non ci sarebbe stato spazio per un’unica delusione amorosa.
Pigiai nuovamente sul pulsante del piano terra e questa volta sentii il suono del campanello che annunciava la chiusura delle porte. Le due lastre di metallo si chiusero sullo sguardo glaciale e deluso di quel ragazzo che forse non avrei più rivisto.
Mi resi ben presto conto che avevo deluso molte persone nella mia vita e forse Celeste e J. non sarebbero state le uniche. Arrivai al pian terreno e tirai immediatamente fuori dalla tasca l’i-Phone nella speranza che Celeste avesse ancora il cellulare a portata di mano.
Scorsi la rubrica e trovai immediatamente il suo numero. Rimasi a fissarlo per un tempo indecifrabile, ricordando quello che era successo qualche settimana prima proprio a proposito di quel numero di telefono. Scacciai via quei pensieri malinconici e pigiai il tasto verde, portando l’apparecchio all’orecchio e dirigendomi verso l’Audi TT parcheggiata in fondo al viale di quel quartiere residenziale sull’Aventino.
Il primo squillo andò a vuoto, così come il secondo e il terzo. Arrivai fino alla macchina e feci scattare l’allarme con le chiavi, sedendomi al posto del guidatore e accendendo il motore. Quarto, quinto, sesto squillo e ancora niente risposta. Confermai il mio pensiero: Celeste mi stava evitando.
«Dannazione, rispondi!» Sibilai a denti stretti, attivando il vivavoce e uscendo dal parcheggio.
Cazzo, dovevo raggiungerla e spiegarmi, ne valeva il mio onore. Di sicuro ero un pezzo di merda, su questo non c’era alcun dubbio, ma non avevo organizzato tutta quella messa in scena per ferirla, anzi, era tutto il contrario. Avevo taciuto sulla mia identità per conquistarla, per darle uno smacco e farle cambiare idea sui calciatori. C’ero quasi riuscito perché in qualche modo sapevo che Celeste teneva a Ruben, nonostante non fosse il mio vero nome.
Imboccai immediatamente la via principale e mi fiondai verso il quartiere di San Lorenzo. Il telefono continuava a squillare, ma dopo un po’ un suono d’allarme precedette l’avviso della segreteria telefonica. Distrattamente spinsi il pulsante rosso sul touch-screen e riprovai a chiamarla. Doveva rispondermi, non poteva liquidarmi con una frase del genere e non lasciarmi il tempo di spiegare.
D’accordo, non ero stato un vero genio nel continuare a mentirle nonostante ci fossero tutti i chiari segni che prima o poi lo avrebbe scoperto, ma mi sentivo in dovere di dire la mia per una volta. Gli squilli si susseguivano identici, uno dopo l’altro, così non mi restò che mettermi l’anima in pace e continuare a guidare.
Arrivai sotto casa di Cel il più velocemente possibile e parcheggiai l’Audi metà sulla strada e metà sul marciapiede. Scesi senza curarmi della presenza dei vigili, ma contai sul fattore oscurità di quell’inizio di notte romana per evitare delle multe inutili. Se Cel non mi rispondeva al telefono, magari mi avrebbe parlato dal vivo.
Attaccate al citofono tutta la notte, vedi che scende.
Il mio Ego ne sapeva sempre una più del Diavolo ed ero molto fiero di averlo al mio fianco come degno alleato. Cercai di sistemarmi la camicia e il giubbotto di pelle, poi ripensai al bacio umido del mangia-lumache e per poco non vomitai.
Questa è una delle esperienze da mettere nel dimenticatoio.
Di sicuro.
Almeno potrai raccontare di aver baciato un uomo.
Una checca francese da quattro soldi, semmai.
Sempre bandana c’ha.
Ignorai l’ultimo commento del mio Ego e fissai il citofono, cercando di decifrare nella semioscurità il nome Fiore. Lo trovai quasi subito, così cominciai a pigiare velocemente per marcare l’insistenza della mia chiamata. Attesi qualche secondo ma non ottenni risposta alcuna.
Possibile mi ignorasse anche lì?
Fortunatamente avevo afferrato il telefono prima di scendere dall’auto, così la chiamai e contemporaneamente pigiai sul citofono. In qualche modo avrebbe dovuto cedere e finalmente avrei avuto l’occasione di spiegarmi.
E cosa le dirai, sentiamo?
Lasciai che qualcuno mi rispondesse, ma sull’i-Phone comparve ancora quell’odiosissima segreteria telefonica. Stufo di dover perdere tempo di fronte a un aggeggio inanimato, sferrai un lieve pugno alla colonnina di marmo su cui era attaccato il citofono e sospirai.
Cosa le avrei detto? Se mai fosse scesa da quella palazzina, in che modo avrei potuto farle capire che si sbagliava sul mio conto?
Le hai mentito, cos’altro pretendevi? Avresti dovuto troncare la storia sul nascere, come ti avevo suggerito all’inizio.
Grazie tante.
Dovevo continuare a insistere, almeno per sperare in una sua risposta, seppur minima. Persino un Vaffanculo mi avrebbe fatto sentire realizzato, qualsiasi cosa pur di non avere quel completo silenzio. Forse avrei dovuto rincorrerla quando ne avevo avuto l’occasione, insistere, provare a parlarle senza darle il tempo di allontanarsi.
La verità era che nemmeno io sapevo come affrontare quella situazione. Anche se continuavo a convincermi di non aver sbagliato, di aver solo peggiorato un tantinello le cose, dentro di me lo avevo sempre saputo che in caso avesse scoperto la verità l’avrei perduta per sempre.
In quel momento il flusso dei miei pensieri fu interrotto dal rumore del portone che fece uno scatto e venne aperto. Sgranai gli occhi e cercai la sagoma di Cel all’interno dell’androne parzialmente illuminato da una plafoniera. Il cuore aveva cominciato a battermi all’impazzata e tutte le ragioni che mi si erano sovraffollate nella mente volarono via come un battito d’ali perso nel vento. Non sapevo più cosa dire, quali argomenti affrontare per difendermi.
Indietreggiai sul marciapiede e aspettai che lei uscisse in strada, ma quando la figura che era apparsa nell’androne si mostrò per intero rimasi deluso. Non c’era una chioma bionda davanti ai miei occhi, bensì fulva e non apparteneva a una ragazza.
«R-Romeo…?» soffiai incredulo.
Lui si portò una mano dietro la nuca e si scompigliò i capelli. Aveva uno sguardo strano e la solita espressione spensierata che aveva dipinta in volto lo aveva abbandonato.
Le brutte notizie non vengono mai da sole, me lo aveva ripetuto tante volte nonna Annunziata ma io non ci aveva mai creduto, almeno fino a quel momento. C’era aria di tempesta, se ne poteva sentire l’odore.
«Dov’è Cel?» chiesi, incerto se volessi sapere o meno la verità.
Quello sguardo non lo avevo mai visto, era la prima volta che davanti ai miei occhi appariva un Romeo così teso, amareggiato, anche lui deluso. Cominciai davvero a sentirmi responsabile e non sapevo nemmeno io il motivo. Non avevo mai pensato a quanto le mie bugie avessero potuto avere influenza anche sulle altre persone, semplicemente non mi era parso rilevante. Non avevo mai avuto un vero amico, salvo Ruben ovviamente, ma Romeo adesso era quello che più ci si avvicinava.
«Torna a casa,» mi disse il Rosso, abbassando lo sguardo verde acqua.
«C-Cosa?» sbottai incredulo, senza comprenderne il motivo. «No, io devo spiegarmi. Ho bisogno che Cel sappia la verità, tutta la verità e ho bisogno che la venga a sapere da me.»
Romeo non disse nulla ma questa volta mi affrontò a viso aperto. C’era qualcosa di diverso in lui, come un’aria di malinconia e tristezza che mai gli avevo visto in faccia. Lui era sempre stato quello simpatico, col sorriso sulle labbra, non avrei mai pensato che anche lui fosse capace di soffrire.
«Avresti dovuto parlarle quando eri ancora in tempo per farlo,» smozzicò, ancora incerto sulle parole da confessarmi. «Sapevi che sarebbe andata a finire in questo modo e io mi sono anche fatto schiavizzare da Annalisa per pararti il culo, per darti più tempo, un’altra occasione. Invece non hai fatto nulla, hai continuato a mentirle e hai rovinato tutto.»
Di solito ero abituato a ricevere lusinghe dai fan, richieste di matrimonio, di autografi, di una notte di sesso senza impegno, invece era la prima volta che qualcuno di loro mi rimproverava. Era stato sempre compito di nonna Annunziata farmi mettere la testa apposto, così come faceva con mio cugino Simone. Invece Romeo mi spiazzò.
«Io… avrei dovuto, lo so,» tentai di giustificarmi, a mano a mano che il mio cervello realizzava l’enorme cazzata che avevo fatto non raccontando a Celeste tutta la verità.
«Avresti dovuto, ma non l’hai fatto!» disse Romeo, alzando la voce.
Sgranai gli occhi e mi sorpresi ancora di più da quella sua reazione. Sapevo di aver fatto un errore, ma avrei creduto di doverne rendere conto unicamente con Celeste. Invece Romeo sembrava amareggiato tanto quanto la biondina e io non riuscivo a spiegarmi il perché. Era triste, lo si poteva vedere dal verde spento dei suoi occhi così tentai di fare mente locale.
«Dov’è lei? Perché non mi risponde al telefono?» insistetti, sperando di ricavare una risposta concreta stavolta.
Romeo abbassò di nuovo lo sguardo e si torturò un lembo del giacchetto sdrucito con cui era uscito in strada. «Non posso dirtelo.»
Rimasi spiazzato da quella sua risposta perché mai mi sarei aspettato una così poca collaborazione da parte sua. In fondo mi amava, mi venerava, ero l’idolo di tutti e non poteva trattarmi come uno dei suoi amici falliti.
«Come, scusa?» cercai di chiarire, sentendomi tirato in causa.
«Non sei l’unico a cui non risponde,» mi disse solamente, incatenando di nuovo i suoi occhi coi miei. «Se l’è presa anche con me, se vuoi proprio saperlo. Ha detto che la menzogna se la sarebbe aspettata da tutti, ma non dal suo migliore amico.» E abbassò le spalle deluso.
Ecco spiegato quel suo comportamento distaccato e quella tristezza che vedevo riflessa sul suo viso, come se fosse un libro aperto. Forse Romeo era bravo a sorridere alla vita, ma non certo altrettanto in gamba da nascondere le sue emozioni.
«Tu mi hai solo coperto, non è colpa tua,» arrancai, venendogli in contro.
Forse non mi ero mai reso conto di quanto una semplice bugia potesse creare terra bruciata intorno a sé, ed ora ne stavo pagando il prezzo maggiorato. Quando tutto quello era iniziato, io avevo sempre pensato solo e soltanto a me stesso, infischiandomene di Romeo, di Ruben, di Celeste e di tutti gli altri che avrei coinvolto continuando a mentire, senza preoccuparmi del resto.
Col senno di poi era facile ragionare, mettere sul tavolo gli aspetti positivi e negativi di tutta la faccenda. Nella mia vita avevo ferito parecchie persone con le mie mani, preso a pugni compagni di squadra, offeso verbalmente paparazzi e giornalisti indiscreti, ma mai avrei pensato che con una semplice bugia detta sovrappensiero avrei potuto creare quell’infinita reazione a catena.
«Invece lo è,» insistette Romeo, sostenendo il mio sguardo. «Ho preferito sacrificare quello che avevo con Celeste per soddisfare i capricci del mio idolo ed ho sbagliato. Avrei dovuto fermarmi in tempo, ignorare i ricatti di Annalisa e andare direttamente da Celeste, perché in fondo sapevo che sarebbe andata a finire in questo modo, me lo aspettavo…» E lasciò che il vento troncasse la frase.
«Non so cosa dire,» me ne uscii, anche perché tutto quello mi era completamente nuovo.
Avevo chiesto scusa quattro o cinque volte in tutta la mia intera vita, forse troppo orgoglioso per ammettere di aver sbagliato, ma più Romeo apriva il suo cuore, più io mi sentivo una vera merda.
«Non devi dire nulla,» mi fermò lui, affondando le mani nelle tasche del giubbotto. «Celeste ha tutte le ragioni del mondo per odiarmi, perché mi sono fidato di uno come te.»
Quel commento mi arrivò tra capo e collo come una scure abbattuta con violenza sulla mia povera persona. Sentii una fitta di dolore alla bocca dello stomaco, come se quelle parole stessero veramente facendo effetto sul mio orgoglio.
«Ero innamorato di lei, cazzo,» sibilò a denti stretti, chiudendo gli occhi e maledicendosi mentalmente. Quando alzò lo sguardo verso il sottoscritto, mi sentii nudo sotto i suoi occhi smeraldini. «Te l’ho lasciata, ho rinunciato a lei pensando che tu avessi molto di più da offrirle, mentre io sono soltanto uno studente che viene ancora mantenuto dai genitori,» parlò ancora. «Tu sei Leonardo Sogno, il calciatore più forte e più in voga del momento, eppure le hai spezzato il cuore, come hanno fatto tutti gli altri. Avevo visto davvero qualcosa di diverso in te, ma evidentemente mi sono sbagliato.»
Quelle parole dette da un perfetto sconosciuto quasi, mi ferirono molto di più di qualsiasi altra critica avessi letto sui giornali. Il dolore allo stomaco si espanse, attraversò i muscoli, si radicò fin dentro le ossa e poi si attorcigliò attorno al mio cuore, come un animale che lo avesse intrappolato tra le sue spire.
«Allora ne eri innamorato,» sospirai, affondando anch’io le mani nel giubbotto di pelle.
L’avevo sospettato, che Romeo provasse qualcosa nei confronti di Celeste, si vedeva lontano un miglio che pendeva dalle sue labbra, ma non avevo voluto crederci fino a quando lui non lo aveva ammesso ad alta voce. In quel momento mi sentivo uno sciocco, un vero beota che era caduto dalle nuvole e che aveva sempre ignorato quello che era stato davanti ai suoi occhi per un eternità.
Romeo calciò un sassolino con la punta delle sue All-Star. «Ero,» specificò, senza però addolcire il tono di voce. «Adesso non mi rimane nemmeno la sua amicizia. Mi sono bruciato tutto quanto soltanto per un sogno.»
«Quindi non sai dove si trovi,» buttai lì, sperando mi dicesse quello che volevo sapere.
Romeo sbuffò e tirò fuori un mazzo di chiavi dal giubbotto. «È partita, sta da Ven. Potrei anche dirti dove si trova, in che via abita, ma non penso che tu dovresti parlarle,» concluse, aprendo il portone.
«Perché?» chiesi, rimanendo esterrefatto da quell’affermazione.
Rimase per metà con un piede sull’asfalto e l’altra metà nell’androne della palazzina. «Celeste dà raramente una seconda occasione, ormai dovresti saperlo. Tu hai già bruciato la tua.»
Dopo quelle parole entrò definitivamente nel palazzo e lasciò che il portone si chiudesse davanti ai miei occhi con un tonfo. Quello fu il segno che era finito tutto, che la mia ipotetica amicizia con lui non sarebbe più andata avanti. Avevo fatto un passo più lungo della gamba, continuando a mentire senza mai preoccuparmi delle conseguenze. Mi resi conto solo in quel momento di quello che avevo fatto, quando un tuono in lontananza annunciò l’arrivo di un temporale.
Ero solo, di nuovo.
Una goccia di pioggia s’infranse sulla pelle del mio giubbotto, facendomi alzare il viso verso il cielo nero di quella notte d’Aprile. Avrei potuto insistere, come aveva detto Romeo, avrei potuto scoprire dove abitasse la piccola amica di Cel, seguirla, e se fosse scappata ancora incollarmi a lei come un’ombra fin quando non si fosse decisa a parlarmi. Eppure in quel momento mi sembrava tutto inutile.
Stai forse mollando?
La pioggia cominciò a cadermi addosso, a scivolare sui miei vestiti eleganti indossati a festa. Forse avevo dato tutto quello per scontato, ormai ero abituato a essere circondato da loro ogni giorno, ogni momento della mia vita e soltanto dopo un po’ riuscii a metabolizzare che avrei perso anche tutto il resto. Non ci sarebbero più state le litigate con Celeste, le sue correzioni da maestrina puntigliosa, le prese in giro tra Robbeo e Ven o anche la gelosia con Anna.
Aveva ragione Romeo, era inutile continuare a provare. Avevo deluso troppe persone nella mia vita e mi sarei anche meritato quello che era successo.
Si impara dai propri errori, ragazzo mio, diceva sempre nonno Alfonso e se mai avessi avuto un’altra occasione, ci avrei pensato bene due volte prima di mandare tutto all’aria.
Decisi che era inutile starsene lì immobile ad aspettare che giungesse chissà quale miracolo, così frugai nelle tasche ed estrassi il mazzo di chiavi facendo scattare l’allarme dell’Audi. Mi sedetti al posto di guida, infischiandomene che i sedili di pelle si rovinassero con l’acqua, e rimasi a fissare il volante come se avessi trovato delle risposte nelle gocce di pioggia che scivolavano sul vetro.
Sbuffai e lasciai cadere il capo sul poggiatesta, fissando lo sguardo sul tettuccio ricoperto di moquette. Quella sensazione strana era peggiorata, mi sentivo quasi male a pensarlo.
Girai la chiave nel quadro e le luci dell’Audi si accesero all’unisono, poi udii il rombo del motore e quel tremolio sotto il sedile. Non ricordavo nemmeno com’era la mia vita prima di tutto quello, prima che l’uragano Celeste vi entrasse precipitosamente e sconvolgesse ogni mia routine.
Imboccai la via principale e svoltai a destra, facendo mente locale e tentando di non perdermi nella mia stessa città. Tutta quella situazione mi aveva sconvolto, confuso, non riuscivo più a raccapezzarmici. Era avvenuto troppo in fretta, facevo ancora fatica a capire cosa fosse successo e fino a quel momento l’unica cosa chiara in tutta la nebbia che aleggiava nel mio cervello era la chiara mancanza di qualcosa, proprio all’altezza del petto. Sentivo un forte vuoto, un freddo che mi faceva male.
Svoltai ancora e percorsi tutta la zona di San Lorenzo tornando al mio quartiere per rintanarmi nell’appartamento che dividevo con Ruben. L’unico e vero Ruben, adesso. Quel 21 Aprile era stato un giorno nero, in un attimo si era distrutto quello che avevo costruito con fatica e senza quasi rendermene conto ero di nuovo solo. Spinsi l’acceleratore al massimo, beandomi delle luci cittadine che sfrecciavano veloci attorno ai miei occhi stanchi. Avrei dovuto ammettere a me stesso le mie colpe, realizzare che avevo fallito di nuovo, ma non ci riuscivo.
Adesso devi pensare unicamente alla Champions.
In fondo cosa m’importava di Celeste? Avevo sempre il mio pubblico, la mia squadra, la mia vita da portare avanti e lei non era stata altro che una distrazione, sin dall’inizio.
Strinsi il volante con forza, fino a farmi diventare le nocche bianche per lo sforzo. Finalmente non avrei più dovuto mentire sulla mia identità, non avrei dovuto nascondermi né trovare inutili spiegazioni.
Era ora.
Eppure non ti dispiaceva così tanto fino a ieri.
Digrignai i denti infuriato, arrabbiato col mondo e con la serie di eventi che non mi avevano permesso di sistemare le cose. Avrei dovuto dimenticarla, così come avevo fatto con la scuola, con una vita normale, perché da quando avevo accettato di essere Leonardo Sogno, oltre la fama che ne sarebbe derivata, avevo detto addio a tutto ciò che mi teneva ancorato alla semplicità.
Arrivai sotto il mio palazzo e parcheggiai l’Audi nel garage, accanto alla Jaguar e alle altre macchine sportive che ormai collezionavo come se fosse un hobby. Sentivo ancora l’umidità della pioggia addosso, ma non per questo desiderai togliermela. Era come se quel freddo che percepivo attorno a me, sui vestiti, mi avvolgesse e fosse molto più caldo di quello che si stava formando attorno al mio cuore. Entrai nel portone e salii sull’ascensore, tirando fuori il mazzo di chiavi del mio appartamento.
Aprii la porta blindata e mi sfilai il giubbotto, sentendo dei rumori provenire dalla camera di Ruben. Poco dopo lo vidi fare capolino dalla sua stanza, con gli occhiali mezzi sbilenchi sulla punta del naso e mi guardava sorpreso.
«G-Già d-d-di ri-rit-ritorno?» domandò preoccupato, visto che gli avevo detto che sarei andato ad una festa. Era abituato a vedermi rientrare direttamente la mattina dopo, invece alle 22.00 ero già nel mio appartamento.
Feci spallucce e appesi il giacchetto di pelle all’aria, per farlo asciugare. Non avevo voglia di parlare con nessuno, anche perché non avrei saputo cosa dire. Celeste se n’era andata, non mi aveva permesso nemmeno di giustificarmi e tra pochi giorni sarei partito per la Capitale inglese.
Forse è la cosa migliore che potesse capitarti.
Un po’ di lontananza mi avrebbe fatto bene, avrei potuto buttarmi sul lavoro, pensare alla partita e finalmente dimenticare tutto quanto.
«L-La f-fe-fes-fe-fe- il party e-era n-no-noioso?»
Scossi la testa e tentai di non incontrare i suoi occhi, perché ero sicuro che avrebbe capito cos’era successo. «Da oggi puoi riavere la tua identità,» gli comunicai solamente, percorrendo il corridoio e giungendo sino alla mia stanza.
«C-Co-Cos’è su-suc-successo?»
Ma avevo già chiuso la porta alle mie spalle, senza dargli ulteriori spiegazioni. Mi gettai sul letto di schiena, fissando il soffitto, sentendo ancora la camicia fradicia a contatto con la mia pelle.
Rabbrividii, ma non per il freddo.
In quel momento non sentii nulla, era come se il mondo intero avesse smesso di girare ed io con lui. Forse ancora avrei dovuto metabolizzare il tutto, magari il mio cervello era tardo come sosteneva Cel.
Smetti di pensarla ogni dannato momento, vuoi farti del male?
Aveva ragione, ormai mi veniva automatico paragonare ogni pensiero a lei. Ormai avrei dovuto contare unicamente su me stesso, concentrarmi su quella che era la mia vita e che mi era sempre bastata per ventidue anni interi.
Tirai fuori falla tasca l’i-Phone e fissai lo schermo nero e lucido che rifletteva un paio di occhi tristi. Quell’immagine non mi era affatto familiare, non rifletteva il Leonardo fiero e spavaldo, il calciatore arrogante che non si sarebbe fatto mettere sotto da niente e da nessuno. Posai il telefono sul letto e chiusi gli occhi, appoggiando l’avambraccio sul viso e isolandomi ancor più dal mondo.
Poco dopo sentii qualcuno bussare, ma non risposi. Sapevo che Ruben era preoccupato, anche se non gli avevo rivelato quasi nulla. Eravamo amici da troppo tempo perché le parole servissero a qualcosa.
«P-Posso?» chiese, entrando cheto nella mia stanza.
«Ormai sei dentro,» sbuffai senza nemmeno aprire gli occhi.
Avvertii i suoi passi riecheggiare all’interno della stanza immersa nella penombra, poi un peso leggero si sedette sul materasso facendolo inclinare.
Ruben, avevo trascinato anche lui in tutta quella storia senza pensarci.
«H-Ha sco-scop-scoperto t-t-tu-tut-tutto!» sputò alla fine, non trovando le parole che gli impedissero di balbettare.
«Ottima osservazione Sherlock,» ironizzai, mantenendo un tono di voce neutro.
In fondo non me ne fregava nulla, sarei sopravvissuto anche a quello e ad ogni avversità mi si sarebbe presentata davanti. Leonardo Sogno non era un debole, non lo era mai stato.
«D-Dov-Dov’è ora?»
Aprii pigramente un occhio e lo puntai in quelli nocciola del mio amico, l’unico che mi era rimasto. «Ha lasciato la città, se è questo che vuoi sapere,» tagliai corto.
Lo vidi impallidire a quella notizia e torturarsi le mani in grembo in un chiaro gesto di nervosismo. «T-T-Tu st-stai b-be-bene?» mi chiese preoccupato.
«Certo,» risposi prontamente, stando attento a non lasciare che il freddo che avevo attorno al cuore non gelasse le mie parole. «Sopravvivrò.»
La parte del menefreghista mi riusciva alla perfezione, forse avrei dovuto pensare a fare qualche pubblicità, visto che me la cavavo piuttosto bene a sparare stronzate.
«V-Vuoi c-c-che c-chi-chia-chiami il M-Mi-Mister?» s’informò preoccupato.
A quel punto scattai a sedere, fissandolo serio. «Ho detto che sto bene,» sentenziai, forse un po’ brusco. «Partirò, se è questo che ti preoccupa. Soltanto perché lei se n’è andata non vuol dire che la mia vita sia finita.»
Ruben si sentì minacciato da quella mia nuova e ambigua personalità, così non rispose ma si limitò a farmi un sorriso stiracchiato. Mi posò una mano sulla spalla e si alzò, dirigendosi verso la porta. Si fermò poco prima di varcare la soglia, poi mi lanciò un ultimo sguardo. «M-Ma-Mancherà anche a m-me…» disse solamente e in quel preciso istante qualcosa si ruppe all’interno del mio corpo, si spaccò esattamente a metà.
 
Il volo diretto Roma-Londra delle 11.45 del mattino era silenzioso, molto più di quanto mi sarei aspettato da un aereo di linea. Eravamo partiti quella mattina stessa, quando Fiumicino era quasi completamente deserto salvo i numerosissimi fan che erano venuti a darci l’incoraggiamento per la trasferta.
Quella stessa mattina avevo ricevuto una telefonata da mio padre che mi dava l’augurio di buona fortuna e un semplice SMS da Simone, con un unico sorrisetto.
Lo odiavo.
Il resto fu stato solamente un continuo di file, al ceck-in, per le valigie, al metal detector con tutti i miei compagni che ridevano, eccitati da quell’avventura. Ruben aveva voluto accompagnarmi, nonostante se ne restasse in silenzio. In fondo anche io ero restio a relazionarmi con il resto del genere umano, era da un po’ che mi sentivo così.
Il boeing 568 dell’Alitalia accolse tutta la squadra dell’A.S. Roma, più lo staff e alcuni manager che vollero seguirci in questa avventura. Tra le file della prima classe si vociferava che ci fosse addirittura il Presidente seduto tra di loro, ma nessuno lo aveva ancora visto. Personalmente preferii isolarmi nel mio silenzio, infilare nelle orecchie le cuffie dell’i-Pod e fa suonare i Dire Straits a ripetizione. Guardai fuori dal finestrino, notando come lentamente l’aereo si alzava dal suolo e prendeva quota, mentre la mia mente era del tutto altrove.
Avrei dovuto mettermi in testa di darmi una regolata, stavamo per affrontare una delle squadre più forti della Premier League, inoltre avrei rivisto quella faccia da cazzo di mio cugino e non potevo permettermi più nessun errore. Già ne avevo fatti tanti in passato, anche a causa di Celeste e non potevo più permetterle di rovinare l’unica cosa cui tenessi. Ormai mi rimaneva solo il mio lavoro e la mia fama, null’altro.
Posai il mento sul palmo della mia mano e fissai lo sguardo sulla città che diventava sempre più piccola. Le case apparivano come dei timidi puntini tra l’immenso verde e le strade sembravano quasi arterie che si diramavano tra le fitte membra della Città Eterna. Mi chiesi se Celeste stesse guardando il cielo mentre anch’io avevo lo sguardo fisso sulla terra e mi resi conto che noi appartenevamo a due mondi completamente diversi.
Come cielo e terra.
«Ehi.» Una voce mi riscosse dai miei pensieri proprio quando Romeo and Juliet aveva suonato il suo ultimo accordo. Mi voltai sorpreso, togliendomi le cuffie e rispecchiando lo sguardo in uno del tutto familiare.
«Cosa ci fai tu qui?» domandai allarmato, trovandomi di fronte niente di meno che quella sciroccata di Annalisa Cavalli.
Si sedette nel posto accanto al mio, visto che Ruben si era assentato per andare in bagno e a giudicare dal terrore che aveva per i voli, ci sarebbe rimasto per tutto il viaggio.
Ci manca solo la Sanguisuga.
A completare il quadretto perfetto della mia vita ci sarebbe mancato solamente un approccio poco gradito da parte sua. Non ero proprio in vena in quel momento, avrei dovuto unicamente concentrarmi sulla partita, su Simone, sull’Arsenal e sulla Champions. Il resto doveva aspettare.
«Non è giornata,» mi affrettai a dirle, prima che potesse tirare fuori qualsiasi argomento che mi avrebbe obbligato a scollarmela di dosso con un’infinità di scuse.
«Ho deciso di seguire mio padre,» mi spiegò lei, ignorando il mio avvertimento.
Le lanciai uno sguardo di sbieco, quando continuai a sentire la musica da uno solo degli auricolari. «Ti serviva una nuova borsa da Harrods?» chiesi sarcastico.
Magari ero io che stavo cambiando, oppure si trattava di tutta la situazione vista nell’insieme, ma mi sembrò che Annalisa non fosse la stessa di sempre. Sperai si trattasse di un’apparenza.
«Volevo cambiare aria,» continuò, ignorando il mio commento. Notai solo in quel momento che non era vestita allo stesso modo sgargiante di sempre, ma aveva unicamente scelto un paio di semplici jeans e un maglioncino. Non appena vidi gli stivali di pelo senza tacco per poco non credetti che l’avessero drogata.
«E come mai?»
Ero curioso di sapere cosa avesse spinto Annalisa Sandra Cavalli a tirare fuori il meglio di sé stessa senza sembrare necessariamente una battona. Suo padre ne sarebbe stato contento, su questo non v’erano dubbi.
Anna mi fissò con quegli occhi verdi che mi avevano sempre messo un po’ d’ansia addosso ma che adesso sembravano unicamente… tristi.
Fece spallucce e cominciò a giocherellare con una ciocca di capelli fulvi. «Così,» smozzicò abbassando lo sguardo. «Forse avevo bisogno di lasciarmi dietro dei brutti ricordi.»
Se non fossi stato così preso a recepire tutte le parole che erano uscite dalla sua bocca, di sicuro sarei rimasto sconvolto. Possibile che la stessa Annalisa che aveva fatto di tutto per separare me e Cel pur di conquistarmi fosse la stessa seduta al mio fianco?
«Sei sicura di star bene?» domandai per sicurezza, magari aveva contratto chissà quale virus, e avevo paura di beccarmelo.
Un sorriso appena accennato comparve sul suo volto bianco come il latte, così preciso e pulito da sembrare quasi porcellana. «Non sei il solo che ha bisogno di dimenticare, di fare chiarezza nella propria vita.»
Rimasi spiazzato dalla vera personalità di Annalisa e fui altrettanto sorpreso che si mostrasse a me in quel modo. Avevo sempre conosciuto il lato arrogante, vanitoso, superbo e mai mi sarei aspettato che invece nascondesse tutt’altro. In fondo non era che una ragazza di vent’anni, proprio come me e come tutti gli altri.
«Perché mi stai dicendo questo?»
Un’altra sferzata di verde mi colse impreparato, così come la nota malinconica che potei cogliere dalla sua voce. «Ne sono successe di cose in questi giorni,» mormorò, tirando fuori il Samsung Galaxy dalla tasca dei jeans e cominciando a smanettarci. «Forse non sei l’unico che ha avuto la peggio.»
Cosa le era successo per cambiarla in questa maniera? Perché non si era gettata a capofitto sul sottoscritto? Per quale motivo mi parlava come se fosse… un’amica
«Tu non sei Annalisa, non puoi essere la stessa di qualche giorno fa!» sbraitai incredulo, sorprendendola più del dovuto.
«Infatti, quella non ero io, o meglio, era soltanto la versione di me che amo mostrare agli altri. Un po’ come tu hai fatto con Celeste,» spiegò, tornando a guardarmi. «Gli altri si sono sempre aspettati un certo comportamento da me, che fossi quel tipo di persona e io non ho fatto altro che accontentarli. E anche a me piaceva. Sono diventata quello che tutti volevano che diventassi, ma ora non ne sento più il bisogno.»
«E tutto questo quando l’hai capito?» le domandai curioso.
Vidi una lacrima scivolare silenziosa all’angolo del suo viso diafano e morirle sulle labbra, prima che si nascondesse per non sembrare troppo debole. Non riuscì a dirlo, ma mi porse il telefono che teneva in mano. Lo afferrai mentre Anna afferrò un fazzoletto e si soffiò il naso, poi spinsi il pulsante centrale in modo da illuminare lo schermo.
La foto di sfondo parlava per sé e in quell’attimo compresi tutto, o quasi.
C’era Annalisa che rideva, e non una ragazza qualsiasi, ma quella stessa persona che ora mi era seduta al fianco. Rideva con gusto, spensieratezza, con la stessa gioia pulita priva di tutta quell’ipocrisia che si respirava tra quelli come noi, come me e lei.
Al suo fianco vidi Romeo.
Aveva una delle sue solite facce sceme, di quelle che Ven avrebbe sfottuto fino alla morte, ma non sembrava importargliene perché stava facendo il buffone per far ridere Anna, magari per farle dimenticare un brutto pensiero.
Le restituii il cellulare perché non c’era bisogno d’altro. «Ne sei innamorata?» le domandai, forse un po’ troppo frettolosamente.
Lei rimise il telefono nella tasca dei jeans e tirò su col naso. Avrei dovuto darle tempo perché non era una cosa facile, io lo sapevo meglio di tutti.
«Ha pensato che fossi stata io a vuotare il sacco,» sospirò alla fine. «Mi ha chiamato infuriato, ha detto che sono una persona orribile e che non avrei dovuto tradirlo, che non avrei dovuto infrangere la promessa.»
Mi rivolse uno sguardo che mai avrei saputo reputare più sincero. «Io non le ho detto nulla, lo giuro!» insisté, cercando di trattenere le lacrime per non attirare l’attenzione degli altri giocatori. «Hanno litigato per colpa mia, ha detto,» disse di nuovo, posando meccanicamente la testa sulla mia spalla. Non ci fu nulla di malizioso. Le passai un braccio attorno alle spalle e l’attirai verso di me, accarezzandole distrattamente i capelli. «Mi odia,» concluse amareggiata.
«No, non dire così,» cercai di rassicurarla, anche se tutta quella situazione mi pareva assurda. Ero salito su quell’aereo con l’intento di dimenticarmi tutta la storia, invece mi ritrovavo a fare da consulente alla persona che fino a qualche settimana prima aveva reso la mia vita un inferno.
«Lui la ama ancora,» smozzicò, stringendo con forza una piega del maglione.
«È impossibile, lo ha detto a me che non l’ama più,» le confermai, ma Anna sembrava non voler demordere.
«Gli piace un’altra.»
Non seppi cosa replicare a quella risposta, anche perché non conoscevo abbastanza bene Romeo per metterci una mano sul fuoco. Era un personaggio ambiguo, un ragazzo molto particolare, ma sicuramente una persona fidata e giusta.
La faccenda della bugia si era espansa a macchia d’olio, coinvolgendo tutte le persone che mi erano accanto ed io non me n’ero nemmeno reso conto. In un pomeriggio ero riuscito a distruggere tre persone.
Anna tirò su il capo e cercò i miei occhi, cercando di non piangere. «Perché?» chiese malinconica.
«Perché, cosa?» chiesi dubbioso.
«Io e te avremmo potuto avere chiunque. Siamo ricchi, belli, famosi, avremmo potuto scegliere il meglio del meglio e tutti quanti ci avrebbero invidiati.»
Era un discorso che aveva molto senso e mi sentii uno stupido per aver dovuto aspettare Annalisa per arrivarci.
«Per quale motivo ci siamo innamorati di due persone così diverse dalla vita cui siamo abituati?» domandò più a sé stessa che al sottoscritto.
Non seppi risponderle, anzi, non sapevo proprio cosa dire. Avrei voluto urlarle contro che non ero innamorato, che di Celeste non me ne fregava un cazzo, che la odiavo per non avermi dato occasione di chiarirmi, di screditarmi, ma non ci riuscivo.
Dissi solamente «Se potessimo sceglierci le persone da amare, allora non sarebbe vero amore, il nostro.»
Un suo sospiro mi bastò come segno d’assenso dopodiché le passai una cuffietta dell’i-Pod e passammo il resto del viaggio così, abbracciati, a leccarci reciprocamente le ferite che noi stessi ci eravamo inferti.
Per le persone come noi non ci sarebbe stato alcun lieto fine, nonostante vivessimo in una favola.
 
This is the way you left me.
I’m not pretending.
No hope, no love, no glory,
No happy ending.
Con questo Pov si conclude il ''momento della  verità'' che ha visto i nostri due protagonisti affrontare la marea di bugie che rischiavano di inclinare il loro rapporto. Questa volta è toccato a Leo, il quale nonostante si renda conto di essere dalla parte del torto, non riesce a concepire realmente di aver sbagliato perché le sue bugie erano a fin di bene.
Il titolo 'No happy ending' l'ho scelto perché mi ha fatto pensare a quanto la vita da star sia dura e non sempre tutta 'rosa e fiori'. Alla fine Leo ha litigato anche con Romeo che lo ritiene responsabile del suo allontanamento da Celeste. Lei non c'era, è andata a Tivoli da Venera e chissà per quanto ci rimarrà. Questo è un momento di stasi, un tempo che rimarrà congelato e darà modo ai protagonisti di riordinare le loro priorità.
E poi l'ultima parte del capitolo, cui io tengo MOLTISSIMO, perché ci fa vedere un lato di un personaggio che mai ci saremmo aspettati. Personalmente CIUS mi piace perché io e lOver siamo riuscite a dare spazio anche ai personaggi secondari e così ho voluto dedicare questo capitolo 14 anche ad Anna che per la prima volta in tutta la sua vita si trova a dover fare i conti con l'amore (quello vero).
Leonardo si stupisce di ciò, ne rimane completamente stravolto, eppure mostra il lato maturo del suo carattere, dando conforto ad Annalisa che, inevitabilmente, è stata trascinata dal corso degli eventi.

Beh, vi lascio alle vostre riflessioni. Lasciate un pensiero se vi va! :3
Al prossimo capitolo, sperando che il tempo aggiusti tutto.

Ora un po' di pubblicità:

Ricordate il gruppo Crudelie si nasce, dove potrete trovare spoiler, foto e tanto altro!



   
 
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