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Autore: Deirbhile    25/01/2012    2 recensioni
Lucy Quinn Fabray aveva sedici anni quando smise di credere nel destino, diciotto quando si lasciò Lima e il passato alle spalle, ventidue quando cominciò a vivere davvero.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quinn Fabray, Rachel Berry | Coppie: Quinn/Rachel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vorrei  dire che questa è la mia prima Faberry e che quindi non so esattamente cosa ne sia uscito fuori, ma sembrerebbe la solita scusa per giustificare la mia scarsezza.

Solo spero di non aver fatto troppi errori (d’altronde l’ho scritta la notte prima del mio compito di latino!) e di non essere andata OOC. >.<

Comunque sia, ci terrei a fare un paio di precisazioni:

-In questa sottospecie di one shot Quinn e Rachel non si sono conosciute al liceo;

- Quinn non ha mai frequentato il Glee club del McKinley.

Non mi resta che augurarvi buona lettura!

P.S.: Tutto quello che segue è dedicato ad una mia carissima amica fanatica del Faberry. Goditi il tuo regalo di (post!?) Natale, Maria :3

 

P.P.S: Le recensioni, gli insulti in spagnolo, le critiche e quant’altro sono sempre ben accette, guys! :D

 

 

 

 Avevo sedici anni quando rimasi incinta, diciotto quando mi accettarono a Yale e cominciai a frequentare i corsi di scenografia e sceneggiatura, ventidue quando inconsapevolmente diedi una svolta alla mia vita. Dopo che Puck mi lasciò per scappare con una delle tante ragazzine che gli giravano in torno, un po’ mi sentii sollevata.  Potevo fingere di amarlo fino a scoppiare, ma dentro sapevo che in realtà volevo solo ridare a Beth suo padre e a me una famiglia. Avevo ventidue anni quando decisi che il mio futuro avrei potuto costruirmelo da sola, così terminai tutti gli esami a Yale e mi laureai con il massimo dei voti. Vedere quel semplice pezzo di carta appeso al muro, con su scritto il mio nome di battesimo, ancora oggi mi fa sentire fiera di me stessa. Dall’università in poi, la vita fu una discesa. Incredibile come la maggior parte dei miei compagni di liceo avesse avuto un’adolescenza felice e una vita post-universitaria più difficile del previsto. Mike aveva conosciuto Tina, ma non è riuscito a sfondare come ballerino e ha cominciato a lavorare come contabile in un’azienda. Santana aveva fatto coming out ed era riuscita ad amare Brittany nel modo più completo possibile, ma ora girano troppe voci a Lima su di lei e ha difficoltà a farsi valere come avvocato. Sam aveva chiesto a Mercedes di sposarlo e lei aveva accettato senza pensare alle conseguenze, ma ora è difficoltoso per entrambi arrivare a fine mese.

Eppure, loro hanno conosciuto l’amore della loro vita. A me è successo praticamente il contrario. Non ho dovuto rinunciare alla mia carriera, perché è stato proprio grazie a questa che la conobbi. Subito dopo Yale riuscii a strappare un contratto a termine in uno dei teatri più prestigiosi di Broadway, il Metropolitan Opera. Affittai un appartamento appena fuori Manhattan con i soldi che mi aveva lasciato mia madre.

Nel primo periodo ero così presa dalla mia smania di scoprire il mondo che mi dimenticai di tutte quelle cavolate sull’amore che mi avevano infettato il cervello durante l’adolescenza. Quando pensavo a Lucy Quinn Fabray non mi vedevo più come una ex- stronza head-cheerleader attorniata di bambini dai capelli biondi  e con un marito tonto come Finn, ma davanti al camino del mio appartamento a progettare le scenografie per il mio ultimo musical, mentre fuori la pioggia bagnava le strade della Grande Mela. Se devo ringraziare qualcuno per avermi ricordato che non era quello il mio destino, quel qualcuno è Rachel Berry. L’avevo intravista, una volta o due, nei bagni del McKinley quando avevo sedici anni, ma di lei sapevo solo che frequentava l’ultimo anno ed era un  membro onorario del Glee club della scuola. Quello era il periodo in cui destai scandalo per la mia gravidanza, probabilmente il più brutto della mia vita. Fui cacciata dalle cheerleader e derisa da tutti, ma ogni tanto mi capitava di essere compagna di sventura di quella Berry. Ricordo che una volta Dave Karofsky, quello scimmione che ora lavora alla stazione di benzina vicino alla mia casa a Lima, mi aveva chiamata mammina e gettato una granita ghiacciata al mirtillo in faccia. Rachel Berry mi guardava da uno dei cubicoli del bagno delle ragazze mentre piangevo e cercavo di pulirmi la faccia dal trucco e dal colorante.

Probabilmente quella fu la prima volta che vidi il suo viso, attraverso lo squallido specchio di un liceo di provincia.

Ammiravo quella ragazza, perché nonostante la squadra di football e qualche mia compagna di cheerleading si divertissero a torturarla, lei non demordeva mai. Continuava a cantare esibizione dopo esibizione, mentre io guardavo i miei amici che a poco a poco si univano al glee. Io non ne ebbi mai il coraggio e forse questo è uno dei miei più grandi rimpianti.

Quando cominciai i corsi a Yale, la rividi. Frequentava il mio stesso corso di storia del teatro.

Un giorno, lo ricordo ancora, le chiesi di prenderci un caffè insieme al bar del campus, perché le dissi che aveva un volto familiare. Non ero motivata nei miei studi e nel dormitorio già giravano voci sul fatto che avessi dato in affidamento mia figliaBeth, ma di sicuro Rachel Berry mi aiutò a trovare la mia strada. Quella sera, alla caffetteria, parlammo del glee club del nostro vecchio liceo. Le dissi che l’avevo sentita cantare qualche volta negli spogliatoi dopo l’ora di ginnastica, che era fenomenale. Non scorderò mai come le sue guance si imporporarono a quel complimento. Capii immediatamente che dietro l’esibizionismo di Rachel c’era qualcosa di più. Lei aveva bisogno degli applausi per vivere, perché è così per tutti gli artisti. Diventammo buone amiche e ci tenemmo in contatto fino a quando lei finì Yale e si trasferì a Los Angeles da alcuni amici. Voleva fare dei provini,  voleva sfondare. Quando andai ad abitare a New York, l’anno dopo,  la incontrai per la terza volta. Aveva ottenuto il ruolo di Eponine in “Les Miserablés” al Metropolitan, la intravidi mentre prendeva il tè nel pub di fronte al bar dove di solito andavo dopo l’orario di lavoro. 

 Ancora oggi credo di essere stata cieca, perché il destino, se esisteva, voleva dirmi qualcosa già quella volta che la vidi riflessa nello specchio dei bagni del McKinley. Una sera, mentre uscivo dal Metropolitan, mi ricordai di avere ancora il suo numero di cellulare  e così la chiamai. Ricominciammo a sentirci insieme ad altre vecchie conoscenze universitarie, le feci conoscere la mia New York e lei mi raccontò di essere stata in Europa per il tour di una piccola compagnia teatrale di Los Angeles a cui si era unita. Una sera ci incontrammo a Ground Zero, dove l’undici settembre di pochi anni prima erano crollate le Torri Gemelle.

La portai in un locale a Lexington Avenue dove si mangiava un ottimo cibo italiano e probabilmente fu allora che lo capii.

 Rachel era stata la mia salvezza e oggi, quando guardo il mio nome sulle locandine di alcuni dei più importanti musical di Broadway, la ringrazio. Non mi chiesi il perché amassi proprio lei, perché amassi proprio una ragazza dopo anni passati a sognare un principe azzurro con la faccia di Finn Hudson.

So solo che quando il suo fidanzato, Brian, la lasciò, tutto fu più facile. Lei capì di amarmi una pomeriggio dopo il lavoro, quando andammo a prendere un caffè insieme. Era normale per noi passare molto tempo a contatto, perché io ero a capo della direzione artistica del musical in cui aveva un ruolo.

La baciai, senza esitazione, il giorno dopo, nel buio del palcoscenico deserto. Finimmo le prove e la invitai nel mio appartamento. E’ da quel giorno che io e Rachel Berry stiamo insieme. Il primo periodo fu difficile, devo ammetterlo. Essere lesbiche, o almeno baciare in pubblico un’altra ragazza, poteva anche passare in secondo piano a New York, ma c’era sempre qualcuno che ci faceva pesare le nostre scelte.  Ricordo che, cinque mesi dopo l’inizio della nostra relazione, Rachel entrò nel mio appartamento piangendo.

- Cosa c’è che non va, Rachel?- le chiesi con il mio solito tono pacato. La feci sedere sul tappeto consunto davanti al camino acceso, era dicembre e il Natale si avvicinava. Ero eccitata all’idea di passarlo con lei per la mia volta. Rachel mi abbracciò e affondò il viso nei miei capelli, che erano totalmente diversi da come li avevo al liceo. Ora erano lunghi e biondi, mi scendevano morbidi oltre le spalle. Dopo una buona mezz’ora, riuscii a farla parlare a suon di carezze.

- Lucy…- mormorò. Quando mi chiamava col mio primo nome non era mai un buon segno. – Un gruppo di ragazzi, oggi, ha picchiato Kurt mentre tornava a casa… E’ in ospedale-

Ovviamente parlava di Kurt Hummel, il suo migliore amico gay dai tempi del liceo. Probabilmente l’avevo già casualmente incontrato, visto che era il costumista di mezza Broadway.

- Rachel, andremo a trovarlo stasera, ma prima calmati… - le sussurrai, cullandola sul mio petto. Sapevo benissimo che quel dolore non era tutta colpa di Kurt. Rachel soffriva perché temeva che un giorno o l’altro al suo posto ci sarei stata io. Avevo cercato di tenerle segreti i diversi insulti che alcuni membri della troupe mi rivolgevano da quando avevo reso nota la relazione con lei, ma lo aveva scoperto, perché fra i suoi pregi e difetti c’è anche quello di essere molto protettiva.

- Lucy, promettimi che se mai ti faranno del male per colpa mia, mi lascerai immediatamente… Non voglio farti questo- continuò, lasciando uscire la sua voce ovattava dal fondo del suo cuore. Aggrottai le sopracciglia, come facevo spesso al liceo quando qualcuno diceva un’assurdità, e ricordo esattamente la sensazione di impotenza che mi pervase l’anima. Vidi il fuoco riflesso nei suoi occhi e capii quanto fosse disposta a sopportare pur di vedermi al sicuro.

- Non posso, Rachel. Perché se ti lasciassi, mi farei del male lo stesso- le dissi, con tutta la forza che la vista dei suoi occhi vivi mi dava. Restammo abbracciate per tutta la sera e verso mezzanotte, lei si addormentò sulle mie ginocchia. Non cancellerò mai dalla memoria l’espressione rilassata che aveva, è ciò che ancora oggi mi fa andare avanti. L’adagiai sul mio letto e le accarezzai i capelli finché non caddi sfinita sulla moquette.

Continuai a lavorare sodo e ottenni un contratto di lavoro come regista emergente al New Amsterdam Theatre a venticinque anni. Qualche mese dopo, ad Aprile, ci fu il debutto del primo musical sotto la mia completa direzione artistica, “West Side Story”. I casting erano cominciati a gennaio e io avevo cercato di convincere Rachel a presentarsi per il provino, ma aveva ottenuto due ruoli protagonisti  in “Cats” e in “Wicked”, così non ne ebbe il tempo. Il successo stata arrivando per entrambe e sembrava che più ci realizzavamo nella nostra carriera più eravamo pronte a condividere i nostri sogni. La prima del musical ad Aprile fu un vero successo. Le prime file erano piene di personalità in vista, ma non vi badai finché fra di loro non vidi anche Rachel, con in mano un mazzo di rose bianche. Ricevetti decine di fiori, ma nessuno di quelli profumava come i suoi. Conservo ancora una rosa di quel mazzo, in una teca di vetro nel nostro salotto. Dopo “West Side Story” ottenni la regia di molti altri musical e quando racimolai abbastanza soldi comprai un appartamento a Manhattan e chiesi a Rachel di venire a vivere con me. Rachel mi ucciderebbe se lo sapesse, ma la parte migliore della casa per me è il camino che lei odia tanto. Dice che è superfluo nel ventunesimo secolo, ci sono le caldaie e i sistemi di riscaldamento centralizzati. Ma io adoro passare le serate a guardare il fuoco riflesso nei suoi occhi, perché lei smette di insultare i suoi colleghi inetti e si lascia accarezzare i capelli. Non so cosa sarebbe successo se non l’avessi mai incontrata e la sola ipotesi basta a farmi rabbrividire. Avrei abbandonato i miei sogni per quelli di qualcun altro e sarei tornata a Lima per sposare il primo ragazzino di provincia? Probabile.

 

Avevo sedici anni quando smisi di credere nel destino, diciotto quando mi lasciai Lima e il passato alle spalle, ventidue quando cominciai a vivere davvero.

 

  
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